giovedì 4 gennaio 2024

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica


 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curiosità in attesa del ritorno alla regia di Claudio Longhi, direttore del Piccolo Teatro di Milano che lo porterà in scena al Piccolo Grassi dall’ 11 gennaio con protagonista Lino Guanciale.
Il romanzo dello scrittore cileno morto nel 2015 nel mondo ispanico è un cult, è anche un romanzo di riferimento per il modo in cui mescola le questioni politiche della lotta d’opposizione alla dittatura di Pinochet con quella per i diritti civili del mondo Lgbtq+ (Lemebel è stato scrittore, artista, attivista, fotografo, animatore culturale e conduttore radiofonico) con uno stile ironico, allegro, scanzonato e pop, e insieme profondo, sentimentale, in cui il realismo e il grottesco si mescolano all’uso sapiente di un barocchismo pop da commedia venato da malinconia, ma molto vivace e divertente.

La storia è quella di un incontro e di una speciale amicizia amorosa tra “la Fata dell’angolo”, un transessuale ormai avviato verso l’età matura, ma ancora pieno di passione e allegria canterina, e Carlos, un giovane studente cubano, bellissimo,  che fa parte di un gruppo di oppositori al regime il Fronte Patriottico Manuel Rodriguez.  
Lemebel costruisce questo personaggio modellandolo su sé e sul gruppo di compagne di ventura nel periodo più duro della dittatura, ricordate nella nota introduttiva, regine nella difficile arte del travestitismo sessuale in pieno regime fascista e dentro una cultura machista come molte in Sudamerica.

 La Fata non ha nome, il lettore la conoscerà sempre solo con quel nomignolo (che però un adattamento dallo spagnolo, perché lo scrittore cileno sceglie per lei il soprannome “loca del frente” la pazza di fronte, forse una piccola licenza del traduttore che  richiama l’origine a cui pure ha fatto riferimento Ferzan Ozpetek con il suo film, pure del 2001 “LE fate ignoranti “ – così a un certo punto si definisce anche la Fata nella traduzione italiana  – ovvero un quadro di Magritte intitolo proprio “ La fée ignorante” del 1956).
Anche Carlos usa questo come nom de plume di copertura. I due si conoscono  in un emporio, la Fata si innamora subito, ha ormai troppi anni per esibirsi, per esercitare anche l’arte dell’amore in strada, vive facendo la ricamatrice di tovaglie per le signore bene della borghesia di destra di Santiago. Di sé parla (e così il narratore la indica)  alternativamente al maschile e al femminile a seconda delle circostanze. Lui, ambiguo e sfuggente, si lascerà desiderare, ma di fatto userà la casa della Fata come copertura per le riunioni della sua cellula del Fronte e per tenere delle misteriose casse, piene “ di libri” dice sempre lo studente.

Siamo nel 1987 e il romanzo culminerà nell’attentato a Pinochet che segnò la crepa che portò alla fine del regime. MA quello che c’è in mezzo è una danza leggera, ironica, struggente perché destinata allo slittamento e alle illusione di tutti gli amori, sempre sbilanciati e forieri di ferite. LA Fata asseconda Carlos in tutte le sue richieste, lei lo circonda di un amore che è anche tenerezza fragile. L’amore non sboccerà, in questa danza di non detti, però di sicuro tra i due si intreccerà una doppia educazione, un risveglio sentimentale e politico insieme: la Fata, che preferiva sempre dimenticare la durezza della situazione rifugiandosi nei suoi sogni romantici d’amore, maturerà una consapevolezza e uno sguardo verso il mondo che prima non aveva, sempre chiusa nel suo appartamentino-nido, tra uccelli, ventagli. Non ti scordar di me, Scialli da seta, balze, pizzi, nastri di tulle, una mobilia antiquata tutti gli ammennicoli di una frocerìa che Lemebel manovra con abilità tra grottesco e ironia, tra nostalgia e vezzo. Allo stesso modo Carlos svilupperà col tempo un affetto e un ‘empatia che non aveva, sedotto più che sessualmente, dall’amicizia accudente e sincera della Fata.

Tutto si tiene sul filo della finzione, sul filo anche del discorso amoroso modulato però sulla retorica delle canzoni pop. E’ proprio la ricchezza linguistica la cosa più divertente del libro, in cui la debordante Fata puntella le sue illusioni di verità ricamando con un pastiche colto e popolare e con i versi delle canzoni d'amore quello che diverrà anche un tessuto di relazione e alla fine  codice segreto tra i due, il codice di una relazione indefinibile.

Un romanzo certamente teatrale, perché continuamente i riferimenti anche espliciti della voce narrante e della Fata a certi atteggiamenti teatrali, ostentati, artificiosi e garruli della Fata a cui corrisponde una teatralità dell’ombra di un Carlos che nasconde dietro la maschera e il nome finto le sue attività sovversive.
 E’ però un romanzo con non così tanti dialoghi, difficile in apparenza da portare in scena, perché spesso occupato dalla voce narrante la quale presta il suo rigoglioso eloquio alla/al protagonista Fata, e infatti Claudio Longhi in un'intervista doppia con Guanciale su La Lettura ha chiarito che la sua sarà “una sorta di “edizione teatrale” del romanzo, nella trasposizione di Alejandro Tantanian, in cui la Fata/Guanciale sarà di fatto anche narratrice.  

Tutta la storia si gioca con sul filo del doppio. Con l'identità che viene celata, nascosta dietro maschere, Sovversivo e la Fata, di fatto questa esplicita ostensione del doppio consente molti appigli per la scena. Un romanzo che ricorda molte cose, non solo quello di Manuel Puig con “Il bacio della Donna Ragno”, ma molti riferimenti tra cinema canzone e ancora teatro (penso al recente bellissimo spettacolo di  Renata Carvalho a Short Theatre) ma con un’anima latina che accondiscende più alla cultura popolare (forse attingendo più a un mondo simile al musical “ Priscilla” (e a me viene in mente una persona che forse potrebbe somigliare proprio a Pedro Lemebel, cioè Platinette, nella sua multiforme attività tra giornalismo, performance, radio e attivismo politico).

