mercoledì 28 luglio 2021

UNA COSA CHE AVEVO SCRITTO E CHE NON DOVEVO SCRIVERE (su Daniele del Giudice e Bobi Bazlen ne "Lo stadio di Wimbedon")

 


Coerentemente con l'oggetto dell'omaggio (Daniele Del Giudice e di rimando Bobi Bazlen fantasma inseguito e protagonista del suo esordio, "Lo stadio di Wimbledon" forse doveva restare non scritto né tantomeno pubblicato, ma ormai chi se ne frega. Ho tolto però il secondo termine di comparazione, non mi interessa essere scambiato per rancoroso (ma devo dire che ogni critica e stroncatura passa sotto la categoria “hate” ormai poi ci stupiamo perché non ci sia più). Per i più perspicaci, dico solo che tra i due libri c’è un legame: ed è per qualche anno “un cimitero”.
Questo sotto, sono gli appunti per un articolo in cui tento un parallelo tra i due libri, un confronto, cercando di
UN anno fa, questi appunti.
+++++++++
Il caso ha voluto che ascoltassi di seguito due audiolibri (Lo stadio di Wimbledon, di Daniele Del Giudice) che avevo letto con ritardo di dieci anni (uscì Con Einaudi editore nel 1983) il secondo ******* è uscito lo scorso anno, **************** Il primo vinse il Viareggio opera prima, il secondo *********************
Entrambi i libri sono esordi, in entrambi i casi l’esordio è avvenuto al 34mo anno d’età dell’autore.
Il libro di Del Giudice si muove tra Trieste e Londra, nel flusso di generazioni di intellettuali europei, il libro ****** è ambientato a**************
E necessario scavare sulla questione fondamentale che Italo Calvino scrisse nella quarta di Del Giudice: “chi ha posto giustamente il rapporto tra saper essere e saper scrivere come condizione dello scrivere, come può pensare d’influire sulle esistenze altrui se non nel modo indiretto e implicito in cui la letteratura insegna a essere?”.
Saper essere/saper scrivere.
La domanda va oltre Calvino, oltre la sua possibilità di immaginare come sia cambiato nel tempo intercorso tra i due libri l’idea stessa di cosa significhi “saper scrivere” (per non parlare di cosa sia “letteratura “) ma senza voler insinuare alcuna idea di decadenza, se non quella (al limite ) parabola che si potrebbe disegnare non solo tra Del Giudice e ******** ma allora pure tra Bazlen e Del Giudice, coerentemente a formare una linea di confine tra due domande : perché scrivere ?
Era meglio non scrivere, visti i tempi ? è antimodernismo? È snobismo? O difesa di un ideale?
Nel frattempo avevo letto anche il bellissimo libro “Bobi Bazlen. L'ombra di Trieste” di Cristina Battocletti pubblicato da La nave di Teseo.
+++++++++++++++++++++++++
Due esordi, a 34 anni, il primo, Del giudice nel 1983, il secondo******** nel 2019.
Premiati, riconosciuti, espressione però di due mondi (culturali e editoriali) molto diversi.
Daniele Del Giudice (da ora DG) insegue nella realtà un mito letterario, ********* no, scrive per una forma di aderenza sottomessa alla realtà.
DG affronta da subito il tema del negativo, la scelta di Bazlen di non scrivere, come se DG stesso arrivasse in quel 1983 con un ritardo di tempi paralleli, il libro stesso indaga lo spazio tra due parallele, costituite dallo scrivere e dalla vita, in cui il cuore della questione: perché Bazlen non ha scritto. Ho forse, come intuisce da subito il narratore, lui è “uno scrittore senza libro”, uno che ha scritto “in modo sotterraneo, parallelo, quanto bastava per far capire che non avrebbe scritto. Per questo è li in quel centro. Ho letto anche che quel centro non esiste, è il vuoto. “ DG ricostruisce la costellazione letteraria attorno a Bazlen : Saba, Svevo, Montale, la psicoanalisi, ma anche le amicizie con due donne fondamentali, Ljuba L. e Gerti W. le due muse ispiratrici di Montale. La stessa Trieste era una città di poeti, già piena del suo stesso mito letterario, derivato dalla tradizione tedesco austriaca. DG, scrittore Einaudi e allievo di Calvino va a indagare nella vita chi andò via dall’Einaudi, perché Giulio si rifiutò di pubblicare Nietzsche. (Onore e merito a Giulio che pubblicò su suggerimento di Calvino il libro di Del Giudice che esaltava il suo "concorrente " ed ex amico)
