1970, VIOLENZA ILLUSTRATA
Dallo sceneggiato io non avevo capito granché della trama. Come immagino sempre i ragazzini, avevo capito l’essenziale, anche brutale: che c’era un giovane simpatico e di bel aspetto che aveva subìto un’ingiustizia e c’era uno, più adulto tipo zio o qualcosa simile (Arnoldo Foà) che era buono e lo aiutava contro i cattivi, che tiravano “le frecce nere” appunto, e uccidevano i buoni. Ricordo soprattutto Arnoldo Foà, la faccia larga e terragna dei nostri padri.
Il giovane a un certo punto si lega in questa ricerca di giustizia con un altro biondino, ma in realtà era una biondina, Loretta Goggi. La fluidità di genere non c’era ancora, ma c’era la memoria della tradizione elisabettiana del teatro sì (il mascheramento femmina maschio è comunque un classico teatrale). Ho vaga memoria qui, ma un certo turbamento, comunque, su me seienne lo fece.
Altre cose che ricordo aver capito: che l’ingiustizia è una brutta cosa.
Freud dice che è un sentimento dell’orfanità tipico di quell’età. Non so,
di fatto si stava aprendo uno iato forte.
L’altra cosa che lo sceneggiato Freccia nera radicava era che per vendicare
l’ingiustizia si può uccidere (lo pensavo come lo pensa un bambino, certo, ma
pur sempre quella è la parola: “uccidere”) Ora questo
concetto dell’occhio per occhio, benché universale e arcaico - era contemplato
dalla Bibbia ma vietato poi dal Vangelo, per dire – ritornava nella mitologia
televisiva popolare e cadeva in un anno particolare: il 1970. Si apriva un
decennio e di morti ammazzati e noi boomer bambini ne avremmo “visti” parecchi
(in realtà solo in tv, la stessa Tv dello sceneggiato, intensamente e
quotidianamente).
Morti che furono uno schiaffo
psicologico, epocale, su una fascia di ragazzini poco calcolato, a mio avviso,
dalla psicologia collettiva, un trauma diffuso, che durò oltretutto dall’infanzia
alla gioventù, per noi (una parabola che avrebbe avuto ultimi fuochi nel 1993/94,
addirittura).
Anno dopo anno, morti ammazzati sia in città (a Roma, erano introno, erano
sotto casa dove sparava una frangia della banda della Magliana) che in tv,
persone, ragazzi, spesso. A volte a decine sui treni, nelle piazze. Anno dopo
anno, ogni settimana.
Da ragazzini, in quel 1970 senza filtri e senza spiegazioni, sentivamo la voce
della tv, si “rivendicava” una giustizia (o vendetta come la freccia nera!)
però si spargeva tra noi (e gli adulti, i padri e le madri) il “terrore”.
La sinfonia di morte aveva avuto il preludio il 12 dicembre 1969, come sanno tutti (i boomer se lo portano marchiato sottopelle, è rimasto secondo me uno strano rapporto con la morte pubblica e quella privata. Quella notte nera di quei morti, gente come noi, signori adulti come i genitori, ci ricopriva con angoscia). Dopo il ricordo dell’ammaraggio sulla Luna, il secondo ricordo forte – insieme all’ombelico di Raffa ella Carrà a Canzonissima 69 – è la faccia di Bruno Vespa, la voce affannata, il bianco e nero della devastazione della Banca.
Per me (per noi?) di fronte a tutta quella morte si faceva strada qualcosa che tematizzo solo ora: il “gioco del mondo” non era affatto una roba da ragazzi della via Paal (era il terzo libro del cofanetto, pure quello non letto – lo lessi anni dopo, universitario) ma l’attività nel mondo ti raggiunge nel privato e ti uccide.
E tu pure puoi uccidere. (lo ebbe chiaro in
mente Vincenzo Cerami nel 1976, col borghese piccolo piccolo” capolavoro).