Nel romanzo compare anche un’altra coppia, a far da contraltare con rimandi e scambismi, a quella della Fata e di Carlo, ovvero Augusto Pinochet e la moglie Donna Lucia, ritratti in una loro grottesca intimità allo sfacelo, affogata in una palude di insofferenza reciproca e ipocrisia, con Lucia che è anche lei completamente quasi un omologo della Fata, perché da contadina si è trasformata, si è pensata, come  nobildonna, parla continuamente dei vestiti che vuole comprare, copiando anche quelli della Fata (le due coppie si sfioreranno due volte nel libro) consiglia al marito cosa fare delle sue scelte politiche in modo stravagante e sciocco, con un dittatore tanto acidamente feroce quanto ridicolo, che sotto la penna di Lemebel diventa un vecchio pensionato, incapace e pigro, ossessionato da marce militari e incubi da cattiva digestione. E interessante del romanzo questo doppio gioco quadriglia. Così come interessante il doppio risveglio tra Carlos e la Fata, in ci di fatto sarà l’amore della Fata anche se costretto nella gabbia di una consapevole impossibilità, nel gioco a illudersi, per sopravvivere, che muoverà le cose, contribuendo all’azione terroristica. Un tema anche meta-teatrale e insieme politico, etico, anche per noi che siamo viviamo in questa epoca italiana, ormai trentennale, dominata dalla destra bauscia di Berlusconi e oggi portata al parossismo grottesco dal “bagaglino” della destra burina di Meloni, al Governo con le  persone che per anni si sono richiamate al fascismo. E che sono state dalla parte di Pinochet, come ai tempi La Russa (sarà interessante vedere se  in sala ci sarà il neo nominato consigliere di amministrazione del Piccolo, Geronimo La Russa).

Che cosa significa per noi resistere? Opporsi al potere? Siamo più simili a Carlos o alla Fata? Lo studente sovversivo, fortemente ideologizzato, o la transessuale che rivendica , ostentando una diversità anche impolitica, ma radicale  ? È interessante questo, perché c'è una sorta di ulteriore riferimento al modo di fare teatro, in questa storia, vedremo come sarà coniugata da Longhi.
“ho paura torero” contiene implicito il discorso sulla funzione del teatro: se debba essere o meno quello impegnato e militante o se debba intrattenere, giocare con la sua arte, tenersi fedele a una sua metafisica, in un certo senso, senza farsi solo portavoce di istanze e ciclostilati. Ci sono molti riferimenti meta teatrali nel libro, la Fata dell'angolo continuamente sa di recitare la sua “parte da donna” nel romanzo di avere delle pose teatrali di avere dei confronti anche delle altre sue compagne di vita e di strada, continue e teatralissime “baruffe” schermaglie che racchiudono in sé però legami profondi.

Alessandro Iachino in un articolo sul semestrale  di cultura teatrale edito dal Teatro Metastasio di Prato “La Falena”, i parlando appunto della dell'impegno anche a teatro di un certo tipo di gruppi e autori, che portano nelle opere le tematiche politiche, le istanze sui diritti civili,  le parole d’ordine del cambiamento di paradigmi, le  nuove soggettività non conformi, danno vita a un flusso di testi e opere che dipanano, scrive Iachino, “una galassia semantica vaporosa e astratta” in cui la nebulosità sembra riflettersi in una tendenza al “contemptu mundi”, ovvero al disprezzo del mondo, all’osteggiare una differenza dal mondo circostante con il quale però “non vogliamo dialogare”.

 UN teatro-Carlos, starei per dire, militante che però più diventa politico e meno dialoga con il mondo che vorrebbe cambiare. Non c’è però solo la lotta elitaria tra gli artisti e i governi, c’è il “buio che ci circonda” la città invisibile e reale, come la Santiago che la Fata attraversa nel romanzo, abitata da tutte le persone, di tutte le estrazioni sociali,  ed è con loro che si gioca la partita politica. Insomma nel coinvolgimento del pubblico, in qualche modo tenendo conto delle scelte del pubblico, elemento imprescindibile per ogni teoria estetica e politica nell'epoca delle democrazie tardo novecento.

 Lemebel sembra sposare questa strategia, proprio diventando volutamente come autore e artista un‘icona Camp e sotto sotto, lasciando filtrare nel romanzo uno spirito critico anche verso il mondo dei Carlos.
Quello che oggi, direbbe Walter Siti in “Contro l’impegno” sembra teso a “valorizzare l'opposizione in quanto tale”, più impegnato a mettere in scena la sua retorica, a pronunciare i discorsi predefiniti di opposizione, le parole d’ordine,  più che a costruire una consapevolezza diffusa del cambiamento,  nel dialogo anche con chi al momento è diverso, ha gusti e formazioni diverse, ha magari un’estetica pop come riferimento  (come quella delle canzoni della Fata) .

 Si fanno tanti spettacoli di denuncia, scrive Iadichino, ma “vanno in scena di fronte a spettatori già informati, già aderenti a “quell’afflato politico”.  Spesso accade che quel pubblico sia fatto da teatranti e dintorni (come sottolineava Cordelli nel 1975 a proposito del pubblico della poesia fatto da soli poeti)

Se è condivisibile in teoria quello che ho letto in una citazione on line, di Jacques Rancière che “la finzione non è la creazione di un mondo immaginario, opposto al mondo reale ,a è il lavoro che produce dissensi, che modifica i modi di presentazione sensibile e le forme di enunciazione, cambiando le cornici, le scale e i ritmi, costruendo rapporti nuovi tra l'apparenza e la realtà”, è pur vero che in pratica bisogna anche capire quali sono le “cornici “da cambiare e i contesti, le competenze di chi vorremmo invitare a cambiare (per non parlarci addosso insomma e per non costruire un muro cieco di codici autoreferenziali e di solo dissenso).

Spesso nella platea dei teatri non si crea il dissenso, al 99% tutti gli spettacoli che hanno questo afflato politico di denuncia e di dissenso ricevono applausi scroscianti (negli ultimi tempi solo uno spettacolo ha creato una crepa, vivaddio, “Caridad” di Angelica Liddell) . Per il resto grande indignazione, grande commozione, grandi applausi. Per questo pubblico già informato e già aderente a quel dissenso che sta sospeso tra il palco e la realtà. È una sorta di eco-chamber confortevole, un parlarsi tra chi è d’accordo (Facebook ci sta anche abituando con l’algoritmo a questa echo-bolla-chamber) . Si fa arte che vorrebbe essere testimonianza e finisce per diventare, se pronunciata di fronte ai nostri simili, uno “ sguardo autocentrato che dimentica il circostante” come scrive in un altro articolo de “La Falena” Lorenzo Donati, utilizzando il termine di Gianluca Simonetti, tratto dal suo libro di critica “La letteratura e il circostante”.

Nel romanzo di Lemebel invece il “Fronte” di Carlo  e il “Frente” della Fata, la loca, stanno faccia a faccia, dialogano, si trasformano uno nell’altra. Anche l'arte in apparenza fatua e vaporosa delle canzoni dà il suo contributo all’ideologia politica (la quale spesso, come anche l’ideologia estetica, sedicente “di ricerca” o rigorosa è ugualmente linguaggio vaporoso ).