Lo stesso Bazlen però era in fuga, quella dello scrittore non è una profanazione, ma un’indagine scomoda.
Cosa ha influito nella decisione di Bazlen di (non) scrivere? la vitalità, il “divertirsi a vivere” che non è la stessa cosa che “essere felici a vivere”, ci si può divertire pure mantenendo un atteggiamento di apertura al tragico?
Era quel preferire il "saper vivere"?
O era distacco e poneva a un livello talmente alto la scrittura (“scrittori mediocri è meglio che non ce ne siano” diceva Bazlen, secondo una delle testimoni del romanzo) che sapeva che ogni sua scrittura sarebbe stata attesa e avrebbe rischiato di deludere.
In un certo senso era già dentro il sentimento di postuma eredità di un secolo che si apprestava a morire a pochi decenni dalla sua nascita precipitando da una guerra mondiale all’altra. Poi sarebbe stato celebrato dalla casa editrice che Bazlen fondò (Adelphi) ma postuma a quel secolo, nel 1965 e in piena società di massa, andando a costruire la complementare contraddizione di una cultura che la disprezza (ma non vivrebbe senza l’allargamento delle élite che rappresenta il progresso).
Cose di Bazlen che trovo mie: “il rigore era nel non volersi abbandonare, nel giudicare il suo dolore senza umiltà. Nella sua volontà di distacco e di giudizio…se avesse più accettato e meno giudicato, se non si fosse sentito sminuito da certe difficoltà, avrebbe potuto esprimerle”.
La domanda: perché scrivere, ma anche, perché no, lo fa sembrare un Bartleby. Uno scrivano che non scrive. Non fare anche una forma di superamento del già-fatto obsoleto.
Lo stesso DG adotta una scrittura in cui paradossalmente si fa trasparente, aderisce idealmente allo sguardo, si fa “ottica” sembra non esserci o sottrarsi alla letterarietà, ma questa è una diversa forma di sottrazione alla “religione della scrittura” da punti di vista opposti, uno laico (quello di DG) l’altro mistico ( quello di BB).
Così è la realtà che scorre davanti agli occhi “senza volume” (come il Narratore dice di guardare la tv, mangiando oppure come sembra guardandola nel bar dove la musica del juke box sostituisce il rumore del mondo, il rumore bianco)
È malinconico il destino di uno scrittore che ha perso la vista e poi la coscienza e per lui oggi si possa solo usare una metafora per immaginare o descrivere uno stato mentale che non vediamo che non sappiamo, se non per la diagnosi neuronale che possono fargli. Oggi DG vive aderente al suo stesso stato, è "homo sacer", è oltre la possibilità di esprimere, tocca il medesimo silenzio che Bazlen aspirava a conservare come pienezza. E si era dato quel compito che gli amici identificano in lui “la sua opera è stata la sua vita” e allora la compiutezza di una condizione di aderenza completa alla coscienza in entrambi I casi (BB e DG) ci parlano di un fare a meno della scrittura.
Era la vita che gli interessava anche se era inibito, ma al tempo stesso cercava di manipolare gli amici come personaggi (era un autore in cerca dei suoi personaggi?) combinare matrimoni, tresche, scambi di partner, divorzi.
Adelphi significa “sodali” ed è come se lui avesse agito in nome di un sodalizio implicito tra persone, alla fine era il burattinaio ma senza teatro, l’intreccio difficile nella vita a lui riusciva e a altri no. Al contrario, era riluttante rispetto allo scriverlo.
