Incipit. “In un
angolo del soggiorno di Molotov c’è una lanterna magica. Dando le spalle alla
finestra affacciata sul vicolo Romanov, giro la manovella di ottone della
lanterna e attraverso il vetro sbircio dentro l’obelisco di mogano che mi
arriva alla vita. Immagini scolorite si succedono con un clic del meccanismo
girevole.”
Contenuto e stile
. Rachel Polonsky, studiosa inglese del
mondo slavo, arrivata in Russia per scrivere un saggio scientifico e decisa a
fermarsi a Mosca solo diciotto mesi, ci è rimasta per dieci anni , seguendo
anche la voce delle proprie radici personali. Viaggiando per tutto il paese, lo
ha esplorato in modo non sistematico ma capillare fino al dettaglio. Ha
raccolto storie di luoghi e persone tra Mosca e terre lontane, legate soprattutto al periodo degli anni di Stalin, anche
risalendo ad aneddoti sulla vita di Čechov
e Dostoevskij e Pasternak, passando per i poeti Mandel'štam e Cvetaeva, e
raccontando tantissimi altri personaggi, comprese persone comuni, come la
folla di frequentatori per decenni delle
terme di Banja Sandunov, fino ad arrivare a brevi ma taglienti, ironici
ritratti della nuova oligarchia ignorante della Russia di Putin.
Polonsky si è lasciata guidare
dalla ragnatela di intrecci e riferimenti, anche casuali, a cominciare dalla
scoperta che l’appartamento di Mosca dove sarebbe andata a vivere,
all’inizio del Duemila, era appartenuto
a Vjačeslav Michajlovič Skrjabin, noto
come Molotov. E la studiosa parte da questa
figura controversa - uno dei principali
rivoluzionari bolscevichi, unico tra questi a sopravvivere alle fucilazioni di
Stalin, e divenuto suo braccio destro negli affari internazionali come nelle
purghe – e dai suoi libri e documenti, conservati ancora
nell’appartamento per un viaggio nei meandri di un periodo terribile e oscuro. Assieme ai libri, nell'appartamento di Molotov c’era una lanterna magica, che diventa solo il pretesto
per iniziare a seguire il filo delle ombre tra realtà e magia, inseguendo vite
febbrili e tragiche, testimonianze di vittime, figli, sopravvissuti, in un montaggio
delle memorie che segue il destino di scienziati e letterati
russi, per lo più perseguitati da
Stalin ( ma i loro libri erano, ironia tragica della storia, nella biblioteca del suo ministro). Un resoconto
di un’epoca, basato su migliaia di documenti usati con grande perizia
filologica, priva di pedanteria, e anche su un viaggio reale : dalle dacie
degli scienziati in Finlandia, Polonsky ha
attraversato “tutte le Russie” toccando molte città e villaggi tra cui Murmansk,
Rostov, Irkutsk, Staraja Russia, Vologda
e poi la Siberia, il fiume Don e ancora
Mosca.
Una psicogeografia di una terra ricostruita rovistando nelle macerie
reali e metaforiche di una storia politica e culturale segnata da orrore e da
gloria. “La lanterna magica di Molotov” è un libro davvero inclassificabile, ma
affascinante e bello, che sarà
maggiormente apprezzato da chi vuole approfondire le vicende delle persecuzioni
interne nel periodo staliniano o ha amato “Vita e destino” di Grossman o “ I racconti
della Kolyma” di Salamov e da chi vorrà sapere di più dei luoghi simbolici
della Grande Madre Russia, una terra di vangelo e rivoluzione, di fervente
cattolicesimo ortodosso e crudeltà sanguinarie, di sofferenza e indifferenza,
di grandi poeti e di miserabili criminali.
Pregi e difetti. Sono
gli stessi della Russia o dei suoi grandi romanzi: ci si perde, si confondono i
nomi, si mescolano leggende e realtà, si
sprofonda nel terribile ma si ama il suo sublime, e alla fine si è saturi di personaggi e luoghi ma resta addosso una sensazione di ebbrezza
febbrile e follia.
Incipit. “Le cose
vanno male, certo. Eppure tu saresti partito, e tornato a casa quando
l’abbraccio del mondo si fosse fatto troppo poderoso. Invece non è andata così,
perché le cose vanno male in una loro maniera misteriosa e crudele, e fanno si
che contro di loro si infrangano tutte le illusioni di lucidità. Sei partito,
il mondo non ti ha abbracciato, e quando sei tornato non ti sentivi più a casa
tua”.
Trama. il
protagonista e voce narrante - ma che parla a sé stesso con un “tu” nel flusso
della scrittura - ripensa la sua storia, prima di ragazzo nato e cresciuto in un paese
dell’interno della Corsica, percepito come una tomba da cui fuggire. Solo l’amore fugace ed estivo con Magali,
venuta in vacanza come ogni estate o le scorribande a caccia di merli con l’amico
del cuore Jean-Do sono attimi felici di un’adolescenza magica. L’occasione
della fuga sarà prima la vita militare, poi l’ingaggio come mercenario in Iraq
insieme al suo amico fedele. Sarà un
viaggio all’inferno in cui il protagonista perderà anche l’amico. in parallelo
Magali, mai più tornata in Corsica, è
diventata manager in un’azienda di
cacciatori di teste e la sua sola dimensione è un’altra guerra, quella della
competitività a tutti i costi. Tornato a casa, di quel ragazzo felice non resta
nulla, il suo mondo è sfaldato e l’orrore attraversato in guerra lo divora. Tenterà di ritrovare un appiglio i quei giorni
felici da ragazzi, cercherà Magali, che ritroverà a sua volta in lui una chance per uscire dal tunnel di
solitudini e orrore da colletti bianchi.