 
Interessante che Longhi, alla domanda di Laura Zangarini su La Lettura, su quale sia la funzione del teatro , diche che il teatro oggi dovrebbe “sforzarsi di restituire il cangiante trascolorare del presente nel futuro, debba testimoniare il nostro tempo incerto” dice Longhi, senza però “mai dimenticare la sua genetica ‘ leggerezza’ la sua vocazione innata a essere luogo del divertimento”. Ci aspetta forse molto giocoso e canterino divertimento al Piccolo. A 50 anni e poco più da quell’11 settembre 1973 che non riuscì però a spegnere la musica né a cancellare l’arte di Lemebel e delle tante Fate.

mercoledì 3 gennaio 2024

LA VITA HA UN SUO RINTOCCO INNATO, ANCHE SENZA DI NOI. "Le campane" di Silvia Bre (Einaudi)

 


Una delle figure più antiche della poesia è quella piccola forzatura logica della lingua chiamata “sinestesia”, la connessione di percezioni appartenenti a diverse sfere sensoriali (il “profumo dolce”, il “colore caldo” ecc.) . Ho pensato a questa figura come metafora del libro di  Silvia Bre, “Le campane” (Einaudi) in cui certo sono presenti questi artifici retorici, specie nella seconda parte, ma anche perché il libro mi sollecitava un continuo slittamento, uno minimale ma diffuso spiazzamento logico, nel suo procedere sintattico, specie nell’uso nell’aggettivazione,  specie nel creare una fusione sensoriale tra suono e spazio. Lo si vede subito dal testo che ci accoglie sulla soglia della copertina e che nella raccolta apre la seconda parte: “Una campana che rimbalza da lontano/ e la distanza da domare si consegna” creando il trasbordo sensoriale esplicitato nei “corpi adorati tradotti/ dall’udito”. È il suono ad occupare lo spazio, che avvolge la posizione del soggetto che ascolta – così che non si ha mai la sensazione lirica di un “poeta che dice io”, ma di un campo acustico-concettuale, una corale non geometrica. Il campo saziale è ciò che determina il tempo, anche qui in due semplici battute:  “Ero là, ecco la storia” come inizia proprio la poesia di cui stiamo parlando.


 Coerente con il senso generale dell’allegoria del titolo, “Le campane” è una raccolta con una diffusa presenza di risonanze, echi, utilizzando una voluta alea grammaticale -sintattica sin da subito con la poesia che apre il libro in cui è il “cielo” che reclama una forma, con una campana che “manda sé stessa” – ma in una dimensione sospesa di “impermanenza”.
Tutto il procedere del libro adotta una tecnica di rimbalzo: sia fonico, con diffuse rime o assonanze, sia tematico con riferimenti al propagarsi di onde o linee di materia nella percezione di sensi. Anche per la vista è lo stesso:

E se il punto di fuga sfonda il disegno
e lo diserta senza rigore
dove muore la prospettiva?

Dato il punto di rottura percettivo, la poesia di Bre indica la condizione dell’immagine che nel “disfarsi è la sua resistenza” accettazione di un punto di incedibilità tra conoscenza e non-conoscenza per cui la poesia è la migliore posizione “in questo punto sospesa/ in nessun luogo visto/ congiunta all’incompiuto”

 Ci si muove ancora in quel “sospeso stupore”  come lo definì Marco Merlin, delle raccolte precedenti. In una dimensione che si muove agilmente tra i riferimenti vagamente religiosi (e condizioni di vita ancestrale, percependo mentalmente anche il suono di realtà invisibile ma intese come permanenti: l’ex-ergo a una poesia lo afferma perentorio, indicando nelle “grotte di Cheuvaux/ la persistenza acustica della poesia”.
 Nelle tracce arcaiche di trentamila anni fa o nella percezione dell’oggi, per Bre c’è la ricerca di un elemento del mito che non è narrazione, religione, fabula: “il ritmo innato vaga prima/ della vita” scrive Bre, e mi sembra che la sua poesia, nella sua lingua, nella costruzione delle sue immagini ci si in fondo questo ritmo, una vibrazione. È quella della figura dipinta (il “toro”), continua nello stesso testo,  che circola, “libero dalla storia”, perché  “l’essere noi”, sorta di richiamo a una presenza eterna dell’essere vivente, di tutta la comunità dei viventi, “non è una porzione/ miserevole  del tempo” ma “ondeggia sempre”.
 Il tempo è per Bre è “un adesso perenne” fatto di queste vibrazioni o “tremito lungo” che comprende la materia cosmica, i viventi e anche “i gesti delle fate/ e dei maghi”: il singolo si colloca in questa vibrazione primordiale e qui trova il suo senso, nell’ “essere stati il futuro di qualcuno”. Forse anche di qualcosa, il mondo, il pianeta, tutte le sue trasformazioni viventi e no.

C’è più biologia e geologia in Bre che psicologia, almeno nella poesia de “Le campane”. Non c’è dubbio che rientrino una concezione della natura olistica, il complesso del sistema-pianeta in cui ognuno di noi è collocato, ma la storia sembra essere solo un accidente transitorio e breve rispetto alla dimensione più ampia del cosmo, della materia quantistica, del comparire della vita. In un certo senso è la scienza che sembra offrire al momento uno spazio di possibilità di senso a ciò-che-non-si-sa, nel senso che si ammette che molte cose non si sanno ancora.

Non è un caso che una poesia (p. 12) riporti come esergo “Einstein”. Quel che scienziati come il fisico tedesco hanno mostrato non è una verità, ma per il momento “misure sconvolte” del mondo di fronte a cui bisogna “stare nella notte/ e cavare un linguaggio, orientarsi” nonostante lo sconvolgimento.  Bre sta tra una ricerca “dell’origine” e l’accettazione del mistero: “a volte senti proprio nell’aria, proprio/ nelle orecchie, l’inizio che aspetta” immersi in una dimensione ampia che conforta (“è l’universo / e sa la tua presenza”) ma che è anche resistenza a questo sgretolarsi delle misure (p.17)

Come un’alba nera madornale che da est
cerca l’Atlantico nei giri
della nebbia fino alla curva,
e lì la spuma della mia presenza
 frontale contro la dismisura.

