mercoledì 29 giugno 2022

TEATRO: "CARBONIO" di Pier Lorenzo Pisano. La Fantascienza cambia il passato.

 


E’ in scena fino a domenica al Piccolo di Milano - Sala Melato,  “Carbonio” scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano, autore classe 1991, che nasce come regista cinematografico e che mette in scena un’opera composita, una specie di favola con tratti da fantascienza (e un qualche sottofondo scientifico sulla natura della materia di cui siamo fatti) in ci si intrecciano due fili drammaturgici: uno è una sorta di  interrogatorio-seduta di terapia psicologica, al centro della scena dei due personaggi “Lui “ e “Lei” (sono il bravo Mario Pirrello e la bravissima Federica Fracassi). 


Lui ha avuto un incontro ravvicinato con un alieno  e Lei – forse una psicologa forse un’investigatrice -  cerca di capire cosa è accaduto, stimolando i ricordi dell’uomo, inquinati però sia dalla sua rimozione o forse amnesia. A confondere la sua memoria il  fatto che questo incontro – filmato come è inevitabile con i cellulari – è stato postato nelle reti sociali e ora Lui non sa dire se quello che ha vissuto è ciò che ricorda o se quel che ricorda è solo ciò che ha visto in video (vedendo sé stesso) in rete. Del perché venga incalzato da Lei a raccontare si intuisce, poco a poco (con qualche salto o lacuna forse) dal secondo filo drammaturgico che svolge il racconto di come gli umani, nel 1977 abbiano raccontato loro stessi nei dati registrati nel disco d’oro installato e spedito a bordo del Voyager nello spazio, scommettendo sulla possibilità che quel disco potesse venir “letto” da altre forme di vita intelligente nel cosmo. Oggi Voyager ancora vaga nell’universo, a 23 miliardi di chilometri. Quel racconto per immagini, icone segni viene mostrato coi suoi disegni o foto e analizzato e ridicolizzato nella sua ingenuità dallo stesso Pisano, anche egli in scena, intervallando l’interrogatorio con le sue considerazioni, tra ironia e scienza. Il punto di partenza di questo filo tenuto dal regista è l’elemento del Carbonio che dà il titolo alla pièce. Il carbonio si trova in tutte le forme di vita organica, ed è la base della chimica organica, elemento cardine del  ciclo biogeochimico della Terra. Agli Alieni però, gli umani del 1977 hanno mandato informazioni piuttosto ridicole e egocentriche di cosa sia la vita sulla terra. Foto e disegni banali di figure umane e animali, chiaro esempio di quello che oggi chiamiamo l’Antropocene. Pian piano questo elemento di consapevolezza scientifica si intreccia, come dicevamo, con l’altro filo conduttore,  con l’evento del contatto alieno dell’uomo. Questo incontro, sembra emergere, potrebbe influire sulla possibilità per “Lui” di poter correggere i traumi della sua vita, primo tra tutti la morte della figlia di dodici anni.

Qui il testo mostra forse un suo limite dovuto alla comprensibile volontà di mettere dentro tante cose:
aver tirato in ballo il Carbonio porta alla consapevolezza sulla necessità di cambiare i paradigmi della realtà, seguendo le ipotesi che conseguono dalle scoperte scientifiche, prime tra tutte la fisica quantistica e le sue conseguenze sulle altre scienze, specie la biologia evoluzionista. Si pensi all’idea di tempo, si pensi all’idea stessa di vita e morte che – se letta nella metamorfosi generale della materia – non hanno più senso. In teoria, proprio seguendo alcune delle conseguenze delle ipotesi probabilistiche della meccanica quantistica, poiché il tempo non ha una sua linearità ma si ipotizza da parte di alcuni fisici anche una possibile (per ora solo teoricamente)  sua dimensione multipla e parallela,  si potrebbe dire  – come il gatto di Schrodinger – che anche la figlia di Lui è al tempo stesso sia morta che viva in un altro dei molti mondi paralleli.


A Pisano interessa più il lato della fantascienza, dunque più il lato narrativo e psicologico della questione umana, in cui inventare storie può servire a medicare un dolore, inventando possibilità fantastiche di altri finali. Ed è quello che il personaggio “Lui”  fa, perché infatti  si è convinto che la figlia sia viva. In realtà, sollecitato da “Lei” emerge – ma in modo non molto chiaro nella scrittura drammaturgica a dire il vero  – è che questo incontro con l’alieno apra possibilità reali e non solo fantastico-psicologiche, di modificare la realtà, non solo di farlo nel “racconto che cura” . Sembra di stare in quella zona concettuale del film A.I. (di Spielberg/Kubrick) verso la fine, quando compaiono i Mecha creature evolute dalla robotizzazione stessa, che ritornano sul pianeta distrutto tra migliaia di anni e come  esseri-non umani, ma pura intelligenza, sono interessati a scoprire nel bambino-non-umano arcaico,  le tracce di un’umanità che in lui ancora erano presenti, immesse dagli scienziati che le avevano create, tra queste proprio i ricordi e le emozioni che “provava” ( Come è noto di recente un ingegnere di Google ha sostenuto, lanciando un allarme per il quale la Alphabet lo ha licenziato, che l’intelligenza artificiale a cui stava lavorando era diventata “un soggetto” autonomo). 