Sarà per loro una disperata, dolorosa ricerca di senso, altrettanto
fugace e fragile come il loro amore giovanile, intorno nulla sembra avere però più senso, nemmeno
questo loro tentativo.
Stile. Jerome
Ferrari, premio Goncourt nel 2012, già nel 2008 mostrava con questo libro le sue doti di
scrittore. Qui lo straniamento esistenziale che invade il protagonista e il
lettore è reso proprio grazie all’abilità di Ferrari nel saper
condensare in 117 pagine una storia a più strati e profonda. La fine di un
mondo contadino, l’impalpabilità dell’amore, lo spaesamento di individui soli, la guerra contemporanea e il sistema delle
aziende e del lavoro, accumunati dalla medesima privazione di speranza: tutti
temi toccati con l’escamotage di un monologo interiore condotto con la seconda
persona dalla voce narrante del protagonista, ormai tornato a casa. Lo stesso Ferrari
fa con l’altro personaggio femminile, Magali, fino a fondere in un’unica onda
narrativa di grande fascino queste due solitudini. Stessa caustica capacità anche
di rendere con poche immagini o frasi, precise, poetiche le illuminazioni del
protagonista sul mistero terribile e grandioso della vita anche quando è
intrisa di morte. Tutto ciò però non trova
riparo in nessuna casa, in nessun luogo originario, in nessun amore.
Pregi e difetti.
Libro bello, amaro. Con una durezza
forse esibita, forse necessaria. A
tratti insostenibile in certi passaggi la violenza, pure oggettiva, a tratti commovente nel saper trasmettere
pietà di fronte alla ferocia. Quella eterna dell’anime come dell’uomo, non
differenti, quella eterna di Dio verso tutti. E che pure è amore, indicibile.
Romanzo che pretende un lettore attento, che segua l’onda del fluire della
scrittura che non sia in cerca di facili.
consolazioni.
estratto
pag, 20..."Prima che l'ubriachezza rendesse irriconoscibili le tue nostalgie hai pensato che niente ti avrebbe fatto più piacere del rivedere quel paese da cui spesso avevi desiderato scappare. Sei voluto tornare per ritrovare qualcosa che forse in quel momento avevi già perso, perso per sempre. Hai continuato a bere e le cose sono state tremendamente chiare, hai valutato la portata vertiginosa della sconfitta che sarebbe arrivata e della tua impotenza, e ti sei detto che se avevi un minimo di coraggio e compassione saresti effettivamente dovuto tornare a casa senza far rumore, mentre tutti dormivano, e piazzare una pallottola nella nuca di tua madre e una nella nuca di tuo padre, poi passare di casa in casa armato di coraggio e di amore per ammazzare i vecchi,sgozzare poppanti nelle proprie culle e i genitori nel tepore del letto coniugale e tutti i bambini uno per uno, e trafiggere il cuore palpitante delle ragazze perse nei loro sciocchi sogni."....
Sentimenti da cartavetro passata sul rovescio della pelle. Ferrari Premio Goncourt per l'affascinante altro libro, "Sermone sulla caduta di Roma" del 2012
Sulla mia tomba vorrei scrivere ‘Fu un elettronico mancato’ ”. Per fortuna sarà sempre come è un grande attore, ma non soltanto. Scopriamo dal suo scoppiettante e profondo libro autobiografico “Sono ancora un bambino”, curato da Gabriella Greison e pubblicato da Longanesi, che Giannini perito elettronico lo è davvero e continua a farlo per hobby così come è inventore, fotografo, pittore, cuoco instancabile .
L'anticipazione della video-intervista a Giancarlo Giannini, uno dei più grandi attori italiani che racconta in un libro i molti aspetti della sua vita. “
Versatile e istrionico non soltanto sul set, a teatro e in sala doppiaggio, travolgente nel quotidiano, nel privato, come quando lo incontri percepisci subito l’energia incredibile che gli è valsa pure qualche malalingua che lo voleva drogato perché troppo iperattivo. E questo come mille aneddoti, dettagli sono contenuti nel libro: le amicizie indelebili e profonde nate con il lavoro con Lina Wertmuller e Fellini, Mariangela Melato (“eravamo fratello e sorella”) e Vittorio Gassman, ma anche Marcello Mastroianni e Ugo Tognazzi, per i quali viene qualche volta ancora oggi scambiato e lui, paziente, affettuoso vero il loro ricordo, non delude la fan e firma col loro nome gli autografi.
E’ conosciuto negli Usa come grande attore ma anche come “King of pesto” da quando ha raccontato in TV la sua ricetta per il sugo freddo libgure e da allora la sua ricetta spopola. Negli USA – che considera la sua seconda terra amata, in particolare l’Arizona dove per un periodo voleva addirittura trasferirsi – è attore amato e voluto da grandi registi – e talvolta mancato, per i troppi impegni – e da colossi del cinema come Billy Wilder, Francis Ford Coppola, Ridley Scott. E gli incontri a non finire, l’amore per un mestiere che arriva fino alla passione nel dare voce ad Al Pacino e Jack Nicholson e all’attività di regista e insegnante. Per fare un Pasqualino settebellezze ci vuole insomma un Giancarlo mille curiosità. Con l’ inesauribile energia dei mattatori e dei bambini che giocano
E' uscita ieri la recensione su RSera la versione Ipad di Repubblica per IPad in abbonamento, a "Il cecchino paziente" di Arturo Perez-Reverte ( da Rizzoli)
La trascrivo qui
Incipit. “Erano
lupi notturni, cacciatori clandestini di muri e superfici, bombardieri
impietosi che si spostavano nello spazio urbano, cauti, sulle suole silenziose
delle loro scarpe da ginnastica. Molto giovani e agili. Uno alto e l’altro
basso. Indossavano jeans e felpe nere per camuffarsi nell’oscurità: quando si
spostavano nei loro zainetti macchiati di pittura tintinnavano le bombolette
provviste di tappini adatti a pezzi rapidi e di scarsa precisione. Il più
anziano dei due aveva sedici anni.”
