domenica 18 dicembre 2016

PAOLO COGNETTI "LE OTTO MONTAGNE" (EINAUDI). I ritorni difficili, come gli amori.

“Le otto montagne” di Paolo Cognetti è il nuovo libro dell’autore di “Sofia veste sempre di nero”. Viene da chiedersi cosa abbia spinto l’autore a lasciare una narrativa così aderente alla scomposizione della coscienza e del punto di vista, attuata attraverso una raffinata costruzione di un romanzo di racconti che si misuravano anche con un continuo slittamento orizzontale dell’identità, quasi a seguire l’impalpabile presenza di Sofia. Qui
c'è uno scarto evidente.
Infatti Cognetti con “Le otto montagne” porta la storia verso una dimensione narrativa e stilistica ( partiamo da qui) che lascia la dimensione metropolitana e costruisce quello che verrebbe da definire un romanzo di nuovo organico, compatto e "di altri tempi"... Per certi aspetti può deludere - pur essendo certo un ottimo libro, con una lingua scolpita e nitida, che certamente farà il suo bel percorso solido di affermazione - ma per chi come me considerava "Sofia" come una delle prove migliori della narrativa italiana recente, capace di offrire un esempio di mutazione positiva della forma-romanzo, in Italiana... bè questo sembra un "ritorno all'ordine" ( si sarebbe detto un tempo, quando la letteratura era militante...)

IN effetti,in questi tempi di hate speech, appena il romanzo crescerà e si affermerà, magari nei premi, ci sarà pure chi dirà che rientra una leggibilità da "grande pubblico", da storia calibrata per giornalisti-e-pubblico, ma penso seriamente, perché l'autore è anche una persona seria, che non sia calcolato. Penso sia una scelta sentita come necessaria di un " ritorno", e assumere questa struttura era anche funzionale al racconto per tutta la prima parte si volge indietro - ed in effetti anche la migliore - poi verso la fine emerge anche l'impossibile del ritornare (chi leggerà poi capirà, fino all'ultima riga). io mi auguro che cammini a valle,ancora.
Se la storia di Sofia e dei due protagonisti maschili era dentro una New York dei destini incrociati, inseguendo i propri desideri, dilatata nei vari racconti-quadri narrativi , qui dunque Cognetti scrive un romanzo dai toni classici. E classico è il presupposto della storia: “una storia di due amici e di una montagna” dice in sintesi l’autore.. in realtà è anche soprattutto una storia di trasmissione dell’esperienza da padre a figlio, di un passaggio di testimone difficile se no impossibile.
Gianni, il padre di Pietro, che con la moglie dai monti del Veneto approda a Milano nei primi anni 70 (dove il figlio nasce) per lavorare come chimico nell’industria è un uomo del suo tempo: partecipa ad un’Italia che si evolve, in qualche modo progredisce ( se è vero che la madre di Pietro lavora in un consultorio cittadino, segno di un evoluzione positiva della condizione femminile, rispetto al paese retrogrado che si sono lasciati alle spalle). Ma è pure l’esponente di una generazione che farà da ponte tra l’antico la modernità, tra l’italia contadina da sempre e una industrializzazione e urbanizzazione accelerata. Per Gianni la patria è il paesaggio, sono le montagne, è quello il sigillo che Gianni e sua moglie si portano dentro. Gianni ha anche una ferita che lo lega ai monti eppure non ne può fare a meno, anzi forse da quella nasce una sua ostinazione a fuggire dalla città e dalle nevrosi che lo schiacciano. LA montagna del resto è per la coppia un mito familiare fondativo (in montagna si sono conosciuti, innamorati, e sposati) e questo li porta ad eleggere come heimat Grana, un piccolo paese delle Alpi Occidentali. Qui Pietro avrà la sua formazione parallela , ma di fatto l’unica perché nel romanzo è narrata solo quella, estiva, montana “(ed è la consapevolezza di PIetro e Bruno, implicita: "La nostra amicizia abitava su quella montagna e ciò che succedeva a valle non la doveva sfiorare") . Pietro cresce d’estate insieme a Bruno un coetaneo, pastore e montanaro e sarà attraverso il confronto con quel fratello acquisito, quel doppio stagionale che Pietro misurerà anche quanto distante un padre può essere e quanto vicino ma inafferrabile sia l’amicizia.

E’ anche una storia di duplice identità, tra un’appartenenza al mondo immutabile dei monti a cui    Gianni si sente legato e Pietro sempre meno, e la modernità del fluire e della trasformazione delle cose. Così se crescendo Pietro si allontanerà dai sentieri del padre, preferendo la via dell’arrampicata come forma di protesta, Sarà Bruno il montanaro inamovibile ed eterno a diventare pian piano anche quel figlio che ama la montagna come cosa sua e che Gianni in fondo desiderava. E il romanzo si regge tutto su questo metaforico e alluso incrocio e scambio di posto tra le figure di figure: Gianni e Pietro, come padre e figlio, che finiranno per scambiarsi di posto, come inevitabilmente succede nella vita, crescendo. ma anche Bruno al post di Pietro e Bruno come quel fratello o doppio che Pietro non avendo potuto avere non è tuttavia neppure potuto essere. C'è nel libro una precisa idea del tempo, un tempo.centro e "senza tempo" che è a la vita semplice e sospesa. Mungere, camminare, guardare gli spazi dalle vette: c'è però anche un tempo reversibile,che apre la sua possibilità nello scambio, in una sorta di rinascita, per questo credo di trovare giustificazione al cambio di rotta stilistico che altrimenti collocherebbe questo romanzo nella categoria “molto bello ma ..”. Qui la critica che faccio  è puramente  letteraria, noiosamente letteraria, il lettore sarà felicissimo di leggere questa storia - e mi rendo conto che la letteratura con quel vizio della "forma" come l'abbiamo conosciuta nel 900 possa addirittura entrare in contrasto con la necessità (anche economica e politica) che ci sia una comunità di lettori che capiscono i codi di una forma "riconoscibile".
Da questo punti di vista Cognetti è bravo, è uno dei nostri scrittori under 40 migliori e conosce la montagna: il risultato un bel romanzo, è un piacere certo leggerlo, nel suo dare materia ala storia, psicolocgia petrosa ai personaggi, a tutta la fisicità della vita montanara, c’è il legno, la neve, l’umido del bosco, la ruvidezza, anche il silenzio, che in montagna è un corpo, e il non detto che è un sapere delle mani. Però non dura.Il punto di fuga del libro - e dove forse con un "non detto" Cognetti dà il segnale che questo "classicismo montanaro narrativo" è solo una parentesi - il punto di fuga e d'uscita, anche dello scrittore dal suo libro è quando tutto questo mondo antico e solido frana e Cognetti va forse un po ' troppo precipitosamente verso l'evoluzione della fine: che inizia non solo per il lutto del padre, ma in coincidenza soprattutto la fine dell’attività agricola tentata da Bruno come montanaro-imprenditore.
E così torna il presente, la valle, il cammino e il tempo, la storia: Ancora una volta, come fu per il padre negli anni ’70 è la nuova iper-modernità, è l’economia, è il mondo a valle a schiacciare la montagna e Bruno. Il paesaggi odi Grana minacciato dalle trasformazioni a valore d'uso turistico, e il suo amico-fratello che ora è sui monti come un nume tutelare di quel mondo mitico in cui il padre ormai morto continua ad essere una presenza, ma che è in difficoltà economica.. Pietro nel frattempo s'era incamminato in altri sentieri, lontani, ma sempre la montagna c'era di mezzo, in Nepal, a svolgere lavoro umanitario, attività che nel suo essere semplice, è in realtà ben cosciente del presente storico, non è affatto lontana, anche nel suo essere apparentemente antica, in cui il sapere delle mani ridiventa un’attualissima forma di riscatto storico: “noi insegnavamo l’inglese e l’aritmetica, ma forse avremo dovuto mostrare a quei figli di emigranti come salvare un orto, costruire una stalla, allevare capre”. Il mondo non salvato di ragazzini in cui rivive in un baluginìo l’infanzia remota di Bruno e Pietro e quel che c’era di puro e integro in quella vita, tramesso da Gianni come un mito impossibile, di un ritorno impossibile, incarnato e ereditato ma malvolentieri da Bruno, che apparteneva naturaliter a quel mondo, ma nonostante ciò tutto era era destinato a franare, prima di tutto economicamente. Del resto quando è impossibile tornare in vetta, anzi quando tornare è soltanto un sogno, quando tornare è illudersi con l’invenzione d’avere un centro permanente del tuo mandala interiore, allora è ora di tornare - o meglio accettare l'idea di "restare" a valle,come forse sommessamente consigliava a Pietro la madre, bellissimo personaggio - restare nel cammino della Storia dei giorni che hanno date –e nel romanzo appaiono, il 2010 della crisi, il 2014 dell’inverno più nevoso – e dentro quegli anni camminare, che la bellezza delle montagne è anche quando ti indicano il cielo, sì, ma visto da un prato a bassa quota. Forse anche per Cognetti è stato necessario scriverlo, immaginiamo quanto. Per chi come me sta a valle e ha il "vizio della forma" in letteratura, è ora di distruggere il mandala compatto di “Le otto montagne”, seppellire “Bruno” e proseguire, almeno letterariamente, stilisticamente, on the road. Namaskas.

mercoledì 23 novembre 2016

BUON COMPLEANNO PAUL CELAN

PAUL CELAN nasceva il 23 novembre a Cernauti, una città detta la piccola Vienna oggi in Ucraina il 23 novembre, cioè oggi, del 1920. Poteva esserci nei nostri anni complicati, e  invece scelse d’andarsene e in un Aprile del 1970 a Parigi . Se penso a come poteva essere radiosa la Prigi ad Aprile e proprio in quegli anni – eppure lui vedeva la “luce coatta” di un tempo che non aveva mantenuto la sua promessa – e non poteva, non si ripara la ferita che ha vissuto, personale e storica, uno come Celan.


Oggi che sarebbe il suo possibile 96esimo compleanno - main fondo non è sempre con noi? nella nostra fuga? -  mi piace ricordarlo per una storia di coppia.





Quella con Ingeborg Bachman che c i ha lasciato anche uno splendido carteggio pubblicato da Nottetempo Tra i due un filo spinato sul quale hanno camminato sanguinando come due acrobati dell’impossibile.
Fino dove sono arrivati, quello è il confine dell’esperienza. Poi resta la parola da mandare in avanti, nel tempo a venire: “Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua” avrebbe scritto Paul nel 1958 – ma perché era ancora sul quel filo teso, d’acciaio e di paure – che era la loro relazione. Possibile. 

Raggiungibile è l’altro – o la parola per l’altro. Ma i due erano troppo scavati dal vuoto che la storia aveva preparato per loro, non solo a causa di quello che avevano vissuto, ma anche a causa di quel “dopo” che sarebbe stato un orrore bianco, una trasparenza minacciosa del tempo felice. Quello che Celan aveva visto nella Parigi luminosa del 1970 e che forse sempre aveva visto a Parigi, desiderata, mai trovata patria. Scrive Paul a Ingeborg inquella fine degli anni 50:

 ”Triste ritorno a Parigi: ricerca di una stanza e di essere umani – deludenti l’una e l’altra. Solitudini piene di chiacchiere, liquefatto paesaggio di neve, segreti personali bisbigliati alla gente. In breve, un gioco divertente con ciò che è oscuro, al servizio, si capisce, della letteratura. Talvolta la poesia sembra essere una maschera, che esiste soltanto perchè gli altri di tanto in tanto hanno bisogno di qualcosa  dietro cui nascondere le proprie santificate smorfie quotidiane.”

