lunedì 2 settembre 2024

SINNO (E LATTANZI O D'ADAMO): CORPI ESTRANEI ANTILETTERARI, QUINDI LETTERARI?


Allora, lunga riflessione : il libro di Neige Sinno, “Triste tigre” ha avuto notevoli riconoscimenti letterari in Francia, è stato tradotto in Italia da Neri Pozza con la traduzione di Luciana Cisvani e anche da noi ha avutro un certo consenso, considerando che è un libro certo anche duro.
E’ un libro complesso, lucido, analitico, quasi chirurgico, una testimonianza da parte di una vittima di stupro subìto da bambina e a lungo, e oggi è critica letteraria, studiosa e scrittrice.
Tuttavia (e forse i suoi stessi dubbi non potevano che approdare a questo) il libro direi che è "da leggere", ma al tempo stesso è un libro irrisolto e precario perché racconta, analizza l'esperienza di vittima di uno stupro prolungato per alcuni anni, subito da parte del suo patrigno ( alcuni anni significa negli anni dell'infanzia tra i sette otto e i quattordici anni)
Ed è un'esperienza tremenda e difficile anche da raccontare.
In qualche modo questo libro vorrebbe anche superare tutte le ambiguità della narrativa autofiction, del racconto di testimonianza, interrogandosi continuamente su che tipo di libro “si sta scrivendo” (auto analisi e auto interrogazione meta letteraria vanno di pari passo).
Questa analisi di ciò che è accaduto, di chi sia il patrigno, di cosa prova lei come vittima trenta anni dopo scorre parallelamente all'esigenza di stabilire una verità, una verità di quello che le è accaduto e anche una verità e forse una giustizia come considerare moralmente quello che le è accaduto.
Però il libro alla fine se è estremamente complesso, se apre continuamente delle questioni, anche raffinate in certe parti a queste rimane incagliata: Tipo: questo non è un romanzo, (questa non è una pipa, Magritte) questa non è una autofiction, è qualcosa di diverso, è un memoir, una testimonianza, così lo afferma Sinno.
Però è come se il suo limite fosse proprio questo (il limite è il "questo" parola chiave della "fenomenologia" di Hegel) : lo che da un lato elabora continuamente la questione metaletteraria, meta-scrittura, meta riflessione su quello che sta facendo e di chi è la voce che sta “parlando o scrivendo” quella voce che dice io e dall'altra però anche di chi essendo la vittima che subito quello stupro non può dire, non può trasferire nel “detto” qualcosa che nella sua esperienza è indicibile. Il vero dramma è: che cosa è "questo" che mi è accaduto? al mio corpo. Come posso "dirlo"? e "posso" dirlo, raccontarlo?
Il risultato è un libro composito che spesso elabora, apre continuamente delle domande, delle questioni ma fondamentalmente si rifiuta di diventare libro letterario pur essendo tantissimo un libro meta-letterario il che alla fine può sembrare anche supponente dirlo, o anche arbitrario dirlo da parte di un maschio, ma ne fa un libro fondamentalmente noioso. Straniante.
Un libro assai stimolante E (dico “e” e non “ma”) insieme noioso.
Forse perché non riesce ad essere niente di definito. Ma incagliandosi nella definizione e rifuggendo da ogni letterarietà.
E forse però è anche vero che non c'è una collocazione di genere per questo tipo di libro tra l'altro per un libro che vuole essere testimonianza, lei lo dice spesso, vuole parlare dell' “argomento” non vuole essere letta in quanto scrittrice, ma vuole essere letta in quanto persona che sta comunicando un argomento e però alla fine è la dannazione della scrittura, è l’intermediazione che deve passare, E passare per forza attraverso questo tipo di mediazione che è la scrittura stessa, che ha bisogno di essere valutata e di conseguenza questa valutazione influisce anche sull’efficacia di trasmissione dell’esperienza.
La scrittura ha sempre bisogno di di essere bella.
E questo continuo sottrarsi alla bellezza, ma anche questo desiderare di riuscire a trovare “il punto” per cui quasi volesse fondare una “nuova bellezza” è in qualche modo la sua forza magnetica, come libro che ti rimane attaccato; ma è al tempo stesso il suo limite letterario.
Considerazione Post-scriptum
Però da questo punto di vista mi fatto venire in mente altri libri simili in Italia, due in particolare. Uno è ”Come d’aria” di Ada D'Adamo che ha vinto il Premio Strega. Ora per molti anche un libro che non meritava lo Strega perché non è un libro “scritto bene”, cioè non è un libro che ti lascia un'esperienza di scrittura. Questo da un lato se io paragono alla letteratura, alla grande letteratura è pur vero è anche vero per esempio che Neige Sinno analizza quale sia la “grande letteratura”, Ad esempio scrive Sinno è è Lolita di Nabokov cioè uno scrittore che ha praticato un difficile equilibrismo, creando un libro in cui in prima persona parla uno stupratore-narratore (anch’egli uomo di lettere, HH). La bellezza della scrittura (di Humbert? Di Nabokov certo) crea questo doppio, diciamo ambiguo per cui può sembrare la bellezza e l'intelligenza dello stupratore che in qualche modo falsifica la sua colpa, confonde la sua colpa, cerca di giustificarla, cerca di creare degli argomenti che in qualche modo attenuino la sua colpa. Ecco, quella è la letteratura. Ed è quello che dà fastidio a Neige, che pone un ‘esigenza morale.
Ma non pone un’esigenza letteraria.
E allora se quella è la letteratura, chi ha cuore di dire cose “che non si possono raccontare” in letteratura, si deve collocare per forza nell'ambito di una scrittura che non-è-una-scrittura, che non è una scrittura letteraria o “bella” secondo canoni correnti.
Neige Sinno in qualche modo lo fa lo fa , lo ha fatto a modo suo Ada D’Adamo la quale tuttavia con i suoi appunti non si poneva affatto il problema letterario, almeno inziale, ma certo si poneva il problema di un’esistenza, quella della figlia, che era totalmente FUORI dall’esperienza cognitiva del linguaggio e quell’esperienza D'Adamo l'ha raccontata, arrivando a mette in gioco "L'altro linguaggio" quello della danza, da danzatrice e coreografa quwale era.
D’Adamo aveva raccolto I suoi appunti di vita, lo aveva fatto per testimoniare la crescita diquelal sua figlia, sofferente di un rara malattia congenita, una condizione dolorosa e di fotissimi limiti congitivi. A questo si era aggiunto il fatto della preoccupazione per quella creatura, perché le era stato diagnosticato un tumore che le dava pochi anni di vita e da mare si angosciava per il futuro di quella figlia.
Ha voluto dunque lasciare qualcosa che "raccontasse" anche qui l'irraccontabile, a nessuno era accessibile l'interirità della figlia Daria, la stessa figlia non poteva traslarlo in nessun modo, neppure con macchinari. Era dunque necessario per D'Adamo lasciare una testimonianza per la figlia, ma paradossalmente per una figlia che non avrebbe mai potuto leggerla.
Al tempo stesso dato che il nucleo profondo dell'esistenza di questa figlia era appunto qualcosa che dovremmo definire, in maniera magari banale, generica, "l'indicibile", è chiaro che una scrittura migliore non sarebbe stato il punto centrale, né tanto nemo "l'abbellimento" sarebbe servito, anzi, forse sarebbe stata una distanza ulteriore, un peggiormento. Eppure l'urgenza di dire cose che non si possono dire resta. Perché sempre più quella è la parte di novità della cosceinza collettiva: la particolarità la singolarità assoluta delle vite e il loro (vecchia parola) "mistero".
Direi che lo fa anche Antonella Lattanzi col suo “Cose che non si raccontano” costruendo, da grande scrittrice quale è, un libro in qualche modo anti-letterario, anti retorico, diciamo così,
Ecco allora forse in fondo la cosa che mi chiedo è: questi libri, come quello di Ada D'Adamo, come quello di Antonella Lattanzi e come quello di Neige Sinno, rifiutandosi di essere letterari, avendo come quasi ossessione la verità, l'oggettività, l'esperienza vissuta, l'argomento, la cosa, non stanno per caso esprimendo un desiderio di porre una questione alla letteratura? Magari praticando una forma estrema anche di non letterarietà di a-letterarietà diciamo così?
Nella storia dell'arte nella storia in generale di tutte le arti mi viene in mente però soprattutto l'arte figurativa o comunque diciamo l'arte, non figurativa proprio l'arte. Siamo pieni di esperienze di ricerca o di provocazione avanguardista o di liberazione da ogni estetica, siamo pieni di oggetti diciamo che riteniamo “artistici “ anche se non hanno nessuna” bellezza” anche se sono “poveri” ( c'è stata un certo punto anche “l'arte povera” che poi è diventato un elemento importante anche della storia dell'arte ma l'arte povera era appunto una materialità veramente di basso livello per certi aspetti, una durezza di questa materialità rispetto a ogni forma artistica).
Esempi anche altissimi di fuoriuscita dai linguaggi artistici medesimi, da quelli che erano considerati linguaggi fino a quel punto. Mi chiedo se questi libri anche nel loro non essere “belli” secondo l’aspettativa letteraria corrente (con una reazione di lettori “conservatrice” nel dire “non sono belli”) non sia invece una sorta di “forma di espressionismo”, perché raccontano esperienze interne alla nostra vita (non sono esterne) ma certo “estreme”, corpi estremi, radicalmente altri eppure con noi, vicino a noi. E però hanno bisogno di un'altra letteratura (altro stile) che sarà sempre letteratura e sarà sempre scrittura, ma hanno bisogno di un percorso di alterità e che forse è questo quello che fa questo libro di Neige Sinno, che mi stimolato moltissimi pensieri e dubbi, moltissime riflessioni, ho preso molti appunti, ho scritto pagine, ma adesso sarebbe inutile sintetizzarle qui, anche già questo che sto scrivendo è un intervento fin troppo lungo perché mi preme soprattutto questa domanda non mi preme tanto analizzare il libro in sé posso trovare dei limiti in questo libro li condivido ma: mi chiedo sempre se non ci stia indicando nel suo “inciampare” letterario, una via altra della letteratura possibile (e futura)
PPs
Intentato grazie a chi è arrivata fino a qui. Leggo le dichiarazioni demragazzo che ha ucciso la famiglia a Paderno
Dugnano “mi sentivo in corpo estraneo”.
Con quale letteratura racconteremo (o lui potrà raccontare chissà ) questa estraneità ? Questo indicibile del suo gesto, come del resto quella dell'altro giovane Moussa Sangare. Come possiamo dire tutto ciò senza che suoni falso come la letteratura? Con quale altra letteratura?

lunedì 12 agosto 2024

IL SOLE SPLENDE SUL NIENTE DI NUOVO. CASCANDO CON BECKETT. Appunti per il prossimo libro 2

 


“Oggi potrei camminare solo sulla Striscia di Gaza”.
E’ una frase che diceva spesso, durante il 1988, il penultimo anno della sua vita, Samuel Beckett, quando si era trasferito al Tiers Temps, una casa di riposo parigina, dopo le numerose cadute dei mesi precedenti e sulla spinta della moglie Suzanne, anche lei malata che non poteva accudirlo.