Trama. Alejandra
Varela, detta Lex, critica d’arte esperta di writers, viene incaricata da un
importante editore di realizzare un catalogo dei lavori di Sniper, la leggenda
dei graffitisti spagnoli e non solo. Naturalmente dovrà scovarlo, inseguirlo
nei territori di confine urbani, stanarlo dietro il muro di protezione dei suoi
tantissimi seguaci, cercarne le tracce su internet. E poi, se lo troverà, dovrà
convincerlo a passare dall’altra parte della barricata e a diventare “un
artista” conosciuto in tutto il mondo e adeguatamente pagato. Lex si avventura
in una caccia all’uomo tra Madrid, Lisbona, Verona e Napoli, attraversando un
mondo che è un mix tra gruppi paramilitari, integralisti della purezza del
gesto urbano senza compromessi, fanatici del messaggio sui muri. Ma a cercare
Sniper non è solo il mondo dei galleristi milionari. Lo cerca anche un potente
uomo d’affari spagnolo, con tutt’altre intenzioni: suo figlio, infatti, è morto
cercando di realizzare un’azione che Sniper aveva indicato come obiettivo su
internet. L’inseguimento porterà a una rivelazione e a un regolamento di conti
sorprendente, proprio nel nome di una purezza impossibile.
Stile. Preciso,
analitico, ben strutturato, è in parte un giallo-caccia all’uomo, in parte un romanzo-affresco sulla storia di
un’arte urbana che è anche fenomeno sociale. Perez Reverte guida il lettore con
la consueta perizia del dettaglio. I vari personaggi gli forniscono l’occasione
di raccontare un movimento, le sue azioni e la sua morale, e di spiegare il senso
di dipingere sui muri o fare delle semplici tag come se ne vedono ormai in ogni metropoli
globalizzata.
Pregi. Non è un semplice giallo,
anche se ne ha la forma. È anche una sorta di reportage narrativo (l’impronta del grande inviato di guerra
rimane) su gruppi metropolitani
underground e aiuta forse a comprendere mentalità radicali dell’antagonismo, non
solo nel campo dei writers.
Difetti. Al
contrario, potrebbe deludere chi cerca un semplice giallo passatempo – o il
lettore di Reverte abituato ai suoi gialli-romanzi storici che, pur molto
precisi e dettagliati, sono più densi di azione.
Lo hanno sempre chiamato traditore. Da bambino per aver fatto amicizia con un poliziotto inglese, nel '67 per aver proposto da subito uno Stato per i palestinesi e ancora oggi, quando difende questa posizione, nonostante Hamas, gli attentati a Gerusalemme come l'ultimo, di poche ore fa, e le minacce dell'Isis. Ma per Amos Oz, uno dei più grandi scrittori israeliani, da sempre in testa alle classifiche dei toto-Nobel, essere chiamato traditore non è un'offesa se il tradimento è il coraggio di cambiare posizione o la fedeltà a un'idea.
"Solo chi esce fuori delle convenzioni della comunità a cui appartiene è capace di cambiare se stesso e il mondo", ha detto di recente. Ed è questala tesi che scorre sotto il suo nuovo romanzo, Giuda (Feltrinelli). Protagonista Schmuel, uno studente che ha realizzato una tesi su Giuda visto da una prospettiva ebraica. Nell'inverno del '59, rimasto senza soldi e senza fidanzata, si ritrova ad accettare vitto e alloggio da un vecchio studioso che ha partecipato all'epopea fondativa dello Stato nel 1948, amico di Ben Gurion, rimasto solo dopo aver perso il figlio nella guerra arabo-israeliana. In cambio dovrà fare da spalla alla gagliarda verve dialettica dell'uomo. In casa una donna, Atalia, matura e molto bella e misteriosa. Si occupa dell'anziano, si rivelerà essere la figlia di un'altra figura storica, un dissidente, indicato anch'esso come traditore perché da sempre contrario alla fondazione di uno Stato. Ne nasce un singolare triangolo di discussioni sulla religione, la politica, la figura di Giuda e su Israele e il conflitto con i Palestinesi. Un romanzo di passioni, in cui la politica e la Storia si intrecciano a sentimenti umani come la lealtà e il tradimento. Incontriamo Amos Oz a Milano, è uno degli ospiti di Bookcity.
Quello del tradimento è un tema particolarmente sentito, per lei. "Me lo porto dietro da sempre. Avevo 8 anni, mi trovavo nella Gerusalemme ebraica sotto amministrazione britannica, divenni amico di un sergente britannico. Io gli insegnavo qualche parola di ebraico, lui mi insegnava qualche parola di inglese. Gli altri ragazzini cominciarono a dirmi che ero un traditore, perché parlavo con 'l'oppressore'. Da allora sono stato chiamato molte volte traditore dai miei concittadini ma non mi sono mai offeso. Credo d'essere in buona compagnia, ci sono uomini che vengono considerati traditori solo per il fatto che non avevano paura, non erano codardi, avevano il coraggio di cambiare". È quello che succede al padre di Atalia, che avvertiva Ben Gurion di non dar vita a uno Stato ebraico perché nazioni e confini si portano dietro sempre conflitti. Anche lei pensa che lo Stato ebraico sia stato un tradimento del sogno della terra promessa? "Il mio è un romanzo, non è un manifesto. Ci sono tre o quattro voci, ognuna con idee molto forti, ma diverse tra loro. Quella espressa da Abrabanel, il padre di Atalia, non è maggiore delle altre, ma solo lui fa questa proposta. Se io avessi voluto dire la stessa cosa, avrei fatto un saggio o uno delle centinaia di articoli che ho scritto sull'argomento. Atalia dichiara che suo padre non apparteneva al suo tempo, era nato o troppo presto o troppo tardi. L'idea di Abrabanel, di un mondo senza Stati né confini né eserciti era molto bella, ma se fosse passata quella, Israele non sarebbe mai esistito e, solo per fare un esempio, non solo tutti quelli in fuga dall'Europa per paura della Shoah, ma anche le centinaia di migliaia di ebrei che vennero dall'Iraq sarebbero rimasti lì e oggi sarebbero stati massacrati dall'ISIS così come sta succedendo ai curdi e ai cristiani". Uno Stato era necessario all'epoca, uno Stato dovrebbe essere necessario oggi per i Palestinesi. Sia i palestinesi sia gli israeliani oggi non hanno un'altra terra, un posto dove andare. Perché tuttavia non si riesce a convincere la maggioranza degli israeliani? È davvero solo la paura? "Qui stiamo uscendo dal romanzo per parlare di attualità (il romanzo è ambientato nel 1959, ndr), continuo a pensare che uno Stato indipendente palestinese sia l'unica soluzione al conflitto ma viene ostacolata dai moltissimi militanti fanatici, da una parte e dall'altra".