E Ingeborg risponde

"...La vanità delle aspirazioni – ma sono davvero tali? – intorno a noi, l’industria culturale, della quale adesso anch’io faccio parte, tutto questo disgustoso darsi da fare, i discorsi insolenti, la smania di piacere, l’oggi pieno di sè, – questo ogni giorno mi diventa più estraneo, io ci vivo in mezzo ed è ancora più impressionante vedere gli altri vorticare soddisfatti...”

E poi in un’altra lettera aggiunge..

“… Se oggi mi chiedi quali sono i miei desideri, i  miei veri desideri, mi è difficile trovare immediatamente una risposta, può anche darsi che sia arrivata alla convinzione che non spetta a noi desiderare, che a noi spetta soltanto un determinato lavoro, che qualunque cosa facciamo non serve a nulla..”


Il lavoro  della poesia, con le parole,  resta su quel filo spinato, come pezzi di pelle strappati dai piedi chi poi è caduto.
Atroci bandiere.

lunedì 14 novembre 2016

Perché Giuliana De Sio che interpreta Ruccello mi è piaciuta molto e Pippo Delbono che mette in scena sé stesso non mi è piaciuto per niente.

“Notturno di donna con ospiti” è un noir del grandissimo e troppo presto scomparso Annibale Ruccello, storia di una  donna semplice, casalinga, madre travolta dai suoi fantasmi. E’ un testo costruito nascondendo il nero dentro la tavolozza di colori vivaci e un po’ acidi della  commedia  mediterranea (forse prima e meglio di Almodovar)  in cui è la maternità col suo deflagrare erotico e dispotico tocca nel testo di Ruccello tutte le tonalità. Ma è soprattutto Giuliana  De Sio a restituirlo come verità attraverso una finzione suprema, la sua capacità attoriale, che va a sfidare e a riprodurre con estrema autenticità quello strato di finzione e ipocrisia, sentimentalismo e sceneggiata, artificio che costituiscono spesso la “verità” della  vita di certi strati popolari (napoletani sopra tutti, e in modo unico).
Insomma Ruccello e DE Sio scavano dentro le pieghe del barocco biologico napoletano, nelle uallere dell’anima materna, sia quella della Mutter fallica e repressiva che ha alle spalle sia quella nera e bambina che  è Adriana. De Sio fa teatro attraverso un testo e la sua arte scenica, dunque elementi di finzione, ma arriva ad un nucleo di autenticità
Delbono cerca di superare tutte le finzioni, punto a all’autentico vero, e mette in scena una liturgia di cartapesta. Casualmente è uno spettacolo che nasce a partire da un impulso legato alla madre dell’autore.Il 

"Il vangelo" -  che aspira all' apocrifo ma autentico - di Pippo Delbono  non prevede incertezze e cedimenti. E’ verità: ai margini c’è il bene, i marginali sono santi, anzi nuove divinità e  a loro il culto.  E’ un’orazione sacra e una celebrazione della marginalità come paradiso in terra di un Cristo che si fa uomo, donna, transex, omosessuale, migrante, malato psichico. non è un caso che si apre con 11 sedie, manca Giuda - nessuno tradisce, nessuno mette in discussione il Cristo-Del Bono. Lo spettacolo è un inno, una messa celebrata dalla parte degli ultimi. Per una singolare coincidenza, che diventa emblema di un’epoca e di una cultura non a caso sotto il segno di Pasolini, il cattolicesimo della madre e il desiderio di vicinanza agli ultimi ma in modo laico, fanno si che il figlio (al quale la madre che  fino in punto di morte ha tentato di redimerlo ) chiedeva “ma perché non fai uno spettacolo sul Vangelo?”
Ora che la madre è morta, questo spettacolo a lei dedicato dal figlio che non crede nel figlio di Dio, diventa in  realtà la cosa più vicina al suo desiderio – dellA l madre e potremmo  ANCHE GIOCARE CON Lacan e dire : che il figlio vuole essere (oggetto del) desiderio  della madre. Cmnq stare vicino agli ultimi o è patrimonio comune ai cattolici come ai marxisti compresi gli “eretici” ed è stato gioco facile per Pippo accontentare la mammina.
 Del Bono figlio lo è, eretico, ma figlio, e  vicino agli ultimi,  sinceramente, pur senza appartenere ai rituali da sepolcri imbiancati della religione tradizionale. Il problema è che anche Del Bono, richiamando con impeto di sincerità tutto un repertorio della rappresentazione gioiosa dell’marginalità finisce per creare un rigurgito di artificiosità, dunque l’effetto contrario. Creando uno spettacolo in cui supera il limite dell’ambivalenza per approdare decisamente nel territorio del “brutto”. Brutto spettacolo, noioso, irritante. Una liturgia che pur partendo da intenzioni estremamente sincere produce un effetto retorico  insopportabile-


Ill regista-demiurgo in platea, attraverso la sua voce  Urla e declama, si agita, danzicchia, un po’ goffamente – ma che vuoi che sia? È il trionfo del corpo-deforme – e sculetta – ma vuoi essere omofobico? – e reclama laicamente felicità al mondo, dìssipa energie d’ amore e quella verità dell’autentico  che sola rende liberi, a volte con le parole attribuite a Cristo nei vangeli ufficiali, altre con quelle di un campione della fede come Sant’Agostino, altre ancora con i versi dedicati agli ultimi e ai reietti dal Pasolini della “Profezia”: “Essi sempre umili/essi sempre deboli/essi sempre timidi/ essi sempre infimi/essi sempre sudditi…”. E scorrono via tutti i frammenti di  questa liturgia durata 50 anni: ecco Prevert, Pasolini, i cantanti dei vicoli napoletani versione Almodovar che cantano Alan Sorrenti, i Led Zeppelin, Pavese, Jesus Christ Superstar.. tutto quello che è stato il repertorio della libertà, dell’autenticità, vero e finisce per diventare una sorta di ritornello trash in cui vengono evocate a favore del pubblico abbonato di sinistra tutte le sue liturgie di rappresentazione della libertà compiaciuta che però finiscono per congelarle in una artificiosità trash. Del Bono nonostante decenni di teatro, festival e cinema, continua a mettere il suo corpo afflitto – dal dolore per la perdita della l madre a quello empatizzato dagli “ultimi” . non si nega il lavoro concreto umano che fa Delbono, con diseredati e «barboni» in attività culturali, alleviando le sofferenze di attori mentalmente disabili attraverso il beneficio terapeutico del teatro . Tutto questo però poi diventano 40 euro di biglietto per illudersi seduti in poltrona di poter assaporare l’autenticità.
L’effetto vorrebbe essere quello della verità di Pasolini, il risultato - come era già in Pasolini a dire il vero - è quello del cartonato artificiale di Fellini e come il grande regista romagnolo sapeva bene tutta quella falsità esibita veniva resa ambivalente se condita con le comparse con le “facce vere” che tuttavia erano il circo dei Freaks - lo stesso vale per Del Bono, che è assolutamente sincero nel voler portare sul palco la “verità della rappresentazione” di Bobo, e degli altri disabili o malati psichici che utilizza, ma alla l fine continua nel tramandare un’idea del “povero storpio” da compatire con pietà.  questo tentativo ormai pluridecennale è diventato inautentico, è diventato lo sfruttamento della biologia come sigillo di verità.


 Anche nel non voler accusare Del bono di furbesco sfruttamento del minorato, e riconosciamogli  intento sincero e gioioso: tuttavia  ma non c’è nulla di più artificiale nel provare a rappresentare la gioia  diretta. Ci è cascato anche Pasolini con Ninetto Davoli - e al limite strappando Totò alla sua maschera di pupazzo comico - ma cadendo in una sorta di pantomima artificiale - non tanto La terra vista dalla luna quanto alla “sequenza del fiore di carta” l’episodio di “Amore e rabbia” in cui il Riccetto vaga per la città con il fiore e la sua innocenza e non si accorge delle brutture del mondo. Ecco anche Del Bono sembra una sorta di Riccetto, elogia canta e si fa corpo vivo di un’innocenza  portando con sé la verità in corpore  vili di Bobo e degli altri (   Gianluca Ballarè, Nelson Lariccia, Pepe Robledo, tra i suooi totem di carne)
Nato come si diceva come un omaggio alla richiesta della madre, in realtà è anche un testo in ci si intuisce che si sia finalmente  “liberato della Madre” la madre fallica che lo reprimeva,  fino a  transitare oltre il suo  corpo:  Bobo, portato per mano, sempre più anziano e bambino assieme sembra ora finalmente ciò che è sempre stato: il figlio di Pippo, madre di un anziano Padre destrutturato e impotente.
Del Bono diventa anche capocomico di questa compagnia di Freaks della libertà, fino alla prova vivente, all’esposizione vera    del “migrante vero” –  con il piccolo artificio “plateale”  di collocarlo a bordo platea, come a dire “non è teatro” è fuori dal palco – che  racconta  sua storia vera di odissea verso l’italia  - ma lo fa “doppiato” e del migrante in scena esibisce solo il suo corpo amuleto, il suo corpo che taumaturgicamente garantisce verità all’operazione “Vangelo” come fosse  un  Lazzaro, il miracolo che si compie: la rappresentazione è IDENTICA alla verità. E’ la stesa cosa - e tuttavia è un reality, ancora una volta, non una realtà, ma la sua più falsata cartolina. Non è Cristo, ma sono le processioni turistiche nelle vie di Gerusalemme, sentite come “vere” – ma la Gerusalemme antica è in realtà una ricostruzione fatta nel 700.


 PS mi sia consentita una nota finale: questa celebrazioneautoassolvente di fronte alla migliore borghesia milanese, intrisa di poiticamente corretto, di cultura della libertà a zampa di elefante, con mega citazioni  anni 70, è fatta ormai da “ vecchi” all’indomani della morte del genitore - esperienza sicuramente comune  a tutti 50-60enni presenti in sala, coi loro capelli lunghi ma grigi. E così diventa tristemente patetico il tentativo di far reagire la platea con le braccia sollevate a ballare la ritmica funky di Jesus Christ Superstar perché quella platea è fatta di ex-giovani degli anni 70, ormai vecchi che sano che tutta questa messa che celebra la “libertà” messa in scena da Del Bono non è altro che un tentativo disperato, e ultimo di auspicare un “liberazione”dal pensiero della morte. Tutta questa vitalità anni 70 diventa un arrancato dondolìo di braccia anchilosate dall’artrosi di un pubblico “super-corretto” e consapevole che va in cerca di questa innologia giovanilista per  illudersi di rimuovere e liberarsi” si ma dalla morte imminente - non è un caso (si pedoni se finisco così) andando in bagno ala fine dell’interminabile, estenuante ora e quaranta minuti dello spettacolo senza interruzioni, anche il bagno dei maschi fosse affollato di teste grigie alle prese con una prostata incontenibile più  quanto lo fu la celebrata  gioia vissuta in gioventù.

domenica 13 novembre 2016

"CLEOPATRA VA IN PRIGIONE " di Claudia Durastanti - Romanzo, Minimumfax

“Cleopatra va in prigione” (Minimumfax) è il nuovo romanzo di Claudia Durastanti. Un romanzo diverso nello stile, da “A Chloe, per le ragioni sbagliate” il suo precedente bel romanzo da Marsilio. Appena letto il titolo mi sono chiesto perché usare per Chloe e Cleopatra lo stesso gruppo fonetico, lo stesso che per Claudia. Tralasciando gli amuleti della scrittura, in questo romanzo di 125 pagine più asciutto nella prosa, ma con eguale precisione emotiva, da Brooklyn Durastanti crea una nuova storia a Roma Est, ai bordi di periferia che si dispiegano lungo l’asse della via Tiburtina a Roma. E’ una storia di movimenti spezzati, di ore d’aria e di passi e respiri dentro una periferia che però è come fosse centro di tutto, di un doppio amore che Caterina vive anche se nessuno dei due è propriamente “l’ amore”. E del destino di tre vite, che sembrano imprigionate nello spazio troppo stretto dell’ineluttabile, invece secondo me sono nell’aperto, magari disorientate nel tempo fin troppo aperto dell’inconoscibile.


