domenica 20 dicembre 2020

NICOLA LAGIOIA "la città dei vivi" (Einaudi) - ovvero: 'na specie de cadavere nascosto

 

LIBRO (NON ROMANZO) DI SICURO: TESTO


La recensione inizia da lontano, dal genere: come lo definiamo? Tutto quello che scrive un consolidato romanziere è “romanzo”? non è detto, o meglio lo è nella misura in cui si accetta che il romanziere svicoli  dai canoni e dai binari del genere – che pure è larghissimo e generoso – e si collochi sul versante non main-stream, che qui io direi semplicemente sperimentale (riprendiamoci questa parola,  come era giusto dirla per Edoardo Albinati (che la rivendica per sé) de "la Scuola Cattolica", un libro che tengo idealmente sul mio scaffale di senso, vicino a "La città dei vivi") versante “sperimentale” dello scrivere in prosa – e narrando.

Perché di sicuro una cosa si può dire: anche se non è certo che scriva “un romanzo”, Lagioia qui narra, potentemente. Meglio: scrive, e lascia che le componenti della storia attraverso la sua scrittura – fino alla singola frase, come un inserto poetico - parlino e dicano qualcosa. È tuttavia un libro/romanzo dove la presenza stilistica si tiene mimetizzata, Lagioia lavora di “concertazione” e di sottrazione.

Ovviamente c’è una narrazione perché c’è una storia. Viene dalla cronaca.
 Il versante sperimentale dello scrittore sta – certo non nuovo in sé – nel modo in cui egli adotta una storia già accaduta e non inventa ma riscrive. Chi va dallo psicanalista fa lo stesso, riscrive il vissuto.

La storia: nota ma riassumiamola: nella notte tra il 3 e il 4 marzo in un appartamento della periferia est di Roma, non distante dalla via Tiburtina, Marco Prato e Manuel Foffo, al culmine di due giorni in cui hanno consumato senza sosta cocaina e alcol, uccidono Luca Varani, che si era presentato a casa di Foffo per una prestazione sessuale da cui avrebbe ricavato soldi, avendo già conosciuto Prato altre volte per lo stesso motivo. Non solo viene ucciso, ma i due infieriscono sul corpo di Varani, ancora vivo o morente, con crudeltà e disumanità. Foffo non lo conosce, Prato l’ha visto ma è solo un conoscente. Cosa porta i due ad accanirsi con tanta ferocia? Forse un odio traslato, facendolo diventare una vittima sacrificale, come si è detto e scritto all’epoca? E a che divinità veniva immolato? Di certo la violenza dei due assassini ha radici lontane, diverse e quasi opposte tra loro, se si segue il ritratto psicologico che ne fa chi li incontra (Lagioia cita molta documentazione di inchieste interrogatori perizie psichiatriche, colloqui) informali, resoconti giornalistici, e latro materiale). Due persone così diverse e che si conoscono poco finiscono per fondersi in una sincronicità del malvagio che ha tutte le caratteristiche della non intenzionalità, seppur assolutamente volontario (è complice il delirio tossico) . difficile muoversi dentro il labirinto delle loro stanze della psiche.

Lagioia percorre questo caso come fosse un Castello (stavolta è più la complessità irrisolvibile della psiche a farmi dire “kafkiano”è anche il fatto che nessun “processo” mi sembra esaurirlo) entrando e uscendo da varie stanze: quelle degli assassini, ma anche quella della vittima, così come dei genitori di tutti e tre maschi giovani, soprattutto i padri degli assassini ma anche di altri personaggi minori, gli amici,le fidanzate.
Dappertutto sembra emergere una pressione psichica e una costruzione collettiva del nostro inconscio. In un caso così estremo Lagioia ha deciso di affrontare il labirinto e anche il Minotauro che c’è dentro, partendo dal punto di contatto tra la solitudine afasica degli assassini (anche in coppia Foffo e Prato sono due solitudini estreme) e il contesto o “coro” così come lo chiama in un capitolo centrale (ci arriviamo). E quel contatto esteso poi allo scrittore e di conseguenza a noi che leggiamo.