 A mio avviso forse la scienza e le sue ipotesi su ciò che sia reale, sulla sua struttura, su come il tempo e lo spazio cambino i paradigmi   meritava più spazio, rispetto alla fantascienza tutto sommato potrebbe essere un’estensione dell’umanesimo. Anche questo però rimanda ancora a un punto controverso e in studio da parte dei ricercatori. Provo a sintetizzarlo. Ciò che ci fa sentire di essere “noi stessi”, anche prima di dire o razionalizzare un “io sono” è il punto ancora misterioso per la stessa ricerca scientifica.
E’ quello a cui si aggancia il finale della pièce di Pisano, che sembra assumere come necessaria la fragilità, la debolezza di inventare storie, attaccarsi ai ricordi, o reinventare la propria storia per curare le ferite del passato, che forse perdona anche l’ingenuità dei compilatori del Voyager, in quello spirito della curiosità, del contatto e della relazione – e dunque del linguaggio, ma non tanto del linguaggio in sé, quello è attitudine di forme viventi animali e vegetali, ma il linguaggio (è la conclusione del paleo-linguisti, dei neuro-antropologi) come  capacità di inventare l’invisibile, capace di creare i miti e raccontarli all’altro. L’Antropocene è la storia di una presunzione dell’uomo quella di essere superiore e poter dominare la natura. Oggi la scienza, la biologia evoluzionista riduce di molto la rilevanza della specie umana nella parabola di tutta la storia del pianeta. L’intero ciclo della vita sul pianeta dura infatti da 3,7 miliardi di anni, di fronte ai quali i 100 mila anni di vita dal Sapiens, ma anche i milioni da quando eravamo pesce,  sono davvero poca cosa e così come è iniziata la specie umana potrà dissolversi o mutare in altro (i Mecha?) e non solo per l’inquinamento globale ma per una evoluzione naturale di tutto il sistema delle forma di vita. Certo, rispetto alla capacità di usare il linguaggio per un’astrazione – come del resto fa la fabula ma anche la matematica che aiuta a scoprire il reale della materia -  resta quel “qualcosa” che sanno fare solo gli umani. C’è chi considera anche questo “qualcosa” (ora sto davvero sintetizzando al massimo) una delle tante necessità evolutive e non estrae da dominio della natura neppure questa capacità di astrazione intelligente. Altri invece, anche tra gli scienziati, tendono a considerarla un segno di eccezione, riaprendo a ipotesi anche metafisiche per l’umanoide. La discussione è aperta.


Come si vede Non è facile mettere tutto dentro un testo, lo stesso sarà stato per Pisano in quello  teatrale che deve sottostare a durate, comprensione di un pubblico per quanto interessato, magari non uso a letture scientifiche – e fa bene il giovane teatro italiano ad introdurre tematiche legate alla vita sul pianeta, al clima nei suoi testi. Dunque il difetto di “Carbonio” può essere quello di eccesso di buone idee, non di mancanza. Lo spettacolo in ogni caso fila, si segue, risalta anche per un uso di scenografie appropriato e soprattutto è tenuto in tensione dalla bravura dei due interpreti. ,

 

 

venerdì 24 giugno 2022

LA POSTA IN GIOCO A KALINIGRAD?





Sta nel cuore di una storia immaginaria di Santa Caterina da Siena e nel teatro, è la mia risposta.
Mi spiego.
Entro nel complesso del LENZ Fondazione Teatro a Parma, un ex fabbrica di scatole per alimenti e conserve, fondata nell’800 dalla Tosi e Rizzoli (quelli delle sardine) e recuperata come archeologia industriale ad uso culturale, mentre ascolto le notizie sulla guerra a Russia -Ucraina, che arrivano dal Baltico, dal porto di Kaliningrad, dove si potrebbe giocare un atto importante, in questa fase, della guerra.
Penso all’Europa e alla guerra e leggendo le note dello spettacolo che sto
Per vedere , capisco il caso mi ha portato in una sorta di “ posto giusto al momento giusto”.
La guerra si appropria nel suo linguaggio giornalistico del lessico della scena: “teatro di guerra” primo tra tutti. Abbiamo poi visto i teatri bombardati. Ma non è solo questo.
Sono qui per vedere l’originale riscrittura, ri-messa in scena di “Catharina Von Siena”, spettacolo storico del 1987 di Lenz Teatro ( ovvero Maria Federica Maestri e Francesco Pititto ) che per il suo nome – oltre che per la sua poetica - si ispirò proprio all’autore di questo dramma incompiuto, che era Jakob Michael Reinhold Lenz.


Di quest’opera, nel personaggio di Santa Caterina che – nella rilettura di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto – utilizza la figura immaginaria di Jackob Lenz per farla diventare l’incarnazione di una liberazione dalla carne, ovvero dalle prigioni mentali e culturali che obbligano ogni corpo ad essere qualcosa, ad avere un’identità predefinita e a comportarsi di conseguenza, vorrei dire meglio a parte, nel blog di Huffington o altrove.
Però mi colpiva questa coincidenza e sovrapposizione spaziotemporale, che mi faceva sentire “ Nel posto giusto, nel momento giusto” perché Jakob Michael Reinhold Lenz, nato in quella che oggi è Lettonia e allora era tutta Prussia, venne a studiare qui proprio a Kaliningrad, che nel 1768, quando Lenz vi si trasferì per studiare teologia, si chiamava Konisberg.
E chi sa qualcosa di filosofia, anche solo per lascito liceale, sa che a Konisberg in quell’anno abitava anche Immanuel Kant, che qui era nato qui morì e mai lasciò la città. Il filosofo insegnava all’università di Konisberg e aveva appena pubblicato saggi di teologia e metafisica (ma non ancora le grandi Critiche) e Lenz divenne suo discepolo e ammiratore.