Tempi e spazi dalle parti di Caterina sono certo non proprio il massimo, la realtà in questo romanzo non ha sconti, circoscritti a giornate monotone, ad una periferia che fa da sfondo al libro – anche se più metafora che racconto sociale, in questo romanzo - la notte nel locale di spogliarelliste, o prima, di giorno nel videoclub aperto con il fidanzato e il suo amico Mario. La periferia è soprattutto quella di tre appezzamenti di borgata est, casualmente la stessa dei romanzi di Pasolini senza che il romanzo sia pasoliniano - ad eccetto di un desiderio di comprensione e immersione, che è lo stesso, sincero e Durastanti sa cogliere sfumature con profondità e attenzione anche nelle cose, nei dettagli una sorta di evoluzione antropologica e psicologica che si sta compiendo (deviazione autobiografica, quello scelto da Durastanti è il mio quartiere in cui sono nato e cresciuto e in cui vivo quando sono a Roma) La storia: Ogni giovedì Caterina va a trovare Aurelio nel carcere di Rebibbia. Sono entrambi figli di quella Roma popolare. Hanno provato a costruire un qualcosa insieme con le loro attività commerciali, Ma le cose sono andate storte, anche Caterina, ex ballerina di danza classica, si era ritrovata a lavorare come spogliarellista proprio nel locale di Aurelio. Una soffiata ha svelato traffici strani, ora Aurelio è in prigione, ed è convinto che lo abbiano incastrato. Caterina lo aspetta, ma in parallelo inizia anche una storia di amore-non amore, di quelli che non riesci a definire, ma solo ad agire, con il poliziotto che ha proprio arrestato Aurelio. Forse ha voglia di pace, alle sue spalle una storia non lieve, con un padre che era finito in prigione anche lui -con accuse di molestie su ragazze minorenni e Aurelio, un fidanzato che alla fine più che amore è una cosa che “esiste da sempre” dice Caterina al poliziotto. Come Roma, mi verrebbe da dire, alla non-romana Claudia.


L’architettura narrativa è quella di una storia di amore triangolare, tra jules e Jim e un classico popolare alla Clopatra appunto. Sarà propri la scelta d’amore a determinare il resto, e a definire quel senso di destino o ineluttabilità di un’appartenenza altrimenti negative: Caterina cerca la sua accettazione di quello spazio in cui vive e delimitandolo lo definisce come spazio identitario e ci trova la sua collocazione, per non subirlo come magma indistinto. Eterna Roma, non Roma. L’ombra dell’ineluttabilità qui c’è, è reale: già nella storia famigliare, la prigione, il disagio economico, la città difficile. Lo stesso amore difficile. E Roma: la Roma di Caterina/Cleopatra è una Roma . Caterina esplora la città, cammina perché non può più danzare e queste sue passeggiate da flaneur sono alla fine una ricerca di senso. Ropma fatta di una opposta bellezza a quella usata da Sorrentino . Fatta di una luce segreta umana sulle cose, molto diversa dal fumettismo coatto e dark di Jeeg Robot che racconta una Roma deforme, grottesca, ma alla fine finta.


…la notte Caterina si distende sul suo materasso ancora appoggiato a terra e anche se non fa dei sogni particolari sente un calore diffuso e ondulato nel corpo e sotto le palpebre intuisce lo sciabordio lilla e argentato delle stelle, astri che si dilatano e si sfilacciano per fondersi con la luce dei lampioni che punteggiano la strada in cui vive, una strada che si srotola in una matassa ingarbugliata di tangenziali e raccordi fino a uscire dalla città in cui è cresciuta, una fossa di mattoni e sabbie mobili fortificata dall’ abitudine e dal futuro che non arriva, dove il fiume prende fuoco al tramonto e il sole che si schianta e si rovescia sui palazzi trasforma Roma nel posto che non lascerà mai, una crepa in cui Caterina affonda e respira a occhi chiusi, tutta miseria e asfalto finché i suoi muscoli non la risospingono in alto e lei torna a un destino dolce ed elettrico, tonificato dagli esercizi e dall’ amore; la città dove si alza ogni mattina prima ancora che suoni la sveglia e in cui passeggia tra gli steli alti fino al ginocchio e gli arbusti del parco sotto l’andirivieni rumoroso degli uccelli, prima di arrivare alla fermata dell’autobus con la sua andatura sbilenca ed elegante, una sconosciuta, a cui i passanti dicono ancora che cammina come una ballerina”……



. Caterina flaneur cerca un’appartenenza . Caterina non vuole fuggire, non è disperata, sta semplicemente cercando di capire dove è il suo posto. La storia di Caterina e Aurelio è per certi aspetti una storia di perdenti , ma Durastanti lo calibra bene, dando spazio ad un ammutolimento, forse, o un silenzio di chi sa che questa è la vita, non ce n’è un’altra. L’uso sottile del discorso indiretto ci porta senza usare la prima persona dentro questo silenzio , la disperazione viene ammaestrata (non a caso una scena chiave i svolge intorno ad un circo) ma non ci sono colpe e rancori: Caterina ad esempio ha l’anca rovinata dalle botte di Aurelio, lei non potrà più ballare, ma in modo ineluttabile accetta un altro lavoro, e lo accetta anche con una forza gentile, e tollera ancora che ci sia Aurelio con lei, come se quell’ anca spezzata fosse per paradosso il segno di una unicità della loro storia. Ecco quando la letteratura indaga nelle pieghe dell’esistenza per smontare i luoghi comuni che in questo caso, molto correttamente, ci vedrebbero suggerire a Caterina di abbandonare un fidanzato violento. No qui non è più sociologia, come si diceva, forse potremmo dire psicologia dei luoghi? o poesia, o forse danza, spazio. La scrittura di Durastanti, la sua prosa veramente di grande forza nei libri scorsi, qui si fa meno tempestosa, Durastanti preferisce affidarsi ad una precisione fine e sussurrata, ad uno sguardo che vuole restare leggero, una danza di sguardo sulle cose e quei dettagli affida variazioni emotive, sentimenti , primo tra tutti un sì alla vita anche nelle difficoltà (la convivenza con la madre, i lavori umili, i rapporti con gli altri). Un amore. XXI secolo. Più che Cleopatra, divisa tra un Cesare e un Antonio, c’è una segreta Penelope, che non si lamenta del destino, lo accetta, lo sfida forse, senza svelarlo, non fugge, attende. E roma serve forse a creare un sub-sound di Storia – laddove la storia è anche una successione di rovine, dunque di catastrofi. Il vento spinge e si accumulano macerie come è noto. Anche ai piedi di Caterina - e forse a quelli di Aurelio, grazie a lei

“Aurelio è costretto a vivere in uno stato di premonizione costante: prima di Rebibbia questo senso per il pericolo non c’era, ma adesso dovremo conviverci. Ora abbiamo dei sensori particolari, siamo come i canarini domestici mandati in avanscoperta nelle miniere di carbone per rilevare le sacche di gas e morire prima di tutti. Adesso c’è qualcosa in Aurelio, qualcosa in me, che ci rende ipersensibili alle catastrofi, ma non è detto che, pur sapendone interpretare i segni, saremmo in grado di scappare in tempo o di avvisare gli altri per salvarli. Forse siamo sempre stati così, e crescendo la nostra sofferenza invece di renderci deformi ci ha resi privilegiati, facili da usare, ma anche speciali, destinati a essere consapevoli degli strati più infimi e nascosti del mondo e a renderli noti anche quando non possiamo fare niente per migliorarli...”


 Questo è anche il compito degli scrittori e Claudia Durastanti ci riesce.

sabato 23 aprile 2016

BOCCIONI A MILANO. IL FONDATORE DI INSTAGRAM....

Il 900 stato un secolo dei nervi e il secolo della tensione biologica, erotica, nervosa, psichica. Il corpo che diventa più veloce della coscienza. Il corpo è collettivo, è già una folla. Ma il corpo entra in una presenza fisica, replicata in immagini inedita prima. Se Cartesio aveva inaugurato nell'epoca moderna con “cogito ergo sum” il 900 prima di Lacan, prova a ribaltarlo, parte dalla vitalità di una società che oscillava tra decadenza ed estetismo, tra merce e sessualità, ma anche senso della mutazione inquietante (vedi (D’Annunzio, la Belle Epoque, il Simbolismo ecc).

Il ribaltamento parte del Sum: un essere già gettato in questo mondo, da qui parte la facoltà del pensiero. Freud indaga lo stesso percorso. Nel corpo, sono. Quindi penso. L corpo pensa addirittura prima del pensiero, con modalità inedite, un linguaggio dentro il linguaggio ufficiale. E poi il corpo Pensa la mia attività di energia psichica che risente del desiderio, produce fisicamente materiale immaginario. Il mio cinema proietta un film di cui poi dopo soltanto saprò la storia.

L’inizio del 900 è un’esplosione, una sorta di accelerazione biologica corporale, fisiologica, sensuale, erotica nel più pieno senso della parola. Anche la violenza della folla è così. Del lavoro meccanizzato. Sono i Tempi moderni, di Charlot. Siamo materia.
 LA materialità è un altro elemento, un materialismo per certi aspetti anche commerciale quindi anche un materialismo feticistico, materialismo della libertà del corpo. Così il corpo del colore e della materia plastica delle statue cerca la sua libertà dinamica.