. Il Minotauro è “il senso” di questo atto estremo (“perché lo avete ucciso? E perché così crudelmente?”) e andrebbe stanato come in tanti altri casi storici o solo di cronaca di “ferocia” (termine scontato ma anche giusto per Lagioia che ha scelto questa parola come titolo del suo precedente romanzo premio-strega)

La linea di fuoco su cui camminare è: come un atto umano diventa disumano. E lo è?

 Capire non è attenuare. Non c’è nemmeno un momento un rischio giustificazione. La “Città dei vivi” tiene sempre ben chiaro al lettore che i due hanno commesso un delitto non attenuabile o giustificabile, nemmeno un po’.  Anche perché i due hanno confessato, e hanno detto molto. I fatti sono ricostruiti nel libro (e con le loro parole: potentissimo e a tratti insostenibile il capitolo “In fondo al pozzo”) e continuamente narrati: atti giudiziari e simili, r relazioni psichiatriche, e poi all’esterno, i media (tv e stampa) la nera distorta però a schemi di fiction. E tuttavia, la sensazione è di “afasia” per un caso che è stato sommerso dalle parole e dalle chiacchiere e dai commenti social.

 Il romanzo stesso nasce “di fronte all’estremo” e anche immersi nel cloud della chiacchiera. Lagioia, alla richiesta di un quotidiano, di scrivere un reportage sul caso, rifiuta. Poi a una visione più attenta e ascoltando che “la città” non parlava d’altro, decide di affrontare il caso, ma come scrittore, prendendosi la libertà e il tempo.

È interessante il triplo passaggio: due assassini senza un perché, senza parole per dire perché, intorno un intero paese una comunità che ne parla e straparla, poi uno scrittore che – sottraendosi allo straparlare – scrive, puntando diritto all’afasia.

CORO, NON IO. E CROLLO.

Lagioia lavora dunque sulle molte voci, come detto: indagini, rapporti, perizie, testimonianze dei due colpevoli, degli amici, dei genitori, post su fb, interviste mediatiche ecc. Il capitolo in cui le mette tutte assieme si intitola “Coro “e sta al centro del libro. La polifonia di spiegazioni emette sentenze con conclusioni assertive ( uccidono, per alcuni “è l’effetto del consumismo, di una cultura ormai basata esclusivamente sui soldi e l’apparenza” per altri una questione di classe (“quei bastardi figli di papà, stronzi radical chic si accaniscono sul ragazzo di borgata”), c’è chi dà la colpa alle droghe e chi alla follia latente (“erano disturbati”), mentre non si può sorvolare sulla questione dell’omosessualità repressa (Foffo si vergognava di essere gay) o sul fatto che Prato voleva cambiare sesso, ecce cc). Se qua e là nella lunghezza del capitolo si sente un po’ il peso delle tante voci cumulate, penso che alla fine l’idea resti importante: il “coro” è un organismo fondamentale di questo libro. Il coro commenta ma l’origine della violenza è anche nel coro – è nella città dei vivi in cui la morte è di casa.  

Roma è teatro e ambiente “correo”?

All’ interno del coro c’è la parte che credo sia importante: il modo d’essere e di reagire alla situazione dei tre padri  (della vittima e dei due assassini) anche per come  si manifestano in pubblico (due parlano molto, quello di Luca e quello di Manuel, in maniera plateale, anche oculata, eccessiva;  quello di Marco parla zero, per molto tempo e poi scrive una lettera su Fb, ma molto ambigua in cui quasi lascia trasparire un distacco ipocrita per chi si professa cattolico praticante e attivista della solidarietà cattolica). Le madri sono praticamente assenti dalla scena del coro (parlano poco e niente in pubblico tutte e tre)  

Una “scrittura” che costruisce la sua architettura così come “trova” il suo materiale, la “città dei vivi “– il romanzo ma anche la realtà che racconta - è una sorta di “Cattedrale della caduta”, costruito con l’intenzione paradossale di “progettare un crollo”.