Tornando al romanzo. Shmuel è un giovane studioso del cristianesimo e di Giuda, che lui ritiene non un traditore, ma appunto il primo cristiano e addirittura il migliore. Perché? "Il tradimento di Giuda è stato l'evento scatenante dell'antisemitismo da parte cattolica. Giuda è sempre stato sinonimo di tradimento, in tutte le lingue. Ma ci sono molte incongruenze anche nel racconto: Giuda era ricco, che se ne faceva di 30 denari? Poca roba, al tempo. E il bacio non serviva, Gesù predicava a Gerusalemme, tutti lo conoscevano, per arrestarlo non c'era bisogno del bacio. La storia non sta in piedi. Invece Giuda crede che Gesù sia Dio e proprio per questo provoca la sua crocifissione, questo sì, ma come un compimento della sua missione divina, perché Giuda credeva in questo più di qualsiasi altra persona".
Le diverse voci e posizioni di cui parlava rappresentano una metafora del dialogo necessario all'interno della comunità ebraica di Israele e non solo? "Non amo che i romanzi siano considerati metafore complessive, univoche. I romanzi raccontano la vita, le cose grandi e le cose semplici, la viltà e il tradimento, tutto il resto, le questioni generali, sono sullo sfondo".
Parlando di sentimenti, nel romanzo c'è pure una storia d'amore: se esiste una forma positiva di tradimento delle idee, si può estendere questa possibilità anche all'amore? Anche in amore c'è un tradire positivo? "Talvolta sì, ma non si può generalizzare. Tutti noi siamo dei traditori qualche volta, ma agli occhi di alcuni e non agli occhi di altri. In questo romanzo l'amore che viene tradito, ma in senso 'positivo', è quello del protagonista Schmuel verso i genitori. Per un intero inverno il ragazzo tradisce madre e padre e lo fa per crescere. Si tradisce sempre la propria infanzia per crescere. E poi penso che una persona non possa amare il proprio Paese se non ne visita un altro, non possa amare la propria lingua se non ne impara un'altra e non riesca a capire l'amore vero se non quando ama la seconda volta".
Un personaggio del libro parlando di Israele dice: due popoli che amano la stessa terra sono come due uomini che amano la stessa donna, ci sarà sempre odio tra i due. "Succede dappertutto, non solo in Israele. Con una differenza: due uomini che amano la stessa donna non possono arrivare a un compromesso, invece due popoli che amano la stessa terra sono come due uomini che hanno una stessa casa: possono dividerla in due piccoli appartamenti e arrivano a un compromesso".
Con quello che sta succedendo, la rimonta dell'odio, il proselitismo dell'ISIS, lei continua a essere ottimista per il futuro? "È difficile fare il profeta, specie per chi come me viene dalla terra dei profeti. Tuttavia, conoscendo il Medio Oriente da 75 anni, posso dire che da noi quando uno dice 'mai' o 'per l'eternità' di solito intende un periodo che va da sei mesi a trent'anni".
Il tema e l’icona della “Sposa” si ripropone in questi
giorni con due opere di autori italiani, a metà tra denuncia e testimonianza di
realtà, che diventano anche simboli di un tempo storico, attraverso
un’operazione artistica.
Da un lato c’è “La sposa”
(Bompiani) il nuovo libro di Mauro Covacich, una raccolta di
racconti intrecciati come un romanzo di storie parallele e in qualche caso
comunicanti, che ruota attorno alla fiducia verso il futuro, alla scelta di non
generare figli – come sintomo di sfiducia, di egoismo narcisista o come estremo
realismo? – e che si apre con il racconto che non a caso dà il titolo al libro:
quello del viaggio di Pippa Bacca, vestita da sposa, verso oriente, un viaggio
che era anche un’operazione artistica, un‘installazione in movimento – e che si concluse in modo
tragico con la morte dell’artista, uccisa, violentata, con una crudeltà che nessun teatro del 900 potrà mai
eguagliare, perché davvero conferma che
negli immediati dintorni delle nostre
illusioni c’è la strage, vera, e di
queste, pure.
Dall’altro lato c’è “Io sto
con la sposa”, un film di A.
