domenica 20 dicembre 2020

NICOLA LAGIOIA "la città dei vivi" (Einaudi) - ovvero: 'na specie de cadavere nascosto

 

LIBRO (NON ROMANZO) DI SICURO: TESTO


La recensione inizia da lontano, dal genere: come lo definiamo? Tutto quello che scrive un consolidato romanziere è “romanzo”? non è detto, o meglio lo è nella misura in cui si accetta che il romanziere svicoli  dai canoni e dai binari del genere – che pure è larghissimo e generoso – e si collochi sul versante non main-stream, che qui io direi semplicemente sperimentale (riprendiamoci questa parola,  come era giusto dirla per Edoardo Albinati (che la rivendica per sé) de "la Scuola Cattolica", un libro che tengo idealmente sul mio scaffale di senso, vicino a "La città dei vivi") versante “sperimentale” dello scrivere in prosa – e narrando.

Perché di sicuro una cosa si può dire: anche se non è certo che scriva “un romanzo”, Lagioia qui narra, potentemente. Meglio: scrive, e lascia che le componenti della storia attraverso la sua scrittura – fino alla singola frase, come un inserto poetico - parlino e dicano qualcosa. È tuttavia un libro/romanzo dove la presenza stilistica si tiene mimetizzata, Lagioia lavora di “concertazione” e di sottrazione.

Ovviamente c’è una narrazione perché c’è una storia. Viene dalla cronaca.
 Il versante sperimentale dello scrittore sta – certo non nuovo in sé – nel modo in cui egli adotta una storia già accaduta e non inventa ma riscrive. Chi va dallo psicanalista fa lo stesso, riscrive il vissuto.

La storia: nota ma riassumiamola: nella notte tra il 3 e il 4 marzo in un appartamento della periferia est di Roma, non distante dalla via Tiburtina, Marco Prato e Manuel Foffo, al culmine di due giorni in cui hanno consumato senza sosta cocaina e alcol, uccidono Luca Varani, che si era presentato a casa di Foffo per una prestazione sessuale da cui avrebbe ricavato soldi, avendo già conosciuto Prato altre volte per lo stesso motivo. Non solo viene ucciso, ma i due infieriscono sul corpo di Varani, ancora vivo o morente, con crudeltà e disumanità. Foffo non lo conosce, Prato l’ha visto ma è solo un conoscente. Cosa porta i due ad accanirsi con tanta ferocia? Forse un odio traslato, facendolo diventare una vittima sacrificale, come si è detto e scritto all’epoca? E a che divinità veniva immolato? Di certo la violenza dei due assassini ha radici lontane, diverse e quasi opposte tra loro, se si segue il ritratto psicologico che ne fa chi li incontra (Lagioia cita molta documentazione di inchieste interrogatori perizie psichiatriche, colloqui) informali, resoconti giornalistici, e latro materiale). Due persone così diverse e che si conoscono poco finiscono per fondersi in una sincronicità del malvagio che ha tutte le caratteristiche della non intenzionalità, seppur assolutamente volontario (è complice il delirio tossico) . difficile muoversi dentro il labirinto delle loro stanze della psiche.

Lagioia percorre questo caso come fosse un Castello (stavolta è più la complessità irrisolvibile della psiche a farmi dire “kafkiano”è anche il fatto che nessun “processo” mi sembra esaurirlo) entrando e uscendo da varie stanze: quelle degli assassini, ma anche quella della vittima, così come dei genitori di tutti e tre maschi giovani, soprattutto i padri degli assassini ma anche di altri personaggi minori, gli amici,le fidanzate.
Dappertutto sembra emergere una pressione psichica e una costruzione collettiva del nostro inconscio. In un caso così estremo Lagioia ha deciso di affrontare il labirinto e anche il Minotauro che c’è dentro, partendo dal punto di contatto tra la solitudine afasica degli assassini (anche in coppia Foffo e Prato sono due solitudini estreme) e il contesto o “coro” così come lo chiama in un capitolo centrale (ci arriviamo). E quel contatto esteso poi allo scrittore e di conseguenza a noi che leggiamo.

. Il Minotauro è “il senso” di questo atto estremo (“perché lo avete ucciso? E perché così crudelmente?”) e andrebbe stanato come in tanti altri casi storici o solo di cronaca di “ferocia” (termine scontato ma anche giusto per Lagioia che ha scelto questa parola come titolo del suo precedente romanzo premio-strega)

La linea di fuoco su cui camminare è: come un atto umano diventa disumano. E lo è?

 Capire non è attenuare. Non c’è nemmeno un momento un rischio giustificazione. La “Città dei vivi” tiene sempre ben chiaro al lettore che i due hanno commesso un delitto non attenuabile o giustificabile, nemmeno un po’.  Anche perché i due hanno confessato, e hanno detto molto. I fatti sono ricostruiti nel libro (e con le loro parole: potentissimo e a tratti insostenibile il capitolo “In fondo al pozzo”) e continuamente narrati: atti giudiziari e simili, r relazioni psichiatriche, e poi all’esterno, i media (tv e stampa) la nera distorta però a schemi di fiction. E tuttavia, la sensazione è di “afasia” per un caso che è stato sommerso dalle parole e dalle chiacchiere e dai commenti social.

 Il romanzo stesso nasce “di fronte all’estremo” e anche immersi nel cloud della chiacchiera. Lagioia, alla richiesta di un quotidiano, di scrivere un reportage sul caso, rifiuta. Poi a una visione più attenta e ascoltando che “la città” non parlava d’altro, decide di affrontare il caso, ma come scrittore, prendendosi la libertà e il tempo.

È interessante il triplo passaggio: due assassini senza un perché, senza parole per dire perché, intorno un intero paese una comunità che ne parla e straparla, poi uno scrittore che – sottraendosi allo straparlare – scrive, puntando diritto all’afasia.

CORO, NON IO. E CROLLO.

Lagioia lavora dunque sulle molte voci, come detto: indagini, rapporti, perizie, testimonianze dei due colpevoli, degli amici, dei genitori, post su fb, interviste mediatiche ecc. Il capitolo in cui le mette tutte assieme si intitola “Coro “e sta al centro del libro. La polifonia di spiegazioni emette sentenze con conclusioni assertive ( uccidono, per alcuni “è l’effetto del consumismo, di una cultura ormai basata esclusivamente sui soldi e l’apparenza” per altri una questione di classe (“quei bastardi figli di papà, stronzi radical chic si accaniscono sul ragazzo di borgata”), c’è chi dà la colpa alle droghe e chi alla follia latente (“erano disturbati”), mentre non si può sorvolare sulla questione dell’omosessualità repressa (Foffo si vergognava di essere gay) o sul fatto che Prato voleva cambiare sesso, ecce cc). Se qua e là nella lunghezza del capitolo si sente un po’ il peso delle tante voci cumulate, penso che alla fine l’idea resti importante: il “coro” è un organismo fondamentale di questo libro. Il coro commenta ma l’origine della violenza è anche nel coro – è nella città dei vivi in cui la morte è di casa.  

Roma è teatro e ambiente “correo”?

All’ interno del coro c’è la parte che credo sia importante: il modo d’essere e di reagire alla situazione dei tre padri  (della vittima e dei due assassini) anche per come  si manifestano in pubblico (due parlano molto, quello di Luca e quello di Manuel, in maniera plateale, anche oculata, eccessiva;  quello di Marco parla zero, per molto tempo e poi scrive una lettera su Fb, ma molto ambigua in cui quasi lascia trasparire un distacco ipocrita per chi si professa cattolico praticante e attivista della solidarietà cattolica). Le madri sono praticamente assenti dalla scena del coro (parlano poco e niente in pubblico tutte e tre)  

Una “scrittura” che costruisce la sua architettura così come “trova” il suo materiale, la “città dei vivi “– il romanzo ma anche la realtà che racconta - è una sorta di “Cattedrale della caduta”, costruito con l’intenzione paradossale di “progettare un crollo”.

Ripercorrendo le carte, in tutti i “tarocchi al passato” dei fascicoli dei giudici Lagioia usa le capacità di sintesi dello scrittore e pur attenendosi ai fatti, è come se cercasse di divinare l’origine del gesto.

Sembra ed è un omicidio casuale, dicevamo. Eppure, forse nessun omicidio può esserlo. La sorgente della violenza, forse nel vortice di rabbia nato dalle “incomprensioni che stringono i padri e i figli e che portano certi figli a ritenere di essere stati offesi” scrive Lagioia, tanto da covare poi un desiderio di “vendetta assurda”? Soprattutto nella storia di Foffo appare plausibile, ma anche quella di Prato era altrettanto irrisolta.

La origine non casuale, può anche essere generata per paradossa dal Caso, ma qui fuori da cosmogonie, siamo nella cruda Roma che ha tracimato il suo tradizionale materialismo in un senso del vivere causale e approssimativo, ingenuo ma superficiale, fino al cinismo, di due individui che sembrano vivere bene dentro il contesto della nuova cultura romana, generata da trent’anni di mutazione antropologica, politica e culturale, diventando anche il cuore del problema per il resto del paese (ladrona), che ha fatto scattare un orgoglio identitario ma vuoto.
Questa “identità gonfiata ma vuota” a me sembra possa essere stato il cuore generativo di gesto senza cuore di Foffo e Prato.

(Mi rendo conto che facilmente un lettore, cercando il senso del “romanzo” quando il libro che legge romanzo non è ma storia vera, un docu-roman come è la Città dei vivi, ebbene il lettore scivoli facilmente nel ruolo antipatico del “giudice”).

Roma, dunque. Ci ho scritto un post separato sotto (se interessa, linka qui) solo per parlare di Roma (insieme a Albinati, metto sullo scaffale con questo di Lagioia, anche "lo stradone di Pecoraro, Pasolini è sullo scaffale sopra e ascolta queste storie della città)

 Ma per ora vorrei dire solo di questa  socializzazione facile, ma che resta in superficie perché è legata  alla storia dei due che uccidono, questi due neo-romolo&remo che sembrano voler s-fondare qualcosa in questa loro alleanza nera fraterna, omo-identitaria, due quasi-estranei che mettono in atto una complicità così intensa, tanto da far scattare il colpo di fulmine omicida tra loro, quando capiscono e si dicono di fatto “uccidiamo una persona”; al tempo stesso sono due che si conoscono da poco, si sono visti due o tre volte. Sta dentro l’apparente socialità da calore umano che la città ispira ma che tradisce sempre, questa storia. Quando uno dei due uccide un altro quasi-estraneo e quasi-per-caso, con uno che, parole sue, “non è proprio un amico” – lo dice Foffo di Prato ai Carabinieri - ma solo “uno che ho conosciuto a capodanno”. Questa labilità di legami basta però ad unirsi e per uccidere?

La bella apertura su Roma, la scena del piccione morto al Colosseo, questo sorvolare alla larga la città da sopra nella sua bellezza che nasconde particolari feroci, corrisponde poi alla fine alla storia-senhal dell’olandese, che riparte e dall’aereo rivede questa città, bellissima verso cui si sente l’amore di Lagioia che però non può non vedere quando la percorre rasoterra.

A leggerlo attentamente a partire dal titolo – il libro è un epos d’amore per la città, nonostante il suo tradimento. (Io, che sono romano d’origine, la amo meno o non la amo più). 


Del romanzo sono io lettore singolo, il tradito, che metto avanti una cosa che mi pare significativa, non tutti saranno d'accordo: che la città sia diventata una discarica di sentimenti “del tempo che fu” (bonarietà ironia, simpatia) divenuti immondizia, piegati da un cinismo e indifferenza diffusa, esibita e fatta anche oggetto di “mitologia” cinematografica ( si, sono tra quelli che pensano che Gomorra o Suburra o Romanzo Criminale siano intrattenimento solo in certe fasce socio-culturali, in altre sia diventata “immaginario”  di riferimento per gang o per gruppi di persone che si immaginano “gang” come negli Usa, ma che alla  fine ne sono ancora una volta la copia grottesca, senza scostarsi tanto dal Nando Moriconi di un “Americano a Roma”)

Roma è la città in cui in ogni caso - e torniamo al libro - poco prima della serata aperitivo “A(h)però” organizzata in un locale proprio da Marco Prato con i suoi soci, si viene a sapere dell’omicidio in cui era coinvolto Prato come assassino, e si decide con sovrana indifferenza e cinismo di farla lo stesso: “la situazione era incredibile” dirà una testimonianza del “Coro”: “Tutti a bere spritz e a parlare  dell’omicidio”. Una serata riuscitissima.