Ripercorrendo le carte, in tutti i “tarocchi al passato” dei fascicoli dei giudici Lagioia usa le capacità di sintesi dello scrittore e pur attenendosi ai fatti, è come se cercasse di divinare l’origine del gesto.

Sembra ed è un omicidio casuale, dicevamo. Eppure, forse nessun omicidio può esserlo. La sorgente della violenza, forse nel vortice di rabbia nato dalle “incomprensioni che stringono i padri e i figli e che portano certi figli a ritenere di essere stati offesi” scrive Lagioia, tanto da covare poi un desiderio di “vendetta assurda”? Soprattutto nella storia di Foffo appare plausibile, ma anche quella di Prato era altrettanto irrisolta.

La origine non casuale, può anche essere generata per paradossa dal Caso, ma qui fuori da cosmogonie, siamo nella cruda Roma che ha tracimato il suo tradizionale materialismo in un senso del vivere causale e approssimativo, ingenuo ma superficiale, fino al cinismo, di due individui che sembrano vivere bene dentro il contesto della nuova cultura romana, generata da trent’anni di mutazione antropologica, politica e culturale, diventando anche il cuore del problema per il resto del paese (ladrona), che ha fatto scattare un orgoglio identitario ma vuoto.
Questa “identità gonfiata ma vuota” a me sembra possa essere stato il cuore generativo di gesto senza cuore di Foffo e Prato.

(Mi rendo conto che facilmente un lettore, cercando il senso del “romanzo” quando il libro che legge romanzo non è ma storia vera, un docu-roman come è la Città dei vivi, ebbene il lettore scivoli facilmente nel ruolo antipatico del “giudice”).

Roma, dunque. Ci ho scritto un post separato sotto (se interessa, linka qui) solo per parlare di Roma (insieme a Albinati, metto sullo scaffale con questo di Lagioia, anche "lo stradone di Pecoraro, Pasolini è sullo scaffale sopra e ascolta queste storie della città)

 Ma per ora vorrei dire solo di questa  socializzazione facile, ma che resta in superficie perché è legata  alla storia dei due che uccidono, questi due neo-romolo&remo che sembrano voler s-fondare qualcosa in questa loro alleanza nera fraterna, omo-identitaria, due quasi-estranei che mettono in atto una complicità così intensa, tanto da far scattare il colpo di fulmine omicida tra loro, quando capiscono e si dicono di fatto “uccidiamo una persona”; al tempo stesso sono due che si conoscono da poco, si sono visti due o tre volte. Sta dentro l’apparente socialità da calore umano che la città ispira ma che tradisce sempre, questa storia. Quando uno dei due uccide un altro quasi-estraneo e quasi-per-caso, con uno che, parole sue, “non è proprio un amico” – lo dice Foffo di Prato ai Carabinieri - ma solo “uno che ho conosciuto a capodanno”. Questa labilità di legami basta però ad unirsi e per uccidere?

La bella apertura su Roma, la scena del piccione morto al Colosseo, questo sorvolare alla larga la città da sopra nella sua bellezza che nasconde particolari feroci, corrisponde poi alla fine alla storia-senhal dell’olandese, che riparte e dall’aereo rivede questa città, bellissima verso cui si sente l’amore di Lagioia che però non può non vedere quando la percorre rasoterra.

A leggerlo attentamente a partire dal titolo – il libro è un epos d’amore per la città, nonostante il suo tradimento. (Io, che sono romano d’origine, la amo meno o non la amo più). 