Il suo era un senso di fallimento, ma come se il fallimento fosse interno a vivere, come leopardi della vita, meglio non essere nati, BB della scrittura, meglio non perdersi nelle inezie, quel senso del disinteresse verso la vita che Leopardi, morendo a 37 anni non proverà mai “lui ha capito di sé. Che tutto è niente” , il niente è più aderente a una vita che se da un lato va spesa, dall’altro essa pure è parte del niente.
“l’unica cosa che resta di lui sono gli amici che gli hanno voluto bene e nei quali lui esiste ancora”
(Parentesi:E’ la cosa che chiude i due capitoli dedicati a Pia Pera e Rocco Carbone da Emanuele Trevi in Due vite, il libro come testimonianza d’aver voluto bene agli amici. Letteratura e bene.Etica.
E io? Cosa resta di me, senza me? Cosa è quello su cui io oggi posso poggiare, un punto di equilibrio dinamico tra la tensione dell’Angelo del Ghirlandaio nell’annunciazione e quello di Maria nel fermarlo, riesiliando. Forse c’è un limite in questo cercare appoggi, è la malattia – o la casa. Non averla più potrebbe aprire I confini di un’apertura alla luce, quando perdendo tutto raggiungi il punto massimo di squilibrio e li, allora si tocca a pienezza. La solitudine nella malattia è il punto d’appoggio del silenzio del corpo che è lo stare, la pienezza in cui le funzioni della vita sono la vita stessa, il fine della vita è tutto interno alla massa corporea, il bios di me in cui io mi nascondo annullo, cancello ogni proiezione soggettiva, sto.
Il senza tetto, il senza-dimora, con cui da più di un anno ho a che fare per attività di volontariato, è colui che sta in questa condizione in cui la vita si approssima alla sua stessa ridottissima ‘pienezza’ paradossale (non mitizzo, ovvio che sono sofferenze e privazioni, ma quel restringere il campo della vita serve al senzadimora proprio a recuperare una possibilità di resistere al grande vuoto che ha intorno) annullando il possibile. Il corpo che ha abbandonato tutte le immagini di sé, il personaggio che sono (il giornalista ma anche il poeta) tutto sarebbe immagine, una replica della vita come la scrittura che non è la scrittura, la vita non può essere questa esteriorità, altrimenti si riduce a una sequenza di aneddoti. Essere ricordati per aneddoti è come essere dimenticati, se è il bene che conta, il bene è quando dimentichi perché si vuole bene, quando dimentichi anche perché si vuole il male, per questo è il bene oltre il bene e il male (Nietzsche)
Cosa conta allora? Essere, stare, essere ricordati da chi ci ha voluto bene, perché si è stati qualcosa per qualcuno Fine parentesi).
Tornando a Bazlen/DelGiudice: In quel punto in cui si pone la condizione del saper essere e saper scrivere come condizione dello scrivere? Ma il senso di fallimento non può che far optare per la negazione dello scrivere, la scrittura è “amissa” non si sa dove è messa, ma al tempo stesso quanto più è importante la stessa scrittura proprio per poter dire il non dire, il non poter dire del possibile essere, (Zanzotto Caproni Lacan) tanto più BB (e io vorrei prendere questo esempio e farlo mio) cerca di anticipare la mancanza, nel non cadere nella trappola della mancanza, che è questo inseguirla continuamente con la scrittura, a dire ( o ri-dire?) la mancanza passando per un’ambivalenza che la narra.
BB manca, si ritrae dalla scrittura e poi a un certo punto si ritrae dal mondo se il mondo è questo essere “opera” di sé. Di un Io che lo modifica. Si ritira come il mare. Lascia che esista il silenzio della persona che ha capito il luogo in cui è, nel essere per l’altro. (Levinas) abbandonando tutti, senza più agonismo.
La parola data. La parola abbandonata.
Il saper vivere va a corrispondere a una depense nella misura in cui l’essere-per è la totale devozione all’altro, all’uscire da sé, il preoccuparsi dell’altra persona l’attenzione l’aderenza all’altro è quando la aderenza totale a me coincide col mio totale annullamento. Se è l’eros, o l’agape, il massimo dell’apertura all’altro nella perdita e nel perdersi (nell’altro, come prima forma del perdersi) la scrittura allora non può che essere nel momento in cui si misura col “no”. Cancellando il sé, o cancellando l’espressione di sé.