Roma è questo, tutti immersi nell’incredibile ma a dire “incredibile” guardandosi attorno. I cittadini sono diventati turisti del proprio sfacelo, cercando di metterlo in cinema, svoltando qualcosa facendo le comparse, come sempre. L’impero cartonato e da t.-shirt. Cinecittà II, una città immensamente centro commerciale di sé stessa. Disposta a tutto, e in qualche caso anche a uccidere pur di immaginarsi potenza che non si è.

(È la mia città, diventata la città di marziani che dicono ah marzia’ vaffanculo).

 “Fanno gli splendidi in gay street ma poi a Natale vanno al paesello e dicono ai genitori che hanno la fidanzata. Qui tutti odiano tutti e prima ancora sé stessi” dice un'altra voce  dal “Coro”. Di questo odio per sé stessi (e dunque anche il mio per Roma?) di questo odio per le origini di impotenti, di cartonati di una virilità farlocca, è fatta la vicenda dell’omicidio. (è la mia sentenza).

 

LA VIOLENZA HA (DIRITTO DI) PAROLA?

E sempre per stare nell’incredibile o se si vuole nell’assurdo (anche letterario) quando l’avvocato di Foffo, trovato dal solerte padre per attenuare le conseguenze (io credo che in questo atteggiamento del tipo vabbè, che sarà mai, adesso risolviamo, del padre, stia il “Graal” del senso di questa morte assurda)  che cerca di capire come impostare la difesa chiede cosa è successo, arriva la solita risposta di alleggerimento e qui è: “un macello” dice Manuel, che però a Roma è un modo di dire metaforico valido anche per confusione euforica (siamo andati in discoteca e abbiamo fatto un macello). È questo quel che dice - usando parole attenuanti dello slang. Invece il caso vuole che stavolta “macello” corrisponda alla lettera   al massacro, alla mattanza, sul corpo di Luca Varani.

E quando l’avvocato chiede “chi è la persona che avete ucciso” Manuel risponde “non lo so” e quando l’avvocato chiede anche “allora perché” la risposta è: “Non lo so. I motivi potrebbero esser tutti e nessuno”

 

(Samuel Beckett fu accoltellato nel 1938 a Parigi da un uomo in strada, di notte. Un’aggressione di uno sconosciuto. Per molti fu una sorta di scintilla dell’assurdo dei testi che poi scrisse. L’uomo era già noto alla polizia, tale Prudent, e Beckett lo volle incontrare (ecco, anche con l’Avversario l’incontro con l’assassino) e quando lo scrittore irlandese gli chiese perché lo aveva accoltellato, quello lo guarda con stupore e rassegnazione e confessa “non lo so”: il ‘900 del sentimento negativo dell’esistenza, nasce qui).



“nessun essere umano è all’altezza delle tragedie che lo colpiscono” scrive ad incipit di capitolo Lagioia. La famigerata banalità del male ci riguarda, sia per quelle persone come noi che hanno ordinato e praticato lo sterminio, sia per l’atto gratuito come a volte un omicidio, teorizzato e praticato da Jarry a Parigi, cento anni fa (erano gli anni Dieci anche lì) che può compiere ognuno di noi. Capire chi sono questi uomini come noi, serve a cercare di elaborare il senso di una cosa che nessuno di noi pensa di poter fare, ma pure per ceti aspetti potrebbe ritrovarsi a fare senza un perché.

Ma se questi due assassini sono così “afasici” (“non lo so” perché ho ucciso) ha senso che parlino? Che lo scrittore costruisca il caso anche sulle loro testimonianze? Su ciò che avevano da dire loro - mentre la vittima era morta e muta?

Qualche settimana fa Michela Murgia ha lamentato il fatto che Franca Leosini avesse intervistato per la Tv Luca Varani (singolare omonimia), l’uomo condannato per aver gettato l’acido sul volto di Lucia Annibali, sfregiandola per sempre. L’intervista è stata cancellata dalla Rai, la Murgia nel commentare l’intervista fatta e decisa dal programma scrive: “Ad eccezione del tribunale, nella narrazione di nessun altro reato si lascia al criminale la possibilità di esporre il suo punto di vista pubblicamente.” Ad eccezione del tribunale, dice Murgia, assertiva come sempre: e che ne è degli assassini nei libri? Di storici o scrittori? Non so perché Murgia non abbia citato la letteratura, eppure è scrittrice, e sa bene che gli assassini sono parte fondante della narrazione collettiva in cui “il reato” è centrale (dalla tragedia in poi mi verrebbe da dire).
Infatti i criminali parlano da sempre, prima nei libri e a teatro ora in Tv: è pieno il mondo di interviste ai colpevoli e ai condannati, in Italia abbiamo le memorabili interviste di Zavoli e Biagi a mafiosi o terroristi e non solo. I colpevoli vanno sui giornali, vanno in tv, e scrivono libri, dopo esserne stati per secoli solo i protagonisti, scritti da altri, negli ultimi anni sempre più con quella non-fiction letteraria nata con Capote, passata per Carrere e di recente per esempio praticata anche da Siti con “La natura è innocente”. (dall’altro lato è sorta giustamente una cultura che rivendica diritto di raccontare dal punto divista delle vittime, fino al punto che “il discorso della vittima” è divenuto qualcosa di diverso, forse un “discorso forte” tanto da muovere Daniele Giglioli a scrivere uno dei saggi fondamentali del nostro tempo: “Critica della vittima”. Qui sarebbe un lungo discorso)

Lagioia, in “La città dei vivi” citando i verbali degli interrogatori, dà molto spazio agli assassini. Se ne viene invasi. È quello il “fatto”, l’omicidio, e le sue ragioni sono dette in quelle delle parole, la vittima non ha voce. E per dare spazio alla materia del “fatto” e del suo contesto, fondamentalmente fa anche arretrare molto l’io-narratore, quasi sempre e in molte parti lascia addirittura a una sorta di “ça parle” delle voci, dei documenti, delle interviste, lavorando più su assemblaggio, limatura, al massimo sceneggiatura di frasi scritte altrove, ma di fatto in mote parti del libro fa “mancare” la letteratura.

Questo, come è stato detto – e giustamente da molti – è stata una scelta di coerenza etica, di rispetto, un tentativo riuscito di grande rispetto, vicinanza, senza farne estetismo della violenza. Come ci sia riuscito è nel calibrare tutte le parole, qui sta la sua forza letteraria, più che sulla letteratura in sé (anzi rispetto al bello stile stavolta Lagioia è aderente a una volontà di chiarezza, con una prosa asciutta, netta. Ma la scelta delle parole, l’organizzazione del discorso è sia di chiarificazione che di domande sospese, non c’è “il tribunale di Lagioia” ad emettere la sentenza (semmai lo facciamo noi lettori). Allo scrittore va riconosciuto tra gli altri questo merito: siamo investiti, attraverso queste parole, da una serie di fatti ma anche da una presa di posizione etica. Una posizione empatica quella di Lagioia, salvare l’umano dove l’umano non c’è (siamo sempre nei territori del Calvino ovvero della limpidezza) e dunque tenacemente etica.

Quanto a Murgia vs Leosini: la tv e la cronaca nera sono un surrogato popolare di Dostoevskij o Carrere o Capote. Semmai compito di veri scrittori, non polemisti di superficie, come ha fatto Lagioia è partire proprio da quella “vox populi” dall’immenso commentarium sul “fatto” e risalire la corrente avversa, fare il contropelo della cronaca, come suggeriva di fare con la Storia, Walter Benjamin.

ETICA PRIMA DELL’ESTETICA

Forse proprio per questo la questione etica extra testuale mi sembra importante tanto quanto il testo che – va ribadito è avvincente incalzante, scritto bene. Ma è una letteratura che ha il coraggio di spogliarsi, denudarsi e uscire da sé. Mostrando a un certo punto prepotentemente anche il “sé”.


Lagioia dà spazio, infatti, oltre che agli assassini, in un capitolo in cui improvvisamente diventa protagonista ad alcuni episodi borderline, diciamo così, della depénse della sua vita giovanile (trovarsi di fronte alla possibilità di prostituirsi, o lanciare una bottiglia in strada in piana rabbia adolescenziale, col rischio di passare da una bravata all’omicidio per un niente) ed è così che mette il sé   di fronte all’altro e crea una tensione dell’etica.


Il “mi riguarda” sta innanzitutto nel guardarsi allo specchio. Che Lagioia fa e Foffo e Prato invece no.
E in questo guardarsi allo specchio o non guardarsi cosa c’è in comune secondo me? La questione maschile, questione epocale, politica, di vita.

l’autore è un maschio, assassini vittima sono maschi, un omicidio che nasce dentro una lacerazione del maschile su tutti i fronti: genitoriale, dell’amicizia, della riuscita sociale, dell’identità e dei fantasmi della propria sessualità, di genere. Il Machismo e la sua recrudescenza violenta degli omicidi contro le donne nascono da questa crisi.

Questo è l’omicidio di una situazione in cui il machismo riguarda anche chi apparentemente è in pace con il proprio orientamento omosessuale come Marco Prato, perché anche in una scelta risolta invece alligna una irresolutezza, anche verso il maschile, e verso il proprio orientamento, perché la differenza nell’accettazione resta (la lettera del padre di marco su Facebook fa intuire qualcosa e il suo suicidio in carcere è la stella nera di questo firmamento di argilla)

Perché è nella proiezione che il padre fa del figlio, immaginandolo come argilla sotto le sue mani, e in cui il figlio viene plasmato crescendo  e di come questa statua che il padre tenta di plasmare venga poi infranta, come è stato ancor più duramente per la storia di Manuel Foffo,  ecco, di questo ci parla anche questo omicidio, di quella violenza, assorbita nell’essere plasmati,  esplode anche quando viene infanta, ci si specchia. Se c’è stato un rito sacrificale nell’omicidio è stato l’omicidio del Maschio.

La sfida vinta al labirinto di Minotauro è solo per il mito, è la favola. Qui vince Minotauro, che se vogliamo per certi aspetti è anche una vittima (nato così per volere e capricci di padri, destinato dal padre al labirinto, fatto uccidere dalla sorellastra per giunta, amante del suo omicida). Luca Varani finisce nell’appartamento-labirinto. Tutto qui parla di un labirinto.

La verità della cronaca è che quel labirinto è il piano urbanistico della nostra esistenza di vivi, in cui tutti possiamo imboccare il vicolo cieco dell’orrore. Benché certo, nella storia come si diceva sopra non scompaia e la differenza tra bene e male è sempre al d i qua, nel mondo dei vivi.

Nonostante Foffo e Prato siano certo figli del nostro tempo con mitologie più superficiali, i due non sono persone inaridite da manie di superficialità, si, sono giovani amano le cose piacevoli ma fanno anche altro. Manuel è discontinuo, ma almeno in apparenza legge molto anche se ha smesso di studiare, vorrebbe fare marketing ma il padre (come un dio greco) decide il suo destino, lo spinge ad altri studi anche utili per le attività di ristoratore (per questo si porterà dietro la rabbia per le pressioni di un padre molto presente e pressante - una frustrazione che maturerà in rancore e poi in odio).

Un odio diverso per Marco Prato, verso il padre: era diventato apprezzato PR di eventi, ben noto nella comunità gay, con un padre cattolico ma progressista che in apparenza ha accettato l’omosessualità del figlio. ma di fatto viveva una separatezza da lui.