Del romanzo sono io lettore singolo, il tradito, che metto avanti una cosa che mi pare significativa, non tutti saranno d'accordo: che la città sia diventata una discarica di sentimenti “del tempo che fu” (bonarietà ironia, simpatia) divenuti immondizia, piegati da un cinismo e indifferenza diffusa, esibita e fatta anche oggetto di “mitologia” cinematografica ( si, sono tra quelli che pensano che Gomorra o Suburra o Romanzo Criminale siano intrattenimento solo in certe fasce socio-culturali, in altre sia diventata “immaginario”  di riferimento per gang o per gruppi di persone che si immaginano “gang” come negli Usa, ma che alla  fine ne sono ancora una volta la copia grottesca, senza scostarsi tanto dal Nando Moriconi di un “Americano a Roma”)

Roma è la città in cui in ogni caso - e torniamo al libro - poco prima della serata aperitivo “A(h)però” organizzata in un locale proprio da Marco Prato con i suoi soci, si viene a sapere dell’omicidio in cui era coinvolto Prato come assassino, e si decide con sovrana indifferenza e cinismo di farla lo stesso: “la situazione era incredibile” dirà una testimonianza del “Coro”: “Tutti a bere spritz e a parlare  dell’omicidio”. Una serata riuscitissima.

Roma è questo, tutti immersi nell’incredibile ma a dire “incredibile” guardandosi attorno. I cittadini sono diventati turisti del proprio sfacelo, cercando di metterlo in cinema, svoltando qualcosa facendo le comparse, come sempre. L’impero cartonato e da t.-shirt. Cinecittà II, una città immensamente centro commerciale di sé stessa. Disposta a tutto, e in qualche caso anche a uccidere pur di immaginarsi potenza che non si è.

(È la mia città, diventata la città di marziani che dicono ah marzia’ vaffanculo).

 “Fanno gli splendidi in gay street ma poi a Natale vanno al paesello e dicono ai genitori che hanno la fidanzata. Qui tutti odiano tutti e prima ancora sé stessi” dice un'altra voce  dal “Coro”. Di questo odio per sé stessi (e dunque anche il mio per Roma?) di questo odio per le origini di impotenti, di cartonati di una virilità farlocca, è fatta la vicenda dell’omicidio. (è la mia sentenza).

 

LA VIOLENZA HA (DIRITTO DI) PAROLA?

E sempre per stare nell’incredibile o se si vuole nell’assurdo (anche letterario) quando l’avvocato di Foffo, trovato dal solerte padre per attenuare le conseguenze (io credo che in questo atteggiamento del tipo vabbè, che sarà mai, adesso risolviamo, del padre, stia il “Graal” del senso di questa morte assurda)  che cerca di capire come impostare la difesa chiede cosa è successo, arriva la solita risposta di alleggerimento e qui è: “un macello” dice Manuel, che però a Roma è un modo di dire metaforico valido anche per confusione euforica (siamo andati in discoteca e abbiamo fatto un macello). È questo quel che dice - usando parole attenuanti dello slang. Invece il caso vuole che stavolta “macello” corrisponda alla lettera   al massacro, alla mattanza, sul corpo di Luca Varani.

E quando l’avvocato chiede “chi è la persona che avete ucciso” Manuel risponde “non lo so” e quando l’avvocato chiede anche “allora perché” la risposta è: “Non lo so. I motivi potrebbero esser tutti e nessuno”

 

(Samuel Beckett fu accoltellato nel 1938 a Parigi da un uomo in strada, di notte. Un’aggressione di uno sconosciuto. Per molti fu una sorta di scintilla dell’assurdo dei testi che poi scrisse. L’uomo era già noto alla polizia, tale Prudent, e Beckett lo volle incontrare (ecco, anche con l’Avversario l’incontro con l’assassino) e quando lo scrittore irlandese gli chiese perché lo aveva accoltellato, quello lo guarda con stupore e rassegnazione e confessa “non lo so”: il ‘900 del sentimento negativo dell’esistenza, nasce qui).