Venivano in mente reazioni di morte, una contagiosa partecipazione, sebben
passiva, di reazione, alla violenza.
Come il
giovane di bell’ aspetto dello sceneggiato era stato offeso dall’ingiustizia
d’essersi visto strappare la condizione di vita sua, e il di lui padre, dai
cattivi delle frecce nere, così noi percepivano che intorno c’erano questa
storia di vendette: cattivi che quella condizione nostra ce la volevano
togliere, bande segrete della freccia nera, e per farlo poteva uccidere persone
vere intorno a noi, anche i genitori, in specie “i padri”. (adotterò una linea
maschile non perché sia solo maschile, ma perché era così che la assorbivamo
noi maschi: il mondo era cosa di maschi, almeno dalle parti di quei contadini
inurbati come i miei).
Al tempo
stesso la vendetta arcaica, le ragioni di una giustizia, veniva pure da certe
mitologie che sentivamo intorno e come i bambini oggi assorbono tutto,
assorbivamo anche noi, solo che non venivamo interpellati .
Erano i tempi della rivoluzione comunista proclamata ovunque sui muri e dei miti guerriglieri dei Che Guevara ecc. ma pure tutto si mescolava e dunque mi pare d’essere stato (azzardo anche il plurale: essere stati, noi) preso da uno strano senso, duplice, luttuoso e sanguinario: un terrore della morte, perché ci potevano togliere i padri e il poco che avevamo (e il molto che desideravamo ) e al tempo stesso l’idea della facilità dell’uccidere, dunque anche un desiderio di ammazzare per riparare a quella ingiustizia i cattivi. Ammazzare era un verbo anche dei giochi, delle carte, era comune. (zero filtraggio correct del linguaggio).
1970 VIOLENZA EREDITATA
La morte
veniva oltre ai ragazzini da un lontano coagulo psichico, per tutto il secolo dei nonni e dei padri:
dalla Prima guerra mondiale dal fascismo (che ne fece mito della bella morte )
dalla guerra d’Africa degli zii più anziani o la seconda guerra vissuta nelle
infanzie o adolescenze dei genitori, poi la resistenza studiata scuola e nelle
cerimonie e poi le rivoluzioni e le
guerre assorbite dalla tv e da quel che c’era intorno (Vietnam e Medio Oriente su tutte). Il 900 è
stato un secolo violento come altri, ma che quella violenza l’ha rappresentata,
illustrata, moltiplicata.
Anche senza sapere nulla eravamo esposti a un turbinio di tv e di morte. Il
bianco e nero faceva il resto. Il mondo lontano era quello cupo e sgranato,
anche se la vita per fortuna intorno era un quotidiano di colori. Invece sia
il passato (le foto i filmati) e il
presente (il telegiornale o i giornali di carta) erano tutti in bianco e nero,
più grigio nero che bianco. Cupezza storica. Anni di piombo, pallottole e
tipografie.
Era come se avessimo un doppio registro percettivo. Il mondo bianco e nero (la freccia!) era violento. Il quotidiano, colorato. Crescere maschi - e qui torno e attualizzo al boomer - significava assorbire un ‘eredità di comportamenti patriarcali, si direbbe oggi, ma più ancora – in quel lasso di tempo – un vociare continuo di morte e violenza che sarebbe continuato anni.
Come maschi
che tra le varie palestre che ci saremmo dovuti sobbarcare, stava pure la
responsabilità del ruolo guida (ribadisco,
era tutto sbagliato ma noi non lo sapevamo e trangugiavamo) e anche “sentire le
notizie” metteva ancora nell’orbita dei padri e dei nonni: ai maschi toccava
lavorare e combattere, del resto il servizio di leva era attivo e così era stato da sempre e ancora non sapevamo
che non sarebbe stato così - la guerra mondiale era finita solo 25 anni prima n
quel 1970 in cui di guerre nel mondo ce n’era parecchie. Io ho fatto poi il
militare (pure ufficiale) nel 1989 e sebbene
tutto venisse giù, io ero a
difendere il confine Italia-Jugoslavia.