Augugliaro - G Del Grande – K. Al Nassiry, che svolge, purtroppo in modo incompleto e poco riuscito,
un’idea invece molto interessante, soprattutto per la sua carica simbolica. E
di questa idea ci interessa parlare più che del film in sé – l’idea, infatti è
quella di accompagnare un corteo nuziale di clandestini in viaggio attraverso
l’Europa dall’Italia, dove sono sbarcati, alla Svezia, Paese desiderato, loro terra promessa, nella
speranza che nessuno voglia fermare un corteo nuziale e una sposa vestita di
tutto punto. Al di là della retorica,
della debolezza drammatica e
drammaturgica con cui poi si
declina questa intuizione (spacciato per documentario, in realtà opera di
semi-finzione, solo in parte, e la sposa innanzitutto,profughi) resta la carica simbolica perché dentro
quell’incarnazione – la sposa da terre altre, lontane e da altre culture – è
proprio l’immagine capovolta di quella fetta
di Occidente che non fa figli di cui racconta
Covacich.
La Sposa è un’icona di lungo corso e con il diffuso
benessere e con una certa globalizzazione del rituale “in bianco” secondo il modello
occidentale, e complice forse il cinema,
disney e i media dei “matrimoni reali”
ecc, è diventata anche un’icona diffusa. Si sposano
in bianco e all’occidentale un po’ dappertutto, anche in certe realtà
islamiche, così come in Oriente, specie
nei ceti medi più consapevoli e occidentalizzati.
Il cinema alimenta l’icona e se ne nutre . Così ecco che in
anni recenti abbiamo visto (sottolineati, a dire il vero dai titoli in
traduzione italiana , ma la sostanza dei personaggi resta) sia una sposa
“turca”, con cui Fatih Akin narrava l’integrazione turco-tedesca, sia una
“siriana” con cui il regista Eran Riklis mostrava conflitti meno noti della galassia
mediorientale e drusa in particolare, e poi anche una sposa “promessa” con cui la brava regista israeliana
Rama Burshtein illustra pieghe interne del suo paese, specie nella
sua componente ultraortodossa.
Parliamo di Icone, ma le Spose ( e le conseguente immagine
della Maternità correlata ) sono realtà, sono due tendenze della realtà.
Da un lato, un Occidente occupato a consumare e celebrare la propria opulenza
narcisistica in eccedenza, in autoerotismo
da troppe merci, troppo concentrati su questo piano del piacere individuale che
si riflette poi in uno stile di vita altrettanto individualistico – e dunque
con inevitabili riflessi demografici –
fare famiglia e figli è mettere da
parte per il futuro, in una
redistribuzione su più generazioni della
ricchezza, un “comunismo dell’avvenire”.
C’è più di un segnale che possiamo vedere intorno a noi: uno, le tante donne
migranti con figli o incinte negli ospedali; e l’altro, un’immagine fortemente
simbolica, secondo me: le carrozzine piene di rifiuti, esse stesse buttate via,
il loro mancato riuso per altri figli che non arriveranno di quei
passeggini che invece vengono riciclate dai
tanti nomadi o altri raccoglitori di immondizie da riciclare, appunto: guarda
caso, razzolando dentro in ostri eccessi, negli scart idi quella società
tendente all’individualità radicale, c’è più monnezza che bambini, insomma.
Figli da spose migranti, non figli da occidentali stanziali.
sul varco tra Occidente e Non-Occidente, sono questi due movimenti – e movimenti legati alla
maternità e per estensione (generica) alle spose -
che mi colpiscono, nella
coincidenza d’uscita tra il libro di Covacich e il film di Del Grande e soci.
Al contrario del film, il libro dello scrittore triestino è
un dispositivo narrativo ben riuscito, anche e proprio nel suo essere
sperimentale, sincero, lucido. Dico dispositivo perché Covacich prosegue nel
suo tentativo di creare e integrare letteratura mescolando situazioni esistenziali
autobiografiche con spunti di reportage e con invenzioni narrative, inseguendo
l’assoluto singolare ed esemplare al tempo stesso, mettendo assieme finzione,
autobiografia, giornalismo.
Seguiamo così Pippa, la sposa-artista, non
a caso nel pezzo in overture di libro: la sua operazione difficile da definire.
Andava, fisicamente, verso il medioriente, vestita da sposa, come corpo gettato
in una missione d’arte: “una cosa
esposta” dunque, lei stessa sarà l’opera e insieme “la metonimia dell’opera, cimelio di una
missione ecumenica” come scrive Covacich. Non la missione di colonizzare
religiosamente ma forse quella che ogni arte mette in atto: ovvero creare un “eros
generatore” di idee, immagini, simboli, tentando di inseminare un corpo resistente e
renitente. Ma fallendo, almeno per questa volta, con la povera Pippa Bacca
aggredita e uccisa, con dolore.
Un dolore molto diverso da quelle donne-artiste
che si sono esposte in video, o con installalzioni o con operazioni chirurgiche
, che si sono fatte appendere ai ganci la loro carne nelle biennali. Loro erano
donne che usando in modo così diretto e doloroso il loro corpo ma in scena, sulla scena dell’arte
creavano, come scrive Covacich, “soggezione e scandalo, gli stessi sentimenti
provocati dal Cristo sulla croce”. Tuttavia Pippa esce da quella scena riparata,
sotto i riflettori. Sottratta la scena, resta una “missione per la quale si è
deciso di prendere i voti” e il sacrificio e il supplizio si riavvicinano ad un
esperienza totale. Non cercata, ma di fatto totale.
Nel libro di Covacich c’è anche un racconto che illumina una
sorta a di “ecce homo” neonato, ovvero l’esposizione
dei figli abbandonati in una moderna “Ruota degli esposti” di periferia. Qui in
un ospedale romano Covacich coglie, durante un reportage, una storia
alternativa di maternità e cura dei neonati, in una diversa triangolazione
tra la madre naturale che abbandona,
l’ospedale moderno di Roma che usa “la ruota” e una nuova “ragazza Carla”, un
impiegata dell’azienda sanitaria, avvolta in una sua depressiva solitudine,
estenuata da una madre pressante e dall’ennesimo maschio fluttuante e fuggitivo.