“nessun essere umano è all’altezza delle tragedie che lo colpiscono” scrive ad incipit di capitolo Lagioia. La famigerata banalità del male ci riguarda, sia per quelle persone come noi che hanno ordinato e praticato lo sterminio, sia per l’atto gratuito come a volte un omicidio, teorizzato e praticato da Jarry a Parigi, cento anni fa (erano gli anni Dieci anche lì) che può compiere ognuno di noi. Capire chi sono questi uomini come noi, serve a cercare di elaborare il senso di una cosa che nessuno di noi pensa di poter fare, ma pure per ceti aspetti potrebbe ritrovarsi a fare senza un perché.

Ma se questi due assassini sono così “afasici” (“non lo so” perché ho ucciso) ha senso che parlino? Che lo scrittore costruisca il caso anche sulle loro testimonianze? Su ciò che avevano da dire loro - mentre la vittima era morta e muta?

Qualche settimana fa Michela Murgia ha lamentato il fatto che Franca Leosini avesse intervistato per la Tv Luca Varani (singolare omonimia), l’uomo condannato per aver gettato l’acido sul volto di Lucia Annibali, sfregiandola per sempre. L’intervista è stata cancellata dalla Rai, la Murgia nel commentare l’intervista fatta e decisa dal programma scrive: “Ad eccezione del tribunale, nella narrazione di nessun altro reato si lascia al criminale la possibilità di esporre il suo punto di vista pubblicamente.” Ad eccezione del tribunale, dice Murgia, assertiva come sempre: e che ne è degli assassini nei libri? Di storici o scrittori? Non so perché Murgia non abbia citato la letteratura, eppure è scrittrice, e sa bene che gli assassini sono parte fondante della narrazione collettiva in cui “il reato” è centrale (dalla tragedia in poi mi verrebbe da dire).
Infatti i criminali parlano da sempre, prima nei libri e a teatro ora in Tv: è pieno il mondo di interviste ai colpevoli e ai condannati, in Italia abbiamo le memorabili interviste di Zavoli e Biagi a mafiosi o terroristi e non solo. I colpevoli vanno sui giornali, vanno in tv, e scrivono libri, dopo esserne stati per secoli solo i protagonisti, scritti da altri, negli ultimi anni sempre più con quella non-fiction letteraria nata con Capote, passata per Carrere e di recente per esempio praticata anche da Siti con “La natura è innocente”. (dall’altro lato è sorta giustamente una cultura che rivendica diritto di raccontare dal punto divista delle vittime, fino al punto che “il discorso della vittima” è divenuto qualcosa di diverso, forse un “discorso forte” tanto da muovere Daniele Giglioli a scrivere uno dei saggi fondamentali del nostro tempo: “Critica della vittima”. Qui sarebbe un lungo discorso)

Lagioia, in “La città dei vivi” citando i verbali degli interrogatori, dà molto spazio agli assassini. Se ne viene invasi. È quello il “fatto”, l’omicidio, e le sue ragioni sono dette in quelle delle parole, la vittima non ha voce. E per dare spazio alla materia del “fatto” e del suo contesto, fondamentalmente fa anche arretrare molto l’io-narratore, quasi sempre e in molte parti lascia addirittura a una sorta di “ça parle” delle voci, dei documenti, delle interviste, lavorando più su assemblaggio, limatura, al massimo sceneggiatura di frasi scritte altrove, ma di fatto in mote parti del libro fa “mancare” la letteratura.

Questo, come è stato detto – e giustamente da molti – è stata una scelta di coerenza etica, di rispetto, un tentativo riuscito di grande rispetto, vicinanza, senza farne estetismo della violenza. Come ci sia riuscito è nel calibrare tutte le parole, qui sta la sua forza letteraria, più che sulla letteratura in sé (anzi rispetto al bello stile stavolta Lagioia è aderente a una volontà di chiarezza, con una prosa asciutta, netta. Ma la scelta delle parole, l’organizzazione del discorso è sia di chiarificazione che di domande sospese, non c’è “il tribunale di Lagioia” ad emettere la sentenza (semmai lo facciamo noi lettori). Allo scrittore va riconosciuto tra gli altri questo merito: siamo investiti, attraverso queste parole, da una serie di fatti ma anche da una presa di posizione etica. Una posizione empatica quella di Lagioia, salvare l’umano dove l’umano non c’è (siamo sempre nei territori del Calvino ovvero della limpidezza) e dunque tenacemente etica.