Ci sono parole che la storia della poesia consegna a una memoria e durata di echi, come del resto di risonanze è fatto il mondo, ma qui non può non venire in mente quella chiusa celebre di una poesia di Milo De Angelis da “Millimetri”: “in noi giungerà l’universo/ quel silenzio frontale dove eravamo/ già stati”.
anche nella chiusa della sua poesia Bre evoca una medesima, irrequieta presenza di un vasto silenzio che tutto sa, che egualmente contiene, nel tempo:

Che venga a prendermi ogni luce
o anche un giro di vento, che plachi
il silenzio della mia comprensione assoluta.


Silenzio, mistero, comprensione frontale.
In un libro recente, pubblicato da Vallecchi nella collana curata da Isabella Leardini, Silvia Bre aveva scelto la parola “Mistero”. La sua è una poesia diversamente ermetica, senza essere oscura di inaccessibili segreti riservati agli eletti, con un’allusività che espone la semplicità e al tempo stesso irriducibilità dell’evidente, non traducibile in “conoscenza” ma senza necessità di richiamare  entità sovra umane, invisibili.

Semmai in cerca di tracce tutte dentro la materia del vivente. Poesia chiarissima, limpida come l’acqua di un pozzo: “Quale mistero pervade un pozzo!/Quell’acqua vive così lontana” scrive Emily Dickinson nella traduzione della stessa Silvi Bre che alla poetessa americana ha dedicato decenni di lavoro, culminato nel volume recente “poesie” una ‘ampia scelta delle migliaia di testi dickinsoniani. Un lavoro che non manca di riverberarsi sulla scrittura di Bre.
Al mondo a cui guarda Bre, non oltre ma nel visibile si appartiene per fusione amniotica, per comunanza molecolare, meno per significanza linguistica, sebben ovviamente questa scrittura-prima-della scrittura passi per la materia grammaticale che è concepita da Bre più come “voce” che come “segno” sebbene il segno faccia il suo gioco, la sua acrobazia, tuttavia fallimentare anzi mortale(p. 5):

La luce di qualche verità
qui è eclissi
gli sguardi le cantano al buio.
Anche la grammatica fa
il suo salto mortale
e non sbaglia ma muore. 

Se il silenzio è comprensione è la grammatica muore, il poeta continua forse a metà strada,  in questa sua fragilità che da un lato sembra disorientata di fronte a due vertigini: quella della dismisura che viene dalle scienze e dalla conoscenza e quella della facoltà che ci rende senza bisogno di parole capaci di immediata comprensione e così (p.24) sta quel “meridiano/ di rintronati dalla fragranza di un suono / la loro eleganza disadorna. / Non sono mai nessuno i poeti”. I poeti riescono ad essere ancora  meridiano, per evocare la parola celebre di Paul Celan.
Sempre più fragile, come qualcuno che scrive sui muri la notte. “io parlo l’artificio” scrive Bre e paragona la scrittura a un “comparto industriale smesso”, un’ agire residuale per il quale il poeta si appella “dica qualcuno in tempo che c’è una figura, un’ombra/ un gesto di pietà da offrire a un altro”. In questo nucleo di minima resistenza sta la poesia capace, tuttavia, di reggere lungo l’asse del “tempo astrale”, chiosa Bre.

 Bre evoca ancora una volta una corrispondenza ctonia e materica tra mondo e poesia, come se alle parole della poesia spettasse la possibilità essere “opera oltre i confini”,  di essere specchio di qualcosa che non è conoscenza,  ma questa muta appartenenza la mondo (p.27): l’istinto del pensiero può placarsi/ specchiarsi in queste parole è il paradiso”. Si chiude così la prima parte del libro e nel riaprire la seconda i primi quattro versi ribadiscono di questa dimensione corporale e mentale insieme del percepirsi nel mondo: 

Il corpo è il rintocco della presenza,
vuole coincidere. Fossero qui, le campane.
Invece l’essere in loro è così, disteso
in uno splendore che retrocede
 

È evidente la fiducia dell’io-poetante in un punto di contenimento dello sciamare percettivo. Questo sono, le campane, metafora di una sorta di enti (il nostro corpo, i sensi, ma anche la nostra stesa conoscenza e non-conoscenza insieme) che “slegano in mondi” l’esistente ma “chi prova a fermarle perde, perde/ l’elusione scintillante che contengono”.
Contenere dunque questa elusione, tenere scintille nell’incavo della mano, essere dentro una dimensione di “ere più vaste di questa” senza alcuna missione o destino, sapendo solo che “quel lontano è amare tanto”.
 

Il poeta non indica in un centro, consapevole (p.35) che c’è solo una “orda dominante” che ci agita, se non altro agita il poeta straziato dalla compresenza silenziosa che non si può contenere come la cenere tra le braccia. Essere sollecitati a dichiarare un centro è una sorta di violenza, allora, quale un fuoco che avvolge una che piange” uno “sconosciuto che ti dilapida” e a fronte di facili e sentimentali poesie che puntano a quel centro di gravità permanente dell’anima, l’io-poeta di Bre risponde: 

Dillo trionfando che non ci sei, non hai cuore,
è un’altra l’unità da pronunciare, ebete,
e non sai quale, non sai farlo.
 

Tra l’ “io slegata” (p38) e il “tu, meraviglia” (p.34) c’è un riconoscersi dentro una dissolvenza soggettiva, dentro questo “ritmo antico del nulla” che è molto di più di quel che può farci comprendere l’idea dell’esistenza di un dio,  un “dio temerario” lo definisce Bre, cantato con “segno disumano” a cui è contrapposto ancora una volta il silenzio, “la pace dei significati”. C’è una natura contemplativa della e nella natura nel pensiero poetante di Silvia Bre, ma non si potrebbe neppure definirlo così, forse un pensiero che si comprende nel momento in cui di esso stesso si dissolve ogni segno, la poesia essendo un canto in cui l’artificio serve a creare la dissolvenza nella permanenza stessa della grammatica, in cui questa dissolvenza è il tradimento della lingua che consiste nel permanere.
L’effetto è quello allegorizzato (p46) come un “mugolio/ di rocce, campane/ che suonano contro la forma/ il giuda da tradire”.  E ancora (p.47):
 

L’umano ha questo fuoco profumato di una lingua
che porta il non più in cui stare. 

Esercizio di sottrazione questo “filo denso della presenza” nostra, di specie tra specie e selve e rocce, trova nella lingua della poesia un ulteriore esercizio di svuotamento, di cui resta solo un “soffio diffuso”: è quella la “lingua celeste dello sparire”, che è sparizione mentre si dà e risuona. La poesia punta non all’indicibile, bensì alla capriola o salto mortale del dire una “quiete sospesa” (53)  di beatitudine che trasforma il canto in soffio, il significato in un silenzio al massimo un’eco di quella lingua-campane, come una traccia di misura dal modo delle madri. La lingua nella poesia rintraccia un canto e affronta il precipizio del buio, la condanna per aver tradito proprio con le parole una beatitudine che non ne aveva bisogno.  Poesia come la voce di un canto che risuona in una “navata” per la “carità “della “gleba”  (p.56): 

suonata a senso dalle campane
per timone le tenebre
mi ruota nello scheletro la nube di una luna,
questa infamia fedele di beata.

