sabato 28 settembre 2019

ANTONIO IOVANE "Il brigatista" (Minimumfax)





Al centro del romanzo c’è Jacopo Varega, terrorista delle BR arrestato – siamo alle prime pagine – sulla spiaggia di Castelporziano nel 1979 proprio durante I giorni del mitico Festival di Poesia. Varega è un uomo d’azione, ma nel partito armato c’è arrivato per un labirinto di ragioni interiori, in cui la poesia ogni tanto affiora come pensiero dell’Irriducibile, come del resto è il suo pensare ideologiche abbraccerà, così sarà lui stesso, o almeno così sembra.

Catturato, Riuscirà a fuggire e contatterà una giornalista, Ornella Gianca che ha filmato la scena del suo arresto per una tv privata. A lei vuole raccontare la sua storia, o meglio vuotare il sacco, perché Varega ha capito che qualcosa è andato storto, che c’è stata una rottura, forse di patto, un tradimento. Un infame. O forse no, forse è che tuttala storia è stata sbagliata.
La lunga confessione davanti alla telecamera permette a Varega – e a Iovane - di strutturare il racconto in capitoli, gli anni di piombo scanditi, quelli cruciali, che ripercorrono la sua evoluzione di rivoluzionario, da lavoratore in fabbrica a uomo col mitra. Intorno altri personaggi, coprotagonisti o comparse: Irene, rigida compagna di lotta armata, di cui Jacopo resterà vanamente innamorato fin dall’inizio e nonostante il sesso, lei sarà sempre un muro. Ci sono tra I terroristi evocati anche I veri appartenenti alle Br (Cagol, Curcio Franceschini ecc.) perché il romanzo innesta una storia di finzione ma verosimile incastrata nella storia vera, da Piazza fontana al rapimento Moro. Dall’altra parte ci sono I Carabinieri, il generale Dalla Chiesa e tra questi I personaggio inventati da Iovane, il Maresciallo Ivano Melis e Salvatore De rosa carabiniere che ci crede a quella lotta.   Intorno inoltre ci sono giornalisti, uno sceneggiatore, altri personaggi degli anni vivi della politica.   
Più che un affresco storico però nella storia di Jacopo Varega sarà in ballo la “questione privata”, perché come nel romanzo di Fenoglio sulla resistenza, la verità non sta tanto nell’epica di guerra e la retorica degli eroi, delle vittime e degli antieroi. 

Quel romanzo ci raccontava infatti di una complessa geometria tra le passioni amorose e la guerra, che del resto stanno alle spalle dell’epica italiana, molto più morbida e sensuale. L’Orlando Furioso, ad esempio, è più l’amore folle per Angelica che non la disfida coi Saracini.
Iovane si mette su questa scia ideale, fa balenare umanità in una storia che non ha nulla dell’epica positiva della Resistenza (nonostante I deliri di terroristi e fiancheggiatori)
La questione privata, dunque. (Io sono del 1965, Antonio del 1974. I dieci anni in più mi permettono di confermare che alla fine degli anni 70 alle manifestazioni si andava per sdegno per idealismo, pe stare con gli amici e per conoscere le ragazze o finalmente incontrare quella ragazza coi capelli rossi che).

 Jacopo Varega Entra nelle BR ci sta per qualche anno e poi ne esce, secondo un arco che avrà sempre a che fare anche con Irene, la sua ossessione. Del resto, è un romanzo, e la letteratura permette questa esplorazione dei labirinti personali. Iovane li mostra, ma certo la sua scelta è sicuramente a vantaggio dell’intreccio giallo (con doppio colpo di scena, tutto ben costruito) e meno tesa ad esplorare I labirinti interiori delle scelte di morte, “demoniache”, e poi le colpe, di ascendenza dostoevskiana.

