Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curiosità in attesa del ritorno alla regia di Claudio Longhi, direttore del Piccolo Teatro di Milano che lo porterà in scena al Piccolo Grassi dall’ 11 gennaio con protagonista Lino Guanciale.
Il romanzo dello scrittore cileno morto nel 2015 nel mondo ispanico è un cult, è anche un romanzo di riferimento per il modo in cui mescola le questioni politiche della lotta d’opposizione alla dittatura di Pinochet con quella per i diritti civili del mondo Lgbtq+ (Lemebel è stato scrittore, artista, attivista, fotografo, animatore culturale e conduttore radiofonico) con uno stile ironico, allegro, scanzonato e pop, e insieme profondo, sentimentale, in cui il realismo e il grottesco si mescolano all’uso sapiente di un barocchismo pop da commedia venato da malinconia, ma molto vivace e divertente.
La storia è quella di un incontro e di una speciale amicizia
amorosa tra “la Fata dell’angolo”, un transessuale ormai avviato verso l’età
matura, ma ancora pieno di passione e allegria canterina, e Carlos, un giovane
studente cubano, bellissimo, che fa
parte di un gruppo di oppositori al regime il Fronte Patriottico Manuel
Rodriguez.
Lemebel costruisce questo personaggio
modellandolo su sé e sul gruppo di compagne di ventura nel periodo più duro
della dittatura, ricordate nella nota introduttiva, regine nella difficile arte
del travestitismo sessuale in pieno regime fascista e dentro una cultura
machista come molte in Sudamerica.
La Fata non ha nome, il lettore la conoscerà
sempre solo con quel nomignolo (che però un adattamento dallo spagnolo, perché
lo scrittore cileno sceglie per lei il soprannome “loca del frente” la pazza
di fronte, forse una piccola licenza del traduttore che richiama l’origine a cui pure ha fatto
riferimento Ferzan Ozpetek con il suo film, pure del 2001 “LE fate ignoranti “ –
così a un certo punto si definisce anche la Fata nella traduzione italiana – ovvero un quadro di Magritte intitolo
proprio “ La fée ignorante” del 1956).
Anche Carlos usa questo come nom de
plume di copertura. I due si conoscono
in un emporio, la Fata si innamora subito, ha ormai troppi anni per
esibirsi, per esercitare anche l’arte dell’amore in strada, vive facendo la ricamatrice
di tovaglie per le signore bene della borghesia di destra di Santiago. Di sé
parla (e così il narratore la indica) alternativamente al maschile e al femminile a
seconda delle circostanze. Lui, ambiguo e sfuggente, si lascerà desiderare, ma
di fatto userà la casa della Fata come copertura per le riunioni della sua
cellula del Fronte e per tenere delle misteriose casse, piene “ di libri” dice
sempre lo studente.
Siamo nel 1987 e il romanzo culminerà nell’attentato a
Pinochet che segnò la crepa che portò alla fine del regime. MA quello che c’è
in mezzo è una danza leggera, ironica, struggente perché destinata allo
slittamento e alle illusione di tutti gli amori, sempre sbilanciati e forieri
di ferite. LA Fata asseconda Carlos in tutte le sue richieste, lei lo circonda
di un amore che è anche tenerezza fragile. L’amore non sboccerà, in questa
danza di non detti, però di sicuro tra i due si intreccerà una doppia
educazione, un risveglio sentimentale e politico insieme: la Fata, che preferiva
sempre dimenticare la durezza della situazione rifugiandosi nei suoi sogni
romantici d’amore, maturerà una consapevolezza e uno sguardo verso il mondo che
prima non aveva, sempre chiusa nel suo appartamentino-nido, tra uccelli,
ventagli. Non ti scordar di me, Scialli da seta, balze, pizzi, nastri di tulle,
una mobilia antiquata tutti gli ammennicoli di una frocerìa che Lemebel
manovra con abilità tra grottesco e ironia, tra nostalgia e vezzo. Allo stesso modo
Carlos svilupperà col tempo un affetto e un ‘empatia che non aveva, sedotto più
che sessualmente, dall’amicizia accudente e sincera della Fata.
Tutto si tiene sul
filo della finzione, sul filo anche del discorso amoroso modulato però sulla
retorica delle canzoni pop. E’ proprio la ricchezza linguistica la cosa più
divertente del libro, in cui la debordante Fata puntella le sue illusioni di
verità ricamando con un pastiche colto e popolare e con i versi delle canzoni d'amore quello che diverrà anche un tessuto di relazione e alla fine codice segreto tra i due, il codice di una relazione indefinibile.
Un romanzo
certamente teatrale, perché continuamente i riferimenti anche espliciti della
voce narrante e della Fata a certi atteggiamenti teatrali, ostentati,
artificiosi e garruli della Fata a cui corrisponde una teatralità dell’ombra di
un Carlos che nasconde dietro la maschera e il nome finto le sue attività
sovversive.
