mercoledì 3 gennaio 2024

L'ANTILIRICA DELLA FACCIA. "Autoritratto automatico" di Umberto Fiori (Garzanti)

 

L’ultimo libro di Umberto Fiori, “Autoritratto automatico”, pubblicato da Garzanti, a me sembra uno dei libri importanti dell’anno appena chiuso. Lo è anche per la sua capacità di dialogare con la storia, sebbene in apparenza essa non compaia se non per piccoli indizi. Lo è anche per l’apertura verso linguaggi altri dalla poesia – qui la fotografia, che è una pratica che partecipa alla stessa creazione del libro di versi, quasi i due linguaggi diventano un’allegoria dell’altro.

“Autoritratto automatico”  è un libro che nasce, anche sul piano tematico,  su questo solco del confronto con un Sé stesso-come-Altro. Prende avvio dalla sollecitazione data a fiori da Antonio Riccardi, poeta e direttore della collana poesia Garzanti, per scrivere un libro quella piccola grande pratica ( o “mania” come la chiama Fiori) che il poeta coltiva da 50 anni, ovvero quella di fotografarsi con le macchinette automatiche che si trovano in strada o alla stazione, con cui si fanno le foto-tessera. Fiori ha praticato questo “esercizio narcisistico”, come lo definisce con autoironia, con una regolarità costante nei decenni, dal 1968, accumulando una “collezione” di strisce (di solito da 4 foto) stampate e conservate dentro scatoloni e che diventano anche il risultato e la traccia di un attraversamento storico di un individuo, di una faccia.

Fiori ha così immortalato la Storia di un Sé, nel suo specchio facciale, passando attraverso tutta la sua biografia e storia creativa ( prima nella fase di cantante e autore di versi per la musica con gli Stormy Six poi la sua seconda stagione come poeta) e insieme ad essa, così individuale, una storia collettiva (la Storia vera e propria, che è quella di tutti). Fiori procede all’inverso, con la sua cascata di facce (sono tante e una sola, la faccia contiene la sua moltitudine) e procede verso (“Verso la faccia” il titolo di questa sezione che di fatto è il libro, il quale contiene anche “altre poesie” ma ci concentriamo su questa sezione). Verso la sua faccia, verso la sua identità, verso un futuro, quello in cui avrebbe riguardato quel passato.

Questa ennesima ripetizione dell’identico-non-uguale che è stata la sua mania per 50 anni, in fondo preannunciava, cominciando in età giovane prima di ogni futuro,  che la foce verso cui andava questo soggetto ritratto (inteso anche come ritirato in sé, come quando si cerca di nascondere la testa nel collo) era la versificazione, con l’andare a capo come ripetizione  dello stesso gesto (se pareba boves).
Entro questo esercizio minimo dell’io-minimo il nucleo segreto di un individuo che pure ha partecipato al movimento di massa (la politica, per Fiori, così come la musica con gli Stormy Six). L’inizio di questo esercizio risale a discussione privata col fratello Adolfo, che sarà poi fotografo professionista, proprio sulla funzione sociale della fotografia.
Il più privato dei gesti, ma anche il più pubblico (la fototessera è il veicolo del riconoscimento di polizia), in piena epoca di piazze affollate da manifestazioni. Epoca anche di modernità tecnologica: le cabine di foto automatiche furono introdotte nel 1962, erano un emblema di quel 900 della modernità di massa – oggi è rito vintage (come la “carta” su cui sono stampate). Un rito privato, sebbene archetipo di quel movimento di massa globale che oggi chiamiamo “selfismo” dato da tutti i miliardi di selfie che ogni girono le masse planetarie si scattano dal cellulare.

Ci sono dunque tutti questo motivi storici, dentro la ripetizione ossessiva di un tentativo di identità privata, che resta un “miraggio” col suo elemento più antico (la faccia) e più contemporaneo (i passaporti come già accade oggi, sono stati superati dal “riconoscimento facciale “ che si fa al check-in di sbarco). Tutto ruota attorno all’Io come è evidente, dunque per un poeta questo non può che essere anche un interessante esperimento di messa alla prova del nucleo fondante della lirica, il Soggetto che dice Io in poesia.

 Fiori paragona la “casetta” delle foto automatiche di volta in volta a chiesa (un “confessionale”) alla “cabina elettorale” oppure a un ‘ “astronave”, insomma i grandi miti del 900. Ogni volta che si scatta di fronte a nessuno, la Storia non c’è (“il famoso Mondo – è un fondalino pallido, una parete/dietro le spalle”) e la faccia è sola. Ci sono tracce indizi, la Storia che “fa capolino” ma non c’è spazio per quelli che Fiori indica come da lontano:  “gli spari, i canti, le idee/ le cucine fumose, i grandi discorsi”.