Quanto a Murgia vs Leosini: la tv e la cronaca nera sono un surrogato popolare di Dostoevskij o Carrere o Capote. Semmai compito di veri scrittori, non polemisti di superficie, come ha fatto Lagioia è partire proprio da quella “vox populi” dall’immenso commentarium sul “fatto” e risalire la corrente avversa, fare il contropelo della cronaca, come suggeriva di fare con la Storia, Walter Benjamin.

ETICA PRIMA DELL’ESTETICA

Forse proprio per questo la questione etica extra testuale mi sembra importante tanto quanto il testo che – va ribadito è avvincente incalzante, scritto bene. Ma è una letteratura che ha il coraggio di spogliarsi, denudarsi e uscire da sé. Mostrando a un certo punto prepotentemente anche il “sé”.


Lagioia dà spazio, infatti, oltre che agli assassini, in un capitolo in cui improvvisamente diventa protagonista ad alcuni episodi borderline, diciamo così, della depénse della sua vita giovanile (trovarsi di fronte alla possibilità di prostituirsi, o lanciare una bottiglia in strada in piana rabbia adolescenziale, col rischio di passare da una bravata all’omicidio per un niente) ed è così che mette il sé   di fronte all’altro e crea una tensione dell’etica.


Il “mi riguarda” sta innanzitutto nel guardarsi allo specchio. Che Lagioia fa e Foffo e Prato invece no.
E in questo guardarsi allo specchio o non guardarsi cosa c’è in comune secondo me? La questione maschile, questione epocale, politica, di vita.

l’autore è un maschio, assassini vittima sono maschi, un omicidio che nasce dentro una lacerazione del maschile su tutti i fronti: genitoriale, dell’amicizia, della riuscita sociale, dell’identità e dei fantasmi della propria sessualità, di genere. Il Machismo e la sua recrudescenza violenta degli omicidi contro le donne nascono da questa crisi.

Questo è l’omicidio di una situazione in cui il machismo riguarda anche chi apparentemente è in pace con il proprio orientamento omosessuale come Marco Prato, perché anche in una scelta risolta invece alligna una irresolutezza, anche verso il maschile, e verso il proprio orientamento, perché la differenza nell’accettazione resta (la lettera del padre di marco su Facebook fa intuire qualcosa e il suo suicidio in carcere è la stella nera di questo firmamento di argilla)

Perché è nella proiezione che il padre fa del figlio, immaginandolo come argilla sotto le sue mani, e in cui il figlio viene plasmato crescendo  e di come questa statua che il padre tenta di plasmare venga poi infranta, come è stato ancor più duramente per la storia di Manuel Foffo,  ecco, di questo ci parla anche questo omicidio, di quella violenza, assorbita nell’essere plasmati,  esplode anche quando viene infanta, ci si specchia. Se c’è stato un rito sacrificale nell’omicidio è stato l’omicidio del Maschio.

La sfida vinta al labirinto di Minotauro è solo per il mito, è la favola. Qui vince Minotauro, che se vogliamo per certi aspetti è anche una vittima (nato così per volere e capricci di padri, destinato dal padre al labirinto, fatto uccidere dalla sorellastra per giunta, amante del suo omicida). Luca Varani finisce nell’appartamento-labirinto. Tutto qui parla di un labirinto.

La verità della cronaca è che quel labirinto è il piano urbanistico della nostra esistenza di vivi, in cui tutti possiamo imboccare il vicolo cieco dell’orrore. Benché certo, nella storia come si diceva sopra non scompaia e la differenza tra bene e male è sempre al d i qua, nel mondo dei vivi.