E’ Carla a trovare il bambino abbandonato, e per un attimo è questo figlio- ready made a dare luce di
possibilità, per lei che non riesce a creare una famiglia perché ogni volta con
gli uomini è la stessa storia: “nemmeno
stavolta è andata bene, sarebbe bastato uno meno stronzo... e invece la
felicità se la spartiscono tutti questi che scendono dalle macchine salutandosi
da lontano, e a lei non resta più niente”. invece l’attimo di un abbraccio e
una generazione traslata – abbandono, ruota degli esposti, ospedale, comunità –
mettono Carla nella possibilità di partecipare a quella irriducibile opera che è la vita che
prosegue e si genera nel tempo. E diventa Tempo e Storia, storia non solo bambini. Così ancora, per vie
indirette, il futuro nell’amore di un nipote con cui l’io narrante-autore gioca
a freesbee lo rende palpabile, immediato, un richiamo della vita inesplicabile
in questi squarci di racconti intitolati non a caso “miei non-figli.
Sono questi adulti di una generazione benestante e occidentale che tende a fare
meno figli ad essere abbandonata a sé stessa. Noi siamo impegnati a
mascherarla, questa condizione. Dovremmo svelarla , proprio grazie all’arte che
l’avrebbe dovuta illuminare.
Qui si pone un intreccio di paradossi, perché invece l’arte quasi alimenta
un’ipocrisia narcisistica, un fraintendimento narcisistico e Covacich lo fa da
letterato ma anche da artista che usa altri linguaggi, non necessariamente
verbali e di scrittura, come è naturale per uno scrittore.
Covacich richiama anche l’arte figurativa, come aveva già fatto in altri
romanzi. E qui è necessaria un breve deviazione: l’irruzione dell’arte e
dell’estetica nella vita è stato il
lungo percorso di un secolo passato, quello in cui alla fine c’è stato il passaggio di testimone tra le avanguardie e le masse,
ma con non lineari risultati. Il 900 di
Duchamp pensava di far esplodere il paradosso, di rompere gli schemi, di
uscire dal museo e rientrarci poi con
sottobraccio un Grande Vetro, sposare nel museo
opera e vita, di nuovo. Ma ha avuto anche un secondo effetto, ovvero
l’estetizzazione della vita medesima, vissuta come opera d’arte e come DENTRO
un’opera d’arte, dentro un film, confondendo piani di finzione e di realtà. Il situazionismo e l’uso di
questa modalità nel marketing contemporaneo sembrano rappresentare questo
paradosso.
Il situazionismo e l’uso di questa modalità nel marketing contemporaneo
sembrano rappresentare questo paradosso.
Un piccolo sintomo, il fenomeno del selfie
CON l’opera, guardando l’obiettivo, non guardando l’opera (qui vedete una
visitatrice proprio non a caso con
l’opera “La sposa” di Duchamp). Se ne annulla
ogni effetto di comunicazione di dialogo tra noi ed essa: non è l’opera che ci
dice qualcosa ma un Ego ipertrofico che dice ad un altro Ego “ehi guardami sono
qui”. Specchiandosi.
Ecce
mihi. Sono qui ! con l’opera! - che non
ha più funzione critica, un-umlich, non-famigliare. Basta non guardarla, alla
lettera. Annullarla: non la so interpretare, so solo che l’opera è una cosa
esposta che vale soldi, è famosa – e IO
VALGO con essa.
L’arte è uscita dai suoi perimetri e ci invade, ognuno di noi costruisce sé
stesso come vivesse inconsciamente in un’esposizione artistica, di fiction, di
grande bellezza.
In tutto questo c’è uno specifico italiano e c’è stato forse anche un punto omega che non abbiamo capito, un
apice in cui tutto questo falling down
è iniziato, forse è stato quel momento storico dei primi ’90, in cui si colloca un altro racconto di
Covacich, quello dedicato ad Alessandro Bono e alla sua esibizione a Sanremo,
nel 1994. In quella serata di gioventù e fiducia in sé e nel futuro di chi
allora giovane guardava la Bono in tv, deriso per le sue stecche e per una
canzone trash, riceveva la visita dell’omino gobbo di Benjamin: dentro la
canzone banale, la profezia: “La risposta amore mio è nascosta nel tempo/ e ogni
giorno che va via è un quadro che appendo” cantava il povero Bono, suicida da
lì a poco. Covacich narratore se ne rende conto solo vent’anni dopo: era vero, i
giorni – scrive – “se ne vanno a
frotte... inghiottiti dalla fame di futuro”.
La bocca divora il
tempo e tutto viene espulso, resta il presente, ci si preparava allora, 1994 a
quella leggerezza che durerà vent’anni e
porterà fino alla nevrotica allegria sterile
dei cinquanta anni, a questa sterilità
senza desideri, parafrasando Peter Handke.
In quel momento però tutto appariva come dato, il possibile non era futuro,
costruzione, ma doveva essere il dato di ora, qui. A noi, alla nostra
generazione (io sono del 1964) quella del baby boom anni 60, toccherà la nemesi
di raggiungere nel pieno dell’ eta fertile e adulta, nel 1995, il picco di sterilità più alto, toccando il
punto più basso della natalità nelle stime demografiche del secolo. .
Oggi 2014 stiamo toccando di nuovo quel
punto. E’ il totalitarismo del presente. E ogni
giorno appendo a al presente il quadro di me stesso.
Non da costruire per il futuro ma da vivere ADESSO, come il corridore del tapis
roulant non corre verso il traguardo, ma corre sul posto.* Quella degli anni 90
trentenne e oggi come Covacich al traguardo dei 50 è stata la prima
generazione forever young. Saremmo
andati a cercare (liberi ormai del tutto da minacce di guerre, fatti gli
accordi Salt e finito il Comunismo) nel piacere
e su tutti quello sessuale, ormai scisso dalla riproduzione, quella gioia di vivere, – celebrando e rivendicando
l’edonismo post-reganiano . L’ Eros che tuttavia nascondeva il pericolo di diventare altro dalla libertà, forse
merce, simulacro di un “Secol superbo e sciocco” direbbe Leopardi della
Ginestra.