Portata avanti a cavallo dei due secoli, diventa il succo di una forma di solitudine poetica molto rumorosa, affollata dalla moltitudine di ombre tutte uguali, quasi un incubo maoista, che al centro aveva un solo obiettivo: “fissare il cambiamento dell’identità” scrive Fiori in un verso,  “il lavoro del tempo”. Esercizio proustiano, non c’è dubbio.

Fiori costruisce il suo “autoritratto automatico” ritrovando il tempo attraverso la carta delle sue fototessere,  non ricorrendo però all’automatismo iper-psicologico, all’ inconscio, né all’automatismo surrealista,  ma delegando il ritratto alla oggettività metallica della macchinetta (automatica). L'automatismo se c’è è della macchina.

Un autoritratto affine al post-fordismo della produzione  non è deciso da chi si mette davanti la macchina fotografica, che non è più soggetto, ma si colloca solo nella posizione di oggetto (che è un io “alienato” ? o “autre”? ) e in più di quel sembiante o di quella persona che nel sembiante mostra nemmeno il viso, nemmeno il volto. “Volto” del resto è parola che ha un connotato di riconoscimento e di profondità filosofica (sappiamo come un filosofo come Levinàs ci abbia costruito un sistema di pensiero sul volto)Invece, Umberto Fiori “Ci mette la faccia”.

 Tuttavia questa intenzione di costruire un ritratto del tempo del sé, in fondo sperando di leggervi un destino,  lascia invece spazio a un senso di straniamento e mistero: l’io poeta di ritrova a guardare quel “cammino di immagini” come fossero “gli spasmi di un insetto”. Al contrario del Baudelaire che si fa sedurre da un volto di passante, Fiori esprime il suo precipitare nel guardare una folla di sé, una sola moltitudine, trovandosi davanti “tre, quattro, cento volte” la sua medesima faccia che “insiste col suo così, col suo segreto”, come un avversario che ci rinfacci qualcosa, una colpa indistinta. Ci sono echi kafkiani,  quando Fiori scrive che quelle foto, “di fronte e di profilo” come le segnaletiche, documentano “la nostra prima disgrazia”, ovvero leopardianamente, la nostra prima colpa, quella di esistere.

È qui il fondo della camera oscura in cui si muove la creazione di Fiori, tra il gesto artistico situazionista dilatato per 50 anni e la poesia scritta dentro questo mezzo secolo. Come un bilancio esistenziale e artistico, muovendosi in quella folla metropolitana “tra le ombre di un corteo..all’ora di punta”, in fondo ciò che resta è un solipsismo esemplare, specie perché in quel gesto “si spalanca/un abisso di intimità”. Se c’è compito degli artisti, anche involontario,  è mostrarsi in questo perpendicolo, precipitando: come tutti. In fondo all’esistere etico e civile, politico mostrare che si è sempre – come Kafka per l’appunto insegna – sull’orlo di questo abisso.

“Autoritratto automatico” non è che la coda di una storia singolare, non è quella massa di facce su carta, riposta negli scatoloni, non è quel gesto: nel libro le foto non ci sono se non in copertina. Tiene traccia però di un completamento di quell’esercizio cinquantennale che è stato anche vivere: oggi i versi dicono quel guardare “il ragazzo” che il poeta è stato, e “da qui” – scrive “dal suo futuro/ gli leggo nel pensiero”. Portando fuori dalla carta il lettore, rimandando a quella facoltà di leggere in faccia le emozioni, come se la faccia fosse, come si dice, un libro aperto.
 Il poeta però guardando le centinaia di facce, cerca  – come scrive in una poesia più avanti – “un’aria di famiglia /che corre tra me e me”,  ma non ne ricava che estraneità,  sebbene con accenni di pietas verso una storia, una vita, la sua, come tante. Io sono tanti altri.
In fondo, nonostante l’esercizio palesemente narcisistico, come abbiamo detto il poeta lo definisce,  la raccolta di pezzi in questo “concept album di poesie” che è “Autoritratto automatico” scritto come spin-off  dell’ “album fotografico” di autoritratti negli scatoloni,  finisce per essere talmente raffinata e decostruttiva, meditata, da essere un invito a  de-narcisizzare la nostra vita, forse un buon antidoto al Selfismo del XXI secolo. Da questo punto di vista il libro, ha anche una sezione  dal titolo vagamente leopardiano (“Colloquio tra il Ritratto e un giovane Visitatore) in cui Fiori ospita una lungo autocommento a questo libro anomalo, così come anomala è certo la pratica di autoritratto.