Nonostante Foffo e Prato siano certo figli del nostro tempo con mitologie più superficiali, i due non sono persone inaridite da manie di superficialità, si, sono giovani amano le cose piacevoli ma fanno anche altro. Manuel è discontinuo, ma almeno in apparenza legge molto anche se ha smesso di studiare, vorrebbe fare marketing ma il padre (come un dio greco) decide il suo destino, lo spinge ad altri studi anche utili per le attività di ristoratore (per questo si porterà dietro la rabbia per le pressioni di un padre molto presente e pressante - una frustrazione che maturerà in rancore e poi in odio).

Un odio diverso per Marco Prato, verso il padre: era diventato apprezzato PR di eventi, ben noto nella comunità gay, con un padre cattolico ma progressista che in apparenza ha accettato l’omosessualità del figlio. ma di fatto viveva una separatezza da lui.

 Ho messo in corsivo “apparenza” perché qui non è la cultura consumista e superficiale ad aver colpito (anche ma non solo) ma forse la labilità di un sentire dell’apparenza in famiglia, la rescissione di legami con sé stessi, che hanno i due assassini. Questa labilità può aver inciso sul sentimento di identità dei due, messa in discussione, mai definita mai accettata fino in fondo, ma pure mai negata, fino al punto di trascinare i due in un rancore che è anche una rivendicazione di qualcosa che manca, amplificato dalla paranoia della coca. L’identità primaria coinvolta in questa storia è come dicevo, l’identità maschile.

 Lagioia, nel narrare alcuni episodi di sé, tali che gli hanno fatto sentire l’energia dell’empatia con la storia, sta parlando proprio di quello: dell’evoluzione dell’identità maschile, del cosa diventare, dopo l’adolescenza, del pericolo di fallire a Roma con le proprie scelte e decisione di colpire in questo fallimento dell’autorealizzazione di sé, il maschio, mettendo un annuncio per accompagnatori disponendosi alla prostituzione maschile, anche se mai realizzata, a differenza della vittima, Luca.

La frattura e la rabbia verso il padre (è quella rottura del patto il Tradimento che ferisce il puer, l’atto più più importante per James Hillman e anche chi si libera del padre tradisce il patto) sono ciò che lega gli episodi citati della giovinezza di Lagioia, in questa radice di male Lagioia scava, non per dire che il “male” è tutto uguale, o semplicemente che tutti potremmo essere malvagi, a rischio di sembrare la premessa per affermare che nessuno in fondo lo è.

Il male naturale è in tutti possibile, lo scavo in noi è più difficile e fa la differenza. E poi lo scavo nell’altro e l’andare incontro all’altro, al colpevole, all’omicida e non fuggirlo, ciò non significa sollevarlo dalle sue responsabilità.

 Questo libro in cui come abbiamo detto è tanto poco presente “il narratore”, guardandolo dalla sua ‘soglia’ tra dentro e fuori il testo, è un libro in cui l’opposizione netta è tra chi si è preso il carico di sé, di uno scavo di sé e anche delle tragedie altrui e chi non lo ha fatto. Se il Narratore è poco presente, l’Io ingombrante che non piace alla poesia della neo-avanguardia, ma che è parte della vita, soppesandolo per quel “fuori-dal-testo” (visto che la storia stessa non è invenzione nata sulla pagina ma è esistita ‘fuori’) non può non far agire la differenza. Nicola Lagioia intellettuale, scrittore, persona è presente e non a caso parte del testo è il suo essere accompagnato da una discussione a cui Lagioia ha preso parte con la stessa passione. Il suo sforzo di scrittura, empatia e comprensione tanto più si sottrare letterariamente dal testo, tanto più resta presente poi leggendo. Tanto più la scrittura “ca parle”, tanto più è frutto di “Nicola Lagioia” che ha molto fatto, molto faticato. Non solo per comporre poi il testo, da cui sottrarrà l’ingombro dell’Io-narratore, ma lui, Nicola, non si era sottratto al richiamo del “fatto” e il suo sforzo, il suo jihad, è nella lotta con la materia del pretesto che lo porterà a scrivere. Dalla soglia, il lettore non può che guardare dentro il testo-labirinto-appartamento, dentro il ‘tremendo’, al tempo stesso guarda verso fuori, verso il Lagioia e le sue intenzioni etiche. Walter Siti avvertirebbe con bonaria ironia, ma per far pensare ancora di più, che forse anche in quel ‘fuori’ c’è ancora autofiction. Chissà. La vita è sogno, certo.