Dunque, bisogna prepararsi alla violenza. Oltretutto intorno per dimostrare d’essere uomo c’era un ulteriore corollario di costume, di violenza o abuso o prepotenza da bulli di strada (a Pietralata, tiburtino III) roba “patriarcale” e in quell’ epoca per molti la “vita violenta” introno era un fatto, non un titolo di romanzo. Una cultura diffusa e interclassista - e la storia del Circeo è emblematica, così come raccontata da Albinati, ne “La scuola cattolica”.
In quel mio, o nostro, 1970 si aggiungevano quindi i “terroristi” o quelli che fanno la rivoluzione, i guerriglieri (un po’ western più che politica ) e il panorama si complicava (chi erano i guerriglieri “giusti” e quelli sbagliati ? ) restando ben ancorato a questa chiara via maschile ben netta: la violenza la morte. Era – lo rivedo a ritroso, ma lo era - ingombrante, presente, pesante, quotidiano.
1970 CHI MI AMA MI SEGUA: EROS A CONSUMO
Faceva da
contrappeso in quel 1970 la pace, che durava e in cui eravamo cresciuti. La
guerra “fredda” era sempre evocata con tutto il resto. Nel frattempo però si
allargava il benessere e il desiderio delle cose materiali, che aumentava aumentando
la disponibilità, per quanto povero all’epoca come tutti (anche lì: non
sapevamo che stavamo accumulando altro tipo di morte: proprio nel 1970 si
riunisce il Club di Roma che per primo avverte della minaccia globale
dell’inquinamento e del consumismo di pace. Ma questo non lo sapevamo e l’abbiamo
capito troppo tardi).
C’era l’elemento alternativo della presenza femminile. Ma più che le madri, per
noi erano le “donne altre” sempre più presenti (e pure desiderabili in una roba
te nuova mitologia sessuale proibita e presentissima sempre nello stesso luogo
dell’assorbimento collettivo, delle sex-symbol) Era sempre
roba da maschi.
Se pur maschilista, scorreva nel cervello se non altro una corrente alternata
rispetto a quella della morte (era quella di Eros appreso però da noi
generazione boomer in modo selvaggio e apocrifo, nessuno ci ha detto nulla
abbiamo fatto tutto da soli – anche in senso manuale).
L’eros entrava in noi leggero e luminoso, di colpo, non annunciato, da un’immagine nel corpo, prima di tutto, senza linguaggio. Quando poi crescendo ci saremmo ritrovati ad entrare nel “ruolo” di maschio anche in quel campo ci saremmo portato tutto il carico di nero. Ha fatto danni una generale e diffusa autarchia sentimentale e sessuale maschile (ma pure femminile) che la generazione “boomer” effettivamente si porta ancora dietro (in questo caso concordo molti di noi questo nero ce lo portiamo, c’è chi sta provando a spurgarlo solo ora ). Ma eravamo come orfani. A casa tutto da soli, di nascosto.
1970 DIRITTI VS VIOLENZA
Tonando a
prima della pubertà, a quel 1970, diviso tra il bianco e nero e i colori della
vita, c’’era ovviamente la pace occidentale, certo del consumo come ho detto,
ma pure del progresso e dello sviluppo. Non c’era bisogno sempre di sparare per
avere diritti. Questa è una cosa che è arrivata come consapevolezza dopo, alla
fine del decennio.
Non parlerò della Legge sul Divorzio votata nell’ottobre 1970. Di fatto di grande
valore, ma più lenta nel penetrare nel quotidiano.
C’erano anche cose concrete che miglioravano la vita, da subito, ne cito una
tra tutte simbolica: noi ragazzini del
1970, esattamente quell’anno, siamo
stati i primi della storia – almeno da
quando c’erano le grandi masse lavoratrici organizzate delle industri e delle
costruzioni (mio padre era muratore a Roma) nelle città, da due secoli – dicevo,
noi figli bambini quell’anno per la prima volta quei padri li vedemmo un po’ di più, perché per la prima
volta poterono restare a casa anche il sabato.