E’ però un romanzo con non così tanti dialoghi, difficile in apparenza da
portare in scena, perché spesso occupato dalla voce narrante la quale presta
il suo rigoglioso eloquio alla/al protagonista Fata, e infatti Claudio Longhi in
un'intervista doppia con Guanciale su La Lettura ha chiarito che la sua sarà “una
sorta di “edizione teatrale” del romanzo, nella trasposizione di Alejandro
Tantanian, in cui la Fata/Guanciale sarà di fatto anche narratrice.
Tutta la storia si gioca con sul filo del doppio. Con
l'identità che viene celata, nascosta dietro maschere, Sovversivo e la Fata, di
fatto questa esplicita ostensione del doppio consente molti appigli per la
scena. Un romanzo che ricorda molte cose, non solo quello di Manuel Puig
con “Il bacio della Donna Ragno”, ma molti riferimenti tra cinema canzone e ancora teatro (penso al recente
bellissimo spettacolo di Renata Carvalho
a Short Theatre) ma con un’anima latina che accondiscende più alla cultura popolare (forse
attingendo più a un mondo simile al musical “ Priscilla” (e a me viene in mente
una persona che forse potrebbe somigliare proprio a Pedro Lemebel, cioè
Platinette, nella sua multiforme attività tra giornalismo, performance, radio e
attivismo politico).
Nel romanzo compare anche un’altra coppia,
a far da contraltare con rimandi e scambismi, a quella della Fata e di Carlo,
ovvero Augusto Pinochet e la moglie Donna Lucia, ritratti in una loro grottesca
intimità allo sfacelo, affogata in una palude di insofferenza reciproca e ipocrisia,
con Lucia che è anche lei completamente quasi un omologo della Fata, perché da
contadina si è trasformata, si è pensata, come nobildonna, parla continuamente dei vestiti
che vuole comprare, copiando anche quelli della Fata (le due coppie si sfioreranno due volte nel libro) consiglia al marito cosa fare delle sue scelte politiche in
modo stravagante e sciocco, con un dittatore tanto acidamente feroce quanto
ridicolo, che sotto la penna di Lemebel diventa un vecchio pensionato, incapace
e pigro, ossessionato da marce militari e incubi da cattiva digestione. E
interessante del romanzo questo doppio gioco quadriglia. Così come interessante
il doppio risveglio tra Carlos e la Fata, in ci di fatto sarà l’amore della
Fata anche se costretto nella gabbia di una consapevole impossibilità, nel
gioco a illudersi, per sopravvivere, che muoverà le cose, contribuendo all’azione
terroristica. Un tema anche meta-teatrale e insieme politico, etico, anche per
noi che siamo viviamo in questa epoca italiana, ormai trentennale, dominata
dalla destra bauscia di Berlusconi e oggi portata al parossismo grottesco dal “bagaglino”
della destra burina di Meloni, al Governo con le persone che per anni si sono richiamate al
fascismo. E che sono state dalla parte di Pinochet, come ai tempi La Russa
(sarà interessante vedere se in sala ci
sarà il neo nominato consigliere di amministrazione del Piccolo, Geronimo La
Russa).
Che cosa significa per noi resistere? Opporsi al potere? Siamo
più simili a Carlos o alla Fata? Lo studente sovversivo, fortemente ideologizzato,
o la transessuale che rivendica , ostentando una diversità anche impolitica, ma
radicale ? È interessante questo, perché
c'è una sorta di ulteriore riferimento al modo di fare teatro, in questa
storia, vedremo come sarà coniugata da Longhi.
“ho paura torero” contiene implicito il discorso sulla funzione del teatro: se
debba essere o meno quello impegnato e militante o se debba intrattenere,
giocare con la sua arte, tenersi fedele a una sua metafisica, in un certo
senso, senza farsi solo portavoce di istanze e ciclostilati. Ci sono molti
riferimenti meta teatrali nel libro, la Fata dell'angolo continuamente sa di
recitare la sua “parte da donna” nel romanzo di avere delle pose teatrali di
avere dei confronti anche delle altre sue compagne di vita e di strada, continue
e teatralissime “baruffe” schermaglie che racchiudono in sé però legami
profondi.
Alessandro Iachino in un articolo sul semestrale di cultura teatrale edito dal Teatro Metastasio di Prato “La Falena”, i parlando appunto della
dell'impegno anche a teatro di un certo tipo di gruppi e autori, che portano
nelle opere le tematiche politiche, le istanze sui diritti civili, le parole d’ordine del cambiamento di
paradigmi, le nuove soggettività non conformi, danno vita a un flusso di testi
e opere che dipanano, scrive Iachino, “una galassia semantica vaporosa e astratta” in
cui la nebulosità sembra riflettersi in una tendenza al “contemptu mundi”,
ovvero al disprezzo del mondo, all’osteggiare una differenza dal mondo
circostante con il quale però “non vogliamo dialogare”.