 Ho messo in corsivo “apparenza” perché qui non è la cultura consumista e superficiale ad aver colpito (anche ma non solo) ma forse la labilità di un sentire dell’apparenza in famiglia, la rescissione di legami con sé stessi, che hanno i due assassini. Questa labilità può aver inciso sul sentimento di identità dei due, messa in discussione, mai definita mai accettata fino in fondo, ma pure mai negata, fino al punto di trascinare i due in un rancore che è anche una rivendicazione di qualcosa che manca, amplificato dalla paranoia della coca. L’identità primaria coinvolta in questa storia è come dicevo, l’identità maschile.

 Lagioia, nel narrare alcuni episodi di sé, tali che gli hanno fatto sentire l’energia dell’empatia con la storia, sta parlando proprio di quello: dell’evoluzione dell’identità maschile, del cosa diventare, dopo l’adolescenza, del pericolo di fallire a Roma con le proprie scelte e decisione di colpire in questo fallimento dell’autorealizzazione di sé, il maschio, mettendo un annuncio per accompagnatori disponendosi alla prostituzione maschile, anche se mai realizzata, a differenza della vittima, Luca.

La frattura e la rabbia verso il padre (è quella rottura del patto il Tradimento che ferisce il puer, l’atto più più importante per James Hillman e anche chi si libera del padre tradisce il patto) sono ciò che lega gli episodi citati della giovinezza di Lagioia, in questa radice di male Lagioia scava, non per dire che il “male” è tutto uguale, o semplicemente che tutti potremmo essere malvagi, a rischio di sembrare la premessa per affermare che nessuno in fondo lo è.

Il male naturale è in tutti possibile, lo scavo in noi è più difficile e fa la differenza. E poi lo scavo nell’altro e l’andare incontro all’altro, al colpevole, all’omicida e non fuggirlo, ciò non significa sollevarlo dalle sue responsabilità.

 Questo libro in cui come abbiamo detto è tanto poco presente “il narratore”, guardandolo dalla sua ‘soglia’ tra dentro e fuori il testo, è un libro in cui l’opposizione netta è tra chi si è preso il carico di sé, di uno scavo di sé e anche delle tragedie altrui e chi non lo ha fatto. Se il Narratore è poco presente, l’Io ingombrante che non piace alla poesia della neo-avanguardia, ma che è parte della vita, soppesandolo per quel “fuori-dal-testo” (visto che la storia stessa non è invenzione nata sulla pagina ma è esistita ‘fuori’) non può non far agire la differenza. Nicola Lagioia intellettuale, scrittore, persona è presente e non a caso parte del testo è il suo essere accompagnato da una discussione a cui Lagioia ha preso parte con la stessa passione. Il suo sforzo di scrittura, empatia e comprensione tanto più si sottrare letterariamente dal testo, tanto più resta presente poi leggendo. Tanto più la scrittura “ca parle”, tanto più è frutto di “Nicola Lagioia” che ha molto fatto, molto faticato. Non solo per comporre poi il testo, da cui sottrarrà l’ingombro dell’Io-narratore, ma lui, Nicola, non si era sottratto al richiamo del “fatto” e il suo sforzo, il suo jihad, è nella lotta con la materia del pretesto che lo porterà a scrivere. Dalla soglia, il lettore non può che guardare dentro il testo-labirinto-appartamento, dentro il ‘tremendo’, al tempo stesso guarda verso fuori, verso il Lagioia e le sue intenzioni etiche. Walter Siti avvertirebbe con bonaria ironia, ma per far pensare ancora di più, che forse anche in quel ‘fuori’ c’è ancora autofiction. Chissà. La vita è sogno, certo.

“Ciò a cui siamo scampati è molto spesso ciò che non abbiamo avuto il tempo di capire e quando dopo anni quella cosa si ripresenta in una veste nuova è di solito per farsi interrogare come non eravamo riusciti a fare allora”. Lagioia ha condiviso con noi questa illuminazione profana del caso Foffo-Prato-Varani.
 (C’è nella vita di ognuno di noi una stagione, che può trasformarsi in una privata saison en enfer e quella stagione è la giovinezza).

Lagioia raccontando fa dunque  una sorta di meta-letteratura attraverso un rispecchiamento psicologico, riflette sul suo impegno di raccontare ma – qui sta la particolare qualità del libro – con un dentro/fuori il testo e propone (oltre la scrittura ma certo attraverso di essa) un impegno di prossimità che è appartenuto alla persone nella decisione (PRIMA del testo) di occuparsene: questo perché – come il delitto del Circeo in “Scuola Cattolica” di Albinati, altro  libro che mi viene in mente per associazione - la cosa ci riguarda. Tutti. E specialmente: Tutti, Plurale maschile.
Direi che sta qui anche la particolare importanza politica del libro, del testo (continuo ad aggirare la parola “romanzo”) se c’è una letteratura impegnata, essa è nel costruire un esempio di eticità.

Ripercorriamo come salmoni il tracimare di una “  tragedia del maschile” come termine per identificare un “ci riguarda” del libro (che è anche una storia interclassista, di tre figli e  le classi di appartenenza hanno un posto importante, benché non si possa leggere come odio di classe , bensì sul piano di quel che per il maschile è il terreno in cui si misura la sua virilità: la riuscita sociale – e questo dipende tutto dalla disponibilità di “cash” (altro mito dell’immaginario Trapper, tutto maschile, maschilissimo, di questi anni) la riuscita nel lavoro, la riuscita di sé, che è il piano su cui si misura la riuscita del figlio maschio del padre, e quando questa  statua non è la propria, quando nello staccarsi di percepisce che non se ne ha tuttavia una propria, è il momento in cui il vuoto prende il sopravvento e diventa furia omicida (di solito verso le donne, stavolta verso la statua del “maschio” attivo su cui accanirsi fino alla morte. )

la città dei vivi, così bella dall’aereo, come per il piccone della biglietteria del Colosseo, vista da vicino, è anche una città di cadaveri e tombe. 

ROMA E "LA CITTA DEI VIVI" DI NICOLA LAGIOIA (appendice al post sopra)

 

1.       La questione “Roma”:

Mi sembra che il titolo sia azzeccato, perché qui la città è la coprotagonista e al tempo stesso “architettrice” quasi inesorabile dei destini. La città che guida con i suoi movimenti sotterranei quasi un suo carattere un suo stato la sua evoluzione e una trasformazione verso questo sfacelo. Certo, si dirà, Roma non c’entra, altrimenti è un diverso determinismo. In realtà Roma nel romanzo secondo me non è presente solo per il degrado o l’inferno, ma è anche l’irriducibile sua grandezza, vitalità, come nel titolo, di un’umanità che è viva e nella storia. Il suo degrado attuale, la sua cultura diffusa coatta e violenta, l’abbandono che vi si respira non vanno negate, ma non sono un ‘anima della città anche perché una città non ha un’anima, ha sola la sua storia. Lagioia è un romanziere e anche un po’ “Annales del presente” e oggi la storia di Roma è questa qua, dei topi morti dei gabbiani cattivi, della violenza omofoba, dell’aggressività.

tra l'altro la "zona del crimine" non è soltanto la mia, che solcavo in macchina a vent'anni, quando non c'erano i palazzi di via Igino Giordani, ma era tutto pratone,  a cercare paradisi artificiali e illegali. E' anche una zona letteraria: Pasolini, primo su tutti - da Rebibbia a Pietralata alla Tiburtina, poi in ambiti più recenti, anche altri autri: Torrebruna (il "tocco magico" la scuola di  parruchciere, è lì a due passi, nel titolo di un libro credo edito proprio da Lagioia tra i primi "nichel" di minimumfax e storia in cui c'era sullo sfondo una morte che percorreva Roma nel sottosuolo, quella di Alfredino Rampi) Desiati, Durastanti, e poi uno splendido reportage di Siti su Repubblica e uno altrettanto bello di Stefano Ciavatta, e poi ora Lagioia. Sotto la mappa.



Del romanzo, ad esempio questo senso di sbrindellamento della città c'è anche in figure di contorno, ad esempio personalmente la figura più misteriosa per me è una specie di accattone di oggi,  “Alex tiburtina” la sua esistenza meriterebbe un romanzo a sé, perché il suo dire “sì” alla richiesta di Manuel e Marco alle 4 del mattino, mentre si trovava senza soldi e dall’altra parte della città, il suo entrare dopo un viaggio in taxi  con gli ultimi dieci euro in tasca nella casa e tentare di fare una precaria e allucinata conversazione, è uno dei pezzi dell’assurdo più incredibili che io abbia letto ed è un fatto vero, non è frutto del labirinto allegorico di Ionesco o Beckett La simile la risposta di uno dei due assassini al PM, non so. La città dei vivi è il romanzo di un virus del “non lo so”, del “boh”, del non senso, dell’approssimazione, del possibile, tutto è possibile, compreso l’orrore. In questo Somiglia – la città dei vivi – alla città che racconta, Roma.

2.       Roma e me (nota personale)

 

Roma è una città che io ho lasciato, proprio quando Nicola Lagioia esordiva col primo libro e la abitava da poco, la descrizione della città corrisponde a come la percepisco, in quanto luogo di nascita e dunque “mamma Roma “per me, ma come tale (quasi in un racconto biblico secondo la lettura di James Hillman) è “Eva Roma” la traditrice. È una città che sprofonda, nella sua superficie di materia oscura. A Roma come il passato è presente e rimasto nella rovina, l’Averno non è sotto, ma è dentro, è nelle pieghe del suo barocchismo, come lo smog o il guano che si accumula nella bellezza delle sue facciate di chiese.

Roma, non è una città “trascendente” dice un certo punto lo scrittore è una città molto materiale, tuttavia, è una città in cui pur senza Dio (è la città di Dio, nel senso che tutto sembra esistere meno che Dio, riprendendo la definizione agostiniana di Francesco Pecoraro altro scrittore in cui la città “agisce” narrativamente). Pur senza Dio è tuttavia una città in cui soprannaturale “accade”, del resto l’incipit del romanzo, con quei segni di morte e sangue nel banale (ma determinante per Roma come i lanzichenecchi) bailamme del turismo, col topo morto, il sangue che cola, già ci proiettano in un’atmosfera horror – ma quasi più da cinema, arte che a Roma non è casuale, Roma è il Cinema e viceversa, come Fellini insegna, ma è proprio la verità della cronaca a essere cinema)

Il soprannaturale a Roma accade nelle cose, anche se è un trucco o ha una spiegazione, accade nella materia. Sì, ci sono delle presenze in questa città. Ci sono nei mattoni, i mattoni di cui parla appunto Francesco Pecoraro la sua fabbrica di mattoni. Il “Mattone” (che ambivalenza sarebbe, questa solidità del mattone e questo “sellerone matto” un tipo corpulento e folle e Roma è appunto solida e al tempo stesso un organismo corpulento e imprevedibile). Il Mattone dunque, Elemento principale della devastazione urbana di Roma, che  è – per dirla con la parole di Lagioia che non a caso aveva nel padre della famiglia al centro del suo romanzo-Strega un imprenditore edile, di quella devastazione urbana che oggi si può vedere lungo le tangenziali  del barese-foggiano -  la “ferocia” di Roma da sempre, i palazzinari come oggi è la “cocaina” il collante invisibile di tutti gli affari della città che non sa essere di sviluppo ma da sempre di rimestamento.

C’è il mattone raccontato punto da Francesco Pecoraro della sua Valle Aurelia e del mattone che dà sempre viene costruito, ma segnato anche da questo soprannaturale, della trasmissione del tempo che non è Storia, lo è apparentemente, è invece teatro di immobilità. Un soprannaturale storico-metafisico. Metafisico nel senso che sta nella materia come un’allure, uno strato di olio sacro delle icone che qui invece è un “trasudare”, una patina, tra il sangue, il sudore, le lacrime che è costato erigere questa città – e lo zozzo. Significativa la parte in cui Nicola Lagioia insieme alla troupe-tv de La 7 entrano nel palazzo dove si è compiuto l'omicidio e improvvisamente il cameraman percepisce l'odore del sangue (Tanto per dirla con il classico).