La Storia italiana di questi dodici anni è già labirintica di suo, e Iovane la ripercorre la evoca, con il ritmo di una sceneggiatura – del resto il personaggio di Giulio Fornati, sceneggiatore di poliziotteschi anni 70, amante della giornalista Ornella, è lì a segnalarci l’altra parte della barricata della Storia, non quella dei fatti e dei documenti, ma lo storytelling da mitologia di massa.
Se degli anni 70 rischiamo di ricordare in modo selettivo, distratti anche dall’idea che – tanto per fare l’esempio più noto - quelli della banda della Magliana siano fighi come Favino e De Maria, è pur vero che non tutto si comprende dai soli documenti. Così Jacopo Varega che viene reclutato e recluta lui stesso a suon di frasi fatte ideologiche, nei non detti delle sue incertezze rivela invece che c’era qualcosa in più. Iovane lo accenna, forse se Varega avesse scritto poesie come Ungaretti durante la prima guerra mondiale avremmo avuto almeno un lampo di quella condizione esistenziale. Ma c’era? Esisteva una coscienza o sono io a immaginarla?


 Questo tratto – per me, che vorrei sempre scavare con lentezza nelle cose – è un punto nodale, se dovessi dire la mia, l’avrei preferito, nel romanzo, ma per altri invece l’equilibro tra la dimensione interiore accennata e poi il necessario svolgersi dei fatti, nell’intreccio storico-romanzesco (che va detto funziona molto bene, non c’è dubbio) per altri sono un pregio.
Mi rendo conto – qui la recensione diventa anche per me “questione privata” – che il fatto di esserci stato più o meno senziente in quegli anni, di aver sentito il piombo, l’odore e la cupezza delle pistole che sparavano, la pesantezza dei posti di blocco anche per noi che uscivamo a mangiare una pizza a San Lorenzo da pischelli, fa sì che a distanza io reputi un mistero, pari ai misteri processuali, ai “misteri d’Italia” il lato oscuro e personale del piombo.
Tanto oscuro tanto quanto le trame che stanno dietro quegli anni e che spiega non solo la scelta di morte, ma anche a scelta di tradimento. 

L’infamità, prima che nel meccanismo Legal thriller del romanzo di Iovane, è nei fatti. E allora, perché uccisero? Ma soprattutto, perché si vendettero I loro presunti ideali, seppur folli e da assassini, al migliore offerente? Perché non c’è dubbio che la storia abbia documentato come di infami (non solo pentiti, ma doppio-giochisti di alto livello) in tutta quella storia ce ne sono stati diversi.
Perché? l’infamia ha a che fare con quel torbido interiore e per me resta inspiegabile – e forse fa bene Iovane a non provarci neppure, nessuno a mio avviso c’è riuscito.
 Cosa ha spinto dei ragazzi di 22, 23, 25 anni a darsi alla macchia, a uccidere, a entrare in un giro criminale, arrivare fino all’incoscienza di rapire il presidente della DC e ucciderlo.
a volte penso sia l’esaltazione incosciente degli adolescenti. Eurialo e Niso giovani e incazzati. A volte c’è un senso di ebrezza della vendetta, ma di chi? Per cosa? Per quali ingiustizie subite, se la maggior parte erano bravi ragazzi di famiglie normali, spesso anche di buona famiglia, specie all’inizio (la generazione di Curcio, quello vero ma anche di Jacopo Varega )?
di quale rivoluzione parlavano se non lavoravano, e non erano direttamente interessati ai processi di sfruttamento del proletariato di cui si facevano difensori? C’è qualcosa che li ha trascinati, oltre l’ideologia?

“(..) pensavo: lo stiamo facendo davvero, le regole le facciamo noi. Il processo lo facciamo noi. Chi ha provato questa sensazione non può capire” dice Jacopo a un certo punto nel romanzo quando è alle sue prime azioni. Quel senso di erigersi a giusto tra i giusti è l’elemento chiave: “l’ebrezza di essere. rivoluzionari” dice ancora Varega, che somiglia forse a tutte le ebrezze giovanili, più di quanto non faccia pensare il marxismo di facciata: alla fine erano giovani “battelli ebri” anche loro come Rimbaud, erano pari a chi provava l’ebrezza delle droghe, l’ebrezza alcolica.
A quella presunzione di eternità ed estensione della gioventù come punto più distante dalla morte e più vicino all’invincibilità si colloca anche l’altro elemento quello di ritenersi oltre che giusti “gli eletti” I prescelti, legandosi alla lunga catena di arroganze rivoluzionarie che hanno costellato la storia moderna, dai giacobini al mov 5 stelle (che infatti con Beppe Grillo parlando di Giuseppe Conte ha rispolverato proprio la parola “eletto”). 