Bobi Bazlen viene indicato come la persona che sapeva vivere nelle aderenze nella preoccupazione ( se anche nella manipolazione da volte di quelle stesse persone) questo è il cuore della sua rinuncia alla scrittura e quindi un dispendio quello di Bazlen, cioè l'eccesso del non praticare, l’eccesso del sottrarre alla scrittura la parte di vita che è bene rimanga completamente vita.
E dunque Bazlen raggiunse, nel interessarsi alle altre persone, autori o amici, il suo “capolavoro2 la sua opera d'arte “aperta” nella completa aderenza al mondo anche se al tempo stesso non può che farlo sottraendosi anche al mondo, fuggendo da Trieste, fuggendo anche da una presenza nella scrittura sottraendo il suo nome. Sottraendosi alla risonanza anche se non alla Leggenda. E forse prepararsi anche abbandonarlo, il mondo - come emerge dal dettaglio di non aver mai dormito nella nuova casa che Ljuba riesce a trovargli a Roma e dove ha portato le sue valige di libri e in cui non dormì una sola notte e dove Ljiuba riprenderà le stesse valigie, tempo dopo.
Prepararsi ad abbandonare il mondo il gesto estremo. Il gesto estremo. In cui i tentativi si toccano nella rinuncia all’ “Io” sta il massimo di apertura all'altro. Anche se poi è perderlo l'altro perdere e perdersi che è quello che deve aver compiuto Bazlen. Secondo me nella sparizione di sé e della scrittura una forma di esecuzione più alta dell'amore. L’esecuzione: dare a questa parola il doppio significato di concerto solista, Musicale ma anche quella del giudizio: di una pena applicata e qui la condanna di sé. Qui entriamo in un labirinto psichico di cui io non potrei dire molto, i abbandonare senza colpe o con le colpe, ma per una singolare labirintica via dell’amore per l’altro, forse è questo che ha fatto BB?.
Perdersi. . Sì,l’ amore fallisce se la reciprocità fallisce. Perché di questo fallimento era piena consapevole la vita di Bazlen e alla fine la pienezza toccata non la potremo mai scrivere.
Rivela a noi quel perpendicolo interiore di perdita, come un vaso che si riempie sempre del suo vuoto. In questa pienezza sinistra, si spera che il fallimento sia totale e sia il capolavoro, lo stesso che non si è riusciti a scrivere quello letterario che non sei riuscito a scrivere.
Così la morte è “l'aperto”, non la scrittura. E l’aperto è alla lettera, all’aperto, nella folla, nell’anonimato, fuori dalal casa, nella città altra e lontana, dove nessuno può trovarti e soprattutto I ricordi.
Non so perché immagino Bobi Bazlen come un senzatetto uno che sparisce. Riempie il mondo della sua assenza. Sarà così? non si sa. Lo penso come una mente che non cercava di immaginare una persona per sé stesso, lui era quella persona e dunque Quale migliore possibilità che essere nessuno, per poter essere completamente, anche nell'altro.
Se il posto nel mondo di Bobi Bazlen era questo, Cioè essere la persona di fronte, il volto che sia di fronte e non scrivere la persona o il personaggio (magari di autofiction, come tanto impera oggi mentre la filosofia è sempre più anti-soggettiva) se è questa la scelta, Ebbene Bazlen, scelse. Di non scrivere. Come supremo compimento di una scrittura che resterà sempre possibile. E benché non prodotta, resterà sempre nella memoria del bene voluto e scambiato, come se quel testo fosse scritto, era una delle tante lettere spedite da Bazlen, ma in una – la sola mai arrivata a destinazione, perduta dal viaggio postale – era contenuto il suo capolavoro letterario, che continueremo ad attendere come il messaggio dell’Imperatore.