Lenz poi lasciò Kant e l’università di Konisberg, fece il precettore e viaggiò coi suoi allievi, divenne
discepolo di Goethe Weimar (ancora la storia) e fu tra i massimi esponenti del romanticismo tedesco, noto come Sturm und Drang. Le sue opere furono recuperate anche da Brecht, la sua vita ispirò lo scrittore tedesco Bruchner.
Lenz, genio immaginifico, fu autore nomade e anticipatore della necessità di combattere il militarismo, la prevaricazione patriarcale sulle donne, la difesa degli ultimi e dei marginali, dei santi senza requie.
La città di Konisberg fu distrutta dalla seconda guerra mondiale per un bombardamento inglese e dall’assedio sovietico, per stanare la roccaforte nazista. Fu poi annessa all’Unione Sovietica e cambiò nome in Kaliningrad, per l’appunto quella che leggiamo oggi sui giornali.
La cattedrale con la tomba di Kant abbandonata. Il resto della città, rimasto in piedi, fu raso al suolo da Breznev decenni dopo per cancellare ogni traccia di nazismo (denazificare ancora) ma era un modo che già preludeva la cancellazione dell’ Europa. Dopo la dissoluzione dell’URSS, Kaliningrad rimase come ex-clave russa, ovvero una regione russa ma circondata da repubbliche baltiche (Bielorussia e Lettonia altre).
Intorno al nucleo dell’opera intima, profonda messa in scena da Lenz, ecco riapparire la Storia – perché ogni opera è fatta di Storia e questa stessa rimessa in scena segna una volontà di progredire poeticamente con la Storia.
Riannodare i fili biografici d Jackob Lenz mette in evidenza una cancellazione di una cultura europea che non deve temere solo l’arroganza russa, ma anche il nostro stesso oblio.
Oblio dell’Europa, ma non intesa come entità in un certo senso quasi “ pan-nazionalista”, ma cone come complessità e ramificazione di molte storie e molti sentieri culturali, insomma una ricchezza.
L’Europa ha molte colpe e responsabilità - la
Shoah e il colonialismo si tutti - ma come Catharina o LENZ ha avuto sempre una grande forza : contenere in sé stessa gli anticorpi dal suo stesso male.
Come la storia dell Santa che sfida il
Potere maschile della Chiesa, come di LENZ che la reinventa, come di Brecht, e poi come il Teatro LENZ Fondazione che produce questo spettacolo dal 1987 a oggi.
Ecco che nelle trame che ci portano con l’opera sia dentro la vicenda di una santa che combatte per la sua libertà e contro l’ingiustizia che opprime il suo corpo, così anche dentro la storia – e i luoghi – attraversati dal suo autore, che io vedo un’archeologia viva dell’Europa che saprà rinnovarsi, un modo di far vivere ciò che sembrava abbandonato, esattamente come la sede stessa di Lenz Fondazione, nel bellissimo complesso della ex fabbrica di confezioni alimentari della Tosi Rizzoli, fondata qui alla fine dell’800, cuore pulsante id un 900 operaio e poi abbandonata, riscattata dall’oblio da Lenz fondazione negli anni 80 e tenuto in questi decenni, in attesa del nuovo futuro, pieno di incognite e speranze come del resto la città stessa, Parma.
La Storia, come Dio, sta nei dettagli.

domenica 19 giugno 2022

su "album" di Elisa Donzelli (Nottetempo). Ancora in forma di lettera.

 


Scrivo di “album” (titolo in minuscolo) di Elisa Donzelli come un diario di lettura. Preferisco attraversare i libri, più che distanziarli come oggetti. E’ una poeta (o poetessa, o una donna in poesia, sia proprio il sostantivo di chi scrive) che dedica la sua attività alla poesia, anche con la casa editrice e come studiosa (di Caproni, tra tutti, di Char, Sereni e altri). E’ stata allieva di Biancamaria Frabotta come me. Più giovane di me, ha studiato con Frabotta in anni diversi dai miei, ma per usto – e ribadito nel segno di un lutto comune – trovo nei suoi versi e nel suo approccio, il coagulo di un’eredità – del secolo starei per dire.  

Ne scrivo un po’ come una lettera o un diario di appunti di lettura. La sento come autrice che sta dentro un comune album di famiglia.

 Elisa Donzelli scrive e compone questo suo “ album” pubblicato da Nottetempo,  che certo contiene tanto della sua storia che per molti tratti è nostra, per definire un tempo che sia però del futuro guardato con gli occhi – come scrive -  “di mio figlio che adesso / vuole raggiungere /la tua età /la mia” . Sono i versi che in corsivo ci accolgono aprendo “album” e danno il timbro di senso, già dentro un mise en abyme di sogno sognato, presenza di storia e immaginazione del futuro, che sono gli anelli a catena di questo libro. Dentro c’è il secolo, come dicevamo e anche oltre, sia prima che dopo.

Il tempo storico è anche l’ “ adesso “ e guarda oltre, si trasforma nell’angoscia di un nuovo clima che ci sarà. Cito i  “Nuovi climi” di Frabotta, parte dell’opera della nostra Maestra è stata dedicata a un’attenzione sia politica che creaturale alla natura tutta. Quel solco di intuizione proprio di Frabotta è parte anche dell’Album di famiglia di Donzelli, inevitabilmente: la traccia è nell’uso dello stesso autore citato in dedica  in  “Nuovi climi” , è una frase di Bernardino de Saint-Pierre che in una  torrida primavera seguita a un inverno rigidissimo, scende nel suo giardino “per vedere in che stato si trovava”. E’ il 1 maggio del 1789, la frattura di un clima inatteso, sappiamo noi oggi dagli storici, ebbe molto a che fare con la Rivoluzione Francese. Il clima, ancora oggi,  sarà la nostra storia, quella dei figli.

E ancora: ereditare una consapevolezza umanistica, un album storico di presenze, sovrapposte in epoche (“ottanta novanta zero dieci” scrive nella prosa Villa Torlonia) due ere di donna, con il presente impegnato a farsi carico di traghettare anche un figlio verso un futuro, nell’incognita di come sarà, ma nella consapevolezza che potrebbe essere sia  splendido che tremendo. Ogni album personale o anche collettivo ma che parta da sé è il giardino di una Storia. Così si eredita per un figlio anche un’attitudine alla rivoluzione dello sguardo: l’io-poeta al figlio:  “mostrarti che dal basso verso l’alto/il ramo non appare maestro”. Il declivio non è un declino, ma l’avvio verso “un altro/ paesaggio”.

