giovedì 4 gennaio 2024

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica


 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curiosità in attesa del ritorno alla regia di Claudio Longhi, direttore del Piccolo Teatro di Milano che lo porterà in scena al Piccolo Grassi dall’ 11 gennaio con protagonista Lino Guanciale.
Il romanzo dello scrittore cileno morto nel 2015 nel mondo ispanico è un cult, è anche un romanzo di riferimento per il modo in cui mescola le questioni politiche della lotta d’opposizione alla dittatura di Pinochet con quella per i diritti civili del mondo Lgbtq+ (Lemebel è stato scrittore, artista, attivista, fotografo, animatore culturale e conduttore radiofonico) con uno stile ironico, allegro, scanzonato e pop, e insieme profondo, sentimentale, in cui il realismo e il grottesco si mescolano all’uso sapiente di un barocchismo pop da commedia venato da malinconia, ma molto vivace e divertente.

La storia è quella di un incontro e di una speciale amicizia amorosa tra “la Fata dell’angolo”, un transessuale ormai avviato verso l’età matura, ma ancora pieno di passione e allegria canterina, e Carlos, un giovane studente cubano, bellissimo,  che fa parte di un gruppo di oppositori al regime il Fronte Patriottico Manuel Rodriguez.  
Lemebel costruisce questo personaggio modellandolo su sé e sul gruppo di compagne di ventura nel periodo più duro della dittatura, ricordate nella nota introduttiva, regine nella difficile arte del travestitismo sessuale in pieno regime fascista e dentro una cultura machista come molte in Sudamerica.

 La Fata non ha nome, il lettore la conoscerà sempre solo con quel nomignolo (che però un adattamento dallo spagnolo, perché lo scrittore cileno sceglie per lei il soprannome “loca del frente” la pazza di fronte, forse una piccola licenza del traduttore che  richiama l’origine a cui pure ha fatto riferimento Ferzan Ozpetek con il suo film, pure del 2001 “LE fate ignoranti “ – così a un certo punto si definisce anche la Fata nella traduzione italiana  – ovvero un quadro di Magritte intitolo proprio “ La fée ignorante” del 1956).
Anche Carlos usa questo come nom de plume di copertura. I due si conoscono  in un emporio, la Fata si innamora subito, ha ormai troppi anni per esibirsi, per esercitare anche l’arte dell’amore in strada, vive facendo la ricamatrice di tovaglie per le signore bene della borghesia di destra di Santiago. Di sé parla (e così il narratore la indica)  alternativamente al maschile e al femminile a seconda delle circostanze. Lui, ambiguo e sfuggente, si lascerà desiderare, ma di fatto userà la casa della Fata come copertura per le riunioni della sua cellula del Fronte e per tenere delle misteriose casse, piene “ di libri” dice sempre lo studente.

Siamo nel 1987 e il romanzo culminerà nell’attentato a Pinochet che segnò la crepa che portò alla fine del regime. MA quello che c’è in mezzo è una danza leggera, ironica, struggente perché destinata allo slittamento e alle illusione di tutti gli amori, sempre sbilanciati e forieri di ferite. LA Fata asseconda Carlos in tutte le sue richieste, lei lo circonda di un amore che è anche tenerezza fragile. L’amore non sboccerà, in questa danza di non detti, però di sicuro tra i due si intreccerà una doppia educazione, un risveglio sentimentale e politico insieme: la Fata, che preferiva sempre dimenticare la durezza della situazione rifugiandosi nei suoi sogni romantici d’amore, maturerà una consapevolezza e uno sguardo verso il mondo che prima non aveva, sempre chiusa nel suo appartamentino-nido, tra uccelli, ventagli. Non ti scordar di me, Scialli da seta, balze, pizzi, nastri di tulle, una mobilia antiquata tutti gli ammennicoli di una frocerìa che Lemebel manovra con abilità tra grottesco e ironia, tra nostalgia e vezzo. Allo stesso modo Carlos svilupperà col tempo un affetto e un ‘empatia che non aveva, sedotto più che sessualmente, dall’amicizia accudente e sincera della Fata.

Tutto si tiene sul filo della finzione, sul filo anche del discorso amoroso modulato però sulla retorica delle canzoni pop. E’ proprio la ricchezza linguistica la cosa più divertente del libro, in cui la debordante Fata puntella le sue illusioni di verità ricamando con un pastiche colto e popolare e con i versi delle canzoni d'amore quello che diverrà anche un tessuto di relazione e alla fine  codice segreto tra i due, il codice di una relazione indefinibile.

Un romanzo certamente teatrale, perché continuamente i riferimenti anche espliciti della voce narrante e della Fata a certi atteggiamenti teatrali, ostentati, artificiosi e garruli della Fata a cui corrisponde una teatralità dell’ombra di un Carlos che nasconde dietro la maschera e il nome finto le sue attività sovversive.
 E’ però un romanzo con non così tanti dialoghi, difficile in apparenza da portare in scena, perché spesso occupato dalla voce narrante la quale presta il suo rigoglioso eloquio alla/al protagonista Fata, e infatti Claudio Longhi in un'intervista doppia con Guanciale su La Lettura ha chiarito che la sua sarà “una sorta di “edizione teatrale” del romanzo, nella trasposizione di Alejandro Tantanian, in cui la Fata/Guanciale sarà di fatto anche narratrice.  