domenica 25 luglio 2021

NICOLA SAMORI', IL TEATRO ANATOMICO DELLA PITTURA (Antologica, Bologna, Palazzo Fava, 2021)

 


Nicola Samorì da molti anni sta inventando di nuovo la pittura, partendo da una raffinata tecnica di manipolazione della pittura stessa che viene strappata sé stessa, in qualche modo. Da sempre il dialogo è con la figurazione storica, specie rinascimentale e barocca. Nella mostra appena chiusa a Bologna tutto veniva anche amplificato dalla sede, Palazzo Fava, con i suoi affreschi e coni Fregi dedicati a storie mitologiche o dell’Eneide, fate dai Carracci. La mostra è la pria antologica di Nicola Samorì che si è affermato in questi anni con mostre internazionali e con due inviti alla Biennale di Venezia nel padiglione Italia nel 2011 e 2015. La pittura di Samorì tenta – come il teatro estremo di Romeo Castellucci – una via endogamica della pittura, lavorando però non sulla maniera, bensì sulla destrutturazione materica di essa. Allo stesso modo a Palazzo Fava l’allestimento ha dosato l’interazione con il luogo, creando un continuo attrito con opere  del palazzo, da qui il titolo di “Sfregi” che tuttavia rischia di essere fuorviante, immaginando iconoclastia o ironia beffarda alla Dalì. Niente di più lontano.

. La mostra è sì un attrito con le immagini precedenti, ma lo è come l’attrito che si produce tra due corpi che si amano fisicamente. Il percorso inizia fin dall’ingresso, dove la statua cinquecentesca  di Apollo scruta un torso doppio scolpito da Samorì in legno: è Marsia, il sileno che sfidò il dio nell’arte della musica e da Apollo fu punito per la sua superbia e appeso ad un legno, il materiale in cui è scolpito e spellato, che è in sintesi la tecnica che Samorì ha adottato. Un incipit che già dice molto e contiene una dialettica sia simbolica, figurativa, che materica, che percorre il lavoro di Samorì, tra esaltazione e distruzione dell’opera, che tuttavia non è mai iconoclasta. Semmai è un omaggio nella dissezione, nella tecnica utilizzata e affinata negli ultimi anni, Samorì che non solo riprende l’abilità manuale dei pittori classici, ma ne mostra, squartate, le stratificazioni materiali. La pittura stessa viene martirizzata, per mostrarne la santità, che non a caso si propaga poi per residui materici di corpo, reliquie. Samorì si colloca nel martirio, nel momento sospeso in cui violenza e santità stanno assieme. Ma anche umanità e spiritualità. 


Lo testimonia la bellissima sala in cui è collocata una maddalena penitente del 500 e tra le figure di Santi ne spicca una (titolo “Immortale”, del 2018)  trafitta da una freccia-pennello conficcato matericamente sul pigmento-carne del quadro-icona. Forse potremo definire anche il percorso di Samorì dentro la storia della pittura un cammino cannibale.

LE foto che allego non rendono l’effetto ( e anche questo è un omaggio di Samorì ad una fruizione dell’opera dal vivo e una riaffermazione del valore non riproducibile della pittura, che fanno della poetica di Samorì un pittore sia sperimentale e innovativo, sia un anti-pop).

 Quelle che sembrano bruciature – in qualche caso ricorda le aggregazioni delle plastiche di Burri – o appunto sfregi, sono in vece un’operazione chirurgica raffinatissima  che dopo la stesura del coloro a olio, lo risolleva mentre ancora non si è seccato, spellando la figura, mostrando la stratificazione tecnica della pittura stessa (in questo c’è un lato meta pittorico ovviamente).