Nuovo habeas corpus, è il corpo in marcia che spinge la potenza stessa dell’acciaio, lavoro, guerra, rivoluzione. Il materialismo della biologia e del desiderio di appagamento della biologia, la tecnologia, la tecnica anche della pittura stessa e del linguaggio che paiono staccarsi completamente da ogni riferimento. Il movimento fabbrica sé stesso, le fabbriche produrranno l’acciaio del nuovo movimento, che era già nel corpo, nell’accelerazione psichica che il secolo aveva inaugurato. Queste sono le “Forme uniche nella continuità dello spazio” che Boccioni crea, congela in bronzo, una logica del tempo che si materializza, istantanee tutte agglomerate, la potenza della forma è la dinamiche del movimento che occupazione di uno spazio e di un tempo. Chi vive intensamente il secolo, vive per questo: essere qui, essere è tempo, qui è spazio.
Questa è la radicalità di Boccioni, e la cosa straordinaria è che questa accelerazione psichica sia avventura in pochissimo tempo, interiormente. Quello che c’è di bello da rimeditare nella mostra di Boccioni è questo percorso dell’anima, della psiche. Immaginarne la potenza – come fecero Braque e Picasso, pochi anni prima, ma che stavano nella più evoluta Parigi. E tra l’altro, lì vennero raggiunti di gran carriera, da Marinetti che nel 1909 mentre Braque e Picasso di rubavano le idee (il secondo al primo) in una tensione umana fortissima. Con Marinetti anche Carrà e Boccioni, e Umberto con la sua “divina gaiezza”, ricettore straordinario, segue a ruota Pablo nel dar vita ad una trasformazione della figura, del linguaggio stesso della pittura superando anche il divisionismo: è il movimento, questa urgenza, questa rabbia,  forse, rabbia biologica, che genera la figura non è la rappresentazione di una figura in movimento. Qui sta il rovesciamento di posizione – che noi oggi sappiamo leggere e vedere, ormai come un dato classico, ma pensate ESSERE questi corpi accelerati di instabilità psichica, vivere questa urgenza di un secolo che nasceva come una carica di cavalleria o una folla inferocita. Il 900 è un infanzia della storia più tremenda di qualsiasi mostro divino.

quella tensione così forte, di accelerazione della storia dell'arte e della propria storia personale, di questa "infanzia" che sbocca in un delirium di scomposizione è testimonianza - anche psicologica, tra adorazione e timore di questa Mutter mediterranea e troneggiante..una testimonianza quasi edipica (vedi sotto**) - nelle foto, nei bozzetti e poi nel grande quadro "Materia" (Mater, Materia) in cui è dipinta la madre e nella sequenza di lavori c'è questa trasformazione




 in questa sequenza, non solo un 'accelarazione della storia dell'arte tra 800 e 900 in un solo anno, tra la foto della madre che fa la maglia e il dipinto "materia" ma anche tutta la "geografia del corpo materno" di cui parla Melanie Klein, la scomposizione e la ricomposizione dell'ordine del discorso simbolico, in relazione al corpo del bambino e quello della madre......


La dissipazione continua attraverso il movimento attraverso la tecnologia attraverso le macchine come primo risultato dell'epoca del XX secolo appena lanciato,  quando appunto tutto questo era ancora molto materiale,  Boccioni lo intercetta, lui che viene da un mondo rurale, lontano, la Calabria della fine del 800..porta in sé un cuore antico nero arcaico poi approda a Milano e in questa città incontra innanzitutto l'arte tutta la storia dell'arte di qui c'è la testimonianza nella mostra di Milano ni disegni preparatori documenti che l' attestano. 

La città che sale: 1910 1911 è una Milano e un’Europa che si prepara ad anni rivoluzionari: la guerra e poi la rivoluzione d’ottobre, costruire, demolire. Lo spazio è il teatro di una dinamica del tempo che è anche un movimento di caduta e di innalzamento.  La prima guerra mondiale che stava per scoppiare sarebbe stata una guerra cubista, come la definì Gertrude Stein, perché gli uomini per mimetizzarsi usarono proprio tecniche di scomposizione della figura messe in atto dai cubisti pochi anni prima. Oltre che una macellazione frantumazione, urlo, gettarsi in avanti, con caratteristiche anche futuriste.

 Per Boccioni l’arte in quegli anni, prima di partire lui stesso soldato (e morire, nel 1916, ma non in azioni di guerra, ma in esercitazione)   diventa una sorta di battaglia continua di corpi naturali o di ferro, di cemento, bronzo, in ogni caso “erotica”, un arte che cerca di (ri) produrre una comunicazione fluida un'irruzione continua dell'arte stessa nel tempo, ma a dire di noi stessi nella Storia.
 Erano anche gli anni del cinema è quindi l'immagine doveva opporsi questo problema di essere concorrente con l'immagine resa dinamica. Oggi è tutto normale per noi ma quelli erano anni in cui l'arte è sentita molto di più, la riproducibilità dell'immagine prima che dell'opera d'arte ma anche la riproducibilità dell'opera d'arte medesima erano la pressione che l’arte sentiva.

 Poi c’erano le superfici cioè gli oggetti e anche l'immagine degli oggetti, cominciava esserci la pubblicità (Boccioni lavorò molto per la pubblicità) per esempio pubblicità significava anche cominciare ad evocare gli “loghi “comincerà ad evocare i simulacri cominciate dire ad identificare l'immagine della dell'oggetto più che l'oggetto medesimo. Sono le superfici gli elementi in cui tutto viene a scorrere, un desiderio di immediato impatto e fruizione, fisica, erotica, psichica, Emozionale. Erano contro il romanticismo, ma ne erano lo specchio marionettistico.
 Boccioni e i futuristi, forse più di altri per la loro connessione al populismo fascista che stava nascendo, fu un movimento che intercetto quello della psicologia delle masse che aveva intorno, più di altri.
L’arte futurista desidera essere agganciata al proprio tempo, significa appunto sottrarla al monopolio dello sguardo puro, del artista o del singolo fruitore, ma cerca di interpretarne una sorta di fruizione accelerata di tante immagini. Come allora il cinema, oggi l’erede del Futurismo è Instagram.
 Boccioni sperava di fondare Instagram, cercherà di farlo attraverso quella che è l'accumulazione continua della dinamicità anche delle immagini appercepite in un solo luogo, ma come fosse uno scroll temporale velocissimo.
. E al tempo stesso vuole cancellare proprio nel fondare Instagram, quel che è oggi per noi, buttate a mare il chiaro di luna e i ricordi, buttate a mare ogni possibilità di “album dei ricordi” dell’amore, cancellate ogni memoria, siate la superficie della vostra memoria RAM, non l'hard disk questa la divisione netta che farà Boccioni, senza nostalgia. L'idea di superficie basta a sé stessa, cioè senza essere nemmeno profondi superficialmente si deve produrre energia: Boccioni realizzerà quel dipinto che si chiama “rissa in galleria “del 1910 è che proprio è già nel tema rende evidente il concetto che dominerà per tutto il novecento cioè la conflittualità e la prima rivoluzione, la rissa – ancora oggi, le gang rap – allora furono la piccola prova in cortile di guerra e rivoluzione.


 Velocità simultaneità dinamismo sconfinamento contaminazione tra linguaggi sono quella produzione di significato che ancora noi oggi utilizziamo ovvero scattare continuamente foto metterle dentro un flusso continuo dinamico collettivo,che è Instagram, twitter, facebook...
 che crea immaginario da questa sorta di punti il futurismo è il continuum spaziotemporale delle immagini, come certi collage, dome le miriadi di foto che foto che ci sollecitano continuamente. Quel che creano però non è una “Visione” non una rappresentazione unica del mondo, ma è semmai proprio uno sciame condannato ad una perenne instabilità e coesione al tempo stesso, una collettività in continua liquida comunicazione, o gassosa, o come uno stormo o sciame un'aggregazione che peraltro aspetto potrebbe sembrare anarchica, ma non lo è, invece danza. La sua forma è dinamismo temporale dello spazio.  Una sorta di rivoluzione permanente della immagine nel tempo con flusso del tempo. Con BOCCIONI il futurismo inaugura la fine dell’arte e la sua sparizione situata priori dentro la proliferazione artistica e creativa di milioni di “gram” istantanei, pseudo artistici e creativi - - tutto sparisce sempre più in fretta nel retrovisore della memoria o nel niente del cervello- memoria ram di una coscienza che considera la durata delle cose soli quella del loro accadere. Tutto accade, anche dio. Il suo, non un Avvento, ma un Evento.

giovedì 7 aprile 2016

MICHELANGELO PISTOLETTO E LA MELA DI MILANO

 PISTOLETTO E LA MELA DI MILANO
Michelangelo Pistoletto,OVVERO lo specchio dell’arte. E’ noto l’uso che ne ha fatto l’esponente dell’arte povera, diventando ricchissimo. Tutti gli artisti sono specchi di noi. Pistoletto ora ci permette di riflettere sull’uso “social” dell’arte, del resto il suo progetto è da anni molto legato a territorio e fondazione di factory creative.
L’obiettivo – anche a vedere le tante collaborazioni anche con progetti di sostenibilità in cui MP è impegnato – è stato sempre quello di integrare l'elaborazione artistica con idee progetti umani concreti per intervenire anche nella ambiente sociale e naturale.
Un misto di arte educazione ecologia economia, politica spiritualità .Ora è il turno de “ La Mela Reintegrata”, realizzata e installata al centro di piazza del Duomo a Milano per l’apertura dell’EXPO, viene collocata definitivamente in un luogo cardine della città: piazza Duca D'Aosta di fronte alla Stazione Centrale.
Però.
Opera brutta. Brutta in sé e brutta come è stata ri-collocata.
E tuttavia rispecchia alcune cose.
La mela è esattamente quel simboletto lì, che conosciamo tutti e da li parte Pistoletto:scrive
“ natura e artificio. La mela significa natura; il morso della mela significa artificio, così come lo vediamo utilizzato in un marchio di computer mondialmente diffuso posto ad emblema della tecnologia che sostituisce integralmente la natura”.
insomma l’arte è l’apostrofo arguto del luogo comune. Prendi un simboletto facile e noto e replicane di fatto l’iconicità. Pistoletto non spezza l’aura del prodotto di Steve Jobs, semplicemente lo celebra. La funzione ironica dell’arte pop è azzerata.
inoltre L’equilibrio tra artificio e natura qui non c’entra, semmai l’equilibrio tra artifici, perché la collocazione davanti alla Stazione Centrale di Milano non s’accorda granché con la bellezza artificiale, ma come tale quasi “naturale” di un luogo precedentemente costruito con i suoi equilibri. Altro che Mela reintegrata, qui è proprio precipitata, un monolite alieno.
ovviamente responsabilità primaria è della città e delle sue istituzione che lo hanno lì ricollocata.
Ma cosa rivela l’opera e la sua ri-collocazione? Significativo che Pistoletto abbia organizzato, nei giorni precedenti l’inaugurazione dell’opera, un Forum intitolato “2° Rebirth Forum - La Mela Reintegrata” che riunisce, insieme ad alcuni ambasciatori italiani del suo progetto Terzo Paradiso – Rebirth, rappresentanti delle istituzioni pubbliche, docenti e ricercatori universitari, insegnanti, associazioni della società civile e altri soggetti impegnati in pratiche di innovazione responsabile e sostenibile della società. Con il Forum - scrivono - “ si apre a Milano un cantiere operativo della durata di un anno, il cui obbiettivo è attivare i significati della Mela Reintegrata”.
Insomma la società civile nelle intenzioni sarebbe chiamata a decidere dell’arte pubblica: sono i fruitori a fare l’arte " (negli intenti della Pistoletto farm,tradotto: “scrivere una carta di Milano in cui si cerchi di creare qualcosa che mette assieme la sostenibilità dell'urbanistica necessità di tener conto dell'ambiente naturale “ ecc)
intanto è evidente non solo la chiara concettualizzazione avant-apple, sfruttando la pervasività dell’icona già-vista, mutandola in opera.
L’ "opera" poi si completa con la ricollocazione del già-visto, nel luogo pubblico (luogo comune e luogo pubblico vanno a braccetto) E "il pubblico" dei fruitori aderisce - comprendendo il messaggio facile-facile dell’artista –
così il pubblico si equipara, come facitore e come interprete: il pubblico dell'arte pensa di essere all'altezza e non solo passiamo ma attivo come l'artista, uguale poi qui del Grande Artista!.
Che se-duzione: Quindi si sentirà di avallare il suo progetto collettivo, di cui tuttavia egli è promotore insieme all’elite politica e beneficiario dei ricchi finanziamenti sia pubblici che privati.
noi partecipiamo, l’artista incassa. La democrazia è partecipazione, ma non è certo condivisione dei dividendi né dei capitali.
Per fare tutto ciò, l’arte. Che bello.
Quale emblema di ciò che fu-inaccessibile e astruso e diventa invece condiviso? Finalmente un artista si fa capire, dice il pubblico. Con l’ovvio, ma se sottolinei questo sei snob, fai aprte delle cricche.
Non si accorge il pubblico che operazioni di apertura e facilitazione ai significati come questa sono proprio la pellicola che maschera cricche vere, mentre invece chi critica questa operazione lo fa da un punto di vista puramente estetico e fuori da ogni circuito di benefici monetar innanzitutto e poi di presenza.
Ma il significato dalla Mela Reintegrata? Ammiccare ala tecnologia pop e pervasiva come se quella tecnologia fosse l'emblema della reale mancanza di rapporto integrato con la natura, il simbolo di tutte le sostituzioni e di tutte i simulacri dell'esistenza reale. Pistoletto fa celebra in realtà il compimento del’apple come realizzazione di tutte le avanguardie del 900 che avevano auspicato un ripensamento radicale dell'istituzione dell'arte stessa, proprio per reintegrarla dentro l'esistenza, non per farne un oggetto poetico di elaborazione psico-esistenziale in sé.
l'arte deve farsi non orizzonte di una visione originale, ma farsi prassi diffusa, ridisegnare tutta la realtà. cercando proprio di produrre un elemento che in qualche modo incidesse direttamente sul futuro della realtà. Pistoletto va anche oltre il rapporto tra artista il committente perché l'opera diventa l'esito di una concertazione allargata ai cittadini, spettatore in Opera Aperta. Si tratta di capire la vera democraticità di tutta questa apertura sociale e socializzata dichiarata nelle intenzioni.
Per adesso osservando il Melone alla Stazione, le domande sono sempre metafisiche e piene di enigmi, come per l’arte di sempre: da dove viene? Che cos’è? Perché?