Mi piace di questo libro – e vorrei dire al tu: cara Elisa -  soprattutto che non sia solo memoria, ma che la traccia archeologica del passato  brilli in una scia estiva di novità della vita, nel travaso del bios. Che continuità è la Storia? Forse quel misto di “forza e biologia” che citi nella poesia dal titolo “rdt”. E così quel bambino che poteva non nascere nell’istante di pericolo di un viaggio africano, nello sporgersi incauto durante il “viaggio di nozze”(titolo)  regala la consapevolezza che prima della storia c’è la specie che procede dentro questa incoscienza (“per nascere bisogna/ farsi ombra, qualche volta morire”). La specie che sta dentro il tempo e lo nega, lo disgrega, lo connette a tutte le epoche non nel nome ma a qualcosa di più profondo.

Così quel bambino, durante una visita a tombe antiche,  è già alla fine della sua prima infanzia, una stagione per certi versi di demoni e di bestie, di vitalità e – di nuovo -  anche di incoscienza. Tutto passa in giovane curioso che alla collina di Monterozzi (titolo) resta a osservare più a lungo degli altri la tomba antica: “ solo per descrivere quello che vedi sui muri / come se la morte fosse un disegno/  sbiadito dal fiato dei vivi”. Sono versi molto belli, difficilmente spiegabili, per paradosso nella loro limpidezza. Non indugi, cara Elisa – prendo cambio la prospettiva nel tu -  a impressionismo a suggestioni ed emotività, come a tua volta ti è stato insegnato, laicamente.  I poeti per te sono un varietà del paradigma esistenziale, una cura, una coltivazione dell’etica oltre che della percezione, una scienza entusiasta che persevera.

Che – come nella poesia “colori” - si nutre dell’energia dei “minori in agonismo” impegnati nella scoperta delle cose, che rinvergina ogni conoscenza che potrebbe portare a conclusioni leopardiane, ma qui non avviene tanta è la vitalità, l’effervescenza che fa da contrappeso ad una scienza sempre a rischio d’esser triste. Lo scenario di questo Album è Roma, perfetto nel suo incastrare le ville giardino (Ada, Torlonia, gli argini dell’Aniene) in un castello stratificato di memorie, dove a volte appaiono fantasmi fotografie, flash di memoria, ricordi precisi o ricordi che sono una sperimentazione dello scardinamento del tempo stesso. Anche questa estrazione di conoscenza dalla memoria e non solo l’entusiasmo del nuovo per giovani menti, è la meraviglia. Ogni libro come “album” è anche, involontariamente, proustiano.

Se i tuoi pianeti maggiori sono stati nello studio, insieme a Frabotta, anche Caproni, Char, Sereni o Bertolucci (cito solo questi, per come li so io ma ce ne saranno certo altri) credo che collocare una serie di poesie nella cornice di Roma, assorba dalla città il  confrontarsi con mondi paralleli in un carnevale delle epoche suo tipico.

Direi perfetto per un libro plurale, che oggi contiene fasi della vita di una mente e di una donna, e forse di molte che risuonano attorno, per la quale questo percorso non prescinde da una scelta in cui la poesia è parte di un’elaborazione politica, di soggettività che assume la praxis di lotte e impegno  femminile come un metro di misura di storia e utopie. Senza dimenticare però un più diretto confronto di modelli, tra modelli femminili. E diventa anche proprio con la poesia, scritta, letta studiata una materia prima di percorso nella costruzione della coscienza che in senso ampio diciamo  femminista, sapendo che comprendi come qui non lo intenda nel solo limite di una militanza politica.

Quella militanza prende atto dell’oggi, nell’incontro tra coetanee” dentro una trasformazione che forse porta nella poesia tutta quell'eredità politica, se da un lato si sa che “non serve sapere da che parte sia una madre/ nella geografia dei nostri strani posizionamenti” perché dall’altro appare chiaro che “le conquiste si sono perse/ persi i diritti pari le perdite”.
 
Femminista lo direi proprio in virtù di quella maestra di poesia ed esistenza che fu Frabotta nel solco di una comune viandanza e lo resta anche là dove prendi accenti di nostalgia o di malinconia, meglio, la rielaborazione di memorie necessarie per guardare avanti.

Ecco nella prosa “Villa Torlonia” aprendo “la scatola delle fotografie” il tuo Io poetante scrive:  “c’è una solo immagine di te con me nella villa, quando non ti volevo nata”. Il tremendo c’è anche nel confronto tra figure femminili, il conflitto è parte, mi sembra, del tuo percorso di coscienza (lo hai ricordato davanti alla bara di Biancamaria, in quel maggio dolce di Roma, quanto sia duro e non solo di generica sorellanza e filiazione quel confronto, ma da maschio posso dire che quanto più aspro c’è tanto più vuol dire che si tratta – come noi maschi con i padri storicamente e simbolicamente – di un confronto di accresciuta rilevanza della presenza femminile. Ma questa è solo una parentesi  che solo accenna una questione enorme). 

Questo tuo slargo prosastico mi consente di fare una sosta, per riflette sulla forma che possiamo dare ai nostri versi. Sei studiosa di Char, ne sai di più di tutti, ma provo a dirlo in breve.

L’assillo della “forma”  è stato nella storia del 900 una “poetica”, un aggancio a filosofie – il sogno, il linguaggio del sogno e del segno,  una certa fenomenologia, un senso della storia, un pensiero del negativo, anche una teologia per certi aspetti – e ideologia, per altri.  Poeti che hanno scritto seguendo la loro “musica”, a volte un timbro, un ritmo, un battito dell’asma. Altri hanno seguito ideologie, calcate su teorie e su un pensiero critico. Alla fine ereditiamo tutto questo e siamo più liberi di cercare una singolarità che contenga l’acutezza del linguaggio, le forme, gli apparati teorici e poi con questi strumenti umani tessere la nostra pagina. Trame e ordito diranno che poesia è.