In Italia erano stati firmati i contratti collettivi tra il 1969 e 1970, anno
in cui fu votata anche la legge giugni ovvero lo Statuto dei lavoratori.
Non c’era solo
violenza, dunque, ma anche diritti, leggi.
Qualcosa però ritorna, un reflusso psichico e negativo.
2022 IL
RITORNO DEL RIMOSSO
Oggi io sono fortunato per il lavoro, ma in questi anni ho condiviso e condivido
il destino generazionale con persone care, con amici e conoscenti, proprio
molti tra quelli ragazzini all’alba dello Statuto dei lavoratori che i diritti
li stanno perdendo ( e vedono molti loro figli non averne proprio in partenza).
Di questo
declino e di come corroda dentro, ci si
accorge solo ora che emergono i populismi che tra i boomer raccolgono consensi.
In un mondo occidentale che in media è migliorato, non tutto regge alla media e
molte disuguaglianze sono ferite, sono “quelli della freccia nera” che ritorna
e vince.
Il lavoro è una questione non solo materiale. Troppo la sinistra l’ha
identificata come questione salariale. È anche una questione identitaria. Nello
sbilanciamento di genere certo. Ma va
detto così, brutale: Il lavoro era maschile.
La realizzazione per come l’avevamo
ereditata e che per noi maschi era anche una tradizione dell’identità. Essere maschi, volenti o nolenti, significava lavorare:
maschi padri di famiglia. Un destino a
cui non ci siamo mai ribellati (mentre il femminismo trascino le donne a
mettere in discussione i “ruoli” della tradizione). Del resto, perché
ribellarsi se comandavamo noi?
Avremmo dovuto farlo, così come c’è stata una sacrosanta battaglia
femminista che ha messo assieme materialismo e identità, psicologia ed economia.
Oggi come maschi la paghiamo, non abbiamo retto l’urto del “ruolo” decaduto.
Ora per molti boomer come me, pochi forse arrivano le strettoie delle contraddizioni. Solo a pochi viene in mente che l’idea che il ruolo maschile fosse una condanna. Al tempo stesso. È tardi, anche per me costa fatica scrollare di dosso un senso di frustrazione. Figuriamoci per chi aveva “aderito”, convinto. Reagisce con rabbia perché ricorda con rabbia. Ricorda con rabbia che un c’era un sogno.
C’è di nuovo
un senso di “ingiustizia” che si è introdotto, dopo che avevamo visto gli
effetti della giustizia (sociale) e sta dilagando, ed è lì che nasce, questa rabbia.
In qualche modo è un pozzo depressivo che ci arriva non solo alla soglia dell’età anziana che non vogliamo come tutti (e tutte) accettare, ma pure in quella fase in cui l’eros, la corrente alternativa e luminosa, è calante, debole, ci sfugge (dalla potenza alla desiderabilità dei corpi ) la corrente alternata della vita della biologia che contro-bilanciava la morte fin da quel 1970 che ho preso come anno simbolo. A questo si somma la delusione, la stanchezza, la frustrazione, alimenta una rabbia distruttiva, violenta, e di nuovo: soprattutto maschile.
Quella parabola di buona vita, cominciata da “baby”, ora che siamo solo boomer la vediamo precipitare. Per molti, maschi soprattutto, non resta che attaccarsi in qualche modo inconsciamente, ad un’idea nostalgica. Non di rado poi distruttiva e rancorosa, recuperando in modo velenoso un sentimento che circolava per noi intorno all’infanzia, immersi in quel senso di morte.
La dico
semplificata: ad un mondo che ci espelle dopo averci illuso col sogno (ma anche
con la realtà di molte riforme e progressi. Benché spesso monchi) reagiamo
male. Reagiamo resuscitando in noi non un senso della giustizia, ma della
vendetta.