FORSE LA GIOIA ESISTE. "Ipotesi del vero" di Giorgio Ghiotti (LibreAria)

 La città dove abita Giorgio Ghiotti è Roma, ma la città che lo abita quella dei versi (suoi e non soltanto). Anche la prima, pur essendo una città che coincide con la disastrosa Roma della cronaca, resta una città della gioia, come se provenisse da un luogo anteriore, per usare un titolo di un altro poeta romano Roberto Deidier. Del resto non c’è luogo dove l’anteriorità condiziona così tanto il tuo futuro.  Nel suo caso quel luogo è anche l’infanzia, momento di “miracoli leggeri” in cui si poteva percepire – per fare un esempio, prendendo una delle poesie d’apertura del suo nuovo libro “Ipotesi del vero” (LiberAria Editrice) -  in quei “pazzi di quartiere/ da cui da bambini ci tenevano distanti”  che fossero “ultimi custodi di voci inascoltate dell’assenza”.



Per Ghiotti l’infanzia, che attraversa i suoi libri (solo di poesia e prosa, una decina in dieci anni)  è mito rivendicato, e ancora di più da adulto, ora che Ghiotti non è più il brillante esordiente di 19 anni.

Dato che Ghiotti stesso lo tematizza, come parte della sua concezione letteraria, dichiaro subito che conosco Giorgio, c’è amicizia e condivisione (di matrici, come l’essere stati allievi di Biancamaria Frabotta, io dieci anni prima che lui nascesse). Il suo stile, il suo modo d’essere poeta sono distanti dal mio, ma questa non è una recensione né amichetta né militante. Trovo che Ghiotti costruisca il suo mondo letterario con una coerenza,  tra scelte di linguaggio, forma, sua personale attività (editoriale , critica, organizzativa).

Oltre questo, di cui cercherò di dare conto analizzando il suo ultimo libro di versi, mi ha sempre colpito con curiosità un po’ sorprendente, un certo suo sincero culto di maestri e maestre, perché sono una spia di un tempo che ne ha bisogno e di un’attitudine più generale che il poeta fa sua, porta nella sua voce singolare. ed esprime, Anche in questo Giorgio Ghiotti è poeta.
La cosa che mi ha colpito sempre è come nella sua scrittura consegni al lettore uno sguardo aperto al mondo, ma come se  lo guardasse  da un retro-pensiero secondo,  da un punto di vista anteriore, appunto, che cerca puntello in un passato che fa anche da riparo proprio perché non è il suo personale vissuto, ma un passato di tutti fatto proprio.
“Si piange per un mondo che scompare” scrive Ghiotti in una delle prime poesie di “Ipotesi del vero”  e testimonia di questo suo percorso di continuità. La poesia di Ghiotti non è però un’elegia ( che in qualche modo cita un tempo esatto e accaduto) ma costruisce un sentimento dello stare nel tempo storico presente.

Da cosa nasce questo attaccamento al passato? Non rispondo limitandomi al suo caso, ma dal caso guardando alla generalità di una generazione o più d’una dei nati negli anni ‘ 90,  talmente abituata a materializzare i ricordi in oggetti e tracce visibili (foto, video) la vita vissuta – e che poi nell’adolescenza ha incontrato l’esplosione dei primi social network nel 2008 – da avere nella propria coscienza collettiva e individuale, la  sensazione di avere un lungo, intenso,  passato che al tempo stesso sfugge, perché non garantisce un futuro.
 Ecco che allora in poesia quella zona franca dal tempo (e dalla Storia) che è l' “infanzia” di cui Ghiotti riscrive il suo personale mito  (certamente è stata tra le più dorate, per bambini bianchi che nascevano in Europa a metà anni 90) facendolo diventare qualcosa che si estende alla coscienza adulta. Nessun cedimento al  fanciullino, tuttavia, ma la traccia materica di un’altrove stabile, quasi in sostituzione di utopie: anzi forse un’utopia retroversa in cui  il futuro, contraendosi fino a ridursi a buco nero, diventa sempre più  arco teso tra finzione, immaginazione, teatrale nostalgia di un passato  e una materia prima,  minuta e concreta del quotidiano presente che pure ci tocca vivere.

Questo spiega anche la scelta di un verso dal ritmo metrico scandito, attento alle misure, al suo moderato cantabile e insieme atonale, nella scelta lessicale non di rottura, non espressionista. Non esente da smottamenti, la vita si raccoglie in sequenze di “felicità parziale e provvisoria” ma a cui si sommano ricordi di un “tempo precipitato di ombre” in cui si convocano “i morti”: non solo i propri (come la sezione finale dedicata a “l’altra ragazza, mia nonna”) ma tutti, principalmente i poeti. Questa dimensione osmotica tra mondi, scrive ghiotti, abbevera “la mia immaginazione” ( questo ultimo termine ricorre più volte nel libro).

Sono ombre che tornano, ricordi di figure “giovani” che finiscono per sovrapporsi con l’età giovane dell’io che scrive, quasi che a un tempo l’io-poeta Ghiotti è giovane nel passato o quei morti sono giovani negli anni duemila. Anche i ricordi, sono coltivati non come storiografia di sé ma come “sentimento intatto” nel suo restare opaco o “illusione di doppiare/ l’innocenza del mondo”.

Muovendosi negli spazi di una geometria spesso domestica o di quartiere, fatta di cucine e dirimpettai, portoncini, gerani e cimiteri familiari come il Verano di Roma, un palazzo in cui abitano forse invisibili scassinatori, l’Io-poetico di Ghiotti narra di un mondo che vuole essere sia denso di fantasmi, immaginazione, ricordi, sia fatto di confini reali, quasi realistici. Un mondo e una vita che riescono “ad accordare un senso” al poeta ritratto nel ricordo giovane  “tutt’ossa” quando già (appunto) cercava di “dar forma a qualcosa che valga/ il lusso dolente di un ricordo, un sottocasa /serale”. Ghiotti così come metricamente e linguisticamente, costruisce una dimensione di spazio esistenziale e mentale ristretta, nel senso di ravvicinata: quello che conta è “dirsi le cose negli occhi” o “intendere vicina” un’altra figura femminile. Nel ravvicinare, sta il riparo dalla Storia verso cui non si accorda più molta fiducia,  in “questa eternità senza gloria”.
E’ il titolo di una sezione e mi sembra esprima, non solo un senso dell’esistenza generale, ma anche – come può certo farlo un poeta - una precisa posizione anche politica rispetto al sentimento dell’essere abitanti, cittadini e poeti, della città di Roma, entità socio-ambientale e culturale determinante per la poetica di ghiotti. Roma che per chi scrive, pur romano, è ormai un caso a parte nella storia di questo paese e sua cartina di tornasole.