Del resto, la presunzione di rappresentare la perfezione rispetto all’idea, alla fede è propria di tutte le jihad, sia quella fondamentalista islamica come quella leninista. In realtà la storia è fatta anche da “gesti ridicoli”, come dice il giovane giornalista Galbiati, in un momento cruciale, anche lui al bivio di una scelta. Le coincidenze fortunose, per scelte individuali e private, sono speculari a quelle dei terroristi, ma in questo i personaggi tratteggiati da Iovane lo mettono in chiaro: la lotta è del singolo, come scrive il giudice Sozzi alla moglie, perché “ognuno deve assumersi le sue responsabilità” dirà il magistrato rapito, ma questa lezione civile è solo per alcuni, in un paese dove gli interessi sono privati e le colpe sempre pubbliche. Sia la retorica populista e collettivista, astratta dei brigatisti che quella paludosa e gassosa del sistema democristiano si fronteggiarono a partire da una mancanza di assunzione di responsabilità e scelta attiva dei singoli: lo fecero solo alcuni, chi cercò la verità come Galbiati o chi si batté per sconfiggere I terroristi, come Dalla Chiesa, in entrambi I casi – nel romanzo come nella realtà – finì male per loro. E a suo modo anche Varega…
Questa esposizione a dire “io” è una caratteristica che gli eroi, quelli veri perché sconfitti tragicamente, condividono con I poeti e in un secolo di totalitarismi reali e mascherati la loro sorte, di “parassiti” inetti, estranei, sarà sempre di sconfitti. Ben diverso dall’Io del narcisismo di massa e della sua illusione di vivere una singolarità della società consumista. Che è totalitaria quanto l’annullamento umano della prassi brigatista, una finta identità che rivela una misera di struttura anonima e quel narcisismo altrettanto invasivo e totalizzante. “Questi brigatisti non sono nessuno” è la condanna morale che pronuncia la vedova Melis, a chi non può guardare l’altro se non lo vede, se non vede anche quanto possa essere somigliante a chi guarda. MA senza le questioni personali, non c’è rivoluzione e a Irene è l’emblema, che aggredisce verbalmente Jacopo che le chiede “cosa siamo noi” risponde “che l’organizzazione viene prima delle questioni personali. In realtà tutto si gioca proprio nella questione privata, sia nella scelta che poi nel riconoscimento di responsabilità. La volontà di rivendicazione e quella del voler dire “io” come poeta, porta Varega come tanti brigatisti quegli anni, alla clandestinità e a cambiare e perdere il proprio nome. Sarà quello il contrappasso, l’esilio Il cambio nome e faccia, così che non solo chi lo riconoscerà, ma anche di fronte a quello specchio il narcisista sia condannato a dire: “quello non sono io” – ma pure guardandosi negli occhi Jacopo Varega saprebbe che la sua e dei suoi compagni d’arme è stata una storia di fantasmi. Più che come lo spettro del comunismo che s’aggirava in Europa, come il fantasma di un ‘epica che non c’è mai stata.


venerdì 6 settembre 2019

ANDREA TARABBIA "Madrigale senza suono" (Bollati Boringhieri)


Vorrei parlare del romanzo di Andrea Tarabbia (“Madrigale senza musica”, Bollati Bor.) passando però per una vicenda e una polemica di questi giorni. La presenza del film di Roman Polanski (“J’accuse”) alla mostra del cinema di Venezia e le polemiche della presidente e regista Martell, che non ha gradito la presenza del film per le vicende degli anni 70 che riguardano il regista e I suoi rapporti sessuali con una minorenne.
 L’accusa fatta dalla regista cilena: un regista che ha commesso un crimine  –in questo caso è lo specifico di un crimine sessuale, benché la vicenda processuale sia controversa – non può essere un regista degno di attenzione, di essere considerato, anzi va condannato ed espulso dalla Mostra, a prescindere da quale film faccia, dal risultato artistico del suo film (per estensione, della sua opera, vale per tutti gli artisti).
la restia poi si è scusata, ha modificato in parte il suo “j’accuse” (appunto).