 Di “Villa Torlonia” forse anche in virtù di non scegliere la forma dei versi, mi piace come – con una coincidenza molto interessante – quel che sempre abbiamo attribuito al Tempo (linearità tra passato e presente)  sia in realtà (come dice la relatività quantistica) una sorta di campo o Spazio, e che tutto sia spazio. Spazio di una coesistenza di più “tempi” allora.

Quella sequenza di fotografie, quel ricordare gli anniversari (“oggi è un anno che non ci sei”) si trasforma in conoscenza del mondo intorno, tanto quanto del mondo dentro. Quelle tracce che diremmo oggetti (ma chi è più IL soggetto?) sono le foto e sono il ricordo e anche il ricordo stesso che la foto è anche quando non la vediamo.

 

Gli  album servono a questo, tengono assieme le ore anche se non le osserviamo, in un magma, stipate, sono tutto il tempo assieme, i molti mondi paralleli della vita e non di una sola persona ma di geni, carne materia, secolo,  che muta in corpi esistenze, specie, famiglie. E’ lo sgranare di ciò che il tempo è stato, ovvero attimi e tutti assieme essi esistono in una metamorfosi che non ha più un ordine lineare, che esiste ma continua ad esistere, solo perché esiste chi li osserva e chi li racconta: “Dai racconti che fanno sembra che anche il tuo tempo abbia preso forma nei luoghi in cui ho avuto i tuoi anni” è una frase che dice quella compresenza di tempi  e di varie polarità temporali. Un tempo che siamo abituati a pensare come interiore, soggettivo e in fondo immaginario, ma che invece è qui, è materia reale, tanto che ancora quei luoghi (il casino dei principi, il gazebo ecc., luoghi della Villa) sono la toponomastica di quella stessa memoria della compresenza – tra vivi e morti,  tra presenti e assenti - e così l’interiorità si ribalta in una polverizzazione diffusa dell’Io (e del tu) non in negazione, ma ci fa sparsi come polline nei prati, nella vaga temporalità degli “appuntamenti” che accenni ricordando, come fossero là da venire, e sempre  in quei luoghi. Così il testo, la scrittura nel lasciare vaga la sua forma di genere, fa, costruisce l’incontro (anche  possibile futuro), fa, costruisce  uno spaziotempo dove il possibile coincide con ciò che è stato e  insieme con una fantasmatica digitale che ci è intorno, le “foto dei profili” esposte nella tessitura delle relazioni col mondo incorporale del web social, fatte “ a continuità di ombre che per natura potrebbero essere simili ai tuoi scatti”.

Così scrivi, stando in un luogo (villa o mondo che sia) che diventa il tempo. Il tempo è infatti un luogo dove tutto è e non-è, è stato e sarà, ma questa non è più una frase suggestiva che posso dire a corredo di una poesia: ora possiamo confidare sia in qualche modo quel che accade, il reale: sì, anche la compresenza di morti e insieme vivi, ciò che la poesia da sempre sapeva e sperava. Lo è nella materia che siamo e continuiamo (e continuano) ad essere. L’album di specie.

 

C'è una entomologia della memoria in questo Album così come dicevo della topografia, una raccolta di farfalle rare e preziose ma anche comuni perché magari legate a un momento particolare e collettivo, In Luky Star quell’appartamento, gli anni dell’Italia del Mundial e dallo stesso “balcone” o “finestre aperte” il punto da cui spiccare il volo dell’adolescenza,  verso il concerto di Madonna, l’Italia azzurra e più in generale la Torino, o la Storia della Resistenza.
Compare infatti quel “quarantatrè” e la tanta storia tremenda: ciò che la tramanda è però un soffio lieve dell’ “odore del lino/il lenzuolo che piegavi al mattino/ prima di portarsi al mare” che rievochi in a una donna che ha fatto la Resistenza e che quell’epica trasmigra in gesti quotidiani.

 E’ in questi dettagli di sinestesia che si adagia la ragnatela della Storia. Non è solo però la memoria del passato remoto, ma anche di anni giovani, ballando a un concerto dei REM (automatic for the people)   quel momento vissuto come unico o addirittura ultimo, ma a rivendicare “fossero per una sera nostri/ non vostri – tutti questi anni, la fase più a lungo intermedia/ del sonno adolescente” prima di cedere il tempo, il momento al passato. Quando siamo (stati) giovani, era per tutti già sempre attiva, in quell’avere vent’anni,  la nostalgia di  come ricorderemo certi momenti di felicità (e non si tollera chi dice che sia l’età più bella, recita l’adagio di Nizan, perché ne sa già lo strazio della fine.

 Le tue poesie sono come un presidio memoriale e familiare, nel dire ambizioni, speranze,  nelle differenze di censo e possibilità – così compare una figura femminile del tuo albero genealogico così forte anche se coi limiti della “femmina” di quell’epoca, che a “diciannove anni” organizza per gli altri “il trasloco a nuova vita” e lascia il suo mare calabrese, pur essendo “laureata/ femmina a Napoli anno 1939”.

In dettagli privati può stare metonimia di una storia comune, che valga per noi, e a te sta a cuore soprattutto che valga anche per tutte le donne che nei decenni hanno fatto qualcosa di simile,  dovendo a forza asciare lo stesso mare, verso il Nord.  

 Questo può farlo la poesia che non tende raccontare storie con cui identificarsi col rischio che ce ne siano di troppo slegate dalla realtà, ma più stati di coscienza, paramenti di sguardo, pensieri che possono essere comuni. Lo stesso può valere per la cartolina per Moravia (titolo), anche qui in una coincidenza di luoghi che diventano una stratificazione letteraria ma esistenziale. Come nel dedicarsi a Vittorio Sereni ecco la figlia che non piange (titolo e citazione di Vittorio Sereni) fissata dal padre in un verso celebre e tuttavia donna reale, Silvia Sereni, “secondogenita”, con lei “riunire le tessere/ dei nostri attimi” diventa un esercizio reciproco di identità nel nome del padre ma anche in opposizione ad esso.