“Ciò a cui siamo scampati è molto spesso ciò che non abbiamo avuto il tempo di capire e quando dopo anni quella cosa si ripresenta in una veste nuova è di solito per farsi interrogare come non eravamo riusciti a fare allora”. Lagioia ha condiviso con noi questa illuminazione profana del caso Foffo-Prato-Varani.
 (C’è nella vita di ognuno di noi una stagione, che può trasformarsi in una privata saison en enfer e quella stagione è la giovinezza).

Lagioia raccontando fa dunque  una sorta di meta-letteratura attraverso un rispecchiamento psicologico, riflette sul suo impegno di raccontare ma – qui sta la particolare qualità del libro – con un dentro/fuori il testo e propone (oltre la scrittura ma certo attraverso di essa) un impegno di prossimità che è appartenuto alla persone nella decisione (PRIMA del testo) di occuparsene: questo perché – come il delitto del Circeo in “Scuola Cattolica” di Albinati, altro  libro che mi viene in mente per associazione - la cosa ci riguarda. Tutti. E specialmente: Tutti, Plurale maschile.
Direi che sta qui anche la particolare importanza politica del libro, del testo (continuo ad aggirare la parola “romanzo”) se c’è una letteratura impegnata, essa è nel costruire un esempio di eticità.

Ripercorriamo come salmoni il tracimare di una “  tragedia del maschile” come termine per identificare un “ci riguarda” del libro (che è anche una storia interclassista, di tre figli e  le classi di appartenenza hanno un posto importante, benché non si possa leggere come odio di classe , bensì sul piano di quel che per il maschile è il terreno in cui si misura la sua virilità: la riuscita sociale – e questo dipende tutto dalla disponibilità di “cash” (altro mito dell’immaginario Trapper, tutto maschile, maschilissimo, di questi anni) la riuscita nel lavoro, la riuscita di sé, che è il piano su cui si misura la riuscita del figlio maschio del padre, e quando questa  statua non è la propria, quando nello staccarsi di percepisce che non se ne ha tuttavia una propria, è il momento in cui il vuoto prende il sopravvento e diventa furia omicida (di solito verso le donne, stavolta verso la statua del “maschio” attivo su cui accanirsi fino alla morte. )

la città dei vivi, così bella dall’aereo, come per il piccone della biglietteria del Colosseo, vista da vicino, è anche una città di cadaveri e tombe. 

1 commento:

  1. COME HO TROVATO IL FAVORE NELLE MANI DEL Dr. Adeleke ... Mi chiamo Agda Noah e vengo dagli Stati Uniti, Washington. Ho sempre promesso di raccomandarti alle persone là fuori che potrebbero anche aver bisogno del tuo aiuto, perché trovare la tua e-mail è stata la cosa migliore che mi sia mai capitata, Dr. Adeleke sei l'uomo più premuroso e compassionevole che abbia mai conosciuto. Ero così giù dopo essere stato senza amore per quasi cinque anni. Ho richiesto un incantesimo d'amore di ricongiungimento e sorprendentemente ha funzionato. Vivo felicemente con l'uomo più adorabile al mondo ed è per questo che ho pregato. Grazie Dr. Adeleke non sarebbe abbastanza, considerando quello che hai fatto per me, così ho deciso di condividere questa testimonianza del tuo lavoro manuale a tutto il mondo per conoscere il tuo buon lavoro per me. Puoi contattare quest'uomo per qualsiasi problema di relazione e anche lui ti aiuterà, tramite la sua e-mail: aoba5019@gmail.com o chiamalo / whatsApp +27740386124

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