Ghiotti tuttavia abita Roma (città “santo” scrive in una chiosa) come se abitasse un linguaggio poetico. Città che da sempre inibisce tutte le prospettive di gloria, perché troppo eccessiva in questa sua monumentalità statica, ma che consente reti interne e comunità. La principale per Ghiotti è quella dei poeti, veri, conosciuti frequentati, o vagheggiati alcuni morti. Di solito i poeti si scocciano se ad altre vengono paragonati ad altri, voci del passato, come se volessero nascere da sé. Ghiotti invece è un singolare caso di poeta della tradizione: non un poeta tradizionalista, ovvero conservatore, ma un poeta che da sempre omaggia il suo personale olimpo storico dove si va da Amelia Rosselli a Patrizia Cavalli (entrambe con dediche) ma anche altri, anche fratelli e sorelle maggiori, fino ai coetanei alcuni dei quali però dissolti giovani in epoche diverse (Beppe Salvia e Gabriele Galloni) la filiera della “scuola romana” tra ironia e disillusione, una galassia “plurale” come già scriveva Biancamaria Frabotta in un suo saggio, dove forse però – azzardo io -  “Roma” è il marchio di eternità dove nemmeno ci si pone il problema di “perdere l’aureola” alla Baudelaire. E’ come se questa folla di poeti però si muovesse spazio-temporalmente dentro il “campo magnetico” di aura di eternità, in cui prevalgono immaginazione e favola, dove tutti sono quel “santo” che è Roma (L’olimpo è ampio e scritto nelle note finali del libro).

Ghiotti interpreta questa tradizione in sintonia col suo tempo, quello di una generazione cresciute tra precarietà e nomadismo. Non manca – scrive in una poesia - il desiderio di “indubitabile promessa del futuro”. Proprio in un testo che è parte della sezione dedicata a Frabotta, spera che il fortiniano  “composita solvantur” sia esattamente quel dissolversi di quanto è composto, così che il l disordine possa succedere all'ordine, inteso come movimento che rompe la stasi.
Tuttavia, nell’universo di Ghiotti prevale la non-rottura e il futuro si spera sia  “senza furti né assedi” sia qualcosa che si può conoscere, vivere anche potendo  “tentare con slancio un onesto bilancio/ con la Storia. Anche – tenta dimessa/ una voce – se non c’è più storia? Risponde il coro dei vivi, Anche”.

Il recupero di lezioni di maestri può essere forza ma anche gabbia, questo può essere anche un rischio per lo stesso Ghiotti come autore.  Poeticamente però esprime il senso di un bilanciamento tra angoscia del dopo-Storia e assorbimento di una Tradizione, dove alla fine la poesia è strumento umano che genera sentimenti di un diapason che sostiene l’esistere, con un risonanze ampie e oppositive: per Ghiotti scrivere è fare “poesie come sintomi – felici/ e feroci, necessarie – quel tanto/ da sentirsi ancora vivi”.
Mi pare, nello stile e nella posizione di poetica, tutto molto coerente.

 
Nella “mente” che è “felice carceriera” di una  intensità ravvicinata in cui la poesia si fa strumento umano, umanissimo e comune e il comune vissuto ingloba.
Lo ingloba non senza quell’avvertenza sul sentire e vivere post-moderno di cui aveva avvertito Umberto Eco nella post fazione a “Il nome della rosa”: la condizione post  moderna è quella in cui – diceva Eco – non diremo più “ti amo” ma diremo “come direbbe D’annunzio, ti amo”. Ghiotti esprime però anche un senso di tensione centrifuga da questa non aggirabile consapevolezza, fatta anche di “formule nascoste nelle vene” che “raccontano per noi come eravamo” (ancora questo insistere di un passato) dentro “geometrie ignote di vite ipotecate” da cui “cavammo una parola, la prima forse e poi non fu più muta/ l’avventura per cui sillabammo “amore”.
Ecco Ghiotti lo scrive tra virgolette amore, come Eco, ma lo rivendica come parola primaria, parola originaria, da sillabare nuovamente come si fosse i primi, non da citare da passati codificati, come inevitabile matrice linguistica di una “avventura” (è il titolo di una sezione anche ) che è vivere.

Si tratta di un bilanciamento tra desiderio di vissuto originario e consapevolezza di poesia e vita da “postumi”. I Gargoyles medievali delle chiese sono memoria di cartoon infantile – si fondono, diventano “angeli” protettivi di una stagione della vita “fosse pure l’ultima che importa”, dice appunto da postumo.
Ghiotti procede come il moon walking, il passo di ballo morbido che gioca sull’ambivalenza di arretrare procedendo. Nella sezione “l’andare e l’addio” le due polarità che non prevedono alcun “ritorno” rilanciano verso una figura di futuro concreto, un piccolo famigliare, Pietro: a lui il poeta scrive : “Ti parlerò dei maestri” e dunque l’ossessione di quel passato diventa trasmissione in vita stavolta, passaggio di testimone verso il futuro e non solo – come per il poeta stesso – sorta di eredità e incarnazione dei morti nel corpo vivo del giovane allievo di Frabotta ,quello che  immagina sé stesso , ripensando agli anni Settanta, come  superstite “ di quello stesso mondo”. È’ un andare diverso in questa sezione.  E’ vero quello scrive Carmelo Princiotta nella postfazione: “la seconda sezione consola del lutto della prima”, forse anche un’elaborazione che porterà Ghiotti ad un addio, ad un saluto, magari anche uno strappo necessario rispetto a questo mondo dei poeti, vivi o morti che siano, su cui certo ha costruito il suo mondo poetico.

L'ANTILIRICA DELLA FACCIA. "Autoritratto automatico" di Umberto Fiori (Garzanti)

 

L’ultimo libro di Umberto Fiori, “Autoritratto automatico”, pubblicato da Garzanti, a me sembra uno dei libri importanti dell’anno appena chiuso. Lo è anche per la sua capacità di dialogare con la storia, sebbene in apparenza essa non compaia se non per piccoli indizi. Lo è anche per l’apertura verso linguaggi altri dalla poesia – qui la fotografia, che è una pratica che partecipa alla stessa creazione del libro di versi, quasi i due linguaggi diventano un’allegoria dell’altro.