Il sangue dell’omicidio – che dobbiamo ricordare il sangue versato da Romolo mentre apprestavano il primo “piano regolatore” dell’Urbe, fatto con l’aratro? – ma pure il sangue versato per costruire le glorie, il bottino di sangue strappato ai poli conquistati, il sangue versato degli schivi che l’hanno eretta e a tempo stesso sia sempre quella città che sta per “crollare su sé stessa” – scrive Lagioia – “lasciando intravedere una città anteriore”.

È il peculiare “odore del sangue” di un Romanzo che ha Roma come scena del crimine, una città che è essa stessa scena del crimine che l’ha fondata

 al tempo stesso che questo palazzo è come una scena biblica segnati da un destino è a Roma sono i mattoni che guidano il destino, del resto, come viene detto in un'altra battuta “il principale clan mafioso e criminale di Roma non sono i Casamonica ma sono dei palazzinari”. La fine del mondo è fatta non con la distruzione di Babele, ma con l’erezione di Babele-Roma, dei palazzi (e erezione in questa città maschia, il cui fascino maschilista si espande limaccioso anche sulle femministe più solide). Roma è “Palazzo”, del resto, Potere del palazzo.

È proprio la devastazione del palazzinaro, Che fa da sfondo alla tragedia esattamente come la devastazione del palazzinaro fa da sfondo alla tragicommedia tipo “C’eravamo tanto amati”. Infondo quell'elemento del palazzinaro che rovina l'Italia rovina l'Italia. Non è un caso che a Roma siano le rovine la vera presenza di una sua natura feroce, Le rovine che sono contengono il sangue. Di chi lo ha sputato per costruirle e di chi ha tramato e ucciso per conquistarle.

La rovina è il segno di una immobilità del tempo. Non di una sua trasformazione storica. A Roma tutto quello che viene costruito non diventa lo scintillante futuro, Per cui abbiamo ancora oggi l'ammirazione per i grattacieli newyorkesi costruiti negli anni 40 e ci sembrano sempre lo scenario di una Città Futura.
A Roma, anche se costruisci La nuvola di Fuksas, già la percepisci come rovina (e del resto era abbandonata all’Eur) percepisci la sua devastazione la sua morte in questa consapevolezza che tutto deve finire.

Di questo Dio che promette un’eternità alla città, nel suo ciclico morire e finire, nel suo essere sempre la decadenza, abita la Città.

La storia è trasformazione anche in questo suo lato Aufhebung, direbbe Hegel, morte e rigenerazione, una dialettica continua. A Roma domina la morte come costruzione, costruzione in rovina così come la vita pubblica è dominata dalla Monnezza, che non si riesce a trasformare ovvero riciclare, in niente se non in altra monnezza e a volte residui di monnezza già diventano “rovina” come le buche di cui ce ne sono alcune “storiche”. La violenza psichica e la violazione della legge sono “l’ordine e la legge” di Roma, la legge l’ordine di oggi che è avvolta in un suo “grottesco ristagno” pubblico. L’unità sotto vive, il futuro però è incerto. Tanta storia, anzi, forse incrementata dalla mitologia fake e turistica, e da una certa diffusione della cultura di destra, stanno diradando la possibilità di un futuro. L’orgoglio di Roma è prettamente nostalgico, la Roma de na vorta era già cantata nell’800 quando era già “na vorta”.

E tale deve rimanere impossibile una trasformazione verso il futuro un cambio anche un abbattimento per costruire qualcosa di nuovo, tutto rimane com'è, questa Stasi immobile del tempo, come scrive un certo punto Nicola Lagioia. Dentro il palazzo dove abitava a Manuel Foffo sentendo quasi una segnatura quasi soprannaturale delle pietre che costruisce la massa che porta - scrive la gioia – “il tempo a rallentare fino a sfiorare una Stasi dove non c'era Quiete ma solo idiozia solitudine e disperazione”.

 

 

 

Una profilassi concentrazionaria individuale perché a lock down della seconda Ondata aggiungo anche il fatto che in questi giorni in cui lo leggo. Sono in quarantena da contatto con un positivo (ora che pubblico questa nota tutto si è risolto in tampone negativo). La strana sensazione è che nel chiuso di un appartamento, estenuato da giorni richiuso nell’universo concentrazionario del mio soggiorno studio, “senta” qualcosa della violenza e angoscia dello stare richiusi per giorni di Manuel e marco.

 Un contagio del nulla. In realtà della fine. O degli effetti postumi delle droghe, come l’MDMA, la cocaina, quando entri nella specie di camera barica dei postumi questa estrema prevenzione salutare della quarantena gli somiglia. A quel “dopo” agli effetti del dopo, Foffo e --- non sono mai arrivati, se non con un omicidio sulla coscienza. Sono entrati nel tunnel dell'orrore. Quanto leggo di quel tunnel da questo limbo?

sabato 19 dicembre 2020

LOREDANA LIPPERINI "La notte si avvicina" (Bompiani).

 


“La notte si avvicina” di Loredana Lipperini (Bompiani) è un romanzo a molte voci  e a diversi piani di realtà nel quale confluiscono matrici letterarie e civili, che ha un pregio tra gli altri, si prende una maggiore libertà formale. Qui è il complesso delle voci e la loro modulazione, che si impongono sulla storia (sulla trama, sulla materia narrata). E’ una scelta che sta riprendendo quota nella narrativa più consolidata in Italia ed è un buon segnale.

È un romanzo dove protagoniste sono le varie declinazioni dell’invisibile. Paura, psicologie, memoria, virus, forze ed energie arcaiche. coscienza. Se volessi, casualmente, giocare con la grammatica, tutti sostantivi femminili tranne uno.  E’ un romanzo di presenze femminili come pianeti di un universo che si sta formando, quindi si scontrano.
L’universo è un luogo concentrato e chiuso due volte, diciamo così. Un paese, uno dei tipici paesi italiani (lo chiameremo “Il paesello”) una striscia di case tra due montagne, un corso una piazza, il tabaccaio, due bar la posta, la farmacia, un alimentari ecc. a qualche ora da Roma, in una valle dal nome evocativo: Vallescura. Fondamentalmente racconta di una misteriosa malattia o “Peste”, che si diffonde nel Paesello, durante l’estate del 2008, per la seconda volta nella sua storia – la prima volta settanta anni prima circa. Un paese travagliato, colpito pure in precedenza da un terremoto, vent’anni prima, nell’altro secolo. Nel mezzo, il paese, sempre uguale a sé stesso, mentre la modernità scorre intorno, questa forse la sua vera “malattia” che il romanzo lascia defluire in un coro di voci e di flusso di più coscienze che si intrecciano e scontrano, dei personaggi principali di questo luogo, deserto di inverno e pullulante di vacanzieri in estate, spesso figli e nipoti di chi era originario del posto.

E nel 2008 ecco all’improvviso di nuovo militari, le transenne, le tende, l’isolamento, il paese stavolta 


è  in quarantena e questo evento scatena energie, correnti sotterranee La Notte si avvicina (verso di una famosa ninna nanna popolare) come romanzo cerca di contenerle tutte.  Questo contenere si specchia in un “contenimento” della quarantena che è anche l’occasione in cui il Paesello emerge con la sua malata immobilità atemporale. (Ha colpito la coincidenza dell’uscita con il momento storico del Coronavirus, ma la “peste” è un’allegoria letteraria da sempre,e – a parte le  precisazioni dell’autrice sull’inizio della scrittura nel 2016 – è evidente leggendolo che  rimanda alla vera malattia, se possiamo chiamare così, che è l’immobilità storica di una comunità)

La malattia fisica nella storia c’è (paradossalmente  mi sembra anche che proprio nella sua implausibilità mostri d’essere pretesto narrativo e fantastico). A un certo punto la febbre il morbo e la morte colpiscono. Colpisce i bambini, risveglia paure antiche. Gli abitanti, sobillati da una donna anziana, Saretta, una leader e  grande madre (o Matrona, insomma una figura di arcaica tradizione mediterranea) che è anche memoria e guida della collettività, se la prendono con chi è venuto da fuori (“come già accaduto la prima volta” ripete Saretta)  e in particolare con Maria, una giovane donna, con talenti che si era rifugiata al Paesello, in quello che credeva un posto tranquillo, a causa di suoi tormenti e dolori interiori, acuminati dalla separazione dai figli, a cui è costretta dai servizi sociali dopo la denuncia di altre donne d’essere un’alcolista, donne ben poco solidali. Ciò che si innesca nel Paesello è un rimuginare dei rancori irrazionali, che sembra un “It” una “cosa “, una forza che non ti aspetti, a cui assiste tra lo sgomento e lo sdegno Chiara, che aveva fatto uno strano sogno quasi profetico e aveva deciso di tornare, anche lei da fuori, a trovare la suocera Aurelia, presenza significativa nel romanzo e del tutto opposta alla palude nera del paese rappresentata e guidata da Saretta e dalla sua sodale, Annalisa un’altra compaesana. All’opposto, come Aurelia, c’è Giulia, un’altra giovane madre del posto, diversa dall’anima del luogo, unica a fare amicizia con Maria, un’amicizia in cui tornerà ad emergere il disagio e la questione della maternità, uno dei sotto-temi del libro, negli intrecci di storie Come si vede sono tutti personaggi femminili anche quelli secondari, gli uomini sono sfondo.

Del romanzo tre elementi mi paiono importanti: 

1 - come viene trattato il “Tempo”

I tempi – il passato arcaico, la prima peste di quasi un secolo fa, il terremoto, ecc. fanno mescolare nel flusso verbale i tempi, scanditi e mescolati dai titoli dei capitoli: da “Giorno tre” a Giorno 212” passando per “Meno 4470 giorni” o “Meno cinque giorni”. Si resta anche un po’ disorientati, ma è la forma, come si diceva, la struttura del libro, la composizione. Come nella musica, spostare i toni dalla prevedibile concatenazione armonica crea senso, lo ha creato nel 900. Questa decisione di mescolare le carte temporali ci porta a cogliere leggendo le continuità dentro le differenze e nel dettaglio del momento. Secolo e minuto si sovrappongono, memoria e cronaca – e sotto la memoria, strati rimossi senza nome o di ascendenza addirittura mitologica. E naturalmente i vivi e i morti, in questo paese all’ora del suo crepuscolo epocale. Il libro chiede un lettore al tempo stesso attento, capace di accogliere densità e un pulviscolo di riferimenti, ma pure capace di abbandonarsi al flusso e alla mescolanza, dentro il tempo narrativo (dice la voce narrante a un certo punto: “se ci limitiamo a sequenziare il tempo, ordinandolo come in un calendario, non lo comprenderemo” p.60).

Il senso del racconto su più piani è contenere l’incombere della Storia – e del “collettivo” - sulle singole vite. Era un impianto che c’era già nel precedente romanzo, dove però il sottofondo della Storia erano le trame oscure dell’Anti-stato degli apparati collusi con i terroristi dell’Italia degli anni di piombo. Più che gotico o distopico, mi sembra venga fuori un interessante ossimoro, un “Romanzo storico atemporale” in cui si riconoscono lacerti di cronache, lo spirito dei tempi, gli eventi storici, politici, economici, tecnologici, le mode, abitudini, canzoni, il pulviscolo dei dettagli.