La cosa più grave però , era il fatto che era cambiata negli ultimi tempi, stava maturando un risentimento, una rabbia senile inaspettati verso Samuel (cosa che addolorava molto lo scrittore, il quale da un lato ne capiva forse la natura di sentimento estenuato, estremo, quasi di chi ha ceduto psicologicamente, un carattere che forse era solo “scoppiato”, caricato di pesi e cure dopo una vicinanza simbiotica col marito).
In questa struttura Beckett viveva in una stanza spartana, come suo costume: un letto, un comodino, uno scaffale con libri che stava leggendo (le biografie di Oscar Wilde, di Nora Joyce e libri di Kafka) e un tavolino. Una bottiglia di Whisky.
Ogni tanto prendeva in prestito un piccolo televisore per vedere le partite di Rugby. Nella foto è lui che guarda la tv, nel suo ultimo anno di vita.
Nel giardino all’aperto, quasi come la scenografia di “Aspettando Godot” c’era un solo albero.
Beckett ci passeggiava sotto, sempre malfermo sulle gambe, ma non si rassegnava a non camminare. Quando la debolezza lo metteva a rischio cadute camminava avanti e indietro lungo un tappeto antiscivolo, stretto e lungo posizionato lungo il muro della clinica.
Quella era la sua “Striscia di Gaza”.
Sono notizie contenute in “Condannato alla fama: la biografia di SB” di James Knowlson, pubblicata da Cuepress e con la solita ottima cura da Gabriele Frasca (avevo letto un’altra biografia, edita da Garzanti, ma questa è più bella) .
In questi giorni di caldo e scrittura, cercando sempre qualche parola (qual è la parola?) casco su Beckett, altrettanto estremo come il sole che splende feroce.
Del resto di Beckett è quell’incipit folgorante che mi ha inchiodato sui vent’anni al primo libro dell’irlandese letto in vita mia: Murphy
“Splendeva il sole, non avendo alternative, sul niente di nuovo”.
Leggo le pagine della biografia sulgi ultimi anni.
Un po’ fa sorridere, è un Beckett che inciampa come un clown, come un vagabondo male in arnese, come un suo personaggio insomma, però è fino all’ultimo attivo e anche deciso: è malato ai polmoni ma sa che ormai smettere di fumare non lo guarirà, così come continua con l’abitudine di farsi un paio di bicchieri di whisky ogni giorno verso il tardo pomeriggio, magari con chi lo veniva a trovare o davanti la tv.
E’ anche ovviamente un corpo fragile, con le sue numerose cadute, come tanti nostri nonni, lui che aveva scritto quella poesia memorabile, “Cascando” (ma dentro il pozzo dell’amore, il falling in love). La poesia “Cascando” (in italiano il titolo anche nella versione originale, quasi fosse un movimento musicale) è un precipizio estremo dell’amore che sa la sua impossibilità costitutiva e al tempo stesso il suo ripetersi dell’errore (fall in love, caderci dentro) – alcuni frammenti nella traduzione di G. Frasca):
nuovamente dicendo ecco vi è un’ultima
volta persino per le ultime volte
ultime volte per mendicare
ultime volte per amare
per sapere di non saper fingere
un’ultima volta anche per le ultime volte
E’ un’idea estrema e sempre ultimativa, della vita come dell’amore, nel suo essere, nel suo viversi, ma anche e soprattutto nel suo dirsi implodendo nel linguaggio che non arriverà mai che sarà sempre “mal detto” eppure instancabilmente detto
E poi la chiusa, tremenda, che fa esplodere insieme un sentimento quasi stilnovista di amore come trascinamento inoppugnabile di un dio dello spirito che ci domina, ma insieme a una coscienza ironica, quasi crudele, novecentesca, di chi sa che tutto quel sentire è un “sentire” è linguaggio che in realtà non sa /non è (il) dire (l’amore e tutto il resto) e così il poeta :
nuovamente atterrito
di non amare
di amare e non te
di essere amato e non da te
di sapere di non saper fingere
fingere
io e tutti quegli altri che ti ameranno
se ti amano
Sempre che ti amino.

A mio avviso la più grande poesia d’amore del vero 900, quello implacabile e scavato dentro, indisponibile alle illusioni (del resto lo sapeva già Leopardi, non a caso poeta amato da Beckett, come anche Kafka, l’altro grade cantore del non-amore i cui libri lo hanno accompagnato sempre)
E però questo uomo così solido sul suo corpo affusolato, quasi come l’alberello del “godot” secco e fragile e insieme eterno, questo uomo comincia cadere negli ultimi anni della vita, inciampa.
Pochi anni prima, nel 1984, aveva scritto all’interno di “Worstward Ho” (che frasca traduce con “Peggio tutta”) una delle sue più famose (e travisate dal web che le rilancia, spesso sbagliate) frasi di uno scrittore:
“Tutto solito. Nient’altro mai. Tentato mai. Fallito mai. Fa niente. Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio”.
Fallire. Cadere.
Molto dell’universo poetico di Beckett oscilla tra questi due negativi (o "nulla positivi" per dirla con Adorno)
Il positivo-positivo, quello non si può dire, non del tutto. Non è detto nel dire. (ciò che segue questa frase famosa, nel libro, evidenzia di sicuro un significato post-tragico di orizzonte fosco, che il soggetto arrivato a questo lembo finale della coscienza matura. Certo non corrispondente all’ottimismo superficiale degli sturtupper che la frasetta se la sono rilanciata per anni)
Sottile, secco come foglia o pergamena, questo Beckett ultimo è al suo lembo finale di una scia che era stata, sempre più da quando è passato dai primi romanzi al teatro, verso il 1960, un tentativo superamento della scrittura.
Nel 1988 scrive quello che è il suo ultimo testo, giudicata da alcuni interpreti come poesia, da altri come prosa, da altri ancora “no-genere”.
Un testo in cui ci sono frammentazioni, trattini (dash, in inglese, che intendono una sospensione di ciò che procede). Si chiama “Qual è la parola” e ha due versioni, inglese e francese, “Comment dire” e “What is the word”. Qui Beckett coglie non lo scrivere, ma quell’attimo sospeso in cui si cerca la parola, sospeso in un equilibrio che potrebbe perdere e cadere, fallire – se non la trova. Sospeso sul precipizio tra “il farsi e il disfarsi del linguaggio” . (leggo dalle note di Gabriele Frasca)
E Beckett scrive questo testo sul non-ancora-scrivere, lo scrive con una grafia “ a ragnatela” scrive Knowlson nella biografia. E’ una reticolo-poematico che forse è l’estremo resistere dello “scritto” e insieme, tessitura tutta giocata sulla fonetica, sulla rete di rime e assonanze, l’emblema di un dire-orale che viene prima – se viene (foneticamente o mentalmente la parola è tutta interna al corpo ancora, prima che esca sta in bilico “sulla punta della lingua” e casca sul foglio.
Un poesia– come il suo vecchio corpo, affaticato, ma sempre bello e forse ancora più bello – in cui tutto oscilla, quasi sempre sul punto di cadere, di ricadere su sé corpo che si ritrae in bocca, in lallazione.
La letteratura di Beckett è qualcosa che corrisponde sul piano testuale e del linguaggio, alla pittura di Francis Bacon con la figurazione, la figura sembra sempre sul punto di sciogliersi, colare, fondersi, mettere in evidenza che è ancora soggetto e corpo e figura, ma al tempo stesso la sua impossibilità, la sua castrazione.
James Joyce e Virginia Woolf lavorarono sull’epifania per dare a questa diversa percezione – con i diversi saperi che si erano affacciati sulla scena del 900 – una forma.

Per Beckett e Bacon c'era una via ancora più radicale: quel corpo formale deve essere invece scorticato dall’interno (perché la realtà è l’impossibile, tuti e due sono du questo versante del XX secolo, anche se il 900 è un prisma) e lavorano a tenere i brandelli di qualcosa che sta per prendere forma, che non arriva a prenderla, che è lì li, che non sai se quella colata di carne si coagulerà oppure si sciglierà, se quel fluire di sillabe diverrà frase o si scioglierà in afasia.
Stanno in quel prima, che sembra esaltare una creazione, ma pure nel dopo, la castastrofe dell’increato.



martedì 6 agosto 2024

ELEGIA CAFONA. Perché sento affinità con "Hillybilly Elegy" di J.D. Vace e perché rileggere in modo diverso Pasolini e Iovine o Carlo Levi.(Appunti per il prossimo libro 1 )

 


Quando ero quindicenne nel  XX secolo, sentivo e risentivo il disco live di Crosby Stills Nash & Young “4 way street”  che conteneva una lunga ballad accattivante intitolata “Ohio” ma non ne sapevo il significato. Pensavo fosse all’epoca la solita canzone on the road e invece era una ballata politica: su scontri con morti durante manifestazioni contro il Vietnam alla  Kent State University.
Dell’ Ohio non  sapevo nulla, se no che fosse uno stato interno degli Usa, più o meno immaginario tra Western e on the road. E’ l’America profonda delle maggioranze silenziose che da qualche anno non stanno più zitte.
Quella dell’assalto a Capitol Hill.  Nel 2020 la sfida in Ohio tra Trump e Biden è finita 18 a 0 (zero) per Trump

All’università del Kent gli studenti di oggi protestano contro Israele. I risultati elettorali ci dicono l’orientamento e l’antropologia sociale della maggioranza. A votare Trump lo stesso identikit di tutte le destre occidentali: prevalentemente maschi adulti, over 40, poco istruiti. IN parte poveri,  in parte poveri, ma più consistente la percentuale di chi guadagna oltre  50 mila dollari. Insomma, operai e piccola impresa da lavoro. Un proletariato-imprenditore di sé stesso, del lavoro manuale o della piccola ditta. Ne sappiamo qualcosa anche noi.