“Autoritratto automatico”  è un libro che nasce, anche sul piano tematico,  su questo solco del confronto con un Sé stesso-come-Altro. Prende avvio dalla sollecitazione data a fiori da Antonio Riccardi, poeta e direttore della collana poesia Garzanti, per scrivere un libro quella piccola grande pratica ( o “mania” come la chiama Fiori) che il poeta coltiva da 50 anni, ovvero quella di fotografarsi con le macchinette automatiche che si trovano in strada o alla stazione, con cui si fanno le foto-tessera. Fiori ha praticato questo “esercizio narcisistico”, come lo definisce con autoironia, con una regolarità costante nei decenni, dal 1968, accumulando una “collezione” di strisce (di solito da 4 foto) stampate e conservate dentro scatoloni e che diventano anche il risultato e la traccia di un attraversamento storico di un individuo, di una faccia.

Fiori ha così immortalato la Storia di un Sé, nel suo specchio facciale, passando attraverso tutta la sua biografia e storia creativa ( prima nella fase di cantante e autore di versi per la musica con gli Stormy Six poi la sua seconda stagione come poeta) e insieme ad essa, così individuale, una storia collettiva (la Storia vera e propria, che è quella di tutti). Fiori procede all’inverso, con la sua cascata di facce (sono tante e una sola, la faccia contiene la sua moltitudine) e procede verso (“Verso la faccia” il titolo di questa sezione che di fatto è il libro, il quale contiene anche “altre poesie” ma ci concentriamo su questa sezione). Verso la sua faccia, verso la sua identità, verso un futuro, quello in cui avrebbe riguardato quel passato.

Questa ennesima ripetizione dell’identico-non-uguale che è stata la sua mania per 50 anni, in fondo preannunciava, cominciando in età giovane prima di ogni futuro,  che la foce verso cui andava questo soggetto ritratto (inteso anche come ritirato in sé, come quando si cerca di nascondere la testa nel collo) era la versificazione, con l’andare a capo come ripetizione  dello stesso gesto (se pareba boves).
Entro questo esercizio minimo dell’io-minimo il nucleo segreto di un individuo che pure ha partecipato al movimento di massa (la politica, per Fiori, così come la musica con gli Stormy Six). L’inizio di questo esercizio risale a discussione privata col fratello Adolfo, che sarà poi fotografo professionista, proprio sulla funzione sociale della fotografia.
Il più privato dei gesti, ma anche il più pubblico (la fototessera è il veicolo del riconoscimento di polizia), in piena epoca di piazze affollate da manifestazioni. Epoca anche di modernità tecnologica: le cabine di foto automatiche furono introdotte nel 1962, erano un emblema di quel 900 della modernità di massa – oggi è rito vintage (come la “carta” su cui sono stampate). Un rito privato, sebbene archetipo di quel movimento di massa globale che oggi chiamiamo “selfismo” dato da tutti i miliardi di selfie che ogni girono le masse planetarie si scattano dal cellulare.

Ci sono dunque tutti questo motivi storici, dentro la ripetizione ossessiva di un tentativo di identità privata, che resta un “miraggio” col suo elemento più antico (la faccia) e più contemporaneo (i passaporti come già accade oggi, sono stati superati dal “riconoscimento facciale “ che si fa al check-in di sbarco). Tutto ruota attorno all’Io come è evidente, dunque per un poeta questo non può che essere anche un interessante esperimento di messa alla prova del nucleo fondante della lirica, il Soggetto che dice Io in poesia.

 Fiori paragona la “casetta” delle foto automatiche di volta in volta a chiesa (un “confessionale”) alla “cabina elettorale” oppure a un ‘ “astronave”, insomma i grandi miti del 900. Ogni volta che si scatta di fronte a nessuno, la Storia non c’è (“il famoso Mondo – è un fondalino pallido, una parete/dietro le spalle”) e la faccia è sola. Ci sono tracce indizi, la Storia che “fa capolino” ma non c’è spazio per quelli che Fiori indica come da lontano:  “gli spari, i canti, le idee/ le cucine fumose, i grandi discorsi”.

Portata avanti a cavallo dei due secoli, diventa il succo di una forma di solitudine poetica molto rumorosa, affollata dalla moltitudine di ombre tutte uguali, quasi un incubo maoista, che al centro aveva un solo obiettivo: “fissare il cambiamento dell’identità” scrive Fiori in un verso,  “il lavoro del tempo”. Esercizio proustiano, non c’è dubbio.

Fiori costruisce il suo “autoritratto automatico” ritrovando il tempo attraverso la carta delle sue fototessere,  non ricorrendo però all’automatismo iper-psicologico, all’ inconscio, né all’automatismo surrealista,  ma delegando il ritratto alla oggettività metallica della macchinetta (automatica). L'automatismo se c’è è della macchina.

Un autoritratto affine al post-fordismo della produzione  non è deciso da chi si mette davanti la macchina fotografica, che non è più soggetto, ma si colloca solo nella posizione di oggetto (che è un io “alienato” ? o “autre”? ) e in più di quel sembiante o di quella persona che nel sembiante mostra nemmeno il viso, nemmeno il volto. “Volto” del resto è parola che ha un connotato di riconoscimento e di profondità filosofica (sappiamo come un filosofo come Levinàs ci abbia costruito un sistema di pensiero sul volto)Invece, Umberto Fiori “Ci mette la faccia”.

 Tuttavia questa intenzione di costruire un ritratto del tempo del sé, in fondo sperando di leggervi un destino,  lascia invece spazio a un senso di straniamento e mistero: l’io poeta di ritrova a guardare quel “cammino di immagini” come fossero “gli spasmi di un insetto”. Al contrario del Baudelaire che si fa sedurre da un volto di passante, Fiori esprime il suo precipitare nel guardare una folla di sé, una sola moltitudine, trovandosi davanti “tre, quattro, cento volte” la sua medesima faccia che “insiste col suo così, col suo segreto”, come un avversario che ci rinfacci qualcosa, una colpa indistinta. Ci sono echi kafkiani,  quando Fiori scrive che quelle foto, “di fronte e di profilo” come le segnaletiche, documentano “la nostra prima disgrazia”, ovvero leopardianamente, la nostra prima colpa, quella di esistere.