2 – la provincia italiana

La sotto-Storia nel Paesello, viene più da forze che si richiamano a longtemp ancestrali, a una certa mentalità arcaica e contadina o semplicemente “paesana” che sopravvive (o meglio sotto-vive) partecipa però di un suo imbarbarimento, una distorsione che ha effetti di cattiveria sociale, di disgregazione delle comunità. Questo asfissiante Microcosmo del 900, il Paesello - sotto la regia nera di Saretta diventa un teatro totalizzante e concentrazionario, in cui l’immobilità ancestrale  viene anche toccata dall’oggi, che so,  Facebook, o la Tv (molto più questa) dal moderno, ma alla fine non più di tanto. A suo modo Lipperini dispiega una trama che si tiene dentro una dinamica di epos la cui cornice riassunta in due parole sarebbe sempre lo scontro tra Bene e Male, ma – diversamente dai romanzi di genere – la questione non è chi vincerà, ma cosa siamo, chi siamo. Il magma.
L’identità collettiva viene evocata da una minuta cronistoria di dettagli, un realismo nella descrizione che ci porta nella profonda provincia italiana. Certo anche un richiamo a un mondo “gotico” della letteratura secondo la lezione dei romanzi dell’America profonda, frequentato come lettrice e divulgatrice da Lipperini, ma reinterpretato in chiave italiana. Nel Paesello io continuo a vederci l’evoluzione all’oggi di Fontamara, Eboli, Racalmuto, Malo, ecc. E’ un brulicare di dettagli che ‘alla Bruegel’  affrescano un’ anima mundi (ecco  il Paesello che “basta a sé stesso, mangia salsicce di fegato e pappardelle” dove “quel che conta sono le lunghe giornate al bar” e quando è freddo “si guarda Striscia la notizia” di pag. 75 ma pure i villeggianti, con i bambini che “nessun genitore invitava a essere gentili” portando l’aria incattivita delle città, delle città italiane con l’origine tanto evocata dagli identitari che non funzionava: insomma “il paese non legava più” (p.102). Ormai il paesello, annota Chiara che pure con la suocera Aurelia sono parte di esso, ma da cui si sentono messe al margine (nel romanzo anche fisicamente) è “un serpente arrotolato su sé stesso pronto a colpire” (206) forse tenuto insieme solo dall’odio verso l’altro. Direi che questo è l’elemento che mi ha più impressionato favorevolmente:” la "pancia del paese” di cui tanto si parla è nei paeselli. Lipperini (a questo servono i romanzi) narrando ci porta dentro un paese (paese-Italia, Paesello-Italia) per restituirci con il passo lento della prosa (e non le facili sintesi giornalistiche) la sua anima fragile, come lo è il territorio italiano, realtà e metafora al tempo stesso, piegato socialmente e culturalmente da “lunghi anni che abbiamo definito di pace e che pacifici non sono stati” scrive ancora la voce narrante e ci siamo scoperti “impreparati” – come adesso con la pandemia, in cui di nuovo ci dobbiamo misurare con una guerra sanitaria, di tenuta collettiva (il gregge) e le poche indignazioni nulla possono difronte alla disgregazione sociale. L’unico linguaggio comune è quello della paura, che sembra circolare come un contagio inarrestabile. Se “la peste è il sospetto” come pensa Chiara, allora questo è un romanzo sul presente italiano, alle prese con un dissesto che è prima della pandemia. Non è il Coronavirus a farci prendere le distanze con sospetto dall’Altro.

Chiara, in cerca di segni e corrispondenze, annota sul suo taccuino come quel 2008 in cui la peste si sarebbe manifestata era cominciato con un’ondata di violenza, tra suicidi poco chiari, femminicidi, fratricidi, una violenza ripetuta che proietta lunghe  ombre sempre su quelle valli oscure , impaurite, pronte a prendere il coltello da cucina per un nonnulla, che annega il vuoto del proprio contesto in TV, magari specchiandosi nella palude italiana che si spalanca dalle storie di Chi l’ha visto. In questo paesaggio di cronaca nera televisiva – più che nelle pale d’altare del rinascimento – questo paese potrebbe vedere il suo vero volto, non negli sfondi azzurrini delle pale d’altare coi suoi colli dolci e i piccoli borghi. La faglia di disgregazione viene da origini complesse, che sia lo sfiancamento delle crisi economiche italiane, che sia la distruzione del paesaggio stesso, lo snaturamento delle identità che provoca una reazione contraria: di spirito identitario, tuttavia artificiale, come fa Saretta che inneggia a prima noi del paesello, ma lei stessa è nata lì per caso figlia di persone riportate a forza settanta anni prima, dopo la prima distruzione ad opera della prima “ondata” di malattia. Dentro questo paesaggio devastato e vile per dirla con Genna (qualcosa si condivide con lo scrittore milanese) passa la trama con i suoi risvolti oscuri o magici a cui fa da contraltare la presenza di Chiara, nome omen, anche di luce, lucidità.

 

 

3 – la voce narrante

A proposito di Chiara e della “voce narrante” come l’ho chiamata,  torniamo ancora alla forma che dà senso, come scrivevo sOpra. Oltre alla composizione, l’asse orizzontale della organizzazione o combinazione di storia e capitoli, c’è l’asse verticale del tessuto selettivo della scelta linguistica, dell’andamento dei periodi, della sintassi, In questo senso, mi sono ritrovato (magari non ho ben capito) immerso in una “voce narrante”, abbandonandomi alla tecnica scelta di ascendenza ‘flusso di coscienza’ novecentesco, del i monologo interiore che è ricorrente in vari personaggi, le anime della vicenda (anche quelli secondari come Gabriella Annalisa, Aurelia, Carmen, Veronica). A parte il fatto che ho pensato più che al maestro Joyce, direttamente non solo a Molly Bloom, ma anche a Nora Bernacle la sua compagna, al versante femminile di da cui è originata la tecnica, mi ha interrogato questo essere forza di voce che passava da un personaggio all’altro, ognuno con le sue differenze, ma la “voce” restava la stessa.
non so se mi spiego, ma come all’opera: due personaggi diversi, ma sono entrambi soprano e la musica è quella – ecco l’effetto allora era omogeneo. Ho pensato cosa potesse significare questo elemento formale: Saretta e Chiara dicono cose opposte, ma la loro voce mi arriva della medesima “grana” direbbe Barthes. Vuol dire che le forse antagoniste che rappresentano sono parte di una medesima entità? E Quale?

Saretta con la sua tangenza irrazionale che sarà sempre più esplicitata, Chiara con i suoi sogni premonitori che l’hanno spianta a tornare appartengono a una medesima radice in questa storia in cui non ci sono uomini? Di sicuro, partecipano a uno sguardo diverso, una contro narrazione delle cose stesse, osservare la Storia dal suo lato rimosso . Tutto il 900 ha praticato l’emergere del rimosso, da Artaud fino alla comunità hippy col fascino dell’India e degli sciamani, il surrealismo lo ha fatto con l’inconscio, la storia del diverso e del marginale o l’Altro, il Lontano, con Levi Strauss o la follia, con Foucault. È con questo background che credo vada letto lo scontro tra le due donne protagoniste nel libro, Chiara e Saretta.

Con una serie di marchingegni narratologici di ascendenza “romanzo di genere” si arriva al faccia a faccia con la centro la vittima sacrificale, Maria. Ma come – dentro il tesato – sarà chi erediterà questa storia del Paesello nella fiction di “La notte si avvicina”, a dover incastrare i vari “tasselli”, lo stesso spetta al lettore.

Aggiungo una nota: a proposito dell’unica voce del flusso tra le diverse voci femminili, e della questione del “genere” , del femminile e del femminismo, il romanzo non ha solo un ritratto ‘senza sconti’ dell’Italia dei piccoli borghi dove dietro l’italianità da pro-loco e turismo c’è poi la grettezza di un mondo incattivito e imbastardito che è più simile alla suburra infinita dell’infinita periferia metropolitana che è l’Italia, ma mette in scena dinamiche interne al mondo femminile niente affatto scontate (la  figura di Virginia, nella sua responsabilità nel far togliere i fili a Maria) e  la si potrebbe leggere ora a specchio della vicenda della maestra di Torino.
Dall’altro lato anche Chiara non è del tutto limpida e lei stessa si autocritica, sente che “nessuno è innocente”  e “in questo labirinto di orchi” c’è sempre una colpa: anche per lei: la sua è quella di essere convinta di essere “giusta” ma di limitarsi a una testimonianza: “guardare, commuoverti, rimpiangere”.

 Il romanzo arriverà poi con i suoi incastri a consegnarci uno svolgimento, drammatico, il dispositivo di narrazione lascia deflagrare ciò che era rimasto in sottofondo, compresa la magia nera, per dirla con un titolo precedente di Lipperini, ma quello che conta è ciò che si è attraversato e come. Ciò che il libro ha lascia. E ciò che il libro ha lasciato a me (ma ogni lettore è un reagente singolare) come contro narrazione alla risoluzione della trama è uno stato di allarme, di inquietudine e insoddisfazione, innanzitutto verso il presente che ci circonda. In una recensione ho letto nell’occhiello una chiave in corsivo “Gotico” ma ci starebbe bene anche “Storico” – per me è un romanzo storico, posso aggiungere Jung alla sociologia, ma sempre storico è.

Quel che mi ha lasciato, chiuso il libro – ed avendo io una certa frequentazione di paeselli e di suburre di provincia – è un’immagine/idea: che il groviglio del nostro mondo italiano, di serpenti, è duro da districare, e che, più in generale, nell’esistenza il male non si capisce fino in fondo;  e  che la vita è sì, bella, ma anche qui non lo si capisce mentre si vive ( come dice Aurelia).

. Quindi un gran casino. Non c’è consolazione (meglio così) ma bisogna continuare a fare.

Fosse anche le pizze e insegnare come si fa a chi è più giovane. Poi mischiare le carte e giocare la prossima mano.

 

martedì 15 dicembre 2020

PAUL CELAN. A cento anni dalla nascita, riemerge l'inedita autoantologia italiana. Con nuova traduzione

 


Il 23 novembre 1920 nasceva a Czernowitz o Cernauti, Paul Celan. Oggi Ucraina, ai tempi la città faceva parte della Bucovina rumena (dopo secoli di dominio asburgico tedesco) annessa nel 1918. Nel 1940 fu invasa dall’Unione Sovietica e l’anno dopo la Romania alleata di Hitler, si riprese la Bucovina e sotto il dominio nazista perseguitò i cittadini ebrei, tra cui Paul il cui cognome era Antschel (Celan, il suo nome d'arte assunto nel 1947, è l'anagramma in ortografica rumena, Ancel) e i suoi genitori che moriranno per mano nazista. La città natale di Celan tornò poi all’URSS dopo la guerra e oggi, dopo lo smantellamento post-1989, è in Ucraina. A cento anni esatti dalla morte, dunque, il secolo che oggi celebriamo nella sua poesia è il controcanto o meglio “l’antiparola – come la definì lo stesso poeta - che si oppone a quell’epoca dei lupi (per dirla con un poeta a lui caro e tradotto, Osip Mandel’stam) che fu il secolo XX, coi suoi milioni di morti e che “ingoiò” generazioni di poeti. Facile allegoria della condizione esiliata di Celan poeta, questa sua terra di nascita, una non-patria attraversata da molte lingue, dal tedesco della famiglia ebraica (con l’ombra dell’eredità millenaria della diaspora) al rumeno al russo, e poi il francese, il portoghese, l’ebraico fino all’italiano, che Celan, in questo studioso di romanistica, approfondì per la sua traduzione in tedesco di Ungaretti. Il legame con l’Italia ci porta a questa raccolta: “Paul Celan. L’antologia italiana” pubblicata da Nottetempo per la traduzione e cura di Dario Borso (p. 219, euro 12,00). Non è il legame che per i poeti della lingua del Goethe che celebra Il “paese dei limoni” (anche perché Celan era lontano da quel canone classicista e cercava un’altra lingua sua, tedesco, ma antitedesco, nel senso diversa dal tedesco poetico del canone dei suoi carnefici). “Antologia italiana” è il titolo scelto da Dario Borso per questa raccolta che riproduce (e ritraduce) le 48 poesie che lo stesso Celan scelse per un’antologia di Mondadori che doveva essere realizzata negli anni 60. 