Ho iniziato mentre volavo per New York (che non è “America” è una bolla a sé) due libri che hanno l’Ohio come scenario: “Elegia Americana” di J. D. Vance, In Italia pubblicato da Garzanti per settimane in testa alle classifiche nel 2016 e  “Demon Copperhead”,  romanzo di  Barbara Kingsolver (ha vinto il Pulitzer 2023) pubblicato da Neri Pozza. E mi stanno piacendo e in qualche modo raccontano una storia in cui mi identifico.

In entrambi i romanzi ci sono storie di gente “degli Appalachi” e storie di ragazzini con madri single, abbastanza incasinate, e radici in quel mondo del midwest .
Kingsolver racconta la storia di un ragazzino  Demon (che si chiama in realtà Damon ma finisce per essere chiamato Demon) che nasce da una ragazza appena diciottenne con problemi e che genera queto figlio destinato a non avere un padre e a seguire le peripezie di una famiglia allargata quanto disarmonica e soprattutto i cambiamenti di umore (e di partner) della madre. E’ una storia di non-padri ma contemporaneamente di radicamento al  clan familiare e in qualche modo è lo stesso filo conduttore di “Elegia americana” . Sono a metà dei due libri.

Avevo visto l’omonimo film di Ron Howard, nel 2020 quando  J.D. Vance non era ancora passato alla politica e non c’erano notizie particolari su di lui. L’ho rivisto pochi giorni fa.
Devo confessare che mi è piaciuto e l’ho in qualche modo sentito mio.
Certo, il fatto che oggi l’autore sia diventato nel frattempo il vice di Trump non depone a favore dell’autore, ma leggendo il libro capisco anche la sua parabola politica oltre che psicologica.


Oggi colpisce che l’autore di quel libro che almeno in Europa nessuno si era filato più di tanto – se non come autore del libro da cui il famoso regista trasse il film -  sia l’affilato ed energico vice del Tycoon, ma resta un libro significativo e in qualche modo per me condivisibile.
Il titolo italiano del libro e del film  sono clamorosamente fuorvianti, meglio sarebbe stato infatti  tradurre “Elegia burina” o – con una citazione “colta” riferita a Ignazio Silone – meglio ancora “Elegia cafona”. Infatti “Hillbilly” è un termine per indicare i bianchi poveri (di origine irlandese per lo più) contadini di arre depresse del Midwest, un’area oltre che povera , impoverita in modo pessimo negli ultimi decenni, in un’area che comprende  Virginia, il West Virginia, il Kentucky, la Pennsylvania e l’Ohio, appunto lo stato che cantavo senza saperne nulla.

La chiamano Rust Belt, cintura di ruggine: più che il foliage bellissimo d’autunno, sono gli scarti del ferro (l’acciaieria Armco  di Middletown, che ha subito un declino dopo gli anni d’oro) e i relitti e le rovine del “fu florido”  polo industriale che fino agli anni Cinquanta era il cuore dell’economia di quell’area. Oggi molte industrie hanno chiuso, depressione, disoccupazione, dipendenze da alcol e droga hanno stravolto il paesaggio umano e urbano.

C’era anche un altro romanzo intitolato proprio “Ohio” di Stephen Markley (Einaudi)  nel 2018 divenne un caso: anche qui,  romanzo sui millennial dell’America profonda. Ma sono molti i nomi di scrittori che hanno raccontato la provincia americana, però alla fine a New York come Milano e Roma non viene capita davvero.

Da noi poi, non abbiamo nemmeno capito (né visto arrivare) diverse ondate di Hillybilly nostrani. Nemmeno dopo aver letto Iovine, Silone e soprattutto Carlo Levi (se si rilegge oggi bene “Cristo si è fermato a Eboli” c’è già in nuce l’Italia profonda che voterà dopo decenni Berlusconi. (raccontati meglio da Pennacchi, Canale Mussolini). Dagli anni ’50 di Togliatti, del Pci di Di Vittorio, stare dalla parte dei “contadini” era più un imperativo categorico ideologico, che uno sguardo vero sulle caratteristiche i valori reali di quelle masse di persone alal vigilia del boom economico.
Quel mondo contadino era sì povero, sfruttato, umiliato e offeso, ma era pure individualista, egosita, arretrato e di destra, attaccato al guadagno e alla roba ( l’aveva già raccontato “Libertà” di Giovanni Verga , più ancora che i Malavoglia).

Veniamo a “Hillibilly elegy” di J.D. Vance. Devo di re che in qualche modo mi identifico molto in questa storia di evoluzione sociale, di famiglie che si sono inurbate in città, Vance ha l’età che potrebbe avere anche un mio figlio, se l’avessi fatto all’età in cui i mei hanno generato me. Capisco quella storia, che ha riguardato anche molti come me, comune a quella di tutto il dopoguerra occidentale: finita la seconda guerra mondiale, la pace si è prolungata come mai prima di allora, il benessere ha spinto masse di contadini a inurbarsi, la società industriale degli anni ’60 prometteva felicità, benessere istruzione per i figli. Una vita migliore.

Spesso si dice “la destra sollecita la pancia”, va detto che quelle masse di ex contadini, pur votando in Italia PCI e in Usa (come il nonno di Vance) sempre Democratici ragionava egualmente con la pancia, prima di tutto. Poi ci fu l’arricchimento e lì si è rivelata un’identità sociale che non è stata capita. Basta leggere Operai di Gad Lerner, per capire come i metalmeccanici del sud italia specialmente somiglino ai contadini divenuti operai della Armco, come siano molto più simili ai Veneti della piccola impresa che alla “classe operaia” più idealizzata che capita (anche “Vogliamo tutto” di Balestrini in fondo anticippava nel 1971 qualcosa di simile)


Quel che racconta Vnce è però qualcosa che è accaduto anche in Francia e in Italia. Una società di lavoro indebolita e fiaccata da crisi ripetute – dal 2001 in poi - e dal mutamento globale dell’economia.

Da quella storia di speranza esce una generazione che quella speranza vissuta come una certezza, l’aveva vista dissolversi.

Una generazione arrivata a 60 anni e spezzata, frustrata, e poi nel tempo – e complici anche i social che innescano isolazionismo-relazione distorcente -  incattivita, arrabbiata. Perché in fondo (si può dire che si sbagliano ma non si può far finta che non provino quel sentimento) si è sentita tradita, con una sinistra che – tra letteratura e politica – si dedicava più alle minoranze e alle eccezioni che non alla normalità.

un vizio in Italia ben raffigurato da Pasolini: ha in fondo fatto l’epopea di una banda di ladruncoli, ha eletto a eroi delinquentelli, ma in quelle stesse condizioni di povertà c’erano milioni di persone – come mio padre e mia madre  – che veniva da quel contesto di migrazione interna italiana e che hanno lavorato duramente e onestamente. Erano come il personaggio Antonio Ricci di “Ladri di Biciclette” di De Sica, che ne fece un ‘epopea poi accusato di essere melodrammatico. Poi arrivò Pasolini e fece diventare eroi quelli che fregavano le bicilette agli Antonio Ricci.

(Sto estremizzando ma la mia chiave di lettura al fine è questa, l’ho capito solo ora, con il tempo e l’età e ho cambiato idea su PPP. E nel mio libro, quello che scrivo da anni, c’è una scena che è una riscrittura da un altro punto di vista di una famosa scena di Ragazzi di vita, dalla parte di chi era silenzioso e nei film di Pasolini solo comparsa.

Quella massa di persone, i contadini inurbati gli Hillybilly d’Italia, ha cresciuto la mia generazione di baby boomer sulla promessa di sogni e promesse che negli ultimi anni sono venuti meno, hanno rallentato economia e sviluppo. La delusione si è trasformata per molti in rabbia e paura, che la sinistra intellettuale bolla come paranoie, come “percezione sbagliata” mentre è reale, perché reale il vissuto quotidiano, quello  rasoterra di chi vive nei contesti che altri interpretano da lontano. Contesti con caratteristiche che non entrano nelle rilevazioni statistiche analizzate in contesti protetti (i giornali, prima, il coté intellettuale e artistico le bolle social, di cui pure oggi faccio parte sociologicamente e professionalmente)
Lì non si capisce il mondo della provincia, della suburra, della campagna “wanna be” metropoli o delle periferi.