 La giustapposizione tra biografia e storia che traluce dai testi esplicita i rimandi per quella del lettore, nella sfida a fare scattare analogie senza usare uno stile lirico.

Così anche l'evento storico che segna una stagione appunto che ciò che appartiene alla tua (io son più vecchio ahimé ) generazione è il 2 agosto 1990 l'invasione del Kuwait e l'inizio di una storia che appunto si è riversata poi sugli anni 2000. E che per la mia generazione va a coincidere invece con quella drammatica del 2 agosto 1980 che chiudeva col sangue un decennio e apriva con le ombre con i misteri un altro decennio che sarebbe stato impegnato a coprire quelle responsabilità.

 C'è però qui in questa coincidenza del momento storico un fatto privato il rumore della radio che sveglia dal riposo pomeridiano gli ospiti a casa al mare, così del resto come le catastrofi che collegano le date storiche al nostro ricordo dove eravamo quando sono cadute le torri gemelle così via. Proprio come l’apertura sul richiamo tra la catastrofe climatica del 1789 e la Rivoluzione, il cerchio si chiude a Lanzarote  ancora in una sovrapposizione geologica di epoche, che appartengono ma anche non appartengono.

Qui sta il nostro (lo dico con empatia da figlio di novecento) cruccio oggi, una natura che ritorna nella sua potenza a farsi amare e custodire, senza nulla garantire (Leopardi ci avverte sempre) ma a differenza sua non la consideriamo matrigna, la tuteliamo, anche nella sua facies desertica e funebre, di “cenere” che conserva il vitigno, come scrivi e protegge “la pace dei morti che non sono di qui/ e sono come gli altri”. Custoditi come un deposito di vita, come un nucleo fetale della materia che siamo, estesa ovunque. Come Leopardi, che attraverso Lucrezio e pur non avendo una scienza progredita e coscienza dell’ambiente come noi oggi, nel deserto  spettrale  vesuviano guardava alle ginestre, che la abitavano, vive dal caso generate, così anche per noi si vanno  a sovrapporre gli album della memoria personale e storica e quelli della biologia. Pur terminando, finendo, non c’è mai fine, tutto si custodirà,  nel “sottoterra dove basta un filo d’acqua per ritrovare anche te, / la più piccola forma di vita”.

Un caro saluto
Mario


Su "Novecento ai confini" (Campanotto) di Elio Grasso. In forma di lettera.


 

Caro Elio ho tardato a rispondere al tuo messaggio privato, con la lettera di Biancamaria su questo tuo libro,  spero che non ti sia dispiaciuto. Da tempo avevo scritto degli appunti, dopo la lettura. Presi annotati e poi abbandonati, come molte cose in questi anni, difficili per me e pieni di cenere.

Sotto è rimasta sepolta anche nota,  stanco di scrivere inutilmente per me, o di mettere solo su Facebook le cose. Ora la morte di Biancamaria mi spinge invece a risvegliare il torpore e curare meglio i legami che contano, cosa che ho sempre fatto maldestramente, e ne sento il peso. 
Ora,  per quel poco  - che siano due mesi  o vent’anni, sarà sempre poco - che mi resta da vivere spero di aver imparato a fare meno danni.  Gli ultimi due anni hanno davvero la marca di “confine” – forse del XXI secolo seguito al nostro 900 che è finito – con questa guerra europea – lui si davvero dopo breve esistenza. Ora si apre un secolo diverso, un’ altra epoca, non serve più contarlo  con le vecchie misure. 
Vorrei scriverla in forma di lettera questa recensione e lascio anche qui note personali, perché la poesia per me sta dentro un solco di ricerca di senso sia letterario che esistenziale, come in qualche modo insegna un compagno di strada come Emanuele Trevi.


E vengo al tuo libro, “Novecento ai confini” pubblicato da Campanotto, anche esso saldo col suo archivio e con i suoi tanti poeti nella storia del 900, sebbene sia attivo anche in questi anni recenti
Il “novecento” dunque. Lo definisco “nostro”, per  introdurre quello della tua scrittura che ha deciso di metterlo come sigillo (come fece un poeta che so che anche tu ami e consideri, come Aldo Nove figlio di quel tempo di sogni e illusioni e grandi progetti "di pianura" per i nostri genitori di paesi, di colline e montagne o terre distanti).

 Noi che siamo figli del ‘900, sappiamo cosa sia un secolo che finisce: il XX fu l’ultimo in cui s’è ragionato in termini di Tempo, perché lo abbiamo alla fine abolito, cancellato per come lo conoscevamo: Proust e Bergson l’hanno avviato e prima reso fluido, Heisenberg, Einstein, e oggi gli sviluppi della teoria dei Quanti ne hanno poi abolito ogni ordine e falsa ontologia (ci resta quello convenzionale per puro orientamento). Per questo i due anni passati sembrano moltissimi, sulle spalle, specie le nostre che già dovevano sostenere un peso dell’invisibile, il peso aleatorio di una scomparsa d’epoca che sempre più sappiamo solo noi. Lo dico come Vasco Rossi, perché pure lui, figlio del 900, ha dentro qualcosa di simile alle nostre ombre  – e spero l’accostamento non sia per te ruvido io lo considero uno spirito comune.