La vicenda editoriale italiana si intreccia questa nuova traduzione e Borso ne dà conto nell’introduzione a cui rimandiamo. Diciamo solo che Celan aveva accettato di compilare una lista di poesie dopo che Vittorio Sereni che lo aveva contattato nel 1961. Quell’antologia alla fine non si fece, Sereni lasciò la direzione Mondadori nel 1975, e nella collana “Lo specchio” uscì poi nel 1976 un’antologia ma con una selezione diversa da quella fatta da Celan, tradotta da Moshe Kahn, che però era stato quello scelto alla fine da Celan, un anno prima di suicidarsi, dopo anni di rifiuti opposti ad altri (Marianelli, Bevilacqua e poi Masini). Quella lista però esisteva. Nel 1964 dopo un incontro con Sereni a Milano, Celan mandò l’elenco delle 48 poesie. Borso ritrovando negli archivi (Fondazione Mondadori e Schiller Archiv) tracce di questo elenco di poesie, le ha ritradotte per dare anche un’idea di poesia di Celan, diversa da quella “svolta verso Thanatos” di quei giorni, come scrisse Giuseppe Bevilacqua – a cui poi Mondadori sotto la direzione Colorni affidò nel 1998 la traduzione e cura del volume “Poesie” de “I Meridiani”.  Borso rispetto a Bevilacqua dà una diversa interpretazione, oltre che la sua traduzione, che da non germanista, posso solo leggere (Celan scrisse della sua traduzione di Mandel’stam dal russo: “a essa spetta la funzione che, fra le tante, rimane primaria per ogni poesia: quella del puro e semplice essere disponibile”). Più interessante, anche leggendo in Italiano, la vicenda del poeta in  quel 1964, la vitalità ritrovata ancora  sotto il segno di Eros, la scrittura di testi, tra il 1963 e il 1965, compresi in “Svolta di respiro” poi uscito nel ‘67 ma che  – nelle lettere alla moglie Gisele e al figlio Eric  – definisce “quanto scritto di più denso finora” e come “una svolta” nella sua carriera,  vista anche con “orgoglio”. È quindi un clima anche psicologico diverso da quello di morte e progetto di suicidio descritto da Bevilacqua (Celan a un certo punto decise di non leggere più Todesfuge per non essere identificato solo con quel testo). Certamente il suicidio arrivò, sei anni dopo, forse concluse una lunga fuga di morte che lo spingeva come un vento, ma Celan fu anche un poeta che combatté  l’oscurità che gli veniva imputata (proprio nel ‘64 la stroncatura Frankfurt Allgemeine Zeitung in cui lo si accusava di usare “metafore peggio che azzardate” ferì molto Celan, proprio perché non si riteneva incomprensibile per scelta, la sua intenzione, in tanti scritti e discorsi dichiarata, non era chiudersi nell’enigma e nel dolore, ma parlare all’Altro, verso cui “si dirige imperterrito”. Il poeta dialoga da un angolo singolare certo, soffre e ancor più se dentro una lingua “ammutolita” come era il suo amato tedesco dopo l’orrore e le tenebre del nazismo diventava “dissolta” nei suoi testi. Ma fu irritato dallo stigma di Adorno (non si può più scrivere poesia dopo Auschwitz): Celan, che il nazismo lo aveva subito sulla pelle, ne scrisse e di grande, ripartendo  da quell’ammutolire per passare con la poesia “dal suo Orami-non-più al Pur-sempre” , seppure in una lingua e forma attualizzata. Il poeta è solitario, ma la poesia è in cammino verso “l’incontro” scrive ancora Celan. A volte è un “colloquio disperato” e tuttavia le metafore, le immagini servono ad offrire all’Altro una percezione – e in quell’attraversamento dello spazio dall’Io-poeta all’Altro,  il poema nella lettura sigilla il tempo storico in cui avviene. La poesia non è comunicazione rivolta a un lettore, facilitata da semplificazioni, è più simile a un naufragio: “un messaggio nella bottiglia gettato a mare nella convinzione – scrive ancora Celan – che possa approdare su una spiaggia”. Tuttavia lì troverà chi vorrà fare lo sforzo non semplice del salvataggio e dell’ospitalità:” Non concepisco altra poesia che non sia la stretta di mano” è un’altra delle sue frasi famose - e non c’è bisogno di tradurre o spiegare questa metafora.

 

 

 

 

"IL DONO DI ANTONIA" (EINAUDI) DI ALESSANDRA SARCHI

 


La maternità è da sempre un business. Ben prima che lo diventasse con il mercato degli uteri in affitto nei paesi poveri ma prolifici, a vantaggio di un Occidente ricco e sterile. Generare un figlio nelle culture della colpa e del dio unico, padre padrone di un amore infinito, significa da subito aprire un registro del dare e avere. Tanto ci viene data la vita, nutrita col corpo di latte, protetta e svezzata, tanto la madre che lo fa anche senza volere si aspetta di avere indietro – nonostante la mitologia delle maternità votate alla dépense assoluta  – altrettanto amore, cura, riconoscimento. 

E’ un business che Freud per primo ha analizzato e il mercato è quello dell’identità attraverso l’investimento di amore e colpa.
Antonia, madre cinquantenne di Anna, ragazza adolescente che soffre di anoressia, inizia a capire, anche grazie al confronto con altre madri come Alice, Sara, anche loro con figlie che soffrono dello styesso problema e conosciute in un gruppo di auto-aiuto, che c’è qualcosa che non va nell’amore. Il tentativo di capire il punto della vita in cui “qualcosa è andato storto” – come dirà a un certo punto Antonia – le porta a volgere indietro l’indagine, al momento in cui forse qualcosa della loro crescita come donne si è formato quel complesso di identità, corpo femminile, desiderio di libertà che le riguarda e che hanno riversato sulle figlie, trasportato forse ereditato inconsciamente da un passato di generazioni.


E’ l’ambivalente potere dell’amore, dello stesso innamoramento totalizzante che la madre prova verso i figli ciò che mina la relazione (rischiando di deformare d’ora in avanti tutte le loro relazioni) . Antonia di è data anima e corpo alla crescita della figlia, travolta e persa nei suoi  occhi di essere umano generato, come un innamorata, ma “Era forse da quell’innamoramento che era scaturita la malattia?” si chiede Antonia a un certo punto, mentre Sara e Alice,  rievocano il loro passato di figlie, i rapporti con i genitori, i coflitti, a volte i lutti. Forse un trauma, forse un dissidio del passato lascia la sua ombra, si trasmette, si dicono seguendo alcune ipotesi della scienza recenti. Forse però non è il passato visibile, narrato,  ma – secondo alcune teorie neurobiologiche accennate da Alice – il non detto,  i traumi delle generazioni più lontane. Perché c’è qualcosa di più profondo della Storia, delle relazioni parentali, dei dissidi culturali tra genitori e figli, divenuto anche conflitto di valori, politico, divisione del mondo, in queste tre donne nate negli anni 70, a cavallo di grandi trasformazioni sociali,  che hanno avuto madri e padri che hanno attraversato il 900 della liberazione dei corpi e delle soggettività.  

Non è solo la Storia, per Alice, Sara  e soprattutto per Antonia, che si porta dietro un peso che emergerà nel corso del libro. C’è una cosa più importante e indecidibile e che perde il “contatto con la complicatezza di essere una persona intera per ritornare a essere un corpo e basta, e poi nemmeno piú quello”. E’ proprio la possibilità naturale – ma anche il potere – di dare vita.  Nuda vita, si potrebbe dire con una formula di  successo della filosofia. Nudo chi genera e chi è generato. E’ in quel punto  dell’essere che inzia una genealogia di solo dare e avere, se iscritta nella storia fatta di ruoli, poteri, famiglie e dunque interessi. LA vita è più indietro, ed è da quel punto cieco e senza organi, senza aggettivi, senza derive, forse perfetto come un uovo, ma forse più ancora perfetto come un vuoto, che noi siamo originati, da lì veniamo. Questo vuoto però è anche una vertigine.  

 “Da dove veniamo?” è la domanda chiave di questo romanzo , lo fa senza tesi ma seguendo con una precisione millimetrica e a al tempo stesso naturale, ogni sfaccettature, l’evoluzione interiore di Antonia , delle sue amiche, così come della figlia Anna che si sottrae al rapporto ma al tempo stesso è presentissima. Tutto sembra complicarsi con l’innesto di Jessie, giovane californiano che si ripresenta da un passato fino ad ora solo ipotetico e che imprime una accelerazione alla coscienza di Antonia. Jessie ha ventisei anni ed è nato dall’ovulo che Antonia, studentessa in California dopo la laurea, aveva donato a Myrtha, più grande come una sorella maggiore e  che l’aveva portata a un punto di consapevolezza che forse come donna, figlia non aveva ancora. Ora Jessie ha deciso di cercarla, ma chi è quel giovane uomo californiano? Un figlio?  Oppure come si ripete Antonia “i figli sono di chi li cresce, chi li educa, di chi li ama?” Dopo quel dono, Antonia aveva rotto tutti i rapporti con Myrtha e David, il padre di Jessie, e quell’ovulo erarimasto fantasma, un vuoto una manque, un’esistenza ipotetica, un figlio possibile che tuttavia non viene dal futuro, il tempo che in genere si associa ai figli, ma dal passato. Qui il romanzo di Sarchi raggiunge una complessità densa e ricca di spunti, anche interrogando una posizione di potere femminile che c’è dentro una posizione sociale di genere storicamente svantaggiato, tutto senza mai perdere la forza narrativa naturale (anche il romanzo, come la maternità è un ambivalente risultato di artificio e naturalezza).

Se da un lato tutto il racconto è sbilanciato sul piano del femminile nell’oscillazione della maternità come ambivalente ( prigione, obbligo sociale confine della donna dentro il perimetro della famiglia;  oppure grande potere delle donne medesime, che plasmano un essere dal nulla) con Jessie si affaccia un figlio che rivela la dimensione maschile.

Un giovane uomo che se da una lato non è scialbo e quasi sfondo come le figure dei due padri (Paolo e David, non per debolezza della scrittura di Sarchi ma perché il maschile non è più centrale nella questione procreativa,  grazie alla tecnica – dalla pillola alla procreazione in vitro), dall’altro esprime da subito la sua condizione vitale di disperso, lasciato dalla sua ragazza Allison e scosso dalla rivelazione della madre. Sul principio Jessie non si raccapezza, la sua identità vacilla: “ Il passato ondeggiava, mosso dall’inconciliabilità dei ricordi e di quanto Myrtha gli aveva appena rivelato, il futuro gli pareva azzerato, senza Allison.” LA mancanza, la manchevolezza che si era sempre  sentito dentro, forse parte in quanto figlio e maschio, di quel “do ut des” che è la maternità, ora esplode. L’aver avuto in dono la vita e l’amore e il dover essere di una restituzione che lo faceva sentire sempre in debito, alla rivelazione di essere figlio di Antonia e non di Myrtha, lo sgretola: sente di essere fatto di  “pezzi diversi “ma contenuti in ogni caso da un vuoto ormai aperto come un abisso di mancanza e al tempo  stesso propulsione. E’ lì in quel vuoto che la sua identità si svuota di passato, non vede il futuro. Chi sono,  da dove vengo diventano allora prima di ogni storia, discorso,  “una questione di  carne prima ancora che di pensieri, con tutto quello che d’inesprimibile e di oscuro la carne si porta dietro”.

Qui Sarchi lascia che si intraveda un punto di contatto tra Jessie e Antonia nel non avere contatto, nel corpo come questione dirimente della biopolitica, non solo per le donne: quand’è che io sono io, e dunque ‘mio’  o mia? Forse quando capisco da chi provengo? O forse quando – come fa nel moto contrario l’altra figlia Anna – mi libero e liberato da ciò che sono gettando via anche l’amore che mi impone ciò che devo essere? Quando vado a ricongiungermi al corpo della madre o quando lo nego?