Eravamo un’installazione storica di noi stessi, del nostro benessere. alimentavamo
nella vita un’estetizzazione di noi stessi. Le installazioni d’arte – quelle nelle biennali – ci rimandano
(purtroppo) anche questo vorticoso narcisismo. Del resto la stessa attività del
fitness è tale – è una sorta di
reality del nostro corpo in auto-evoluzione, in auto-re-birthing.
E non è un caso ( complicando i
riferimenti) che anche Mauro Covacich –
che per sé, come persona reale (ma è il corpo o la persona a definire
identità e soggettività? Cfr ultimo libro di Roberto Esposito) è sempre stato un maratoneta, abbia poi reso
vera l’opera d’arte-installazione che aveva inventato per un suo personaggio,
Rensich, del romanzo “Prima di sparire”. Non ha solo messo un
po’ della sua passione personale nei libri, cosa ovvia, ma ha prestato il proprio corpo, realizzandola davvero:
il titolo era “ L'umiliazione delle stelle” lo stesso della finzione, la
performance artistico-sportiva immaginata per il personaggio Rensich
Lo specchio è un labirinto. E forse il narcisismo un alibi,
ormai, per più di una generazione che ormai non genera, non fa figli. Bisogna
uscirne? Scrive Covacich, nel racconto sul nipote: “la sterilità di quelli come me sta tutta
nella paura di invecchiare... sottrarre
energia preziosa al proprio sostentamento... noi sterili vorremmo proseguire
con le nostre gambe e non fermarci mai” la folle corsa di quelli che vogliono
sentirsi “liberi da responsabilità, leggeri, rapidi negli spostamenti,
viaggiatori last minute, esploratori lonely planet, inquilini di monolocali
mansardati, consumatori di quattro salti in padella, frequentatori di tapis roulant, non padri, non madri, ma
ovunque potenziali amanti” ma gli altri, i genitori, scrive Covacich-zio “non
sono meno egoisti di noi sterili. Non donano al mondo nuovi esseri umani, né donano
ai figli la vita, ma lasciano segni, esibiscono trofei, declinano in una forma
più ambigua quella che resta a tutti gli effetti pura e semplice volontà di
affermazione. Allora forse realizzarsi in questo modo è ancora peggio, pensano
di aver fatto qualcosa di buono e invece spacciano come gesto di generosità
verso il prossimo un impulso cripto-narcisistico. Riprodursi non è né buono né
cattivo. Non siete voi a riprodurre la vita, ma è la vita a riprodursi
attraverso i vostri corpi”.
Covacich apre lo squarcio dentro questo gioco di riflessi che è il riprodursi, parola che alla fine va
letta come un gigantesco autoritratto, o mega-selfie, un’autorappresentazione globale che non ha più
futuro, e non è garantito nemmeno con i figli se sono un’illusoria prolunga di
noi stessi ( “E l'uom d'eternità s'arroga il vanto” ancora Leopardi).
Dovremmo essere di più, qualcosa di
diverso. Lo prova lo zio sulla pelle: diventare una sorta di mito per loro, i figli – e per noi
stessi. Riconosciuti come degni da salvare, altrimenti saremo tutti consegnati
ad una solitudine che per gli sterili appare come un buco nero della storia, ma
nemmeno i neogenitori di oggi sono garantiti. Quello che sembra emergere nella
filigrana dei racconti de “La sposa” è dunque
una coscienza dell’agire, un muoversi
del corpo, prima che del soggetto o
della persona, e che sul corpo, nell’ambito della biopolitica si riattiva la
storia, rompendo Immobilismo e narcisismo. Forse per la generazione di Covacih
è tardi, ma l’agire potrebbe innescare meccanismi anche alternativi di cura e
creazione del futuro.
E’ come se Mauro Covacich proponesse
qualcosa di liminare, una riflessione a margine rispetto alla performance,
proprio perché scavata nei suoi aspetti anche ultra-letterari, portando la scrittura
a farsi corpo con la carne dell’autore che “imita” quel che lo stesso autore ha
immaginato, ma sottraendolo all’immobilità. E’ questo il senso dell’andare, di
un rimettere in movimento la storia: come i pellegrinaggi, i viaggi, come forse
l’andare di Pippa fuori dalla sua stessa performance ad incontrare un gesto
vero e vivo, seppur trovandolo poi nella forma di una morte. L'azione, tutto questa energia di
motilità, la “"nevrosi aerobica" come la chiama Covacich, quella del
personaggio/autore/narratore che attraversa luoghi e racconti de “La sposa”, è
un gesto che se non altro si sottrae al rischio del “riprodursi” in un figlio come in uno
specchio. Dentro uno spirito di solidarietà e di apertura all’altro che viene
(dal migrante coi figli, ai figli senza genitori, ai nipoti, agli altri in
genere) che potremmo definire appunto una catena leopardiana, o quasi. Certo una disperata, estrema
motilità.
Quando si agisce, come quando si corre, si crea uno spazio-tempo, scrive Mark
Rowlands in “Correre con il branco”,
ed è “quello del rammemorare, ma non i pensieri altrui, bensì ciò che molto
tempo fa sapevo ma sono stato costretto a dimenticare, via via che
crescevo". Qui avviene una diversa solitudine, una ridefinizione
dell’individuale che, come per la poesia con le sue metriche e ritmi, con il
suo mettere come nella corsa un “piede”
dietro l’altro, costruisce il suo dire
l’individuale, una forma della solitudine, un dar forma alla solitudine che
sia diversa dal solo riprodurre un corpo in uno specchio, seppur genetico.