mercoledì 23 marzo 2016

CARMEN PELLEGRINO "Cade la terra" (Giunti)

Ho letto con un mesi di ritardo, forse un anno, “Cade la terradi Carmen Pellegrino, anche se ne avevo letto così come avevo seguito della sua attività di abbandonologa. Però il romanzo era rimasto sullo scaffale, tra quelli da leggere. Nel futuro, ma di fatto era abbandonato.
E di questa strana miscela di un passato abbandonato che preme sul futuro che è fatto questo libro e quasi, magicamente, l’oggetto stesso, il manufatto edito da Giunti se ne era intriso.
Magico è una parola chiave, per il Sud (Ernesto De Martino, se non altro, seppure non ci incateniamo a nessuna definizione)  e per questo libro.

Un romanzo nato da un lavoro di ricerca, tra luoghi reali e carte,  centrato nell’immaginaria Alento, piccola Macondo delle montagne che identifico campane, sovrapponendole alle terre d’origine dell’autrice, alle cui terre appartengono ad una vena aurea di un sottosuolo tanto cavo, franoso, instabile quanto ricco del mormorio dei morti, dei rituali che sono stati (forse sono?) antichi duri a morire.

La storia è simbolica: c'è Alento, paese che ha cominciato a franare, in un passato che pian piano si comprende siano gli anni del dopoguerra -  e una casa, con un grande olmo vicino, quella dei ricchi De Paolis dove arriva a lavorare una ragazza, Estella scappata dalla sua stessa vocazione di clausura monacale, che diventa istitutrice del poco più giovane adolescente Marcello, figlio riottoso e insofferente. Conoscerà – e assorbirà per donarla in voce di prima persona al racconto di Carmen Pellegrino – le storie di vinti e fangosi contadini, parenti lontani, ma non troppo,  dei cafoni di Silone, Alvaro e degli umili di tutta una storia letteraria di un secolo che quelle masse aveva cercate di portarle ad un riscatto.
 Come dei Goylem, fatti di fango e da trasformare in persone, i contadini erano come dei “nati morti” che cercavano nuovi giorni a vivere.  In qualche modo Carmen Pellegrino scrive di un ritorno nell’ombra di tutti i vinti del 900, rievocando e chiudendo un tempo, secolare in cui masse di contadini si sono spostati, senza vincere nulla, anzi: sono i Vinti, nella Storia.

Mi colpisce però che Carmen Pellegrino arrivi a pubblicare, casualmente - o magicamente? - ,  proprio nei giorni in cui masse di persone stavano vivendo un collettivo spaesamento, abbandonando terre, una perdita di orizzonte e presenza - cosa che nel nostro sud non è più vera: è terra piena di arretratezze e di angoli ispidi, sacche di povertà, degrado, però tutto sommato fa  parte  di un occidente del benessere, se paragonato alla somalia, alla Siria della guerra, all'Africa, alla Libia ecc- Un occidente che s'è fatto anche con la sofferenza del lavoro o di chi partì, magari non tornare più, come i figli della contadina Mariuccia, donna arcigna ma capace però di gesti antichi e fondamentali. Con lei anche altre storie si dipanano dai ricordi di Estella, che ben presto, quando anche i suoi padroni lasceranno la casa franante del paese, nell’acme del secolo ( quegli anni 60 che altrove esplodevano di vita cittadina e di milioni di migranti italiani che si inurbavano)  diventerà custode della casa dell’Olmo e unica abitante, rimasta a ricordare.

 Attraverso di lei scorrono le vite di Cola Forti, coi suoi ideali mai realizzati,  la delusione di sua figlia Libera, una delle tante sventurate senza risposta,  la vana speranza di Giacinto di avere un berretto che ne sancisca formalmente la sua funzione di guardia o “guardio”  – un racconto in sé magistrale tra Totò e Checov, l’angoscia della storia dei Parisi, il duro Consiglio, la moglie Custoda, la figlia Lucia, emblema di un meridione contadino ottuso e al tempo stesso vittima infinita. O anche il piccolo industrioso Maccabeo con la sua bottega, che il secolo lo inaugura concimando coi corpi e il sangue dei figli altre terre “irredente” parte di una patria fino a quel momento inesistente e mai pronunciata nel suo nome “Italia”. Estella che resta nella casa e nel paese franoso fino al completo abbandono, sarà poi la custode di memoria e di presenza.

E dunque mi chiedo: Che senso ha però raccontare questa storia, suo modo è una Spoon River ambientata tra le frasche che sventolano sul fiume Alento, quello vero, oggi?
 Non ripeto tutto quello che di buono si è scritto per "Cade la terra" e che condivido – trovate la recensioni qui nella pagina Giunti – ma vorrei ripartire da una domanda: perché Carmen Pellegrino decide di seguire questo filone?

ci sono alcuni "fuochi centrali"a cui il libro fa pensare, oltre, ripeto, tutto quello che è stato detto, possono essere materiali per  per una risposta multipla.

1) Carmen Pellegrino autrice di una generazione che ha initorno i trent'anni, abita una terra a sua volta abbandonata e senza più voce, ovvero non solo  la Letteratura del Meridione – quella di Silone, Alvaro, la poesia di Gatto, i saggi di De Martino – ma  forse la letteratura tout court, tra queste, prima tra tutte emblematica quella del coro di estinti, le voci dei poeti (che vivi o morti, parlano dalla medesima lontananza editoriale).
 Pellegrino è autrice esordiente, ma raffinata e consapevole, ha scritto un bel romanzo per celebrare lei stessa, e come Estella,  una ricca festa della presenza, abitando la soglia del romanzo dove possono convivere vivi e morti, prima tra tutti i poeti (nella nota finale se ne dà conto di questa consapevolezza e dei poeti, un lungo elenco da Leopardi a Gualtieri).  Dei poeti Pellegrino conserva la tradizione di scrittura, la forza e la cura di parola. Quel tanto di desueto, straniante, nella  terminologia e nella costruzione dei periodi, è un elemento felice di coerenza stilistica. Ma al tempo stesso non sta ricordando un mondo che ha conosciuto direttamente, è troppo giovane. Lo ha riscoperto dai libri, è un ritorno del rimosso di cui Carmen Pellegrino è – come Estella – una appassionata sacerdotessa, aggrappata a memorie anche non sue. Il rito della parole è quello che recupera i morti, ma pure quello che ne celebra una trasformazione che è stata un appuntamento con la storia, prossimo futuro, così come la loro storia di folla anonima di un secolo, non è stato altro che questo: un procedere verso un disfacimento e una gloria.

29 c'è lo sfondo reale del sud reale, fin troppo, quello della mutazione che porta dall'arcaico al postmoderno (la Taranta, da rito a showbiz, il folk come cartolina da turisti) la mafia, il pizzo, il mancato sviluppo,  la spaesamento anche senza abbandonare i paesi, e non può essere cancellato, mentre leggo le le atmosfere letterarie e rarefatte di Pellegrino, non cancellare dalla memoria il presente. Se da un lato c'è un mondo o una civiltà che sta per sprofondare definitivamente, dopo un lungo periodo di "omologazione"  in una sua dimensione ctonia,  una dimensione sotterranea, al confine tra la terra e  un  sottosuolo magico che ha qualcosa di carnale, sanguigno misterioso (l’abbandonologa Carmen Pellegrino, il paesologo Franco Arminio, il coppolone Vinicio Capossela, la poesia di Antonietta Gnerre attingono allo stesso pozzo).Se da un lato è anche vero che si sta usando il passato contadino per veicolare una merce (cibo, prodotti tipici, paesaggio rurale, eventi e  festival) ad suo turistico, e  il paradosso per "Cade la terra" è che diventi un'introduzione ad un qualche tour delle rovine, una sorta di baedeker per turisti consapevoli in cerca del vero sud.

Se da un lato non posso pensare anche a questo, dall'altro il libro parla anche al nostro presente, ma in un altro senso, credo. Lo spaesamento è ne senso del futuro. E i movimenti della Storia con le sue spinte in avanti affondante nelle macerie del passato, sono uno sfondo e il cuore del libro è l’umano. La sua sopravvivenza, nonostante la sparizione che - per molti protagonista del libro - inizia già durante la  vita, o meglio la loro sopravvivenza.  Per questo se da un  alto Estella sarà il viatico tra il mondo dei morti e quello dei vivi, con l'apoteosi di una cena joyciana dei morti, dall'altro porta a guardare più lontano, sempre verso sud.