Si, caro Elio – dato che anche noi due, per certi aspetti come altri del secolo ( che non nomino per pudore) in tanti anni non ci siamo MAI incontrati, sebbene intensi, anche se radi i contatti ci sono stati per mail, messaggi, recensioni (le tue molto generose)

Ora questo tuo “Novecento ai confini”   mi parla diretto, come dentro una fratellanza di ombre. Ha molteplici e variegati sentieri di significati, io voglio leggerci i miei, leggerci le consonanze di un’epica di sogno dentro la storia, ci trovo una certa epistemologia malinconica della realtà, distanza di sguardo ma dentro una vibrazione di fantasmi, memoria e ma pure tutto il ferro della grande storia.

I tuoi temi li affronti da poeta lirico, che più che invadere di “io” fa un movimento inverso, di accoglienza: c’è un soggetto, nei versi, ma è più coro, nella forma di chi raccoglie “in sé” anche molta di quella eredità letteraria ( di cui sei profondo conoscitore come pochi, come si vede nella tua incessante militanza di saggista) ma completamente immerso nel presente. Lo ricorda anche Paolo Valesio nell'introduzione. 

Veniamo ai temi: questo tuo libro di un lirico è pure quello di un geografo di psichismi, che sono l’aura di un ‘epoca in cerca di un narratore cieco e di un’epica. Ne troverà geologie nei suoi labirinti, ma l’incipit del libro è in quel verbo morbido del passato (“Era)  che ritorna nell’ultima poesia. Nel mezzo un serpente, come un fiume di occorrenze e ripetizioni. Importante l'imperfetto - lo scrive un poeta che è stato fondamentale per me e so che tu anche lo ami, Cesare Viviani che nel suo ultimo libro scrive dell' "imperfezione del passato" ma pure della sua perfezione - e di solito così severo, mi perdonerà pure questo mio tono, visto che scrive nella penultima poesia "Un quello sciocco intimismo/ c'era pure del buono".

E vengo allora al passato di questo tuo novecento e nostro.

“Era candido l’amore/ e volenteroso di virtù”  i primi due versi, siamo già nel cuore dell’impresa di quella folla anonima di contadini per lo più, o gente semplice e impoverita dalla  guerra a stento capaci di parlare e dire i sentimenti di cui i figli avrebbero avuto bisogno, avventurati in un futuro rapido nel cambiare. Ma ebbero una volontà di impulso progressivo, lo stesso che li ha gettati nel fare famiglia, nel lavoro e a volte anche nelle guerre a fare i soldati semplici e ignoti.

 Nell’ultimo componimento del libro, allo stesso candore, scrivi,  restano invece “cimeli” che “risalivano dal mare” lungo la dorsale d’acqua.  Il disastro storico è tuttavia già preconizzato nella  chiusa della poesia d’apertura: “Volenterosi desideri ancora oggi/nel seme della storia/con sempre meno alberi di valle”. E’ già chiaro qui come tu proceda, per quadri e immagini, per cornici dentro cornici. La folgorazione verticale dell’imago, delle analogie, si compone in un procedere orizzontale. E’ la storia che si dispone davanti a noi come un paesaggio, dentro cui camminare, oggi faticoso, paesaggi di residui se non di distruzione.

Il nucleo bruciante, il motore che resta, è più che un’idea,  una pulsione: lo sforzo dell’andatura viva che va, del fluire materico dentro la storia tra biologia e società. “Verso la foce”  a fare da motore è “la coppia” , un nucleo che agisce. Strumento (inutile dire: umano) è quell’ “aggiungere anni/alla vita” che “ avrebbe spostato / confini”: ecco dunque che la storia procede da biologia ripetuta, in generazione dunque, viandanza, e per genìa, per dirla con la nostra amata Biancamaria Frabotta di cui hai appena scritto, e che ci ha lasciati orfani di luce. 

Vita e storia coincidono nell’impulso di fiducia e amore, carnalità di corpi familiari, accudenti, lavoratori, migranti, come lo furono internamente tanti uomini e donne. Al di là delle ideologie che li incanalarono, per loro fare storia era fare famiglia. Ma ben diverso da letture engelo-marxiane, o catto-salviniane per essere ad oggi. No, l’opposto.

il Secolo del “seme” è stato (demografia, popolo, figli, futuro, ma oggi clonazione, fecondazione tecnologica, calo delle nascite) dove si coglie una frattura. Un pianto, certo. Sei a Genova, Caproni è intorno a te.

Questo secolo così come ci ha generato ci ha fatto però  “figli dissimili” , come definisci con un lampo la tua, direi forse la nostra generazione. Dissimiglianza di singolarità impolitiche perdute ormai, slegate.

 Poesia lirica dunque ma senza “io”, non solo per “pudore” come suggerisce nell’introduzione Paolo Valesio, ma anche, credo, per volontà di lasciar aggregare dall’immagine singolare, dal mosaico lessicale, dall’analogismo dello stile alto del 900, un paesaggio del “noi” dentro cui collocare la singolarità che faceva parte di una comunità (si rimanda sparso nei versi a legami pre-ideologiche, pre-culturali (il mondo naturale di un’Italia terribile, altro che mito dell’innocenza di Pasolini,  che ha fatto però un balzo enorme tra civiltà contadina e industriale tanto che a un certo punto della storia quei bambini scalzi degli anni ‘30, come scrivi con sintesi efficace, si sono trovati adulti nella “contrada” che “contiene/ tutto il silenzio sotto i satelliti”.

E’ quel momento degli anni 60 a fondere in modo irripetibile arcaicità e conquiste spaziali in un solo slot epocale. (come in un ‘immagine gli anelli dei pianeti si sovrappongono a fedi nuziali). Ribadisco, ne faccio una lettura quasi storicizzante, ma le tue poesie sono molto di più, aprono a una pluralità che quasi rimanda ad un procedere misterioso e pur concreto della catena dei versi.

Io leggo in alcuni versi come:  “Asperità di anni, forse piogge/dissennate o partenze memorabili, da una casa/ all’altra, poi silenzi postali” un processo di trasformazione, spostamento e distanziamento dall’origine, strappo, che fu favola e storia, lotta, battaglia privata di sopravvivenza, necessità, ma pure destini comuni a tutti. Almeno per un tratto di storia, prima della cancellazione.