La questione era esplosa con un velenoso articolo della rivista americana «Hollywood Reporter» che accusava il Festival di Venezia di essere «sordo» verso #MeToo e Time’sUp. Negli stati Uniti è ripresa l’accusa, quasi fino all’accanimento,  contro l’ottantaquattrenne regista accusato di violenza su una minorenne, Samantha Geimer, nel1977. Polanski è  ora dichiarata persona non grata a Hollywood con l’espulsione dall’Academy.
Un  caso giudiziario che la stessa vittima ha però detto più volte di considerare chiuso, eppure è stata presa a pretesto per parlare a VeneziA di altro – non SOLO DI Polanski ma del gender a Venezia, come se la presenza di Polanski fosse il segno di un mancato rispetto delle donne.

Lucrecia Martell, la regista presidente della regia ha detto una cosa che ci porterà poi al romanzo di Tarabbia: “Io non separo l’uomo dall’artista e credo che la sua presenza potrebbe causare un disagio anche se ho letto che la vittima si ritiene ormai soddisfatta, ed io non sono nessuno per sovrappormi alla sua volontà”.
 Mentre Barbera ha risposto che “un grande regista resta un grande regista (o artista ) quando è l’opera parlare per lui”.
Credo che Polanski  come uomo risponderà storicamente alla giustizia o alla società e alla storia ormai , ma resta un uomo capce di creare un ‘opera di valore e l’opera – proprio per quei processi mai chiari per cui ci si arriva da secoli – quasi non appartiene a lui pur appartenendogli.

Naturalmente non tutti fanno questo, tra gli artisti, ma questa è una delle opzioni che dobbiamo considerare- la autonomia dell’opera dall’artista-uomo  – proprio per conservare l’idea di una libertà e imprevedibilità del senso, delle coagulazioni semantiche, attraverso processi psichici che si riflettono poi nelle scelte di linguaggio facce dell’artista, che ovviamente trova il suo modo per riversare anche la sua biografia e il suo bios, la sua interiorità e le sue interiora, nell’opera, ma non necessariamente e non necessariamente in modo diretto e non tutto sotto suo controllo.

. Altrimenti posizione come quella della Martell si vanno ad accostare paradossalmente a posizione ideologiche che già hanno segnato il secolo – l’appartenenza ideologica degli artisti che ne ha segnato anche il destino biografico, fino alla morte.
La domanda però è anche più profonda – e ci avviciniamo a Gesualdo e al romanzo di Tarabbia - è questa: può un uomo colpevole di un reato anche brutale (la vicenda di Polanski ha sempre tuttavia ombre (quel per cui è stato condannato è di atto sessuale non lecito, non di violenza) essere un grande artista? Come ha detto il direttore della Mostra, Barbera “La storia dell’arte è piena di artisti che hanno commesso dei crimini. Lui resta uno degli ultimi grandi maestri del cinema”. Consentitemi una digressione che non riguarda solo la colpa, ma riguarda la confessione e l’io, nell’arte.

Qual è il rapporto tra un’opera d’arte e l’esperienza di vita di un artista? Tendenzialmente per millenni, gli artisti prevalentemente hanno usato miti, leggende o racconti della religione per significare di un’esperienza che potesse essere comune. Petrarca ha iniziato nel 300 a dire “io “ma come tanti altri, sappiamo come anche quella vissuta o spacciata per tale che fosse, era più allegoria che non testimonianza. Nonostante ciò, via Santo Agostino, l’umanesimo inaugura le epoche della confessione interiore, del tormento esistenziale e psicologico a partire da proprie colpe. Col romanzo del 700 e poi per tutto il XIX secolo, la realtà della vita, degli uomini colti nella loro realtà domina la scena. Gli artisti ci mettono molto del loro, ma spesso trasfigurato, come è normale che sia, perché prevale sempre il linguaggio dell’opera la sua allegoria, il suo senso metaforico. Flaubert dice che Bovary è lui stesso, ma ovviamente non sta confessando la sua storia matrimoniale - benché dietro Emma ci sia in particolare un grande amore di Flaubert. Poi tutto si fa più complesso con l’avvento della psicoanalisi, preceduta da romanzi-trattazione come quelli di Dostoevskij che tuttavia poco condivideva di molti suoi personaggi estremi – benché anche per lui il trauma personale dell’aver rischiato la morte in fucilazione lo abbia segnato per tutta la vita accendendone la sensibilità. Con Freud, le fantasie interiori sono anche la nostra realtà, il simbolo, proiezioni che diventano altra realtà, il sogno è materia biologica, è nel corpo dunque è reale. 
Per certi aspetti si torna all’antico: io sogno il mito, la mia visione non è necessariamente me, è altro da me – io è un altro. Per certi aspetti si torna al piano arcaico: l’artista che si fa interprete, traghettatore di senso, di significati con la sua opera, la sua capacità è questa, difficile dire quale sia il processo. Spesso grandissimi artisti erano incolori funzionari o impiegati – Stevens, Eliot, Pessoa. Spesso la esperienza biografica non ha nulla a che fare con l’opera, il testo. Certo ne è sempre autore il suo autore, che non fa solo il postino per qualcun altro, l’artista è depositario e proprietario del processo creativo di un’opera che non sempre è però testimonianza di ciò che ho vissuto e va letta in sé.
per questo credo abbia ragione Barbera, in questa vicenda. Ci sono casi clamorosi di veri e propri crimini brutali, commessi da grandi artisti.
A tutti viene in mente Caravaggio, e l’omicidio, ma c’è un’altra storia tragica e oscura, di sedici anni prima, quella di Gesualdo Principe di Venosa. Ed è proprio alla storia di questo compositore vissuto a cavallo del XVI e XVII secolo che racconta “Madrigale senza suono” di Andrea Tarabbia.