3) guardare oggi a certi vivi stanno nella condizione di “nati morti”, nude vite, private di ogni chance e luogo?   Per questo a mio avviso le anime morte letterarie, comprese quelle evocate dal romanzo di Carmen Pellegrino, secondo me portano oggi nei campi dei rifugiati tra Siria e Turchia. Li sta il confine tra vivi e morti. 
  Non per voler sempre attualizzare, ma perché li si sta compiendo un altro passaggio e mutazione antropologica, oltre che una desertificazione e uno sgretolamento di ogni apparenza. Lasciare tutto, in una città franata dalle granate e girare come zombie per le rotte clandestine, vie dei canti che sanno solo in pochi e approdare in un altro paese, lontano dai propri minareti, proprio come il contadino calabrese di Marcellinara perse di vista il suo campanile dando un passaggio  proprio a De Martino.


4) Altro elemento è la manipolazione della morte. Ormai gli zombie sono un classico, ma i morti di Alento, creati da un'autrice di trent'anni circa, fanno pensare anche a certi romanzi di sci-fi o YA, consumati dalla generazione di Pellegrino,  in cui sopravvive sempre qualcosa di arcaico in certi eroi nel paesaggio post-atomico di un mondo crollato. Lo stesso è per il significativo ritorno dei "morti viventi" al successo tv  (la serie premiatissima  "Walking dead" e la francese (di Carrère, in parte) "Les revenants" anch'essa ambientata in un piccolo villaggio. E tutto sommato anche  il film “The revenant” racconta di  un 'morto' che torna al mondo dei vivi, e ci torna dentro un confronto diretto col mondo selvaggio della terra. 
Questa presenza della morte è un viatico vero il futuro. Non è solo rievocazione, ascolto di voci da un mondo abbandonato – che già è molto: sono  i morti, come Virgilio, a guidarci  in  “un secreto calle, / tra'l muro della terra e li martiri “ come ci ha poi ricordato anche Giorgio Caproni, vero la storia che resta ca compiere. Nostra e loro è una “guerra d’unghie” a scavare per aprire un varco, così come il loro scavare di talpe kafkiane, la poesia apre ancora verchi di un destino più segreto, l’odissea dei morti come dei vivi. 
E' significativo che ancora una volta, di recente, in un'Italia che soffre di un suo immobilismo storico, c'è una trentenne di oggi che parla così tanto dei morti ( colloco questo libro, assieme ad altri due recenti, ad esempio viciono a quelli di Di Fronzo e Peano), negli anni laici in cui ai funerali non si va o se si va, si cantano canzoni rock e si applaude, negli anni della fine definitiva del mondo che aveva un suo pianto rituale.
La generazione di Carmen Pellegrino forse più di tutti s’è confrontata insieme con la cancellazione del futuro e con un presente di “crolli” e morti” (come vediamo ancora in questi giorni)  e una possibilità di morire che è sempre presente in una pace apparente.
Allora il mondo di Alento, che non c'è più, è sparito. A cosa serva rievocarlo sta in un dettaglio, non a caso finale, chiuso in una lettera - ma il cui senso è: i destini possono cambiare. Cambiano, magicamente, anche per il morti, a maggior ragione cambiano per i vivi.

Concludendo: un libro che potrebbe esser letto come un’elegante “fuga”, melodiosa e accattivante, in un hortus conclusus in cui la terra di parole non frana e tuttavia protegge. in realtà, la resistenza di Estella nel tempo ai colpi di un destino feroce mi appare come una scommessa e un ponte verso il tempo che resta, che è pur sempre un futuro. E come certe donne che perdevano il marito da giovani e portavano il lutto per decenni – vivevano tuttavia quel futuro, tutto il loro tempo futuro,  segnato dal lutto ma vissuto. 

Ci prendiamo questo memento  da “Cade la terra”: abbiamo davanti un  futuro da pensare con i morti, attraverso il passato, anche se non ci appartiene,  perché  qualcosa nel futuro lo avremo. Sopravviva  in noi la coscienza – nel modo laterale dei poeti di ricordarcelo - che quello che strapperemo alla terra, tuttavia, sarà  quello che abbiamo già perso.

lunedì 21 marzo 2016

NICOLA GARDINI "La vita non vissuta" (Feltrinelli)

Nella sua storia di autore di romanzi, Nicola Gardini ha spesso fatto della questione del linguaggio. forse meglio, detto in modo semplice, diretto,  delle parole, un elemento di snodo concettuale, come della loro pregnanza nella vita. Poeta – con i versi inizia la sua storia di autore – romanziere, docente a Oxford di letteratura  , traduttore, Gardini ha fatto del suo continuo lavoro sulle parole anche un luogo di snodo di esperienze ed elemento chiave attraverso cui passano le sue storie.
A parte le sue prove poetiche  e quelle da traduttore (ultime per Ladolfi la raccolta “Stamattina” e l’antologia di “Tradurre è un bacio”) ad esempio  in due suoi romanzi precedenti, centrale nell’evoluzione della malattia del padre ne “Lo sconosciuto”  il  disfacimento linguistico del padre, accudito nella sua fase terminale della malattia dell’Alzhaimer, e quello sul “Le parole perdute di amelli Lyndt “ compilatrice di dizionari e maestra di vita e letture .

Anche questo ultimo “La vita non vissuta” (Feltrinelli)   è intessuto di parole, scavate tra esattezza e nouances, e da subito protagoniste fin dall’incipit, con la radice della parole latina “Virus”. La storia è infatti segnata dal Virus. E' quella di  Valerio,  un uomo di lettere (scrvie, insegna latino in un collegio americano), ha poco più di quarant'anni, una moglie, una figlia, 
la quiete passiva di un’ esistenza di marito e padre : una vita di fatto non vissuta a pieno. Lo sarà, quando Valerio riscoprirà la sua più intima radice del vero amare, custodita dall’adolescenza in una prima sfolgorante passione per un compagno di scuola. Ma il vero oggetto del romanzo è il passo successivo e pure collegato alla relazione di coppia (l’amore non è anche un contagio? Una malattia, per lo meno in una certa tradizione romantica) , ovvero la malattia.
 “La vita non vissuta” racconta infatti del confronto tra Valerio e la condizione di sieropositività che scoprirà poco tempo dopo la riscoperta dell’amore, con Paolo, giovane pittore che lo riama, ma che pure avrà la disavventura inconsapevole di contagiarlo. Valerio dovrà così fare i conti con una battaglia con il proprio corpo e con un “Avversario” invisibile e subdolo, che non è solo il virus  -  in anni in cui era ancora difficile la cura e il rischio – ma diventa l’identità mutante di Valerio stesso.
Alla notizia della malattia lo spettro della morte invade tutto lo spazio del vissuto, cose e parole, Valerio è costretto a diventare filologo di una malattia, capirne i sintomi, sapere le evoluzioni, le cure, attraverso le definizioni esatte dei sintomi, la precisione dei farmaci e della chimica. 

All’interrogazione continua, al vissuto drammatico e raccontato anche in tutta la sua banale deriva di degenerazione fisica (la banalità del malanno) sarà però opposta anche un’immediata e ansiosa voglia di vivere cose: e così la risposta di Paolo e Valerio saranno  viaggi, esperienze, amicizie cercate proprio a partire da quella condizione, quasi una rincorsa di una vita che potrebbe sfuggire da una momento all’altro. “Quante cose desideravo fare e quante di queste non le avevo ancora fatte per nulla o le avevo fatte solo in parte o male, o avevo smesso completamente di farle?” si chiede  Valerio. La vita non vissuta reclama. Eppure questa fame di vita, è anche desiderio di comprensione e di non lasciarsi sopraffare dal sentimento del tragico. inltre, Benché sia una storia cui la morte e l’amore sono sullo sfondo (l'uomo che ami e chie ti ama, ti contagia: che fare?)  questa non è una storia che prende una via  di neo-romanticismo. Tanto quanto c'è il rifiuto di arrendersi all'idea di malattia condizionante e assoluta, così l’amore per Valerio e Paolo cerca di sottrarsi a pulsioni e patologie dell'ego, come si è pensato per secoli, da Cavalcanti a Freud. Nel procedere di un monologare continuo interiore, che si trasforma in una presenza di  continue frasi interrogative – che quasi rallentano la storia, il fluire della narrazione, Valerio ppone la lucidità del pensiero all'eplosione delle emozioni.
Non per rifiutarle, ma per rivoluzionarne il senso. E in un passo che segna una svolta, con una sorta di illuminazione , Valerio si rende conto , un giorno,  sì, di essere un malato,  mentre è in una sala d'aspetto,  assieme a tanti altri malati come lui, ma si si accorge che il suo limite interiore è la vera malattia: quel limite è l'accentramento individuale sull'Io. Inseguiamo un affermazione di noi, il piacere, la realizzazione, il benessere. tutto molto legittimo, ma subdolamente è sempre l'Io al centro del nostro agire. E un malato, per via negativa è ancora più individualista e narciso. Nache chi pensa di "fare analisi" alla  fine è accentrato su di sé. 

Valerio invece comprende che bisogna scartare di lato o di fronte, verso l’ Altro : “basta con questa mania di distinguermi, basta con la fatica di avere un nome, un volto” . Cancellare l'io per cancellare l’egoismo e il narcisismo e  anche quando siamo malati, dice nel suo flusso contino di  voce narrante e meditativa Valerio, cerchiamo le ragioni nell’anima. In realtà è il corpo malato ed è la malattia del corpo che muta una coscienza o un ‘anima, non viceversa. E smettere con il continuo individuarsi ha un risvolto anche nella responsablità verso l’altro –  come dirà Valerio più volte all’amico anch’egli sieropositivo e che per la prima volta sente di essersi innamorato ma non ha il coraggio di dirlo all’uomo che ama. La malattia ha questo di buono invece:  sradica l’io da sé stesso, lo trasforma, non siamo più gli stessi dall’oggi al domani. E poi bisogna ascoltare il proprio corpo, per paradosso un ascolto dell’ “altro” che abbiamo scoperto in noi.

Se l’amore è stato fino ad ora proiezione “ sforzo di identificazione … con un fantasma che con l’altro reale non ha nulla a che vedere” come era per il suo primo amore giovanile, ora la malattia fa compiere una rivoluzione etica copernicana. Essere attenti all’altro, non essere l’altro o “essere altro da sé”. E’ nelle amicizie anche nella solidarietà della malattia che Valerio trova una nuova dimensione – con il suo compagno di classe ritrovato, Emanuele, … - anche nell’amore : quell’intreccio complesso di colpa e identificazione, di amore che colma una mancanza e alimenta una ferita, alla luce della malattia diventano un veleno-Bovary. “dovevo rimanere con Paolo. Solo così la malattia sarebbe  diventata una libertà”. Essere vivi sotto gli occhi dell’altro, solo questo il superamento di ogni ambiguità dell’amore. 

Anche scrivere corre questo rischio: di trasformarci in Bovary, non in Flaubert.