L’unico che in Italia aveva capito megli certi contesti era  Tommaso Labranca. La sorpesa dei milioni di voti per Berlusconi prima, dei voti per la Lega a Mirafiori negli anni ’90, il ripetersi del fenomeno ora con Meloni e FdI non ha sradicato quel difetto di sguardo, ideologico e valoriale di una certa parte della sinistra intellettuale soprattutto (sono gli eredi di chi sbeffeggiava Berlinguer )

C’è sempre questa idea cattocomunista che i poveri siano buoni e di sinistra “per natura” mentre invece sono esattamente come tutti, variegati e in certi casi, come adesso in America o in Europa, esplicitamente e volontariamente di destra, individualisti, conservatori, che puntano all’arricchimento in qualche caso anche avidi di ricchezza.
L’aveva capito già Dostoevskij quando ne “l’adolescente” fa dire al suo giovane protagonista di quel romanzo dickensiano ““la mia idea è diventare un Rothschild, diventare ricco come Rothschild; non semplicemente un ricco, ma proprio come Rothschild”. Sembra un proclama da trapper di periferia di oggi. Che sia bisnipote di questa stirpe di contadini caponi inurbati o che sia figlio 2G di mitranti recenti, la sostanza è simile.

L’unico ad aver  raccontata con aderenza il sosstrato psico-antropologico italiano è stato Vitaliano Trevisan e prima di lui Vincenzo Cerami in “Un borghese piccolo piccolo”.
Una  classe media ex popolana, proletaria e contadina. Altri esempi non romani: “Cartongesso” di Francesco Maino o “La buona e brava gente della nazione” di Romolo Bugaro e “Gli sguardi cattivi della gente “ d iClaudio Piersanti.
Vado a memoria ce ne sono di libri che ci avrebbero consentito una lettura di quel fermento esploso poi con Berlusconi, la Lega e oggi Fratelli d’Italia ma anche il M5S populista di Grillo.

 Ci siamo abbandonati a “Suburra” e “Romanzo Criminale” di De Cataldo, un po’ pasolinianamente, traviati da film-serie, come fossero storie di  “crime” senza riflettere sull’aspetto sociale che esprimeva. Come anche con Gomorra di Saviano (pessimo servizio la serie tv).
Forse già il “Branco” di Andrea Carraro negli anni ’90 rivelava una suburra non idealizzabile, ma anche  Niccolò Ammaniti di “Come dio comanda” – e prima ancora “ Grande Raccordo Marco Lodoli con i suoi personaggi invisibili e non certo inquadrabili in ideologie e “classi” (si ragiona ancora come se esistesse una “classe” in certi ambienti)

L’ideologia cattocomunista si sposa con il sapore cinematografaro post-pasoliniano,  Troppo romano poi. Forse sempre per restare a Roma, meglio di tutti allora sono rappresentativi i personaggi che animano il bar de “Lo stradone” di Pecoraro.  

Oggi alora il proposito è  leggere con attenzione Davide Coppo “Dalla parte sbagliata”  - magari trovo spunti come già in  Andrea Tarabbia “il continente bianco”  (o il Parise de “l’odore del sangue” a cui è ispirato).
Anche ritornando indietro ad altre letterature, come quella britannica, anceh Ken Loach ormai come in Old Oak fa un ritratto spietato de “fu proletariato”. LA coscienza di classe era un miraggio.
Ora poi si inseriscono anche altre complicazioni, ovvero culture e religioni, valori diversi. )l’aveva anche qui anticipato Kurehishi ai tempi di Mio figlio è un fanatico.
Non è sempre “colpa dell’esclusione sociale” . Sta nascendo un processo identitario di ritorno alle radici che accomuna in modo singolare parte di chi vuole respingere i migranti ma Anche parte dei migranti stessi.
 Quell’ideologia che oggi si divide tra una estesa adesione al nazionalismo vagamente o  radicato anche nell’adesione religiosa (come pure fanno molti di seconda e terza generazione in Francia vedi le analisi di molti sociologi dop ogli scontri di due anni fa) oppure sposano la Ideologia totale del consumo, del Cash che puoi fare in modi ritenuti facili, che non contemplano sacrifici, lavoro, emancipazione.   
Ma questa è una parte complessa, tuttavia ciò che mi sembra il tratto comune è proprio la spinta identitaria. Lo è per i tanti francesi che votano a destra o che sono scesi in piazza con i Gilet Gialli. Lo è anche per quelli osteggiati, ma non è solo una “reazione” è un tratto convinto e radicato.  Basti leggere i libri di Eribon o Louis in Francia (anche li una vasta provincia depressa, ex operaia, delusa, arrabbiata, una classe media senza carta né territorio, ormai, già raccontata da Houellebecq che pure con Sttomissione ci  aveva visto lungo )

 

C’è un vasto continente della rabbia, un “eurasia” trans globale che mette assieme rabbie in apparenza diverse, ma tutte con una matrice che sta nel libro di Vance: il tradimento dei sogni di felicità, la promessa di una “promise land” . Bianchi con radici locali e “migranti-discendenti” di 2G che rigettano le promesse, che non credono a regole, percorsi, che hanno solo voglia di “riprendersi il dovuto” magari con espropri proletari come hanno fatto in questi giorni i bianchi razzisti e negli anni passati i nordafricani a Parigi : assaltando negozi di cellulari o di sneaker.

LA rivoluzione è fatta per quello, non per diritti, come del resto le lotte della generazione dei miei genitori : per la pancia, per stare bene, per avere più roba. I diritti, certo ma non sono il primo pensiero e infatti sinistre europee e democratici usa che le hanno cavalcate non hanno ricevuto consensi dall’elettorato tradizionale, ma non tanto per “delusione” quanto perché quel vasto strato popolare ex contadino poi inurbato, come dimostra il libro di Vance si è ripreso un’identità – come stanno facendo per altri aspetti parte delle giovani generazioni di 2G in Francia che spesso protestano con bandiere algerine e marocchine e vagheggiano un “ritorno” messianico alla terra dei nonni).

Non era una “resa” alla destra per delusione, ma la rabbia è stato il motore di una riscoperta di radici mai estinte con un’identità conservatrice che oggi riemerge. Vasti strati popolari che sono sempre stati “di destra” per dirla con una formula veloce.

Che vuole riavere quello che le è stato sottratto. E a quei maschi allevati nella promessa di essere l’asse portante di una tradizione familiare è riemerda la voglia di riprendersi quel sogno “ di tradizione” come mostra bene il libro di Vsnce. Nonostante sia una famiglia di persone che sarebbe meglio evitare, è lo spirto del clan della tribù che prevale è l’identità. Il nazionalismo della propria “nation” (fine del sogno Lennon-BAmbataa-Marley di “una sola nazione”. Oggi prevalgono le mille nazioni-clan. Bianchi, africani, islamici che siano.

Li classifichiamo – quelli bianchi visto che sono partito dall’Ohio – come tossici, privilegiati, violenti, o vittimisti, incel perché in prevalenza maschi. Ce ne sono certo, ma la massa erano figli di chi si è fatto il culo e non ha avuto ciò che meritava – magari proprio a causa di crisi globali dell’economia (e alla fine i veri no global sono i trumpiani oggi) e negli Usa erano anche bianchi orfani, poveri, con fratelli morti nelle guerre, o morti per farmaci oppiacei, proletari intrusi, mal mesi, cafoni, appunto. Figli di cafoni che hanno affollato anche molti romanzi nostrani, ma che abbiamo sempre letto male, interpretato male. Ideologicamente.
Erano vittime, erano i “penultimi” e quando hanno visto le sinistre dedicarsi solo agli “ultimi” hanno ripreso la loro identità, non quella che gli avevano appioppato gli intellettuali di sinistra facendone un ‘ “elegia positiva” ma sempre però esaltando i marginali. Nessuno faceva più “l’elegia dei cafoni” normali, dei burini, dei semplici.
 Ora con una certa dose di rabbia, la rivendicano. E’ tempo in effetti di riscrivere elegie diverse.

domenica 26 maggio 2024

PAUL CELAN, LA TRADUZIONE CHE MANCAVA


 E’ uscita la nuova edizione della traduzione delle poesie di Paul Celan fatta da Moshe Kahn. La pubblica L'orma editore

Si tratta della revisione dopo circa cinquanta anni, di quella che aveva fatto lo stesso giovanissimo Kahn prescelto da Paul Celan in persona nel 1970 (il quale aveva invece rifiutato le prove di traduzione sia Giuseppe Bevilacqua che Ferruccio Masini). Che si dovesse tradurre Celan lo aveva deciso Sereni per Lo  Specchio già dagli anni ’60, ma ci furono trattative sui traduttori e in fine si arrivò a quella di Kahn, pubblicata da Mondadori con un buco di anni nel 1976, riedita per qualche anno, poi non più ristampata. (Nel frattempo a Mondadori si erano persi la prima scelta di poesie fatta da Celan. ( Sereni decide di  "far tradurre" Celan. Poi le cose si complicarono, Celan scelse Kahn, ma non è chiaro come andarono le cose per quanto riguarda la lista che poi Borso ha recuperato,  forse si potrebbe chiedere a Kahn medesimo. Le  obiezioni di Celan furono la complicazione, per lui  una traduzione fa sempre parte del "territorio di genesi" della poesia stessa come ha dimostrato Camilla Miglio nel suo bel libro). Quella lista fu poi trovata e pubblicata poi da Dario Borso che rifece sue traduzioni ne l'Antologia italiana di Nottetempo,  di cui ho scritto ai tempi (poi pubblicherò la recensione su questa,  completa in cui spiego tutto)

La traduzione di Kahn a me pare molto bella, per quello che certo ne può dire uno che non sa il tedesco, ma che pure ha letto con attenzione l’analisi approfondita di altri germanisti (Camilla Miglio Dario Borso a sua volta ottimo traduttore di Celan).

A Celan non piaceva quello che Sanguineti avrebbe chiamato “il poetese” ma purtroppo in un certo senso le traduzioni di Bevilacqua (che poi diventarono quelle ufficiali di Mondadori) hanno sparso un tono di solennità che non teneva conto della richiesta di Celan a Sereni : non voglio lo stile alto, voglio parole semplici, concrete, come fece dire al poeta dirigente editoriale. 

La traduzione di Kahn riproposta e rivista dopo cinquanta anni -  con chiarimenti che solo le lettere hanno potuto portare .e che all’epoca non erano note - mi pare vada in questa direzione.