UN teatro-Carlos, starei
per dire, militante che però più diventa politico e meno dialoga con il mondo che
vorrebbe cambiare. Non c’è però solo la lotta elitaria tra gli artisti e i
governi, c’è il “buio che ci circonda” la città invisibile e reale, come la Santiago che la Fata attraversa nel romanzo, abitata da tutte le persone, di tutte le estrazioni sociali, ed è con loro
che si gioca la partita politica. Insomma nel coinvolgimento del pubblico, in qualche
modo tenendo conto delle scelte del pubblico, elemento imprescindibile per ogni teoria estetica e politica nell'epoca delle democrazie tardo novecento.
Lemebel
sembra sposare questa strategia, proprio diventando volutamente come autore e artista un‘icona
Camp e sotto sotto, lasciando filtrare nel romanzo uno spirito critico anche verso il mondo dei Carlos.
Quello che oggi, direbbe Walter Siti in “Contro l’impegno” sembra teso a “valorizzare
l'opposizione in quanto tale”, più impegnato a mettere in scena la sua
retorica, a pronunciare i discorsi predefiniti di opposizione, le parole d’ordine,
più che a costruire una consapevolezza
diffusa del cambiamento, nel dialogo anche con chi al momento è diverso, ha gusti
e formazioni diverse, ha magari un’estetica pop come riferimento (come quella
delle canzoni della Fata) .
Si fanno tanti spettacoli di denuncia, scrive
Iadichino, ma “vanno in scena di fronte a spettatori già informati, già
aderenti a “quell’afflato politico”. Spesso
accade che quel pubblico sia fatto da teatranti e dintorni (come sottolineava
Cordelli nel 1975 a proposito del pubblico della poesia fatto da soli
poeti)
Se è condivisibile in teoria quello che ho letto in una citazione on line, di Jacques Rancière che “la
finzione non è la creazione di un mondo immaginario, opposto al mondo reale ,a
è il lavoro che produce dissensi, che modifica i modi di presentazione
sensibile e le forme di enunciazione, cambiando le cornici, le scale e i ritmi,
costruendo rapporti nuovi tra l'apparenza e la realtà”, è pur vero che in
pratica bisogna anche capire quali sono le “cornici “da cambiare e i contesti,
le competenze di chi vorremmo invitare a cambiare (per non parlarci addosso
insomma e per non costruire un muro cieco di codici autoreferenziali e di solo
dissenso).
Spesso nella platea dei teatri non si crea il dissenso, al 99% tutti gli
spettacoli che hanno questo afflato politico di denuncia e di dissenso ricevono
applausi scroscianti (negli ultimi tempi solo uno spettacolo ha creato una
crepa, vivaddio, “Caridad” di Angelica Liddell) . Per il resto grande
indignazione, grande commozione, grandi applausi. Per questo pubblico già
informato e già aderente a quel dissenso che sta sospeso tra il palco e la
realtà. È una sorta di eco-chamber confortevole, un parlarsi tra chi è d’accordo
(Facebook ci sta anche abituando con l’algoritmo a questa echo-bolla-chamber)
. Si fa arte che vorrebbe essere testimonianza e finisce per diventare, se
pronunciata di fronte ai nostri simili, uno “ sguardo autocentrato che
dimentica il circostante” come scrive in un altro articolo de “La Falena”
Lorenzo Donati, utilizzando il termine di Gianluca Simonetti, tratto dal suo
libro di critica “La letteratura e il circostante”.
Nel romanzo di Lemebel
invece il “Fronte” di Carlo e il “Frente”
della Fata, la loca, stanno faccia a faccia, dialogano, si trasformano uno nell’altra.
Anche l'arte in apparenza fatua e vaporosa delle canzoni dà il suo contributo
all’ideologia politica (la quale spesso, come anche l’ideologia estetica,
sedicente “di ricerca” o rigorosa è ugualmente linguaggio vaporoso ).
Interessante che Longhi, alla domanda di Laura
Zangarini su La Lettura, su quale sia la funzione del teatro , diche che il
teatro oggi dovrebbe “sforzarsi di restituire il cangiante trascolorare del
presente nel futuro, debba testimoniare il nostro tempo incerto” dice Longhi,
senza però “mai dimenticare la sua genetica ‘ leggerezza’ la sua vocazione
innata a essere luogo del divertimento”. Ci aspetta forse molto giocoso e
canterino divertimento al Piccolo. A 50 anni e poco più da quell’11 settembre
1973 che non riuscì però a spegnere la musica né a cancellare l’arte di Lemebel
e delle tante Fate.