Il moteore dell'Io è il desiderio. non lo si può condannare moralmente, certo, chi non desidera viaggiare, fare cose belle? Valerio alla  luce della possibilità di morire, ad esempio elenca tutte le cose che desiderava fare e non era ancora  riuscito a fare: la vita non vissuta, che però ci porta sempre ad inseguire i nostri desideri pria di tutto. 
La possibilità di non soddisfare tutti i nostri desideri non deve  però diventare un’angoscia tagica, non possiamo subire il ricatto frustrante del desiderio. Qui sta l’elemento chiave e il nucleo morale del un romanzo, ed è la malattia a rivelarlo.  Desiderare è una perdita.  Valerio non è Ulisse. Viaggerà, anche fisicamente,  insieme a Paolo, e non a caso, cercherà con sforzo di volontà di occupare e abitare la vita del presente, la vita  attraverso l’accettazione della vita stessa, questo proprio per l’evidenza che la morte c’è. Ma non ad essere schiavi di un'ansia da accumulo di sé. E allora cede anche il desiderio, in Valerio di scrivere il romanzo  (“a un certo punto smisi di scrivere il mio romanzo “). Il romanzo deve nascere dalla comprensione esatta delle cose, non da una proiezione di un sé irrisolto. Ed è quello che fa il suo narratore, Gardini:  “Una storia si può raccontare solo quando si capisce che la propria condizione non è riducibile a una definizione di vocabolario”. “La vita non vissuta” è forse il romanzo che Valerio avrebbe dovuto scrivere, ma non sappiamo se e come lo scriverà. Di certo il perno della sua vità sarà a quel punto "fare" piuttosto che scrivere di sé.

 Qui si inserisce il senso delle scelte di Valerio con quelle narrative di Gardini: una storia che ha, avrebbe,  in sé tutti i connotati per cavalcarne la tigre dell’emotività, del romanticismo (anche Paolo manifesta drammaticamente i sintomi della malattia) ma anche dell’ambivalenza – si pensi al parallelo sturm und drang tempestoso che ne ha fatto Margaret Mazzantini –  ma pure un ricorso all’autofiction come ha fatto Siti. Gardini non fa nessuna delle due cose. “La vita non vissuta” è un romanzo della malattia, ma attraverso una sottrazione del romanzo ad un facile romanzesco   a favore di una lucidità cristallina che si riflette anche nello stile adottato da Gardini.  ” Il malato deve, a posteriori, inventarsi un destino, proprio come Dante nella Vita Nuova.” Ecco, l’invenzione è, deve essere,  a  posteriori, prendendo atto del nuovo dato reale: emozioni, sentimenti, mutazioni ci sono, ma analizzate con sguardo lucido come un Resoconto dettagliato, un reportage del vissuto banale  –  o referto potremmo  dire, perché di referti e dettagli medici in questo libro è pieno, a dare testimonianza di ciò che è, ciò che è stato. E non è un caso che  dalla coscienza che si fa lucida e informata nascerà la piccola svolta finale per il destino dell’amico Emanuele, anch’egli sieropositivo.

Il resoconto esprime il concreto del fare scelto da Valerio. Un vivere incessante negli attimi del vissuto. “Cercare e perdere la vita ad ogni momento” si dice Valerio alla fine. Ecco, non l’Ecce homo, ma il  “Quod egi” ovvero "quello che ho fatto"  diventerà il motto di Valerio. Concretezza, poiesis che si riprende la sua etimologia: fare.

Questo di Nicola Gardini è un libro da cui ho imparato molto, ho seguito il percorso e la concretezza della vita di Valerio, ho vissuto una vita che non è la mia, ho saputo della sua intimità fisica e delle sue emozioni interiori, conoscendo aspetti della sieropositività che mai avevo saputo. E forse mai avrei immaginato. Invece sono reali. E così il realismo illuminista e civile di Gardini pota il romanzo fuori al romanzesco, attraverso un resoconto di verità. Non ricordo chi fosse, fose Bachtin o Barthes, che aveva detto : un romanzo può essere realista quanto si vuole, ma non sarà mai tale: infatti non si vede Anna karenina quando fa la cacca. Ecco, per certi aspetti, ci sono anche momenti e resoconti minimi, al grado più basso possibile di oggettività nel calvario di Paolo e Valerio con la loro battaglia contro la malattia. Per questo, “la vita non vissuta” è un romanzo che provoca gratitudine, è illuminante oltre che illuminista. La realtà prende corpo in parole chiare e dirette, senza il trucco del patetico. Romanzo civile, non mi viene altra espressione. “ll malato è uno che sa che qualcosa è accaduto; e che lui è la viva espressione di quell’accadimento, ora e per sempre.” Ora lo so anche io, lettore.



lunedì 14 marzo 2016

MARCO PEANO "l'invenzione della madre": un romanzo e altre narrazioni e opere sul lutto.



il romanzo di Marco PeanoL'invenzione della madre” (Minimumfax) è un romanzo in cui ancora una volta ci si confronta con il lutto e con la morte di una persona cara. Ancora una volta perché, a fronte di un tema universale, va registrata una certa ricorrenza negli ultimi tempi, sul piano editoriale (Kanusgard, McDonald, Di Fronzo, Ernaux e altri).
 In un' epoca che – come scriveva già Philip Ariès molti anni fa – tende se non a cancellare ad anestetizzarla, quando accade si ripropone spoglia e senza argini valoriali. Un uragano muto. LA morte poi, essendo stata la sua celebrazione, l'inizio della rappresentazione e del linguaggio, da sempre, ad ogni cambio d'epoca, nella forma del suo esser raccontata, segnala cambi di codici.

Nel libro di Peano  il lutto per la madre diventa anche un' elaborazione di una relazione d'amore e della sua dimensione totale.Come dovrebbe essere l'esperienza del lutto quando muore chi ci genera. Ma come ne facciamo esperienza? Ed è sempre la stessa esperienza o magari oggi, per una persona giovane di oggi segnala anche un'inesperienza sempre frustrante?  (per dirla con Antonio Scurati - "Letteratura dell'inesperienza").
L'uso delle immagini in Peano, l'elemento dell'immagine in relazione alla scomparsa della madre, pur non essendo ancora immersa in quel fluxus continuo che proprio in questi ultimissimi anni la foto (l'arco temporale narrato va dalla fine dei 90 ai primi anni del 2000), contraddistingue questo libro, e forse ne evidenzia una specificità contemporanea, rispetto all'esperienza della morte.  La mancanza è universale, come riempirla o crearne un simulacro, no.

 Il rapporto con una madre che resta forse la radice di tutte le relazioni e l'unica esperienza di “totalità”, cozza oggi con un'epoca che ha decostruito, reso relative, tutte le nozioni, le idee, di universalità, ha "liquidato" l'amore, pur facendolo sopravvivere nell'immaginario cine-mediatico nella sua forma più banale e romanticheggiante.
. Quel che mi ha colpito in Peano è che - letto e pubblicato oggi, 2015, questo libro nel giro di pochi anni rispetto alla colocazione della sua storia, diventi agli occhi del lettore di oggi anche narrazione di un passaggio epocale e di una distanza storica. Quando e dove  lei  c'era , era un “altro tempo” – ed epoca (basterebbe pensare già a suo tempo ovviamente al libro di Bendetta Tobagi o di recente quello, diverso,  di Nadia Terranova).
 Tornando a “L’invenzione della madre”: il protagonista è lo studente Mattia, che apprende ben presto che la madre malata di tumore,  non si salverà. Da qui quella totalità in perdita, si tramuta in pratica di dilatazione e rallentamento : del tempo, del ricordo, del pensiero, del linguaggio, dei movimenti, del movimento della propria vita.. Mattia, studia, lavora in una videoteca ed è appassionato di film, ha una fidanzata: tutto si sposterà in secondo piano,  della morte, nessun  momento potrà essere sprecato, neanche un istante dell’esistenza. Da qui la prima conseguenza sullo stile che come tutte le narrazioni di lutto si concentra in modo ossessivo sui dettagli.

Il lutto si addice alla metonimia, al fotogramma.  Come se la scrittura nel farsi dettagliata (tipico)  fosse anche una sorta di rallentamento temporale della morte, da parte di Mattia,  in una narrazione che è tuttavia anche di Peano, e dichiaratamente autobiografica. Ed è una dichiarazione di poetica oltre che una posizione valoriale.

 Il primo effetto che noto è infatti biografico-culturale: Marco Peano è del 1979, se la sua autobiografia va a sovrapporsi a Mattia, i suoi studi lo portano tra la fine del XX secolo e poco dopo l'11 settembre. Non viene mai citato il tempo storico, ma il dettaglio degli oggetti della vita quotidiana di Mattia diventano, ai miei occhi di lettore di oggi, 2015/2016 non tanto la forma di un diario di un lutto,nel presente,  ma il congelamento di un passato che – complice l’evoluzione rapidissima della storia umana e tecnologica – colloca quasi involontariamente questa registrazione di lutto in un tempo molto lontano, in un circuito chiuso di ricordi, facendo del memento mori Storia,  memoria – con un preciso aggancio, esplicitato nel libro:  “nel 1997 i DVD vennero immessi sul mercato e nello stesso anno cominciarono a manifestarsi i segni della malattia di mia madre”.

Insomma:il lutto cambia tanto quanto cambia il modo e l'esperienza del suo vissuto e della sua conservazione - mettere un vestito nero o lasciarsi crescere la barba era per avere sempre un segnalatore ad ogni momento: ma oggi si può?

Il modo di conservare le immagini di chi è morto (VHS dvd, internet e ora facebook) sono  correlativo oggettivo non solo della decadenza fisica e biologica, ma anche del senso stesso dell'esperienza di cosa conserviamo della morte, dell'esperienza della morte alla l luce di questa trasformazione rapida del mondo degli oggetti e della Storia occidentale che sarà determinante nel libro per tenere la memoria della stessa madre.


 Trasferito nelle cose è il pensiero della morte, per sedarlo nei suoi effetti. (effetto-passato per un autore che mentre oggi pubblica il suo romanzo, sicuramente usa netflix e spotify non i CD e le videocassette) . Sono elementi Extratestuali, che stanno oltre la soglia del romanzo,  ma del resto la narrazione di un lutto, così come la condizione psichica del lutto si colloca proprio per statuto al confine, sulla soglia tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi.
Il romanzo è dunque per statuto, luttuoso. Ma si rivela insufficiente, specie perché il lutto oggi  diventa anche la perdita di una Storia. La morte si fa essa stessa straniante e desueta.
Mattia resta scosso, come capita a molti: la morte è destrutturante, depressiva, scatena accidia:   Comincia a vedere tutto in termine di perdita, dilatazione: ad esempio, inizia a rimandare l'appuntamento con i progetti. Nel pc di Mattia Il documento “tesi.doc” è fermo, mentre è dinamico quello “medicine.doc.” I nomi dei farmaci, precisi sono il segnale chiave di una parola-pharmakon che tuttavia può solo registrare il dettaglio. Anche il progetto di coppia si scolla, via via, ammutolisce. Dispare.
Il romanzo stesso dispare, scivola nella sua impotenza: alla prosa asciutta di Peano, che scrive come Narratore in terza persona,  fa da contrappunto il continuo ricorso di Mattia, in uno scivolamento di narrazione libera diretta, a comparazioni, accostamenti metaforici con dettagli e scene tratte da film, ma non solo, in ogni caso altri linguaggi: quasi a rendere esteriore l’acme simbolico, quasi a sottolineare di non aver finito le parole. E’ un dichiarato “rifugiarsi nelle immagini” un montaggi di fotogrammi, perché un genitore che muore, dice il narratore ma certo è anche un pensiero di Mattia,  “è come un film che hai visto da metà e di cui sei certo di ignorare molto”. Eppure per vederla basterebbe “andare di là “.