Abbiamo perso quel privilegio che avevano avuto per primi : essere i primi a sfuggire al destino dei padri e nonni e bisnonni e così così via: di essere nei campi a zappare. L’illusione perduta brucia di più. Non eravamo più come i contadini dei romanzi di Levi o Iovine che leggevamo al liceo e che somigliavano ai nostri nonni.
Adesso a noi,
a cui per primi ci era stato consegnato “un sogno” (ricchezza studio benessere case salute e pure
andare sulla luna) ci tocca, nel giro di un’inezia, perdere tanto a volte
tutto.
E prima di morire. Dunque, una seconda
chance non L avremo.
Nasce una reazione che è spesso violenta nel privato, di resistenza, di rabbia.
Cinismo.
Non lo giustifico, lo spiego. A chi è più giovane non è ben chiaro. La battaglia contro i boomer (ben vengano conflitti generazionali, ma conflitti veri non a parole) viene trattato come un normale conflitto di avvicendamento. Lo è in certe fasce sociali dove si è abituati a questo avvicendamento. Noi no, la maggior parte dei boomer non è la minoranza di giornalisti che ne parla. Lo dico da giornalista che fa parte della maggioranza di quelli scampati al destino della zappa.
La gran parte dei giornalisti cita a sproposito “i sessantottini “ che però furono una esigua minoranza sociale. La maggioranza allora come oggi (siamo sempre il paese con meno laureati d’occidente) sono “boomer “ che non è nato nelle case con “La Terrazza” (Scola) per dirla in sintesi.
C’è un altro sentimento più diffuso e comune di persone normali che si sono
viste consegnare nelle mani “baby” un sogno di futuro. E non c’entra la
politica, anche se per chi poi ha partecipato a esperienze politiche la
frustrazione è ulteriore. Era un sogno delle cose.
Era un sogno di certezze, soprattutto. Di stare bene. Di avere anche chissà che
(madri che sognavano figli dottori ecc. ) Poi non si è tradotto sempre in risultati. La
maggioranza ha fatto le sue vite, migliori degli avi, ma Vite normali, lavoro,
famiglia, divertimento, serenità, benessere. Era già molto rispetto a quella
vita millenaria sempre uguale di stenti di povertà di malattia e sottomissione
che era fare il contadino come i loro (i nostri, i miei) genitori. Lo dico con
l’esempio personale che altre volte ho raccontato e sta nella foto profilo: Io
faccio il giornalista, mio nonno era bracciante analfabeta. Sulla pelle di due
generazioni è passata un ‘accelerazione che ha trascinato psichismi, ma non ha
sviluppato un ‘etica nuova, una cultura come fu per la lenta marcia della
borghesia, che ci ha messo tre secoli e più (ritiro fuori un po’ di lezioni del Villari).
A troppi tra i “mediatori” (in declino) come lo sono intellettuali,
giornalisti, politici, sfugge il senso di una realtà che magari in teoria
conoscono. Il senso rabbioso dell’ essere boomer (maschio) che specie se vissuto a margini di destini e
pratiche lavorative, nelle vaste suburre, magari in qualche modo di un ceto
medio popolare, nei gusti nei consumi, più che nei redditi (conta l’immateriale
tanto quanto il salario) e non è che non voglia ora “mollare il posto”: perché “un
posto” non ce l’ha più. E un senso. (come nella canzone di Vasco Rossi).
Era una normalità di progressione, quel posto ma si va oltre l’avvicendamento
lavorativo. E c’entra anche una certa pretesa di essere “mansplaining” che
diventa “boomspalining” (spero questo lungo post non lo sia) e un ostentare “i
miei tempi” migliori dei vostri ecc. Ecco, i nostri tempi non erano affatto
migliori abbiamo assorbito un sacco di violenza e di morte, mentre certo
facevamo progressi materiali e sognavamo. Ci siamo intossicati, come del resto lo
smog che abbiamo respirato, dato che nessuno ascoltò il CluBn di Roma 1970).