Mi sembra – per dirla con Gianfranco Contini – “una lunga fedeltà” a Celan, il quale, tre mesi dopo la lettera con cui comunicava a Kahn la sua decisione di nominarlo traduttore, si suicidò.

E io pure come molti, comprai la traduzione di Kahn (qui in foto) nei primi anni ’80 durante il mio apprendistato universitario alla poesia. In contemporanea lo stavano comprando molti altri futuri poeti,  a Milano, come racconta in una bellissima testimonianza (anche personale, che si riaggancia al suo romanzo "Lezioni di tenebra") Helena Janeczek posta in coda al volume de L’’Orma, tra l’altro bellissimo nella sua grafica e fattura.

È una bella edizione e un pezzo di storia della poesia (anche italiana) da possedere. (Ne scrivo spero più ampiamente presto)

giovedì 4 gennaio 2024

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica


 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curiosità in attesa del ritorno alla regia di Claudio Longhi, direttore del Piccolo Teatro di Milano che lo porterà in scena al Piccolo Grassi dall’ 11 gennaio con protagonista Lino Guanciale.
Il romanzo dello scrittore cileno morto nel 2015 nel mondo ispanico è un cult, è anche un romanzo di riferimento per il modo in cui mescola le questioni politiche della lotta d’opposizione alla dittatura di Pinochet con quella per i diritti civili del mondo Lgbtq+ (Lemebel è stato scrittore, artista, attivista, fotografo, animatore culturale e conduttore radiofonico) con uno stile ironico, allegro, scanzonato e pop, e insieme profondo, sentimentale, in cui il realismo e il grottesco si mescolano all’uso sapiente di un barocchismo pop da commedia venato da malinconia, ma molto vivace e divertente.

La storia è quella di un incontro e di una speciale amicizia amorosa tra “la Fata dell’angolo”, un transessuale ormai avviato verso l’età matura, ma ancora pieno di passione e allegria canterina, e Carlos, un giovane studente cubano, bellissimo,  che fa parte di un gruppo di oppositori al regime il Fronte Patriottico Manuel Rodriguez.  
Lemebel costruisce questo personaggio modellandolo su sé e sul gruppo di compagne di ventura nel periodo più duro della dittatura, ricordate nella nota introduttiva, regine nella difficile arte del travestitismo sessuale in pieno regime fascista e dentro una cultura machista come molte in Sudamerica.

 La Fata non ha nome, il lettore la conoscerà sempre solo con quel nomignolo (che però un adattamento dallo spagnolo, perché lo scrittore cileno sceglie per lei il soprannome “loca del frente” la pazza di fronte, forse una piccola licenza del traduttore che  richiama l’origine a cui pure ha fatto riferimento Ferzan Ozpetek con il suo film, pure del 2001 “LE fate ignoranti “ – così a un certo punto si definisce anche la Fata nella traduzione italiana  – ovvero un quadro di Magritte intitolo proprio “ La fée ignorante” del 1956).
Anche Carlos usa questo come nom de plume di copertura. I due si conoscono  in un emporio, la Fata si innamora subito, ha ormai troppi anni per esibirsi, per esercitare anche l’arte dell’amore in strada, vive facendo la ricamatrice di tovaglie per le signore bene della borghesia di destra di Santiago. Di sé parla (e così il narratore la indica)  alternativamente al maschile e al femminile a seconda delle circostanze. Lui, ambiguo e sfuggente, si lascerà desiderare, ma di fatto userà la casa della Fata come copertura per le riunioni della sua cellula del Fronte e per tenere delle misteriose casse, piene “ di libri” dice sempre lo studente.

Siamo nel 1987 e il romanzo culminerà nell’attentato a Pinochet che segnò la crepa che portò alla fine del regime. MA quello che c’è in mezzo è una danza leggera, ironica, struggente perché destinata allo slittamento e alle illusione di tutti gli amori, sempre sbilanciati e forieri di ferite. LA Fata asseconda Carlos in tutte le sue richieste, lei lo circonda di un amore che è anche tenerezza fragile. L’amore non sboccerà, in questa danza di non detti, però di sicuro tra i due si intreccerà una doppia educazione, un risveglio sentimentale e politico insieme: la Fata, che preferiva sempre dimenticare la durezza della situazione rifugiandosi nei suoi sogni romantici d’amore, maturerà una consapevolezza e uno sguardo verso il mondo che prima non aveva, sempre chiusa nel suo appartamentino-nido, tra uccelli, ventagli. Non ti scordar di me, Scialli da seta, balze, pizzi, nastri di tulle, una mobilia antiquata tutti gli ammennicoli di una frocerìa che Lemebel manovra con abilità tra grottesco e ironia, tra nostalgia e vezzo. Allo stesso modo Carlos svilupperà col tempo un affetto e un ‘empatia che non aveva, sedotto più che sessualmente, dall’amicizia accudente e sincera della Fata.

Tutto si tiene sul filo della finzione, sul filo anche del discorso amoroso modulato però sulla retorica delle canzoni pop. E’ proprio la ricchezza linguistica la cosa più divertente del libro, in cui la debordante Fata puntella le sue illusioni di verità ricamando con un pastiche colto e popolare e con i versi delle canzoni d'amore quello che diverrà anche un tessuto di relazione e alla fine  codice segreto tra i due, il codice di una relazione indefinibile.

Un romanzo certamente teatrale, perché continuamente i riferimenti anche espliciti della voce narrante e della Fata a certi atteggiamenti teatrali, ostentati, artificiosi e garruli della Fata a cui corrisponde una teatralità dell’ombra di un Carlos che nasconde dietro la maschera e il nome finto le sue attività sovversive.
 E’ però un romanzo con non così tanti dialoghi, difficile in apparenza da portare in scena, perché spesso occupato dalla voce narrante la quale presta il suo rigoglioso eloquio alla/al protagonista Fata, e infatti Claudio Longhi in un'intervista doppia con Guanciale su La Lettura ha chiarito che la sua sarà “una sorta di “edizione teatrale” del romanzo, nella trasposizione di Alejandro Tantanian, in cui la Fata/Guanciale sarà di fatto anche narratrice.  

Tutta la storia si gioca con sul filo del doppio. Con l'identità che viene celata, nascosta dietro maschere, Sovversivo e la Fata, di fatto questa esplicita ostensione del doppio consente molti appigli per la scena. Un romanzo che ricorda molte cose, non solo quello di Manuel Puig con “Il bacio della Donna Ragno”, ma molti riferimenti tra cinema canzone e ancora teatro (penso al recente bellissimo spettacolo di  Renata Carvalho a Short Theatre) ma con un’anima latina che accondiscende più alla cultura popolare (forse attingendo più a un mondo simile al musical “ Priscilla” (e a me viene in mente una persona che forse potrebbe somigliare proprio a Pedro Lemebel, cioè Platinette, nella sua multiforme attività tra giornalismo, performance, radio e attivismo politico).

Nel romanzo compare anche un’altra coppia, a far da contraltare con rimandi e scambismi, a quella della Fata e di Carlo, ovvero Augusto Pinochet e la moglie Donna Lucia, ritratti in una loro grottesca intimità allo sfacelo, affogata in una palude di insofferenza reciproca e ipocrisia, con Lucia che è anche lei completamente quasi un omologo della Fata, perché da contadina si è trasformata, si è pensata, come  nobildonna, parla continuamente dei vestiti che vuole comprare, copiando anche quelli della Fata (le due coppie si sfioreranno due volte nel libro) consiglia al marito cosa fare delle sue scelte politiche in modo stravagante e sciocco, con un dittatore tanto acidamente feroce quanto ridicolo, che sotto la penna di Lemebel diventa un vecchio pensionato, incapace e pigro, ossessionato da marce militari e incubi da cattiva digestione. E interessante del romanzo questo doppio gioco quadriglia. Così come interessante il doppio risveglio tra Carlos e la Fata, in ci di fatto sarà l’amore della Fata anche se costretto nella gabbia di una consapevole impossibilità, nel gioco a illudersi, per sopravvivere, che muoverà le cose, contribuendo all’azione terroristica. Un tema anche meta-teatrale e insieme politico, etico, anche per noi che siamo viviamo in questa epoca italiana, ormai trentennale, dominata dalla destra bauscia di Berlusconi e oggi portata al parossismo grottesco dal “bagaglino” della destra burina di Meloni, al Governo con le  persone che per anni si sono richiamate al fascismo. E che sono state dalla parte di Pinochet, come ai tempi La Russa (sarà interessante vedere se  in sala ci sarà il neo nominato consigliere di amministrazione del Piccolo, Geronimo La Russa).

Che cosa significa per noi resistere? Opporsi al potere? Siamo più simili a Carlos o alla Fata? Lo studente sovversivo, fortemente ideologizzato, o la transessuale che rivendica , ostentando una diversità anche impolitica, ma radicale  ? È interessante questo, perché c'è una sorta di ulteriore riferimento al modo di fare teatro, in questa storia, vedremo come sarà coniugata da Longhi.
“ho paura torero” contiene implicito il discorso sulla funzione del teatro: se debba essere o meno quello impegnato e militante o se debba intrattenere, giocare con la sua arte, tenersi fedele a una sua metafisica, in un certo senso, senza farsi solo portavoce di istanze e ciclostilati. Ci sono molti riferimenti meta teatrali nel libro, la Fata dell'angolo continuamente sa di recitare la sua “parte da donna” nel romanzo di avere delle pose teatrali di avere dei confronti anche delle altre sue compagne di vita e di strada, continue e teatralissime “baruffe” schermaglie che racchiudono in sé però legami profondi.

Alessandro Iachino in un articolo sul semestrale  di cultura teatrale edito dal Teatro Metastasio di Prato “La Falena”, i parlando appunto della dell'impegno anche a teatro di un certo tipo di gruppi e autori, che portano nelle opere le tematiche politiche, le istanze sui diritti civili,  le parole d’ordine del cambiamento di paradigmi, le  nuove soggettività non conformi, danno vita a un flusso di testi e opere che dipanano, scrive Iachino, “una galassia semantica vaporosa e astratta” in cui la nebulosità sembra riflettersi in una tendenza al “contemptu mundi”, ovvero al disprezzo del mondo, all’osteggiare una differenza dal mondo circostante con il quale però “non vogliamo dialogare”.