È qui il fondo della camera oscura in cui si muove la creazione di Fiori, tra il gesto artistico situazionista dilatato per 50 anni e la poesia scritta dentro questo mezzo secolo. Come un bilancio esistenziale e artistico, muovendosi in quella folla metropolitana “tra le ombre di un corteo..all’ora di punta”, in fondo ciò che resta è un solipsismo esemplare, specie perché in quel gesto “si spalanca/un abisso di intimità”. Se c’è compito degli artisti, anche involontario,  è mostrarsi in questo perpendicolo, precipitando: come tutti. In fondo all’esistere etico e civile, politico mostrare che si è sempre – come Kafka per l’appunto insegna – sull’orlo di questo abisso.

“Autoritratto automatico” non è che la coda di una storia singolare, non è quella massa di facce su carta, riposta negli scatoloni, non è quel gesto: nel libro le foto non ci sono se non in copertina. Tiene traccia però di un completamento di quell’esercizio cinquantennale che è stato anche vivere: oggi i versi dicono quel guardare “il ragazzo” che il poeta è stato, e “da qui” – scrive “dal suo futuro/ gli leggo nel pensiero”. Portando fuori dalla carta il lettore, rimandando a quella facoltà di leggere in faccia le emozioni, come se la faccia fosse, come si dice, un libro aperto.
 Il poeta però guardando le centinaia di facce, cerca  – come scrive in una poesia più avanti – “un’aria di famiglia /che corre tra me e me”,  ma non ne ricava che estraneità,  sebbene con accenni di pietas verso una storia, una vita, la sua, come tante. Io sono tanti altri.
In fondo, nonostante l’esercizio palesemente narcisistico, come abbiamo detto il poeta lo definisce,  la raccolta di pezzi in questo “concept album di poesie” che è “Autoritratto automatico” scritto come spin-off  dell’ “album fotografico” di autoritratti negli scatoloni,  finisce per essere talmente raffinata e decostruttiva, meditata, da essere un invito a  de-narcisizzare la nostra vita, forse un buon antidoto al Selfismo del XXI secolo. Da questo punto di vista il libro, ha anche una sezione  dal titolo vagamente leopardiano (“Colloquio tra il Ritratto e un giovane Visitatore) in cui Fiori ospita una lungo autocommento a questo libro anomalo, così come anomala è certo la pratica di autoritratto.


Nelle foto, ribadisce Fiori,  non c’è né “volto” né “viso” ma solo la “faccia”, termine a cui il poeta tiene. Faccia è ponte che lega il volto al teschio ( e quel sé allo specchio delle tessere “ non si bacia Narciso, né affoga” ma semplicemente, scrive Fiori,  “diventa vecchio”). Ecco la scoperta del tempo, come in Marcel. Prendendo in giro la sua maschera, come quella di tutti, ovviamente.
Questa verità di un corpo fissato su carta “senza cielo né terra, senza gambe” è il bilancio esistenziale di una vita nell’eterno ripetersi del “qui”, ma senza solennità, anzi: il momento comico dei “baffi di Monna Lisa” è sempre dietro l’angolo. Sberleffo anche della posa pubblica di questo io poeta che una storia collettiva l’ha vissuta, ma al fondo tutto il suo fare “non era sezione, un collettivo/ un soggetto di classe. Lì con me/ non c’erano le masse popolari. // Chiudevo le tendine/ e mi sedevo, come al gabinetto”.

Lo ribadisce anche verso la fine della sezione: “niente pubblico/ a spingermi sotto la luce della scatola / era un ricordo”.  Ma di cosa? Come per il poeta, anche del nostro essere sempre fermi a una fase dello specchio? Essere come lui, sempre solo “Adamo” di noi stessi? Nell’origine, nello scavo all’origine di questo gesto ripetuto nel tempo, “Autoritratto automatico” scrive la didascalia di un continuo “essere mortalato” come scrive Fiori con un neologismo che vuole essere il contrario di  “immortalare”, verbo usato di solito per le fotografie. Le foto-tessera, così simili a quelle usate per le lapidi, ci  mostrano il nostro essere mortali, nella solitudine di un perenne morente nel perenne ricordo si sé, in una forma imprecisa (“un flash” una “striscia bianca” “un’ombra perenne nella mia testa” ) di cui si cercano “i connotati” “l’identikit” (come dal titolo odi una delle ultime poesie) con la faccia del nostro possibile assassino: io.

Di fatto rinnova un’attitudine alla narratività, già mostrata nel “romanzo in versi”  de “Il conoscente” (Fiori è in una linea lombarda che parte da Sereni, Loi, ma anche Neri, ma ricorda anche Giudici, o Bertolucci sebbene  se c’è qui un’ascendente mi sembra Giorgio Caproni allegorie narrative di una caccia alla Bestia come in Fiori c’è quella alla sua faccia). Diventa anche una forma di proposta per la fuoriuscita dal lirismo soggettivo, giocando sul piano della chiarezza del dettato in poesia come argine alla sfuggente opacità del sé che si guarda come altro-da-sé dello specchio, e osserva un io ridotto a mero  “conoscente”, ormai ombra in dissolvenza.  

Uso il verbo “fare” anziché “scrivere” anche perché questo libro piace per le sue poesie, ma soprattutto perché è “un'operazione” artistica, 
 poetica, sì, ma ha a che fare con una sorta di  installazione artistica – ma privata fino ad oggi -  un'ossessione, uno slittamento anche qui dei significati,  che restano in qualche modo imprendibili: è una poesia del referente, ad altissima densità di referenza, ma pure resta un bellissimo libro di poesia,  in cui i versi mantengono grazie alla loro combinatoria compositiva, un ampio margine di irriducibilità alla sola referenza.  

Ma questo “leggere” la faccia rimanda a una lingua che rimane sconosciuta, che rimane implicita, Fiori resiste all’ammutolire pur indicandolo (le facce mute delle foto). Chissà dica quella faccia lì, in quel particolare momento, della storia, di quella persona che poi è stata fotografata dalla macchina, dalla macchinetta? Questo non lo possiamo dire, non lo dice neanche Umberto Fiori.
Resta nella pura evidenza, nella pura esposizione della faccia che non è nel libro se non parzialmente (delle centinaia e centinaia di strisce con foto)  in copertina.
Non è nella lingua, ma allude a una nitidezza ancora superiore, l’evidenza della “vera faccia”, ultima facies della vita stessa per come è, per come è stata, per come si ricorda.


SINNO (E LATTANZI O D'ADAMO): CORPI ESTRANEI ANTILETTERARI, QUINDI LETTERARI?

Allora, lunga riflessione : il libro di Neige Sinno, “Triste tigre” ha avuto notevoli riconoscimenti letterari in Francia, è stato tradotto...