2050 IL FUTURO RIMOSSO
Vedendo poi oggi come trema, come sembra fragile la condizione di tanti, come
le crisi generali rischiano ogni due o tre anni dal 2001 di farti perdere tutto
o gran parte, la cosa si aggrava. Perduto il normale e pure il sogno. Ce n’è di
che sbattere la testa. O dare le testate. È questa corrente nera che alimenta i
populismi, i rancori, le rabbie, gli egoismi, guidata da una scia maschile un
po’ allo sbando dal punto di vista esistenziale. Che nella voglia di rimettersi
nei facili schemi di giustizia, si aggrega a bande che lo illudono di riportare
la storia a quella semplicità immaginaria della freccia nera e del 1970.
Che nel vivere la propria identità sessuale il ruolo del maschile non fa che
tornare indietro e (come tutti e tutte) illudersi di fermare il tempo,
indossando maschere di un carnevale in cui finiamo per perdere anche il barlume
di quella luce di speranza (e ragione) che ci venne consegnata, senza però la
capacità di elaborare quel nuovo, divenire un “ ceto” .
Non sapevamo ciò che eravamo, non borghesi, non più contadini, eravamo una
massa indistinta che ora non è niente e non ha fatto a tempo ad essere
qualcosa, e soffia su tutte le lampade, e prepara il buio
di quando – come scrisse Eugenio Montale nel 1939 – “spenta ogni lampada/ la
sardana si farà infernale”.
Solo che ora “l’ombroso Lucifero” che un tempo era tale e scendeva “su una
prora del Tamigi, dello Hudson, della Senna” non è uno, ma sono (siamo) in
tanti, siamo tutti, sono io “come tutti” che scuoto “l’ali di bitume” di tutto
il nero (e il bianco e nero) accumulato. Indossiamo gilet di plastica, mandiamo
tutti a fanculo, assaltiamo palazzi e capitali.
E non c’è più niente, neppure un amuleto o una cipria (o forse sì in
qualche breve interspazio di amicizia privata, di amorosa corrispondenza
fragile e intermittente) che possa “reggere all’urto dei monsoni”.
In quel breve interspazio ci sarà pure un “filo della memoria” che ci
scalda in certi momenti. Quel che abbiamo certa, come boomer ( per nostre colpe ma per lo più per le ragioni o
colpe di “destini generali” che misero in moto una Storia troppo veloce e ora
ci sbatte fuori ) è che una volta consumata la nostra morte, rotolate le nostre
teste o deposte in pace nelle bare, resta a chi ci avrà sbattuto fuori e fatto
il funerale la sfida più difficile :
ridare equilibrio, senso (giustizia?) al senso di sconfitta che ha bruciato
noi, ma riguarda tutti.
noi lo lasciamo come colpevole dannazione nell’aver fatto poco e nulla (io
stesso alla fine di quei settanta in cui entravo a fare la politica ero minoranza
e poi dagli anni 80 e 90 sono stato sopraffatto dal Riflusso che molti miei coetanei hanno accolto applaudendo.
non so se volete considerare i nati nei primi anni 70 come Boomer, cari ragazzi
e ragazze, ma considerate che i nati tra il 1970 e il 1975 - oggi tra i 47 e 52 anni e che avevano 20-25
anni nel 1994, hanno votato al 75 % per Berlusconi per la Destra.
Se dovete proprio cercare un nemico storico dell'immobilismo che oggi ci soffoca, cercatelo anche dopo la fascia dei nati negli anni '60 (nel 1975 il 75% dei ragazzi votò PCI).
Resta l’eredità del Club di Roma
inascoltato e a seguire di tutti i forum mondiali sociali e dell’ambiente. È finita male, per noi. Ci verrebbe da dire sempre
con Montale : “una storia non dura che nella cenere / e persistenza è solo
l’estinzione”.
Chi ribalterà il senso di questa storia?