 UN teatro-Carlos, starei per dire, militante che però più diventa politico e meno dialoga con il mondo che vorrebbe cambiare. Non c’è però solo la lotta elitaria tra gli artisti e i governi, c’è il “buio che ci circonda” la città invisibile e reale, come la Santiago che la Fata attraversa nel romanzo, abitata da tutte le persone, di tutte le estrazioni sociali,  ed è con loro che si gioca la partita politica. Insomma nel coinvolgimento del pubblico, in qualche modo tenendo conto delle scelte del pubblico, elemento imprescindibile per ogni teoria estetica e politica nell'epoca delle democrazie tardo novecento.

 Lemebel sembra sposare questa strategia, proprio diventando volutamente come autore e artista un‘icona Camp e sotto sotto, lasciando filtrare nel romanzo uno spirito critico anche verso il mondo dei Carlos.
Quello che oggi, direbbe Walter Siti in “Contro l’impegno” sembra teso a “valorizzare l'opposizione in quanto tale”, più impegnato a mettere in scena la sua retorica, a pronunciare i discorsi predefiniti di opposizione, le parole d’ordine,  più che a costruire una consapevolezza diffusa del cambiamento,  nel dialogo anche con chi al momento è diverso, ha gusti e formazioni diverse, ha magari un’estetica pop come riferimento  (come quella delle canzoni della Fata) .

 Si fanno tanti spettacoli di denuncia, scrive Iadichino, ma “vanno in scena di fronte a spettatori già informati, già aderenti a “quell’afflato politico”.  Spesso accade che quel pubblico sia fatto da teatranti e dintorni (come sottolineava Cordelli nel 1975 a proposito del pubblico della poesia fatto da soli poeti)

Se è condivisibile in teoria quello che ho letto in una citazione on line, di Jacques Rancière che “la finzione non è la creazione di un mondo immaginario, opposto al mondo reale ,a è il lavoro che produce dissensi, che modifica i modi di presentazione sensibile e le forme di enunciazione, cambiando le cornici, le scale e i ritmi, costruendo rapporti nuovi tra l'apparenza e la realtà”, è pur vero che in pratica bisogna anche capire quali sono le “cornici “da cambiare e i contesti, le competenze di chi vorremmo invitare a cambiare (per non parlarci addosso insomma e per non costruire un muro cieco di codici autoreferenziali e di solo dissenso).

Spesso nella platea dei teatri non si crea il dissenso, al 99% tutti gli spettacoli che hanno questo afflato politico di denuncia e di dissenso ricevono applausi scroscianti (negli ultimi tempi solo uno spettacolo ha creato una crepa, vivaddio, “Caridad” di Angelica Liddell) . Per il resto grande indignazione, grande commozione, grandi applausi. Per questo pubblico già informato e già aderente a quel dissenso che sta sospeso tra il palco e la realtà. È una sorta di eco-chamber confortevole, un parlarsi tra chi è d’accordo (Facebook ci sta anche abituando con l’algoritmo a questa echo-bolla-chamber) . Si fa arte che vorrebbe essere testimonianza e finisce per diventare, se pronunciata di fronte ai nostri simili, uno “ sguardo autocentrato che dimentica il circostante” come scrive in un altro articolo de “La Falena” Lorenzo Donati, utilizzando il termine di Gianluca Simonetti, tratto dal suo libro di critica “La letteratura e il circostante”.

Nel romanzo di Lemebel invece il “Fronte” di Carlo  e il “Frente” della Fata, la loca, stanno faccia a faccia, dialogano, si trasformano uno nell’altra. Anche l'arte in apparenza fatua e vaporosa delle canzoni dà il suo contributo all’ideologia politica (la quale spesso, come anche l’ideologia estetica, sedicente “di ricerca” o rigorosa è ugualmente linguaggio vaporoso ).

 
Interessante che Longhi, alla domanda di Laura Zangarini su La Lettura, su quale sia la funzione del teatro , diche che il teatro oggi dovrebbe “sforzarsi di restituire il cangiante trascolorare del presente nel futuro, debba testimoniare il nostro tempo incerto” dice Longhi, senza però “mai dimenticare la sua genetica ‘ leggerezza’ la sua vocazione innata a essere luogo del divertimento”. Ci aspetta forse molto giocoso e canterino divertimento al Piccolo. A 50 anni e poco più da quell’11 settembre 1973 che non riuscì però a spegnere la musica né a cancellare l’arte di Lemebel e delle tante Fate.

mercoledì 3 gennaio 2024

LA VITA HA UN SUO RINTOCCO INNATO, ANCHE SENZA DI NOI. "Le campane" di Silvia Bre (Einaudi)

 


Una delle figure più antiche della poesia è quella piccola forzatura logica della lingua chiamata “sinestesia”, la connessione di percezioni appartenenti a diverse sfere sensoriali (il “profumo dolce”, il “colore caldo” ecc.) . Ho pensato a questa figura come metafora del libro di  Silvia Bre, “Le campane” (Einaudi) in cui certo sono presenti questi artifici retorici, specie nella seconda parte, ma anche perché il libro mi sollecitava un continuo slittamento, uno minimale ma diffuso spiazzamento logico, nel suo procedere sintattico, specie nell’uso nell’aggettivazione,  specie nel creare una fusione sensoriale tra suono e spazio. Lo si vede subito dal testo che ci accoglie sulla soglia della copertina e che nella raccolta apre la seconda parte: “Una campana che rimbalza da lontano/ e la distanza da domare si consegna” creando il trasbordo sensoriale esplicitato nei “corpi adorati tradotti/ dall’udito”. È il suono ad occupare lo spazio, che avvolge la posizione del soggetto che ascolta – così che non si ha mai la sensazione lirica di un “poeta che dice io”, ma di un campo acustico-concettuale, una corale non geometrica. Il campo saziale è ciò che determina il tempo, anche qui in due semplici battute:  “Ero là, ecco la storia” come inizia proprio la poesia di cui stiamo parlando.


 Coerente con il senso generale dell’allegoria del titolo, “Le campane” è una raccolta con una diffusa presenza di risonanze, echi, utilizzando una voluta alea grammaticale -sintattica sin da subito con la poesia che apre il libro in cui è il “cielo” che reclama una forma, con una campana che “manda sé stessa” – ma in una dimensione sospesa di “impermanenza”.
Tutto il procedere del libro adotta una tecnica di rimbalzo: sia fonico, con diffuse rime o assonanze, sia tematico con riferimenti al propagarsi di onde o linee di materia nella percezione di sensi. Anche per la vista è lo stesso:

E se il punto di fuga sfonda il disegno
e lo diserta senza rigore
dove muore la prospettiva?

Dato il punto di rottura percettivo, la poesia di Bre indica la condizione dell’immagine che nel “disfarsi è la sua resistenza” accettazione di un punto di incedibilità tra conoscenza e non-conoscenza per cui la poesia è la migliore posizione “in questo punto sospesa/ in nessun luogo visto/ congiunta all’incompiuto”

 Ci si muove ancora in quel “sospeso stupore”  come lo definì Marco Merlin, delle raccolte precedenti. In una dimensione che si muove agilmente tra i riferimenti vagamente religiosi (e condizioni di vita ancestrale, percependo mentalmente anche il suono di realtà invisibile ma intese come permanenti: l’ex-ergo a una poesia lo afferma perentorio, indicando nelle “grotte di Cheuvaux/ la persistenza acustica della poesia”.
 Nelle tracce arcaiche di trentamila anni fa o nella percezione dell’oggi, per Bre c’è la ricerca di un elemento del mito che non è narrazione, religione, fabula: “il ritmo innato vaga prima/ della vita” scrive Bre, e mi sembra che la sua poesia, nella sua lingua, nella costruzione delle sue immagini ci si in fondo questo ritmo, una vibrazione. È quella della figura dipinta (il “toro”), continua nello stesso testo,  che circola, “libero dalla storia”, perché  “l’essere noi”, sorta di richiamo a una presenza eterna dell’essere vivente, di tutta la comunità dei viventi, “non è una porzione/ miserevole  del tempo” ma “ondeggia sempre”.
 Il tempo è per Bre è “un adesso perenne” fatto di queste vibrazioni o “tremito lungo” che comprende la materia cosmica, i viventi e anche “i gesti delle fate/ e dei maghi”: il singolo si colloca in questa vibrazione primordiale e qui trova il suo senso, nell’ “essere stati il futuro di qualcuno”. Forse anche di qualcosa, il mondo, il pianeta, tutte le sue trasformazioni viventi e no.

C’è più biologia e geologia in Bre che psicologia, almeno nella poesia de “Le campane”. Non c’è dubbio che rientrino una concezione della natura olistica, il complesso del sistema-pianeta in cui ognuno di noi è collocato, ma la storia sembra essere solo un accidente transitorio e breve rispetto alla dimensione più ampia del cosmo, della materia quantistica, del comparire della vita. In un certo senso è la scienza che sembra offrire al momento uno spazio di possibilità di senso a ciò-che-non-si-sa, nel senso che si ammette che molte cose non si sanno ancora.

Non è un caso che una poesia (p. 12) riporti come esergo “Einstein”. Quel che scienziati come il fisico tedesco hanno mostrato non è una verità, ma per il momento “misure sconvolte” del mondo di fronte a cui bisogna “stare nella notte/ e cavare un linguaggio, orientarsi” nonostante lo sconvolgimento.  Bre sta tra una ricerca “dell’origine” e l’accettazione del mistero: “a volte senti proprio nell’aria, proprio/ nelle orecchie, l’inizio che aspetta” immersi in una dimensione ampia che conforta (“è l’universo / e sa la tua presenza”) ma che è anche resistenza a questo sgretolarsi delle misure (p.17)

Come un’alba nera madornale che da est
cerca l’Atlantico nei giri
della nebbia fino alla curva,
e lì la spuma della mia presenza
 frontale contro la dismisura.