Nelle foto, ribadisce Fiori,  non c’è né “volto” né “viso” ma solo la “faccia”, termine a cui il poeta tiene. Faccia è ponte che lega il volto al teschio ( e quel sé allo specchio delle tessere “ non si bacia Narciso, né affoga” ma semplicemente, scrive Fiori,  “diventa vecchio”). Ecco la scoperta del tempo, come in Marcel. Prendendo in giro la sua maschera, come quella di tutti, ovviamente.
Questa verità di un corpo fissato su carta “senza cielo né terra, senza gambe” è il bilancio esistenziale di una vita nell’eterno ripetersi del “qui”, ma senza solennità, anzi: il momento comico dei “baffi di Monna Lisa” è sempre dietro l’angolo. Sberleffo anche della posa pubblica di questo io poeta che una storia collettiva l’ha vissuta, ma al fondo tutto il suo fare “non era sezione, un collettivo/ un soggetto di classe. Lì con me/ non c’erano le masse popolari. // Chiudevo le tendine/ e mi sedevo, come al gabinetto”.

Lo ribadisce anche verso la fine della sezione: “niente pubblico/ a spingermi sotto la luce della scatola / era un ricordo”.  Ma di cosa? Come per il poeta, anche del nostro essere sempre fermi a una fase dello specchio? Essere come lui, sempre solo “Adamo” di noi stessi? Nell’origine, nello scavo all’origine di questo gesto ripetuto nel tempo, “Autoritratto automatico” scrive la didascalia di un continuo “essere mortalato” come scrive Fiori con un neologismo che vuole essere il contrario di  “immortalare”, verbo usato di solito per le fotografie. Le foto-tessera, così simili a quelle usate per le lapidi, ci  mostrano il nostro essere mortali, nella solitudine di un perenne morente nel perenne ricordo si sé, in una forma imprecisa (“un flash” una “striscia bianca” “un’ombra perenne nella mia testa” ) di cui si cercano “i connotati” “l’identikit” (come dal titolo odi una delle ultime poesie) con la faccia del nostro possibile assassino: io.

Di fatto rinnova un’attitudine alla narratività, già mostrata nel “romanzo in versi”  de “Il conoscente” (Fiori è in una linea lombarda che parte da Sereni, Loi, ma anche Neri, ma ricorda anche Giudici, o Bertolucci sebbene  se c’è qui un’ascendente mi sembra Giorgio Caproni allegorie narrative di una caccia alla Bestia come in Fiori c’è quella alla sua faccia). Diventa anche una forma di proposta per la fuoriuscita dal lirismo soggettivo, giocando sul piano della chiarezza del dettato in poesia come argine alla sfuggente opacità del sé che si guarda come altro-da-sé dello specchio, e osserva un io ridotto a mero  “conoscente”, ormai ombra in dissolvenza.  

Uso il verbo “fare” anziché “scrivere” anche perché questo libro piace per le sue poesie, ma soprattutto perché è “un'operazione” artistica, 
 poetica, sì, ma ha a che fare con una sorta di  installazione artistica – ma privata fino ad oggi -  un'ossessione, uno slittamento anche qui dei significati,  che restano in qualche modo imprendibili: è una poesia del referente, ad altissima densità di referenza, ma pure resta un bellissimo libro di poesia,  in cui i versi mantengono grazie alla loro combinatoria compositiva, un ampio margine di irriducibilità alla sola referenza.  

Ma questo “leggere” la faccia rimanda a una lingua che rimane sconosciuta, che rimane implicita, Fiori resiste all’ammutolire pur indicandolo (le facce mute delle foto). Chissà dica quella faccia lì, in quel particolare momento, della storia, di quella persona che poi è stata fotografata dalla macchina, dalla macchinetta? Questo non lo possiamo dire, non lo dice neanche Umberto Fiori.
Resta nella pura evidenza, nella pura esposizione della faccia che non è nel libro se non parzialmente (delle centinaia e centinaia di strisce con foto)  in copertina.
Non è nella lingua, ma allude a una nitidezza ancora superiore, l’evidenza della “vera faccia”, ultima facies della vita stessa per come è, per come è stata, per come si ricorda.


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