Lo stesso vale per chi genera: la responsabilità dell’amore è già un’ipoteca di interessi che poniamo sulla testa dei figli come un giogo? E forse allora il vero gesto di amore disinteressato che genera persone e non solo figli è stato il dono americano di Antonia, che di fatto si è concretizzato in un abban-dono. O meglio un lasciarlo quasi come un colono, alla deriva di un continente sconosciuto.
Jessie sente prima lo spaesamento, spodestato da una storia famigliare, lo sente anche fisicamente, perché la sua vera madre è letteralmente di un altro continente, di un’altra lingua – anche se  lui ha imparato l’Italiano, perché Myrtha ha sempre voluto tenere i legami, seppur ipotetici con la sua genesi. Dapprima sta immobile in uno spazio fermo e irreale “come doveva essere stato fermo e irreale il momento in cui Antonia aveva deciso di fare il suo dono, come doveva essere stato fermo e irreale il momento in cui le due cellule si erano incontrate nella trasparenza del vetrino”. Poi si decide nell’attraversamento di quello spazio e dall’irreale e ipotetico, si presenta, rivendica l’esistenza, una sorta di “ privato habeas corpus”, un rivendicare il diritto di esserci, corpo filiale, ma altro, separato, non sottoposto alla totalità (a rischio totalitarismo) della  cura, che a volte è pure dominio.  La sua esitenza in carne e corpo rivela ad Antonia che “ la gravidanza che ha voluto e vissuto è stata un cedere parti di sé prolungato” ma cosa cedeva e per liberarsi da cosa? Forse proprio dalla paura di lasciar andare l’altro da sé, come sé dall’altro, tanto ache la dedizione di cura svezzamnto e crwscita per anna sono prigione. Jessie invece è totalmente figlio suo, senza esserlo. Senza essere passato da quell’ambiguo potere di  chi non ha potere storico, che sono le madri.  Antonia è cresciuta “tra i totem della maternità” le dice Paolo, p resenza discreta e solida seppure relegata all’angolo, “ma forse ne hai paura”. E Antonia sente ora in  sé la trasfomazione “essere madre ti fa sentire grande non solo perché hai generato una creatura che prima non esisteva, ma anche perché hai attraversato la morte, ne hai sentito la vicinanza. L’hai fatto non per te, ma a favore di un altro. E questo ti fa credere di avere dei diritti, di avere un potere.” Essere madri, per una donna, sconta il paradosso di essere detentrice di  un poter ben superiore – genera la  Vita che è qualcosa di più che la Storia, da cui pure le donne sono storicamente escluse o tenute ai margini dal potere maschile. Ma a sua volta proprio quello che comunemente è definito un gesto di puro amore – dare la vita – si rivela un potere assoluto sulla persona generata, a partire dalla parte esteriore dell’identità, che è il corpo, somigliante per forza di biologia. E’ proprio questo il primo rifiuto che compie chi smette di mangiare, cancellare il propri ocorpo, infrangere quello specchio di somiglianza, rigettare la sessaulità femminile e il suo connaturato elemento riproduttivo. Così fa Anna, come le altre ragazze e antonia, che pure con la sua azienda di produzione id cibi biologici, il suo allevamento di animali che crescono “in modo naturale”, non è riuscita nel tentativo di crescere sua figlia in modo altrettanto naaturale. Ma esiste un “modo naturale?” o non è tutto fruttodi Storiaconvenzione cultura e duqnue ancora una volta potere?  Jessie è un figlio fuori dal corpo della donna che ne è madre. La tecnica di riproduzione artificiale genera un passo di cnsapevolezza. JEsise è figlio del vuoto,  ma stavolta la manxxanza non è un precipizio, un’amputazione, bensì agisce storicamente nela trasformazione “ ciò che non vedi è l’assenza o lacuna che ha creato quel movimento” si rendeconto Antonia. Nel suo essere dilaniata, incerta, fragile, Sarchi mette in azione un’indecidibilità etica su quale sia la strada giusta, lascelta migliore. Essere madre o non esserlo, costrizione o emencipazione? Potere o mancanza di potere, per una donna? Dilaniata dalla duplice spinta della sua maternità tra Jessie e Anna, Antonia sembra quasdi pronunciare un dispeerato “io sono mia” privato : “Che volete da me, vorrebbe dire a entrambi: a quel figlio che non è figlio e a quella figlia che non vuole esserlo; che volete ancora da chi vi ha dato la vita, e ora non è nemmeno piú sicura che ne sia rimasta per sé, che sia avanzato un po’ di desiderio.” La resa alal sua imperfezione, con anna, passa attraverso il paradosso per cui una figlia mata e cura ora la rifiuta e questo figlio-non figlio, ababndonato quando era solo ovulo, ora la reclama. “non c’è garanzia nel sangue” si dice antonia, ma non c’è mai forse. Non c’è nessuna garanzia che l’amore dato sia reso con l’interesse come è tipico diquelal contabilità che il romanticismo e ilcattolicesimo hanno mascherato col nome di “amore” facendone una costruzione letteraria e mitologica di un  sentimento che se si fa discorso, allora è solo per essere letteratura. L ostesso pianto, scoperto per caso nelal madre di antonia e poi provato una volta adulta, che le donna hanno ad ogni mestruazone conclusa è ambivalente desiderio di una restituzione con l’interesse di quella vita che fluisce nel sangueche, lavato via, finito in unassorbente, sembra solo una spreco. Invece è proprio lo spreco, il dono incosciente senza interesse che aveva generato il figlio che ora sembrava resitutire in modo altrettanto disinteressato un amore non rischiesto. Indicibile e in fondo irrazione era dunque la speranza, e se un figlio rappresentava l’utopia o la speranza, generarlo doveva essere un atto senza coscienza, senza illusioni, univco modo per evitare che fosse la fondazione di un potere. Dar vita a un figlio come atto di necessità o come atto del caso? il gesto di Antonia di donare senza pensare troppo, il suo ovulo a Myrtha, è un attimo perfetto: “Un dono in fondo non è mai una necessità, e forse nemmeno una responsabilità”.  Nel fare un figli consapevolmente c’è una responsabilità enorme, della sua esistenza, del suo futuro. Non è solo paura per il figlio, ma paura DEL figlio stesso, che ci inchioda a questo impegno e forse propri oer questo la volontà di dominarlo, di falro a nostra imamgine esomiglianza di amrlo totalmente diventano una necessità di sopravvivere a quelterrore. Ma stavolta è un figlio che non è un figlio – e Myrtha una madre che non è una madre -a d aprire antonia la strada,verso una consapevolzza. Come lafiglia anna cedeva via il suo corpo per liberarsi dalla stretta materna, solo ora che Antonia con Jessie ha potuto vedere il frutto futuro del suo aver ceduto parte di sé stessa, col suo ovulo, ora antonia matura un idea diversa del dono, non come sacrificio che implica sempre una restituzione (è lo snodo centrale delal reazione di Dio all’amore di Caino, che gli offre in sacrificio degli agnelli, ritenuto da Dio troppo implicitamente interessato a volere dietro quell’oferta un ritorno di amore da Dio, così come aveva fatto per abele). Solo liberandsi della maternità, di ogni sua idea, pensiero, responsabilità, una donna  può ritrovare il suo esere genitore dentro la storia, indipendnetemente dall’esserlo naturale o meno, alzando lo sguardo verso   un percorso di futuro, magari anche  verso un punto luminoso, ma generato da una lacuna, da un punto cieco, che ha tutavia  la forma perfetta di un vuoto che ha la forma perfetta di un uovo.

MORTE DI UN GIOVANE POETA. SU GABRIELE GALLONI. RICORDANDO BEPPE SALVIA.

 


Qualche giorno fa non ho dormito. Mi è tornato in mente Beppe Salvia.
 Era morto da poco un altro giovane poeta, Gabriele Galloni. Della sua morte si è parlato in questi giorni, suicida o no, conta poco, la scomparsa di una vita giovane lascia sempre un senso di amarezza e ingiustizia. Che fosse un suo dolore o una protesta, anche questo conta poco.

Ma mi è tornato in mete quel 6 aprile del 1985.  Beppe Salvia per quelli che amano e fanno poesia, specie se all’epoca viventi a Roma, è stato un evento che ha messo un segno minimo, ma per me grande, sulla stagione letteraria italiana. Un poeta che ha bruciato per una stagione breve, accolto con sorpresa ed entusiasmo dalle prove su rivista – non arrivò mai a pubblicare un libro in vita, ma la sua vita rimase a risplendere, luce coatta della stella congelata nella sua morte.

La poesia aveva ereditato stagioni importanti, ma anche un senso di finitudine, in quei primi anni Ottanta. Salvia non aveva pubblicato nessun libro, a 30 anni – per quanto possa sembrare strano i giovani di quell’epoca furono molto rallentati, frenati, invitati a restare adolescenti da un piacere della vita che era seguito ai decenni di conflitti. Consumare, for ever young. Al resto pensavano i più grandi, i nati nel dopoguerra che non avrebbero mai mollato i loro culi dalla cadrega ancora per anni a venire.

Da qualche anno l’industria culturale dell’editoria era cambiata, punto di svolta “il nome della Rosa “di Eco. Dietro il suo milione e passa di lettori, anche più negli anni a seguire, emergeva un nuovo pubblico, frutto dell’istruzione di massa iniziata nei primi anni 60. Quei bambini del boom avevano preso un diploma quasi tutti e una fetta era anche andata all’università, ce n’erano tanti che da figli di proletari che erano (c’ero anche io, qualche anno dopo, entrato a Lettere nel 1983) studiavano, che a studiare erano i primi della razza loro, come cantava Guccini.

 Io di anni ne avevo 21. Ma adesso realizzo che era già pesante quell’età, sentivo non d’aver vissuto, ma che il vissuto fosse stato il vulcano dell’epoca precedente esploso, ma noi eravamo sepolti dalla cenere.

La condizione del fuori-corso dall’università era diventata categoria spirituale di una generazione. Poi l’avremmo chiamata post-moderno. Era condita da molta nostalgia, non del nostro vissuto, ma di ciò che avremmo potuto essere e di ciò che intuivamo non saremmo mai potuti diventare.

Salvia era nato a Taranto nel 1954, studiò a Roma dove aveva frequentato la scena letteraria della capitale, allacciato rapporti con il gruppo “Braci” un importante gruppo letterario romano, raggruppato attorno alla rivista che portava quel nome, fondata da Claudio Damiani di cui facciamo parte Arnaldo Colasanti Marco Lodoli Giuseppe Salvatori Gino Scartaghiande e a cui ruotavano tutta una serie di altri giovani poeti aspiranti poeti. anche io, con qualche amico, cercavo di stare ai margini delle loro serate, neostudente, silenzioso e muto come alle feste delle medie, in cui fai carta da parati.  Avevo iniziato a Scrivere con maggior cognizione consapevolezza tra la maturità e l’inzio scintillante dei corsi universitari, grazie al caso: fui assegnato a una giovane docente, associata, Biancamaria Frabotta. Fu una stagione indimenticabile. Maestria e illuminazione, insegnamento che filtrava nelle fibre del vissuto. Racconto di stagioni del 900 e insegnamento di cosa la poesia fosse dal testo. Il Testo su tutto – e tutto, il resto, intorno. Non solo, ci guidava fuori dai suoi doveri di docente, i pomeriggi e serate ad alcune letture di poesia.

Una volta seguimmo anche le letture del festival di poesia a Villa Borghese, era il 1984.  Beppe Salvia era tra i partecipanti, ma non salì sul palco. Voleva far rumore con la sua assenza. Rifiutando “la scena” riconsegnandoci al vuoto e a una meditazione solitaria, intrapsichica. Era il 1984 non a caso.  Era iniziata da tempo la società dello spettacolo, Salvia che era un poeta dallo stile cristallino, diretto, ci avvertiva del pericolo. Il palco era già crollato sotto il peso del “pubblico” che l’aveva occupato nel 1979 a Castelporziano. Forse era tempo di lasciarlo definitivamente. Infatti, i festival di poesia finirono, da lì a poco, Roma, Milano, ecc.