Gesualdo da Venosa, nobile napoletano di una delle casate all’epoca più potenti, imparentate anche con Carlo Borromeo, nel 1590 a Napoli uccide la moglie, la bellissima e amata Maria D’Avolos, sorpresa in adulterio con il duca Fabrizio Carafa, nel Palazzo che ora è noto come Palazzo di Sangro, del principe di San Severo. Fu un vero e proprio femminicidio se detto con la terminologia e la sensibilità di oggi, fu un atto dovuto ed eseguito secondo le regole del tempo, se ragioniamo con I codici anche d’onore, della nobiltà  dell’epoca – e tutto l’arbitrio che potevano avere (il principe non era nemmeno minimamente condannabile perché li sorprese assieme).
Resta ovviamente un duplice omicidio feroce che Gesualdo compì con la propria mano. Ma pure in qualche modo – poiché tutta Napoli ormai sapeva, obbligato in qualche modo dalle regole dell’onore del tempo.
La cosa sorprendente è che da lì, da quell’episodio che certo fu un trauma, E da lì, per lui culture dell’arte musicale, scaturì Gesualdo è però compositore di musica polifonica, di madrigali e musica sacra ed è considerato uno degli innovatori del linguaggio musicale del suo tempo, un genio. Smettiamo noi di ascoltare Gesualdo per questo? No. Anche se pure verso Gesualdo ci furono delle censure e proprio a Venezia e Tarabbia vi accenna.

Prima però dobbiamo dire che lo scrittore costruisce una doppia cornice per raccontare questa vicenda. Del “male” della ferocia, della violenza, Tarabbia si era già occupato, con romanzi che avevano scavato dentro altre storie reali, ma del più vicino fine ‘900, due storie a cavallo tra la fine della Unione Sovietica e la nuova Russia, la strage di Beslan e il cosiddetto mostro di Rostov, indagando nei labirinti interiori dei protagonisti di quelle vicende, facendo leva sulle ricostruzioni documentarie. Per LA vicenda di Gesualdo, Tarabbia invece ha costruito un pretesto, non solo cornice: Igor Stravinsky, a Napoli, acquista un libro antico e raro in cui un servitore di Gesualdo che da sempre lo segue come un ‘ombra e che forse è la sua ombra e la sua coscienza, narra la vicenda del padrone. Stravinsky che si era già innamorato da musicista della musica di Gesualdo, modernissima per la sua complessità di composizione, è spinto ancora di più a scrivere proprio leggendo il resoconto morboso del servitore Gioacchino, della vita del suo padrone, arrivando a comporre (ricomporre partendo dal metodo di Gesualdo ) un suo Monumentum, dei “madrigali senza voce” . 