Questa tua poesia lirica è una poesia narrativa, ma nella forma di un mormorio ombroso, lampeggiante, sotteso di senso, liquido dentro i fatti duri della realtà. L'acqua, del resto è una delle componenti essenziali e già descrive un movimento progressivo. Il “fiume” che dai monti va “verso la pianura” e va verso “il mare” o verso più ancora la “laguna” nei tuoi versi che lampeggiano storie e dislocazioni.  E’ la “misura” del “secolo” della fisicità, forza-vapore di una spinta vitale dei corpi, la Storia è un lavoro di braccia che scavavano uno spazio oltre i confini per “sottrarsi alla morte”

Poi i corpi lo hanno sperimentato, questo secolo, nelle guerre e nei tanti movimenti politici, di lotta, di lavoro e  di pace e di costruzione o di divertimento (ricorrono nel tuo  Novecento le “feste”).  Questo era “l'ardore”  di cui parli a un certo punto nella prima poesia, mi sembra di individuarlo come un puntello forte, in questa trama di analogie, che spinge oltre la storia, è sempre un’ulteriore, un’utopia senza ideologia, attitudine esistenziale a conquistare a morsi la vita. Li vedo trasfigurare nel bianco, uomini e donne che silenziosi (noi figli i primi a studiare, a volte i primi a saper scrivere e dire in italiano)  sono stati protagonisti in questa loro spinta, come l'acqua che si dirige verso un fiume e il fiume al mare. Spinta di un’utopia senza per loro traduzione in un linguaggio, messo poi da altri, ma in loro un concentrato di amore volenteroso e sfida, fame di futuro. Questa nel libro indichi come “eredità acquisita” di questa spinta e la dici con l’immagine di “barche/fraterne facili allo slancio/ prima del tramonto”.

Slancio, parola chiave.  Se “nel secolo scorso era il seme”, esso ha prodotto un amore per la vita che era gettare oltre la linea del suolo oltre il presente. Quel “che dopo non è più stato ma vicino /all'immortalità” dici da subito. Era dunque una fortissima spinta al “varco” altra tua parola chiave, su cui convergono assieme la simbologia di Montale e il concetto spaziale di Fontana, ma comprendiamo anche meglio, pur nella tua costruzione rarefatta nei cristalli di associazioni analogiche, che questo varco era un nascere alla storia, un andare oltre che nessun discorso della metafisica saprebbe esaurire e che è compito della poesia contrarre in immagini espansive e sintagmi di senso inesauribile. Tu scrivi che la “breccia della poesia” è questo non saper “cuocere diverso cibo/ dal sogno ma è caldo profitto/ senza l’ansia delle discipline”.

mi ritrovo molto in questa idea che dentro il Novecento delle masse, della politica, delle ideologie e discipline e saperi (antropologia psicoanalisi sociologia) ci sia un’onda lunga ben diversa, uno spirito dell’epoca che ha radici profonde e altrove.

 E’ poesia dell’epoca, la tua, di un tramandato materico corporale umido materno. Il cuore di ciò che poi è diventato movimento storico, tu ne cogli l’alba essenziale, come Caproni in certi momenti apparentemente minimi, un Caproni diverso da te, ma traduttore di Char e secondo me tu stai tra le loro “due rive”.

C'è stato un aspro lavorio di adattamento dell'esistere a placarsi occorreranno anni seconda infanzia e nuove generazioni a fare a compiere il secolo a dare la misura di questa vita spesa e dispendiosa, in termini di energie vitali. Un percorso fatto di “miraggi” e “sortilegi” e “miracoli” insomma una successione di eventi connotati da extra-temporalità, a ribadire il connotato di un’utopia non ideologica ma vitale (la apparento, forse per quel “sortilegi” a il senso della Storia di Elsa Morante) quell’apertura “ di porte sui sentieri” o la “fuoriuscita tutti per come ci appaiono adesso, dentro questa saturnina “nostalgia dell'acqua” vista dall’oggi.  Ora che “l’aria di fa nera” proprio la verticalità del tuo fare poesia è un viaggio a ritroso e in avanti per usare “solo degne parole” custodite. Al termine di questo lungo “transito d’amore” e “consegna di scapole gracili agli anni” (ancora il tritacarne dei corpi in questo secolo). C’è un apparire di “epoche stremate” alla fine del libro consegnato a varie immagini, che sono come successioni oniriche, scrivi che “trasmigra il sogno/ per non finire l’infanzia/ in nome di malfidate apparenze”. 

Lascio senza forzare interpretazioni questa mia scelta di tuoi cristalli che forse lo è già, una della possibili. Lascio aperto l'intendere come e dove “divaga la stirpe”, dove sia “l’accaduta presenza/del tempo nei dirupi”. 

E’ un ‘apertura che bisogna intendere, al futuro, così è stato quel passato di “giorni felici” beckettianamente. In quel maestro del 900, alla fine di tutto il suo grattare crudelmente la superficie del canto disperato di Winnie una forma di resistenza c’era. Tu sei più lirico, guardi a un tono più alto, rilanci in qualche modo giurando fedeltà a una “fede/ per la gloria dei meriggi” una parola che suona da talismano per un poeta ligure. Non è citazionismo tuttavia, è materia reale, sono paesaggi aperti sia reali che allegorici, “assolati, espansi, interminati” di questa vita e luce abbiamo necessità che ci accompagni (la consapevolezza dura e atroce di Celan) “fino alla radura della cenere”.

Cenere che come scrivevo all'inzio, mi è sempre più polvere familiare.
Prima di quella però, caro Elio, spero sempre di conoscerti di persona, anche se certo molto mi sembra di conoscere di te nei tuoi versi. Con tanto affetto e stima

Mario

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