C’è inoltre un elemento ed è quello del futuro, per una generazione che non ne vede, la narrazione di lutto in un età giovane ha proprio la funzione di autorizzare la rinuncia al tempo futuro. Chi è nato alla fine degli anni 70 è senza futuro senza proclamarlo, come fecero i padri, che quel futuro lo hanno occupato fin troppo, come era di moda uralrlo nel 1977.
Loro lo sono in carne e ossa, quel futuro mancato. Il tempo davanti, all’annuncio della malattia
irrimediabile diventa concepito solo in “tempo che resta” come quello di cui chiedono Mattia e il padre alla dottoressa.  Se nel passato, generazioni che avevano proiettato la visione verso un avvenire e un’utopia, la morte era anche passaggio di consegne di generazione, simbolicamente per Mattia, poco più che ventenne all’alba del XXI secolo, la morte diventa la conferma che il tempo è finito. Mattia diventa “una videocamaera di carne” –  sogno alla 
Cronemberg, ma lungi dall’essere quell' incubo, è invece ormai ribaltato a conforto.

Tuttavia questa videocamera non trasmette, è un circuito chiuso, temporale e psicologico.    Ed è così che questa generazione tende a volgersi verso il passato molto più che le generazioni precedenti, tra vintage, hipster, vezzo: l'utopia per Mattia è quella dell’ “attimo”, ritagliato nel presente o nel passato, l’attimo in cui siamo felici  (ho conosciuto Peano come editor di Valerio Millefoglie) . È quel momento lì aurorale originario legato spesso tuttavia al privato al proprio ricordo personale dentro magari una dimensione storica dentro un ricordo collettivo, come capita anche a Mattia,  che
può far riandare agli oggetti cartoni animati ai gadget alle cose da consumare alle cose che si è vissuto, comprato, i film visti, le trasmissioni televisive dei cartoni animati tutto e immediatamente tutto è irrimediabilmente passato tutto è legato a questa dimensione “ri-uso” del passato. L’esistenza di mattia diventa così un gigantesco “giorno della memoria” – e non a caso questi sono gli anni in cui questo tempo esausto che è stato il secolo breve ha smesso la sua corsa, e si volta all’indietro, a cercare sempre più celebrazioni.
Mattia si concentra così sui dettagli dell’accudimento, con un eccesso, dal punto di vista narrativo, di tecnicismo, materico, di ostentazione della freddezza che è un mix di citazione letteraria ( l’archetipo di Albert Camus, “Lo straniero”) e fissazione feticistica luttuosa.

 Il libro di Peano del 2015 si lega benissimo ad un altro libro, del 2016, quello di Gabriele Di Fronzo “Il grande animale” (che con Peano condivide l'apparennza a quella  città ctonia ed egizia che è Torino) in cui il protagonista  è l’imbalsamatore perso anche lui nei dettagli,  anche lavorativi della sua professione, nella esattezza con cui elenca strumenti azioni e spiegazioni anche scientifiche della lavorazione del cadavere degli animali e che fanno da controcanto speculare ai dettagli dell’accudimento del corpo del padre). Scienza, tecnica, illustrazione iperrealista. Dettagli materici.
lo sguardo sulla morte così opaca e muta, è tuttavia fatto con lenti HD.


Ad esempio lo si vede nei film ed è presente anche in questi libri (in  Nanni Moretti (Stanza del figlio e Mia Madre) si ripete la scena del fissaggio della bara, filmata in modo così ravvicinato, come Peano racconta dell'odore che fa la chiusura di una bara).  Mattia segue con la prosa l’esattezza di malattia e morte, sempre lo stesso doppio binario: da un alto la morte ci rende gli occhi apertissimi e vediamo tutto con insolita esattezza anche i dettagli più banali (effetto MDMA) dall’altro non vediamo più nulla, nel complesso, siamo dentro un’opacità di occhi velati. Di certo, come nelle statue barocche, la sfida alla morte è nella piega e nella riproduzione della carne morta e fissata nel marmo: nell’esattezza. Lo dice in un incipit lo scrittore americano Rick Moody (Rosso americano) “Colui che conosca le pieghe e le complessità del corpo della propria madre, egli non morirà mai”.

L’esattezza della cura, come poi sarà della procedura funebre, c’è anche nel voler sapere: anche se Mattina è frustrato: “più cercavo informazioni in rete più mi deprimevo”; Altro dettaglio epocale: la malattia e la morte ai tempi di Google.

In realtà di fronte alla morte, non abbiamo bisogno di informazioni, ne abbiamo fin troppe, quel che manca è una necessità che taglia le epoche: abbiamo bisogno di un disegno, di una trama (il romanzo di Mattia non procede, è un succedersi avanti e indietro nello stesso lasso di tempo di brevi episodi divisi in capitoli e la narrazione sul lutto è spesso anche una meta-narrazione implicita). Necessità di scriverla dentro un destino: soltanto così la morte ha senso. Ci manca l'immaginazione del futuro, non solo le culture della consolazione religiosa . Un quadro di una storia, una trama.

La morte è disfacimento della casa, ma al tempo stesso archivio: Come Mattia che mete le mani tra le
cose della madre, le disperde e le conserva al tempo tesso. La nostra è una malattia dell’archivio, la coscienza un database. Un accostamento:  la registrazione del morente, della propria reale madre,   che ha fatto  Sophie Calle con la bellissima mostra “MaDre” (il gioco in fracese è “mere” mare/madre) in cui ha tra le altre cose, ripreso per settimane lo scivolamento verso la morte della madre rale, poi ne ha allestito un monumento-opera funebre,  vista tra l’altro a Rivoli di recente (ancora Torino città di memoria e lutto, di mistero, sangue, mummie egizie)

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  E alla Fondazione Merz, ho Pensato a Di Fronzo e Peano guardando anche la mostra di un autore dell'archivio, della memoria e della morte che si conserva nella materia: Christian Boltanski , con “Dopo”: scatole sotto lenzula, silenzio irreale, lenzuola a coprire forse il lavoro stesso di Boltanski dopo la sua morte - lui che sta immagazzinando quantità innumerevoli di dettagli e tracce anche anonime di esistenza per salvarle dall'oblio...  Mattia personaggio come Peano autore - e altri più o meno trentenni oggi -  appartengono alla generazione che negli anni “dopo” la morte dei genitori o di un genitore, coincidendo con l'epoca del dopo-900, si stanno preparando ad entrare negli anni dell'arrcivo evanescente, la rappresentazione continua e continuamente obliata del loro tempo personale nel diario di Facebook, si preparano ad offrirsi specchiati in un selfie agli occhi degli altri e li resteranno nella gran confusione di immagini, i nostri ricordi, come lacrime perdute nella pioggia.


Romeo Castellucci con “Sul concetto di volto nel figlio di 
Dio” aveva messo in scena nell’esposizione del corpo malato, morente e decadente di un padre
accudito, nulla sua evidenza scandalosa, una totale e perfetta assenza: quella di Dio, appunto. E sulla scena l’elemento più forte è stata la merda, che invade la vista. Va da sé che si pensa alla fase anale, alle feci, all’elemento di fissazione feticistica che questa nel “romanzo freudiano” così Mattia. Così Mattia ad un certo tempo si dice esasperato dalla impossibilità di poter curare la madre e mentre sta per arrivare a trovarla nell'altra stanza (un di là ripetuto, a prefigurare fin troppo evidentemente un aldià) si augura che la diarrea della madre quella notte sia così abbondante così violenta e  “pietosa” da seppellire tutti loro quando lui aprirà la porta.

no è solo morto Dio e assente suo figlio, il suo volto così fisso e muto e atarassico: è “la memoria, quella facoltà che reinventa da sempre nel lutto, ad essere oggi  morta. L’ossessione di Mattia  è quella di conservare e quella dell’ immagine riprodotta, nella debolezza del romanzesco :non solo i film associati a episodi personali, ma anche quando vede o pensa di vedere la madre in un pubblico televisivo, durante una trasmissione.

Il sesto senso che ci permette la presenza del defunto è postmediatico. I fantasmi sono anche loro  nel sistema della parcellizzazione totale delle immagini, che ora ci avvolge. Instagram è il codice nuovo. La morte rende assente ogni altra presenza simbolica: icone religiose e religioni su tutto. Faticosamente qualche oggetto, ma sono morti del passato – la bisnonna riesumata, la sua fede. Non sopravvive nei nastri delle video cassette, ma sopravvive in un file audio registrato inavvertitamente col cellulare, forse è confusa nella folla di spettatori di una trasmissione tv. Poltergeist. L’invenzione della madre è di fatto  la (sua, nostra)  riproducibilità tecnica di presenza. Il lutto è tale, la morte è tale solo se sta dentro questo sistema – e tutti gli episodi folcroristici della morte ai tempi di facebook in realtà sono dentro questo quadro: farsi un selfie tutti assieme nel giorno del funerale della madre e postarlo, non è più una degenerazione di un momento sacro, ma il memento necessario per superare il vuoto. Mattia vive la morte della madre prima di  facebook ma con la sua scrittura addizionata di immagini e frame di film è come se preparasse questo terreno.

Non è un caso che il “dopo”, il tempo che viene, senza essere tempo ovvero l’ultima parte dell romanzo è ancora meno “narrativa”, è un film dei ricordi ancora più  slegata dalla trama : trama, storia è quella della presenza in vita, il dopo è una serie di piccoli capitoli, ancora più frammentati, che  forse appesantiscono anche un po' il libro (anche l’ultima pagina “tutte le parole del mondo è troppo ostensiva, si capiva già tutto prima)   ma che al tempo stesso lo riempiono di ulteriori elementi di riflessione diventando quasi una sorta, qui si, un diario- saggio (e più debitrice dei “Dove lei non è” di Roland Barthes ma forse tutto il libro è bathesiano) .


Siamo alla Deriva senza approdo, nella parte finale del romanzo, la più incerta - come  quelal di Di Fronzo è invece la più forte e radicale - ma significativa nel suo essere  deracinè rispetto ad un ordine narrativo. Mattia , dopo, l'anno del "dopo", apre il computer di casa e legge una scritta inglese “This day will never Happen Again” . Condannati al presente, i  detriti della materia del passato accumulati ai piedi, ecco il non ancora trentenne Mattia che nella vecchia officina del nonno trova una foto della nonna quando era giovane e nei suoi occhi vede, con una preveggenza rivolta e cercata nel passato, come un Pollicino nei frame, come un tossico dove non c’è più nulla, la presenza della madre anche prima di lui, per poter immaginare i giorni che l'attendono e creare una trama che invece si è sfaldata per sempre: il futuro ha i tratti del passato che si preparava al nostro presente. Anche nella sua possibilità non percorsa .
Mattia rovistando trova anche un fascio di lettere indirizzate alla madre, da un altro uomo: fanno immaginare un “se” un’altra storia possibile, un altro padre: è il passato ormai l’unica fonte in cui possiamo immergerci in un ‘immaginazione del futuro. L’invenzione della madre è l’invenzione del futuro che poi siamo stati. O anche non siamo stati, in ogni caso: è lì che cerchiamo illuminazioni e intermittenze, e  risposte  a domande non ancora formulate.

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...