Ci sono parole che la storia della poesia consegna a una memoria e durata di echi, come del resto di risonanze è fatto il mondo, ma qui non può non venire in mente quella chiusa celebre di una poesia di Milo De Angelis da “Millimetri”: “in noi giungerà l’universo/ quel silenzio frontale dove eravamo/ già stati”.
anche nella chiusa della sua poesia Bre evoca una medesima, irrequieta presenza di un vasto silenzio che tutto sa, che egualmente contiene, nel tempo:

Che venga a prendermi ogni luce
o anche un giro di vento, che plachi
il silenzio della mia comprensione assoluta.


Silenzio, mistero, comprensione frontale.
In un libro recente, pubblicato da Vallecchi nella collana curata da Isabella Leardini, Silvia Bre aveva scelto la parola “Mistero”. La sua è una poesia diversamente ermetica, senza essere oscura di inaccessibili segreti riservati agli eletti, con un’allusività che espone la semplicità e al tempo stesso irriducibilità dell’evidente, non traducibile in “conoscenza” ma senza necessità di richiamare  entità sovra umane, invisibili.

Semmai in cerca di tracce tutte dentro la materia del vivente. Poesia chiarissima, limpida come l’acqua di un pozzo: “Quale mistero pervade un pozzo!/Quell’acqua vive così lontana” scrive Emily Dickinson nella traduzione della stessa Silvi Bre che alla poetessa americana ha dedicato decenni di lavoro, culminato nel volume recente “poesie” una ‘ampia scelta delle migliaia di testi dickinsoniani. Un lavoro che non manca di riverberarsi sulla scrittura di Bre.
Al mondo a cui guarda Bre, non oltre ma nel visibile si appartiene per fusione amniotica, per comunanza molecolare, meno per significanza linguistica, sebben ovviamente questa scrittura-prima-della scrittura passi per la materia grammaticale che è concepita da Bre più come “voce” che come “segno” sebbene il segno faccia il suo gioco, la sua acrobazia, tuttavia fallimentare anzi mortale(p. 5):

La luce di qualche verità
qui è eclissi
gli sguardi le cantano al buio.
Anche la grammatica fa
il suo salto mortale
e non sbaglia ma muore. 

Se il silenzio è comprensione è la grammatica muore, il poeta continua forse a metà strada,  in questa sua fragilità che da un lato sembra disorientata di fronte a due vertigini: quella della dismisura che viene dalle scienze e dalla conoscenza e quella della facoltà che ci rende senza bisogno di parole capaci di immediata comprensione e così (p.24) sta quel “meridiano/ di rintronati dalla fragranza di un suono / la loro eleganza disadorna. / Non sono mai nessuno i poeti”. I poeti riescono ad essere ancora  meridiano, per evocare la parola celebre di Paul Celan.
Sempre più fragile, come qualcuno che scrive sui muri la notte. “io parlo l’artificio” scrive Bre e paragona la scrittura a un “comparto industriale smesso”, un’ agire residuale per il quale il poeta si appella “dica qualcuno in tempo che c’è una figura, un’ombra/ un gesto di pietà da offrire a un altro”. In questo nucleo di minima resistenza sta la poesia capace, tuttavia, di reggere lungo l’asse del “tempo astrale”, chiosa Bre.

 Bre evoca ancora una volta una corrispondenza ctonia e materica tra mondo e poesia, come se alle parole della poesia spettasse la possibilità essere “opera oltre i confini”,  di essere specchio di qualcosa che non è conoscenza,  ma questa muta appartenenza la mondo (p.27): l’istinto del pensiero può placarsi/ specchiarsi in queste parole è il paradiso”. Si chiude così la prima parte del libro e nel riaprire la seconda i primi quattro versi ribadiscono di questa dimensione corporale e mentale insieme del percepirsi nel mondo: 

Il corpo è il rintocco della presenza,
vuole coincidere. Fossero qui, le campane.
Invece l’essere in loro è così, disteso
in uno splendore che retrocede
 

È evidente la fiducia dell’io-poetante in un punto di contenimento dello sciamare percettivo. Questo sono, le campane, metafora di una sorta di enti (il nostro corpo, i sensi, ma anche la nostra stesa conoscenza e non-conoscenza insieme) che “slegano in mondi” l’esistente ma “chi prova a fermarle perde, perde/ l’elusione scintillante che contengono”.
Contenere dunque questa elusione, tenere scintille nell’incavo della mano, essere dentro una dimensione di “ere più vaste di questa” senza alcuna missione o destino, sapendo solo che “quel lontano è amare tanto”.
 

Il poeta non indica in un centro, consapevole (p.35) che c’è solo una “orda dominante” che ci agita, se non altro agita il poeta straziato dalla compresenza silenziosa che non si può contenere come la cenere tra le braccia. Essere sollecitati a dichiarare un centro è una sorta di violenza, allora, quale un fuoco che avvolge una che piange” uno “sconosciuto che ti dilapida” e a fronte di facili e sentimentali poesie che puntano a quel centro di gravità permanente dell’anima, l’io-poeta di Bre risponde: 

Dillo trionfando che non ci sei, non hai cuore,
è un’altra l’unità da pronunciare, ebete,
e non sai quale, non sai farlo.
 

Tra l’ “io slegata” (p38) e il “tu, meraviglia” (p.34) c’è un riconoscersi dentro una dissolvenza soggettiva, dentro questo “ritmo antico del nulla” che è molto di più di quel che può farci comprendere l’idea dell’esistenza di un dio,  un “dio temerario” lo definisce Bre, cantato con “segno disumano” a cui è contrapposto ancora una volta il silenzio, “la pace dei significati”. C’è una natura contemplativa della e nella natura nel pensiero poetante di Silvia Bre, ma non si potrebbe neppure definirlo così, forse un pensiero che si comprende nel momento in cui di esso stesso si dissolve ogni segno, la poesia essendo un canto in cui l’artificio serve a creare la dissolvenza nella permanenza stessa della grammatica, in cui questa dissolvenza è il tradimento della lingua che consiste nel permanere.
L’effetto è quello allegorizzato (p46) come un “mugolio/ di rocce, campane/ che suonano contro la forma/ il giuda da tradire”.  E ancora (p.47):
 

L’umano ha questo fuoco profumato di una lingua
che porta il non più in cui stare. 

Esercizio di sottrazione questo “filo denso della presenza” nostra, di specie tra specie e selve e rocce, trova nella lingua della poesia un ulteriore esercizio di svuotamento, di cui resta solo un “soffio diffuso”: è quella la “lingua celeste dello sparire”, che è sparizione mentre si dà e risuona. La poesia punta non all’indicibile, bensì alla capriola o salto mortale del dire una “quiete sospesa” (53)  di beatitudine che trasforma il canto in soffio, il significato in un silenzio al massimo un’eco di quella lingua-campane, come una traccia di misura dal modo delle madri. La lingua nella poesia rintraccia un canto e affronta il precipizio del buio, la condanna per aver tradito proprio con le parole una beatitudine che non ne aveva bisogno.  Poesia come la voce di un canto che risuona in una “navata” per la “carità “della “gleba”  (p.56): 

suonata a senso dalle campane
per timone le tenebre
mi ruota nello scheletro la nube di una luna,
questa infamia fedele di beata.

FORSE LA GIOIA ESISTE. "Ipotesi del vero" di Giorgio Ghiotti (LibreAria)

 La città dove abita Giorgio Ghiotti è Roma, ma la città che lo abita quella dei versi (suoi e non soltanto). Anche la prima, pur essendo una città che coincide con la disastrosa Roma della cronaca, resta una città della gioia, come se provenisse da un luogo anteriore, per usare un titolo di un altro poeta romano Roberto Deidier. Del resto non c’è luogo dove l’anteriorità condiziona così tanto il tuo futuro.  Nel suo caso quel luogo è anche l’infanzia, momento di “miracoli leggeri” in cui si poteva percepire – per fare un esempio, prendendo una delle poesie d’apertura del suo nuovo libro “Ipotesi del vero” (LiberAria Editrice) -  in quei “pazzi di quartiere/ da cui da bambini ci tenevano distanti”  che fossero “ultimi custodi di voci inascoltate dell’assenza”.



Per Ghiotti l’infanzia, che attraversa i suoi libri (solo di poesia e prosa, una decina in dieci anni)  è mito rivendicato, e ancora di più da adulto, ora che Ghiotti non è più il brillante esordiente di 19 anni.

Dato che Ghiotti stesso lo tematizza, come parte della sua concezione letteraria, dichiaro subito che conosco Giorgio, c’è amicizia e condivisione (di matrici, come l’essere stati allievi di Biancamaria Frabotta, io dieci anni prima che lui nascesse). Il suo stile, il suo modo d’essere poeta sono distanti dal mio, ma questa non è una recensione né amichetta né militante. Trovo che Ghiotti costruisca il suo mondo letterario con una coerenza,  tra scelte di linguaggio, forma, sua personale attività (editoriale , critica, organizzativa).

Oltre questo, di cui cercherò di dare conto analizzando il suo ultimo libro di versi, mi ha sempre colpito con curiosità un po’ sorprendente, un certo suo sincero culto di maestri e maestre, perché sono una spia di un tempo che ne ha bisogno e di un’attitudine più generale che il poeta fa sua, porta nella sua voce singolare. ed esprime, Anche in questo Giorgio Ghiotti è poeta.
La cosa che mi ha colpito sempre è come nella sua scrittura consegni al lettore uno sguardo aperto al mondo, ma come se  lo guardasse  da un retro-pensiero secondo,  da un punto di vista anteriore, appunto, che cerca puntello in un passato che fa anche da riparo proprio perché non è il suo personale vissuto, ma un passato di tutti fatto proprio.
“Si piange per un mondo che scompare” scrive Ghiotti in una delle prime poesie di “Ipotesi del vero”  e testimonia di questo suo percorso di continuità. La poesia di Ghiotti non è però un’elegia ( che in qualche modo cita un tempo esatto e accaduto) ma costruisce un sentimento dello stare nel tempo storico presente.