Quell’opera fu eseguita a Venezia nel 1960, anche se – ed ecco la censura – il Cardinal Roncalli, il futuro Papa, quando seppe del programma del concerto non voleva concedere la basilica perché riteneva l’artista Gesualdo indegno per le sue colpe di uomo (mostrando ben poca attitudine al perdono, tra l’altro, dopo secoli).
Anche per Stravinsky esplode  la contraddizione. Ama Gesualdo, ma è inquieto per la storia che legge nella Cronaca di Gioacchino Ardytti.  Il compositore russo ha un’idea della musica come sequenze armoniche e matematiche, è un apollineo, la creazione non ha a che vedere con la vita, al tempo stesso è un uomo riservato, mite, borghese nelle sue abitudini. Tarabbia immagina che Stravinsky prenda degli appunti diaristici, durante la lettura del libro di Gioacchino e qui confessa il suo disagio di fronte a tanta violenza di Gesualdo, di come “orrore e bellezza convivono e si danno nutrimento uno  con l’altra” come gli aveva detto lo strano personaggio che lo persuase ad acquistare quel libro.
Stravinsky si chiede, pur essendo turbato dalla lettura grandguignol della scena dell’omicidio, se non abbia ragione chi dice che Gesualdo senza quell’atto non avrebbe composto poi I suoi madrigali. I suoi capolavori – scriveTarabbia-Stravinsky – “sono figli degli anni cupi” seguiti alla sua colpa e per lui apollineo, matematico, astratto nel suo avanguardismo, distaccato dalla passioni, “questo uomo cupo, pieno di angosce sciocche e colpe terribili” è un Dioniso, se si fa la domanda cruciale che è al dentro di questo libro e che si lega anche alle cose scritte prima per Polanski: un uomo così terribile, “come ha potuto costruire queste meraviglie, piccole cattedrali perfette di suoni?”. Gesualdo è in effetti, non solo per quell’atto ma per tuta la vita un uomo ombroso, rude, è un cacciatore. Il suo stesso palazzo in cui si rinchiuderà, a Gesualdo I paese che ancora oggi porta il suo nome in provincia di Avellino, per anni a scrivere con la seconda moglie ma tormentato e nevrotico, è dominato dal basso, da un livello subumano, il personaggio Ignazio, forse un figlio della colpa di Maria che Gesualdo fa rinchiudere forse un’invenzione di chi ha steso la cronaca, figura bestiale ed emblema di una cola feroce e bestiale. Eppure in quelle stanze, col peso di tutte queste angosce, prendono vita i libri dei Madrigali che sono una delle creazioni più sublimi dell’arte umana. Come è possibile?

Forse proprio perché l’uomo e l’artista si possono separare, foss’anche una schizofrenia, fosse una dissociazione psichica, ma di certo gli artisti nella creazione, hanno sempre lavorato anche sul versante della distruzione, della decostruzione, dello scarto dalla norma, in qualche modo una rottura dei limiti che era anche una rottura dei limiti interiori. E’ quello che fanno I due musicisti: innovano il loro linguaggio artistico, lavorando sulla tradizione che assorbono e tradiscono, violentano, smontano, ma sempre ne sono parte.
Se ci sono artisti che hanno commesso crimini atroci molti di più – ed è quasi un elemento canonico, banalizzato – molti artisti esercitano quella pulsione di morte delle forme, dei limiti, su loro stesso con auto distruttività, nei comportamenti, legata all’alcool, alle droghe. Altre volte sono l’eccentricità psichica, nel passato classificata come follia (pensiamo a Van Gogh).
In ogni caso il romanzo di Tarabbia – che andrebbe letto però preceduto oppure  seguito dall’ascolto sia dei Madrigali di Gesualdo che del Monumentum di Stravinsky – ci consente un’esplorazione di tutti questi temi, che seppure da una lato molto dotto, parlano anche al nostro presente come si vede. Il romanzo è un complesso di incastri meta referenziali: il romanzo nel romanzo, una biografia, per interposta persona che è una delle scatole metanarrative.
E C’è una stratificazione di piani, sia storico-estetici (il confronto tra Gesualdo e Stravinsky sul piano estetico, musicale) sia morale, conducendo un’indagine assai drammatizzata di cosa sia e possa essere una creatura, nel suo piano oltre umano. Ma sono tutti territori estremi, che collocati nel passato, consentono a Tarabbia un’indagine colta sul tema, affidando a Gioacchino il grandguignol e facendo glossare da Stravinsky le osservazioni più moderne, compresi I dubbi sull’autenticità del manoscritto. Ma quel che conta è l’estremo del linguaggio artistico e l’estremo di un’esperienza biografica dell’artista, come debbano ma soprattutto SE debbano essere legate.

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...