 Il pitturato, l’atto stesso della pittura, viene mostrato in carne viva, ribaltato, scuoiato verso l’osservatore mostrando i tessuti organici in cui “l’immagine” è costretta e costruita e poi compressa nella stesura del pigmento. Quando si secca è impossibile fare l’operazione di Samorì, dunque l’artista in questo modo tiene sospesa tra la vita e la morte la pittura, l’atto  stesso del dipingere, ne mostra in questo spellamento (vedi “Il digiuno”, opera del 2014)  una sorta di archeologia presente, come se vedessimo dal vivo il formarsi dei canyon, in una fissazione materica che mostra il “rebour” della pittura, il processo all’inverso. Samorì è il chirurgo che prima di operare, dopo aver aperto un corpo ancora vivo, lo mostra come materia di studio ai suoi studenti. Per accentuare ancora di più questa metafora del “ teatro anatomico” (non siamo forse  a Bologna e non è vicino l’Archiginnasio?) immaginate in particolare un’operazione di distacco della cataratta: Samorì ci permette di vedere il segreto materico della visione.


Il tema della visione è esplicitato poi nella sala di Santa Lucia, al piano superiore, dove i ritratti di santi di Carracci fanno da contrappunto al doppio piano tra sguardo e volto, in cui la materia della testa dipinta su onice fa apparire dei bulbi là dove invece c’è un buco (come nella leggenda sul volto della santa dopo che furono strappati gli occhi) ma tutto questo è stato creato dipingendo intorno a due fori già presenti nell’onice del supporto, così la santa sembra guardare una testa posta di fronte, anche essa con occhi scavati. Nell’opera di Samorì tutti i tempi della pittura – dalla tavolozza, dai grumi di colore a olio, alla figura finale, sono compresenti. Lasciate “aperte”: i dipinti e le sculture di Samorì sono forme  “sfinite”, ovvero che prima finite, poi riportate indietro a perdere la sua definizione iconica, l’inganno della sola visione, ma mostrate per la loro nuda verità.


Anche meta referenziale, concretista, forse in un certo depotenziata, ma poi ripotenziata nel lasciar vedere sé stessa come originata dal  pigmento e  l’intervento del pittore è quella di scavarla prima stenderla poi scavarla. Potremmo per associazione definirla un’altra via dell’informale . La pittura si stacca dal segno incisorio, si arricchisce di supporti materici carichi di indizi, dovuti alla materia, anche la base ospitante reagisce, perché sesso dipinte su legno o onice e quelle che sembrano essere gocciolamenti sono in realtà dovuti a una complessa pratica di gesto istintivo, praticato a parte e poi ricomposto come un mosaico, che sfrutta anche la presenza arcaica di segni della pietra o del legno. 

Il percorso di Samorì è assai originale, anche rispetto al 900: dove c’era l’inganno della sola icona 
dipinta, la volontà si superare la rappresentazione anche grazie alle nuove conoscenze sull’ottica e sulla materia, l’immagine è stata decostruita dall’impressionismo in poi, creando tuttavia una nuova maniera della modernità. Samorì lavora con la precisione scientifica di chi può decostruire l’immagine, ma lo fa utilizzando i soli strumenti classici: il suo corpo, la sua mano abile, la sua tensione nel tenere la precisione questa materia informe, e poi il pigmento. 


Così ecco la figura femminile del piccolo dipinto (“A corda” del 2019): a prima vista e in foto vi sembreranno capelli, invece sono fili sollevati e allungati di olio, che escono dal supporto, sfondano verso l’esterno; così anche la “carne viva” sempre del pigmento a olio nel Sofonisba, o la testa con lacrima, sono tutti fregi riavvolti al prima della materia, un ‘adorno’ alternativo della figura, In questo l sforzo ottico, l’avvicinamento materiale all’opera necessario per vedere esattamente, replica lo sforzo fisico dell’artista che ha creato quell’effetto per un tentativo di avvicinamento a chi guarda. Alla fine, per quanto meditata, raffinata tecnicamente e referente alla tradizione con le sue iconografie di santi e martiri o miti, l’opera di Samorì chiama in causa il corpo del visitatore, la sua viva presenza e il suo sguardo. 





"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...