Da cosa nasce questo attaccamento al passato? Non rispondo limitandomi al suo caso, ma dal caso guardando alla generalità di una generazione o più d’una dei nati negli anni ‘ 90,  talmente abituata a materializzare i ricordi in oggetti e tracce visibili (foto, video) la vita vissuta – e che poi nell’adolescenza ha incontrato l’esplosione dei primi social network nel 2008 – da avere nella propria coscienza collettiva e individuale, la  sensazione di avere un lungo, intenso,  passato che al tempo stesso sfugge, perché non garantisce un futuro.
 Ecco che allora in poesia quella zona franca dal tempo (e dalla Storia) che è l' “infanzia” di cui Ghiotti riscrive il suo personale mito  (certamente è stata tra le più dorate, per bambini bianchi che nascevano in Europa a metà anni 90) facendolo diventare qualcosa che si estende alla coscienza adulta. Nessun cedimento al  fanciullino, tuttavia, ma la traccia materica di un’altrove stabile, quasi in sostituzione di utopie: anzi forse un’utopia retroversa in cui  il futuro, contraendosi fino a ridursi a buco nero, diventa sempre più  arco teso tra finzione, immaginazione, teatrale nostalgia di un passato  e una materia prima,  minuta e concreta del quotidiano presente che pure ci tocca vivere.

Questo spiega anche la scelta di un verso dal ritmo metrico scandito, attento alle misure, al suo moderato cantabile e insieme atonale, nella scelta lessicale non di rottura, non espressionista. Non esente da smottamenti, la vita si raccoglie in sequenze di “felicità parziale e provvisoria” ma a cui si sommano ricordi di un “tempo precipitato di ombre” in cui si convocano “i morti”: non solo i propri (come la sezione finale dedicata a “l’altra ragazza, mia nonna”) ma tutti, principalmente i poeti. Questa dimensione osmotica tra mondi, scrive ghiotti, abbevera “la mia immaginazione” ( questo ultimo termine ricorre più volte nel libro).

Sono ombre che tornano, ricordi di figure “giovani” che finiscono per sovrapporsi con l’età giovane dell’io che scrive, quasi che a un tempo l’io-poeta Ghiotti è giovane nel passato o quei morti sono giovani negli anni duemila. Anche i ricordi, sono coltivati non come storiografia di sé ma come “sentimento intatto” nel suo restare opaco o “illusione di doppiare/ l’innocenza del mondo”.

Muovendosi negli spazi di una geometria spesso domestica o di quartiere, fatta di cucine e dirimpettai, portoncini, gerani e cimiteri familiari come il Verano di Roma, un palazzo in cui abitano forse invisibili scassinatori, l’Io-poetico di Ghiotti narra di un mondo che vuole essere sia denso di fantasmi, immaginazione, ricordi, sia fatto di confini reali, quasi realistici. Un mondo e una vita che riescono “ad accordare un senso” al poeta ritratto nel ricordo giovane  “tutt’ossa” quando già (appunto) cercava di “dar forma a qualcosa che valga/ il lusso dolente di un ricordo, un sottocasa /serale”. Ghiotti così come metricamente e linguisticamente, costruisce una dimensione di spazio esistenziale e mentale ristretta, nel senso di ravvicinata: quello che conta è “dirsi le cose negli occhi” o “intendere vicina” un’altra figura femminile. Nel ravvicinare, sta il riparo dalla Storia verso cui non si accorda più molta fiducia,  in “questa eternità senza gloria”.
E’ il titolo di una sezione e mi sembra esprima, non solo un senso dell’esistenza generale, ma anche – come può certo farlo un poeta - una precisa posizione anche politica rispetto al sentimento dell’essere abitanti, cittadini e poeti, della città di Roma, entità socio-ambientale e culturale determinante per la poetica di ghiotti. Roma che per chi scrive, pur romano, è ormai un caso a parte nella storia di questo paese e sua cartina di tornasole.

Ghiotti tuttavia abita Roma (città “santo” scrive in una chiosa) come se abitasse un linguaggio poetico. Città che da sempre inibisce tutte le prospettive di gloria, perché troppo eccessiva in questa sua monumentalità statica, ma che consente reti interne e comunità. La principale per Ghiotti è quella dei poeti, veri, conosciuti frequentati, o vagheggiati alcuni morti. Di solito i poeti si scocciano se ad altre vengono paragonati ad altri, voci del passato, come se volessero nascere da sé. Ghiotti invece è un singolare caso di poeta della tradizione: non un poeta tradizionalista, ovvero conservatore, ma un poeta che da sempre omaggia il suo personale olimpo storico dove si va da Amelia Rosselli a Patrizia Cavalli (entrambe con dediche) ma anche altri, anche fratelli e sorelle maggiori, fino ai coetanei alcuni dei quali però dissolti giovani in epoche diverse (Beppe Salvia e Gabriele Galloni) la filiera della “scuola romana” tra ironia e disillusione, una galassia “plurale” come già scriveva Biancamaria Frabotta in un suo saggio, dove forse però – azzardo io -  “Roma” è il marchio di eternità dove nemmeno ci si pone il problema di “perdere l’aureola” alla Baudelaire. E’ come se questa folla di poeti però si muovesse spazio-temporalmente dentro il “campo magnetico” di aura di eternità, in cui prevalgono immaginazione e favola, dove tutti sono quel “santo” che è Roma (L’olimpo è ampio e scritto nelle note finali del libro).

Ghiotti interpreta questa tradizione in sintonia col suo tempo, quello di una generazione cresciute tra precarietà e nomadismo. Non manca – scrive in una poesia - il desiderio di “indubitabile promessa del futuro”. Proprio in un testo che è parte della sezione dedicata a Frabotta, spera che il fortiniano  “composita solvantur” sia esattamente quel dissolversi di quanto è composto, così che il l disordine possa succedere all'ordine, inteso come movimento che rompe la stasi.
Tuttavia, nell’universo di Ghiotti prevale la non-rottura e il futuro si spera sia  “senza furti né assedi” sia qualcosa che si può conoscere, vivere anche potendo  “tentare con slancio un onesto bilancio/ con la Storia. Anche – tenta dimessa/ una voce – se non c’è più storia? Risponde il coro dei vivi, Anche”.

Il recupero di lezioni di maestri può essere forza ma anche gabbia, questo può essere anche un rischio per lo stesso Ghiotti come autore.  Poeticamente però esprime il senso di un bilanciamento tra angoscia del dopo-Storia e assorbimento di una Tradizione, dove alla fine la poesia è strumento umano che genera sentimenti di un diapason che sostiene l’esistere, con un risonanze ampie e oppositive: per Ghiotti scrivere è fare “poesie come sintomi – felici/ e feroci, necessarie – quel tanto/ da sentirsi ancora vivi”.
Mi pare, nello stile e nella posizione di poetica, tutto molto coerente.

 
Nella “mente” che è “felice carceriera” di una  intensità ravvicinata in cui la poesia si fa strumento umano, umanissimo e comune e il comune vissuto ingloba.
Lo ingloba non senza quell’avvertenza sul sentire e vivere post-moderno di cui aveva avvertito Umberto Eco nella post fazione a “Il nome della rosa”: la condizione post  moderna è quella in cui – diceva Eco – non diremo più “ti amo” ma diremo “come direbbe D’annunzio, ti amo”. Ghiotti esprime però anche un senso di tensione centrifuga da questa non aggirabile consapevolezza, fatta anche di “formule nascoste nelle vene” che “raccontano per noi come eravamo” (ancora questo insistere di un passato) dentro “geometrie ignote di vite ipotecate” da cui “cavammo una parola, la prima forse e poi non fu più muta/ l’avventura per cui sillabammo “amore”.
Ecco Ghiotti lo scrive tra virgolette amore, come Eco, ma lo rivendica come parola primaria, parola originaria, da sillabare nuovamente come si fosse i primi, non da citare da passati codificati, come inevitabile matrice linguistica di una “avventura” (è il titolo di una sezione anche ) che è vivere.

Si tratta di un bilanciamento tra desiderio di vissuto originario e consapevolezza di poesia e vita da “postumi”. I Gargoyles medievali delle chiese sono memoria di cartoon infantile – si fondono, diventano “angeli” protettivi di una stagione della vita “fosse pure l’ultima che importa”, dice appunto da postumo.
Ghiotti procede come il moon walking, il passo di ballo morbido che gioca sull’ambivalenza di arretrare procedendo. Nella sezione “l’andare e l’addio” le due polarità che non prevedono alcun “ritorno” rilanciano verso una figura di futuro concreto, un piccolo famigliare, Pietro: a lui il poeta scrive : “Ti parlerò dei maestri” e dunque l’ossessione di quel passato diventa trasmissione in vita stavolta, passaggio di testimone verso il futuro e non solo – come per il poeta stesso – sorta di eredità e incarnazione dei morti nel corpo vivo del giovane allievo di Frabotta ,quello che  immagina sé stesso , ripensando agli anni Settanta, come  superstite “ di quello stesso mondo”. È’ un andare diverso in questa sezione.  E’ vero quello scrive Carmelo Princiotta nella postfazione: “la seconda sezione consola del lutto della prima”, forse anche un’elaborazione che porterà Ghiotti ad un addio, ad un saluto, magari anche uno strappo necessario rispetto a questo mondo dei poeti, vivi o morti che siano, su cui certo ha costruito il suo mondo poetico.

SINNO (E LATTANZI O D'ADAMO): CORPI ESTRANEI ANTILETTERARI, QUINDI LETTERARI?

Allora, lunga riflessione : il libro di Neige Sinno, “Triste tigre” ha avuto notevoli riconoscimenti letterari in Francia, è stato tradotto...