E in quella solitudine di noi che corriamo ma siamo a fine
corsa, in quel massimo sforzo che comprime
“ l'autocoscienza in uno spazio appena dietro gli occhi" che Covacich
cerca una exit strategy dai paradossi
dell’intellettuale, dell’analisi.
E la nostra analisi che la attribuisce ad
un artista che ha mostrato visione lucida e sapiente uso della sua arte, in
vari linguaggi, è ovvio, ma ci sembra che alla fine de “La sposa” se ne esca
con un elogio ad un fare che sembra
il contrario della consapevolezza artistica, anzi, se volessimo sintetizzare,
dovremmo dire: quanto più ci si sottrae
alla consapevolezza, tanto più diventerà
storia.
Perché forse l’arte, la letteratura il linguaggio a un certo punto necessitano
di una rottura, di un gesto, di un
balzo. E noi siamo a quel punto. Sull’orlo. E non a caso è sull’orlo del
“letterario” anche Covacich come autore.
Come il balzo del nipote che senza pensare abbraccia le gambe dello zio, nel
terrore che stia davvero per essere inghiottito da un mostro della pozzanghera,
come lui gli fa credere. Noi siamo come
lo zio, divertiti nella finzione, forse
ormai semi-inabissati in essa come nei raffinati paradossi . Ma il punto di
caduta, lo svenimento della nostra coscienza, la sua perdita, il suo abbandono,
è solo quando lasceremo, ci lasceremo essere “esposti” al gesto dell’altro. Che
ci desidera, che ci ama, che ci prende per mano dal futuro.
*Queste fughe da fermo per rubare il
titolo di Edoardo Nesi non è un caso siano presenti anche nel recente spettacolo
di Lucia Calamaro “Diario del tempo” che si apre con Federica Santoro e un
monologo sul Tapis roulant).
Poi arriva quel grande romanzo, che pur non essendo immenso e universale come fu "Una storia d'amore e di tenebra" è pur sempre un bellissimo romanzo: "Giuda" del grande Amos Oz. Mi pare pure come sempre ottimamente tradotto (Elena Loewenthal). Shemuel è un giovane dottorando in storia delle religioni,in crisi personale ed esistenziale, che svolge una tesi su Gesù secondo l'ebraismo, è un socialista sionista della prima generazione post-fondazione dello Stato si Israele (la vicenda si svolge nell'inverno 1959-60) ma non ha più soldi per mantenersi. Sta per lasciare Gerusalemme, quando vede un annuncio: si offre vitto e alloggio e un piccolo stipendio per poche ore di compagnia ad un anziano infermo. Arrivato a casa troverà un vecchio gagliardo e combattivo uomo che ha partecipato all'avventura politica di Ben Gurion, e una donna misteriosa Atalia, che vive con lui ma non è né la moglie, né la figlia. Sarà proprio lo svelamento dei dolori, delle ragioni, dei risentimenti e dell'odio subito, legato alla vita dell'anziano e di questa affascinante coinquilina a far emergere l'intreccio di temi di questo romanzo, dal quale, oltre ad una Gerusalemme fredda e ruvida, oltre ad un erotismo lieve quanto tagliente, emerge un'analisi lucida di intrecci tra Storia e le due grandi religioni monoteiste sorelle e nemiche. Si imparano molte cose, attraverso il romanzo su di noi, sulla nostra cultura cattolica, su Gesù (e per rispecchiamento anche sulla cultura ebraica) su che cosa significa avere una fede e tradirla, avere un sogno e tradirlo - o forse che è impossibile non tradire, se questo significa cercare con profondità di sguardo "il punto che non tiene". E di come spesso i visionari sono definiti traditori. Gli ebrei con Gesù. I Cristiani con Giuda. Gli Israeliani con chi li avvertiva già nel 1948 che "dove c'era uno Stato non poteva essere uno stato Ebraico, e dove c'era un popolo Ebraico non poteva esserci uno Stato". Tradire, ma per la verità. Questo vale per gli individui come per i popoli in modo diverso.
Oz lascia che scorra via uno straordinario parallelo, denso, in cui la prosa e la capacità di creare personaggi del grande scrittore riesce a far scivolare anche le pagine più "saggistiche" del libro e tuttavia necessarie. Perché la storia come le storie individuali, sono molto più complesse di come si presentano e di come le ideologie, i fanatismi, le religioni - e pure i romanticismi le illusioni - le disegnano. imparare a decifrare le pieghe della Grande Storia e forse di una intera civiltà semitica dentro quella che potremmo definire una suite da camera per tre personaggi e molti fantasmi -
. La fondazione di uno stato, il destino di un popolo, la millenaria storia religiosa di una terra, di una città qui dragata via per via, quartiere per quartiere dal suo inquieto protagonista diventano un percorso interiore e una riflessione sulla Storia complessiva dentro cui sta la vicenda politica di 50 anni di Israele, con tutte le sue contraddizioni impossibili da evitare. E impariamo che la storia è un perenne attraversamento di contraddizioni in cui pochi sognatori cercano di risolvere le questioni prima, con il dialogo, ma molti uomini grezzi cercano invece di risolverli dopo con la violenza. Che ne apre mille altre, di contraddizioni e di impossibilità. Ai romanzi il compito di raccontare i primi, i personaggi traditori e sognatori, i personaggi in crisi, quelli storti, quelli singolari, assoluti.. E se penso a questo romanzo - come l'altro grande di Oz che citavo - confrontato con le banalità lette sulla conflittualità Iraelo Palestinese durante l'assedio di Gaza, non posso che dire grazie al caso e al lavoro che mi ha portato tra le mani questo libro e il privilegio di poterne chiedere al suo autore tra qualche giorno. "Giuda" un altro grande romanzo di Amos Oz, Da leggere.