Al festival di Villa Borghese del 1984 ricordo anche Amelia Rosselli. La sua bisaccia, la camicia leggera, lo sguardo fisso, né cupo né socievole. Fisso.

L’altra notte nel mio dormiveglia angosciato ho ricordato anche lei. Che si suicidò anni dopo, nel 96, gettandosi anche lei da casa sua.

Amelia Rosselli l’avevo incrociata una sola volta di persona sarà sato il 1987 o 1988, insieme al mio amico Pietro Pedace che faceva una tesi di laurea sulla sua poesia – la incontrammo dalle parti di via del Fico, lei voleva che lui le riparasse la lavatrice, non si fidava a chiamare i tecnici potevano essere della CIA. Pietro non sapeva come fare si offrì di salire, con me, ma lei non si fidò neppure di me e se ne andò – Pietro era sollevato, dell’incombenza da idraulico, io certo persi una grande occasione, anche se leggendo il libro di Renzo Paris e di Emanuele Trevi, penso non sarebbe stato facile parlare.

  Solo oggi mi accorgo che Primo Levi si era ucciso non molto tempo prima, nel 1987, insomma pochi mesi prima dell’incontro con la poetessa-libellula. Levi si era ucciso lasciandosi dalla tromba delle scale – anche sulla sua morte c’è una qualche incertezza, qualcuno dice non fu suicidio, ma chissà.

Di tutti questi voli, di tutte queste morti, credo che l’altra notte sia tornato indietro come una risacca lenta di anni. Anche Pietro Pedace morì, per una banale ma tragica complicazione operatoria, nel 1999. Il millennio che fuggiva era finito in un precipizio. Le pagine del diario, ferme e incollate.

Prima della morte, Beppe Salvia era vitale e in fibrillazione. Voleva essere come tutti e nessuno, forse. Oscillava come in quel gesto a Villa Borghese tra il teatro sempre aperto del quotidiano (Roma è questo) e l’annullamento dell’anonimato nella metropoli. Un poeta è sempre – a Roma – un ragazzo di vita. Uno che si crede chissà che e chissà chi.

Ai poeti di Roma, da Catullo a Valentino Zeichen e Patrizia Cavalli importava una certa teatralità della vita del poeta stesso, più che la poesia, che ne certificava il sentire. Unico a fare la differenza, Valerio Magrelli a cui importava un certo teatro mentale della lingua e del senso – ma già Magrelli faceva parte per sé stesso, a questa sua singolarità resterà sempre legato.

Essere poeta a Roma, un leggero fantasma di indolenza. Forse un po’ anche un atteggio.

 Come forse i poeti delle grandi metropoli, ma a Roma viene fatto in un modo tutto suo. Il poeta creava il personaggio di sé. Sempre attaccato alla vita come Romolo e Remo alle zinne della lupa.  

Beppe Salvia – poeta romanissimo proprio perché come Catullo, Zeichen o Cavalli NON era di Roma, e dunque oriundo come tutti - di personaggi ne aveva creati fin dall'inizio. Le sue poesie erano notte come pseudonimo alla Pessoa: Elisa Sansovino. Silvia Isola. Con questi nomi aveva pubblicato, solo su riviste, oltre che col suo nome.

Conservo ancora il libro che è uscito postumo, “Cuore” e dentro il libro conservo l'articolo di Paese Sera, di qualche giorno dopo il suicidio, In cui c'erano tre articoli che ne parlavano: il più noto, quello di Marco Lodoli (“Morte di un giovane poeta “).

Quella morte – e in qualche modo anche quell’articolo, quel tempo - fu uno spartiacque per me. E sigillò l’inizio di una storia di poesia personale, ma nel segno della morte. Del resto ero un ragazzino cresciuto col senso di piombo cupo,  addosso, la lunga sequela di morti e feriti aveva scandito dall’asilo (il 1969 con Piazza fontana) a scuola, medie e liceo e poi l’Università: la morte mi inseguiva per la strada,  e pochi giorni prima della morte di Salvia, il 27 marzo 1985 , mentre io sono a lezione a via de Lollis, poche centinaia di metri più davanti alla facoltà di Economia le Brigate Rosse uccidono Ezio Tarantelli.  Ci ero nato e cresciuto col sangue dei morti ammazzati italiani, io come tutti.

Quella di Tarantelli era l’ultima coda velenosa. Gli anni 70 erano finiti, la società cambiava pelle, anche la poesia. C’erano grandi poeti, ma – come diceva Magrelli – era la fine dei gruppi. Poeti e poetiche e individui.

Se nei primi anni Ottanta era ancora in corso quel weekend postmoderno che era seguito agli anni 70 che eredita, con ancora moltissimi stimoli e fibrillazioni che arrivavano specialmente nel mondo musicale dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, di fatto iniziava un'altra era.

Gli anni 80 veri e propri. Altri valori Certo il modo la guerra fredda i trattati del nucleare, Reagan, Thatcher. E da noi? basti dire che pochi giorni prima della Morte di Beppe Salvia (non che ci sia legame, ma segretamente chissà) il Governo Craxi aveva fatto votare con la sua maggioranza in Parlamento il decreto Berlusconi, il famigerato e cosiddetto “decreto Berlusconi” che gli assegna a prezzi di favore le frequenze – un gesto che segna i futuri trent'anni di storia italiana. E Fininvest era nata da poco.

 oggi si polemizza molto dello scrivere della morte di Gabriele Galloni. Nel 1985 non c’erano tutte queste fisime di prudenza e intricata omertà spacciata per rispetto o viceversa.

Marco Lodoli, che di anni ne aveva 29, e anche lui all’attivo un solo libretto (Un uomo innocuo) iniziava l'articolo così:

“Beppe salvia è morto a Roma 30 anni gettandosi dalla finestra di casa sua sabato 6 aprile a via del Fontanile Arenato. Ho sempre avuto l'impressione che abitasse in quella via perché il nome gli piaceva. Un nome liricamente simbolico”.

Ci sentimmo tutti fontanili arenati” e prosciugati. Altri poeti stavano scrivendo di una desertificazione metafisica, Come Milo De Angelis, che invadeva anche l’asfalto e i campi di calcio di periferia, le stanze – era diventato un tempo di stanze, non di piazze.

Stanze di poesia. Però la fine epoca si sentiva, il prosciugamento. Qualcuno ha scritto anni dopo (lo scrittore e poeta Daniele Mencarelli) che già il gruppo dei Poeti di Braci: “aveva capito che la poesia non interessava più a nessuno” in quei primi anni 80. È una sensazione ricorrente.  Non erano passati molti anni, anzi solo 10, dalla morte di Pier Paolo Pasolini e dal discorso memorabile di Alberto Moravia in Campo dei Fiori quando dice “di poeti, di grandi poeti ne nasce solo uno per ogni secolo”.

In realtà ne erano nati e l’anno dopo, nel 1976 quello che io considero davvero uno dei grandi del secolo XX, Milo De Angelis pubblico il suo primo dirompente libro “Somiglianze”. Uno strappo, sia rispetto alla poetica e lo stile piano e comunicativo della poesia romana, sia verso le tessiture avanguardistiche del gruppo 63. Altri grandi poeti avevano scritto prima di Pasolini e dopo.  Le parole di Moravia erano un po’ come un post su Facebook oggi, cose che si dicono sulla scia d’emotività poco controllate.

Per Marco Lodoli – come altri hanno scritto a proposito di Gabriele Galloni – anche Salvia “era il più amato trai poeti della sua generazione di chi ha “30 anni e scrive versi senza sapere bene perché”. Era vero per entrambi, per quel loro stile limpido, esatto, arioso, di luce orizzontale.

Io lo avevo letto, ma poco. Ci ho parlato solo una sera. Forse Beppe salvia non si sentiva tale sentivo un’esclusione sentiva una non collocazione, così almeno ne parla Lodoli e ne parlano anche altri, io l'ho solo conosciuto per una sera, ci ho parlato un po’.

Ne ho scritto sul diario di quell’anno, il mio, ho un ricordo vago, anche se il timbro era malinconico o amaro, ma spesso i poeti hanno il sangue amaro. magari sbaglio sono passati più di trent’anni. Erano chiacchiere primaverili a Roma. Forse eravamo dalle parti del Rione Monti. Il giorno in cui seppi la morte di Salvia ci fu un terremoto interiore. Ero ai primi passi, studente e aspirante, alle prime uscite dentro quel mondo della poesia e già il sigillo di un suicidio. Che poi ha segnato a varie riprese la letteratura italiana ma questo era al mio fianco, il resto lo avrei imparato con gli anni.

A 21 anni per me fu una spezzatura, una faglia o frattura. Ci costruisci sopra le case ma sai che resta sotto. Ero torna indietro questo ricordo dopo la morte di Gabriele Galloni. Qualcuno ha scritto, con fare di iena cattiva, che Gabriele Galloni si era suicidato contando le copie invendute del suo libro. Non si può dire nulla in verità

Ai tempi, in ogni caso, Lodoli scrisse qualcosa di simile su Salvia. Che “se avesse pubblicato un libro. Chissà avrebbe preso forma la sua vita. E forse avrebbe accettato più stabilmente di essere poeta ci si sarebbe riconosciuto “.  Lodoli Cita Umberto Saba.: “Fu come un vano / sospiro/ il desiderio improvviso d’uscire / di me stesso, di vivere la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni “

Perché il poeta per definizione è sempre in una condizione di separatezza, esclusione e insieme auto esclusione. Oggi invece coloro che osano dirsi con sicumera “poeti” sui giornali rivendicano di essere guida e consolazione dei lettori.

Oggi il modo è enormemente cambiato, ma pure ha dinamiche simili, specie in quell’esercizio per una minoranza occidentale di benestanti (tutti gli occidentali sono benestanti rispetto a gran parte del mondo anche i poveracci) e che chiamiamo letteratura.

Ancora una volta come la poesia del gruppo Braci, contesta l’esistenza di un mondo di poteri forti della poesia, gli “addetti ai lavori” un’élite che occupa il territorio. Oggi a dire il vero molto è cambiato e Beppe Salvia se da un alto ha avuto ragione nel cercare il suo dettato semplice e puro - e fu anticipatore – dall’altra io dubito che un poeta che non voleva salire sul palco, oggi sarebbe salito su scranni di festival e tv, social e serate, incontri e occasioni sociali. Però hanno successo (relativo ma pure successo) i poeti che scrivono con le parole di tutti.  Arrivando anche a scrivere, Forse, tutto sommato delle didascalie di un sentire Diffuso e rispecchiabile in tutti.


Anche la poesia di Gabriele Galloni poteva sembrare parte di questo rinnovamento, lasciando alle spalle una poesia supposta “difficile” e per addetti ai lavori, ma anche Gabriele lo era a suo modo, ricco di letture raffinate e meditate e infatti la sua scrittura è quella che oggi fa riferimento a una  poesia alla Caproni, ricca di sensi e tramature, rimandi, capace di evocare una sospensione della realtà pur dentro un quotidiano delle immagini, un controtempo della Storia fatto di Momenti, un sole che brilla un pomeriggio estivo fissato in una sequenza come fosse per sempre. Una poesia che fa scaturire il non visto dalle parole, non che cerca di ribadire il già visto e compreso. Portare i lettori a un altrove, non lasciarli dove sono per non farli sentire spiazzati. Una poesia che non si scrive dove già sanno i lettori.
Una poesia che non sia mai scarto dalla norma, ma ribadisca il già comune, come cantare la canzone che sanno tutti, scalderebbe i cuori di una sera, ma sarebbe il vero suicidio della poesia.

Non io, ma nemmeno coro. 

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...