Tutta la storia si gioca con sul filo del doppio. Con l'identità che viene celata, nascosta dietro maschere, Sovversivo e la Fata, di fatto questa esplicita ostensione del doppio consente molti appigli per la scena. Un romanzo che ricorda molte cose, non solo quello di Manuel Puig con “Il bacio della Donna Ragno”, ma molti riferimenti tra cinema canzone e ancora teatro (penso al recente bellissimo spettacolo di  Renata Carvalho a Short Theatre) ma con un’anima latina che accondiscende più alla cultura popolare (forse attingendo più a un mondo simile al musical “ Priscilla” (e a me viene in mente una persona che forse potrebbe somigliare proprio a Pedro Lemebel, cioè Platinette, nella sua multiforme attività tra giornalismo, performance, radio e attivismo politico).

Nel romanzo compare anche un’altra coppia, a far da contraltare con rimandi e scambismi, a quella della Fata e di Carlo, ovvero Augusto Pinochet e la moglie Donna Lucia, ritratti in una loro grottesca intimità allo sfacelo, affogata in una palude di insofferenza reciproca e ipocrisia, con Lucia che è anche lei completamente quasi un omologo della Fata, perché da contadina si è trasformata, si è pensata, come  nobildonna, parla continuamente dei vestiti che vuole comprare, copiando anche quelli della Fata (le due coppie si sfioreranno due volte nel libro) consiglia al marito cosa fare delle sue scelte politiche in modo stravagante e sciocco, con un dittatore tanto acidamente feroce quanto ridicolo, che sotto la penna di Lemebel diventa un vecchio pensionato, incapace e pigro, ossessionato da marce militari e incubi da cattiva digestione. E interessante del romanzo questo doppio gioco quadriglia. Così come interessante il doppio risveglio tra Carlos e la Fata, in ci di fatto sarà l’amore della Fata anche se costretto nella gabbia di una consapevole impossibilità, nel gioco a illudersi, per sopravvivere, che muoverà le cose, contribuendo all’azione terroristica. Un tema anche meta-teatrale e insieme politico, etico, anche per noi che siamo viviamo in questa epoca italiana, ormai trentennale, dominata dalla destra bauscia di Berlusconi e oggi portata al parossismo grottesco dal “bagaglino” della destra burina di Meloni, al Governo con le  persone che per anni si sono richiamate al fascismo. E che sono state dalla parte di Pinochet, come ai tempi La Russa (sarà interessante vedere se  in sala ci sarà il neo nominato consigliere di amministrazione del Piccolo, Geronimo La Russa).

Che cosa significa per noi resistere? Opporsi al potere? Siamo più simili a Carlos o alla Fata? Lo studente sovversivo, fortemente ideologizzato, o la transessuale che rivendica , ostentando una diversità anche impolitica, ma radicale  ? È interessante questo, perché c'è una sorta di ulteriore riferimento al modo di fare teatro, in questa storia, vedremo come sarà coniugata da Longhi.
“ho paura torero” contiene implicito il discorso sulla funzione del teatro: se debba essere o meno quello impegnato e militante o se debba intrattenere, giocare con la sua arte, tenersi fedele a una sua metafisica, in un certo senso, senza farsi solo portavoce di istanze e ciclostilati. Ci sono molti riferimenti meta teatrali nel libro, la Fata dell'angolo continuamente sa di recitare la sua “parte da donna” nel romanzo di avere delle pose teatrali di avere dei confronti anche delle altre sue compagne di vita e di strada, continue e teatralissime “baruffe” schermaglie che racchiudono in sé però legami profondi.

Alessandro Iachino in un articolo sul semestrale  di cultura teatrale edito dal Teatro Metastasio di Prato “La Falena”, i parlando appunto della dell'impegno anche a teatro di un certo tipo di gruppi e autori, che portano nelle opere le tematiche politiche, le istanze sui diritti civili,  le parole d’ordine del cambiamento di paradigmi, le  nuove soggettività non conformi, danno vita a un flusso di testi e opere che dipanano, scrive Iachino, “una galassia semantica vaporosa e astratta” in cui la nebulosità sembra riflettersi in una tendenza al “contemptu mundi”, ovvero al disprezzo del mondo, all’osteggiare una differenza dal mondo circostante con il quale però “non vogliamo dialogare”.

 UN teatro-Carlos, starei per dire, militante che però più diventa politico e meno dialoga con il mondo che vorrebbe cambiare. Non c’è però solo la lotta elitaria tra gli artisti e i governi, c’è il “buio che ci circonda” la città invisibile e reale, come la Santiago che la Fata attraversa nel romanzo, abitata da tutte le persone, di tutte le estrazioni sociali,  ed è con loro che si gioca la partita politica. Insomma nel coinvolgimento del pubblico, in qualche modo tenendo conto delle scelte del pubblico, elemento imprescindibile per ogni teoria estetica e politica nell'epoca delle democrazie tardo novecento.

 Lemebel sembra sposare questa strategia, proprio diventando volutamente come autore e artista un‘icona Camp e sotto sotto, lasciando filtrare nel romanzo uno spirito critico anche verso il mondo dei Carlos.
Quello che oggi, direbbe Walter Siti in “Contro l’impegno” sembra teso a “valorizzare l'opposizione in quanto tale”, più impegnato a mettere in scena la sua retorica, a pronunciare i discorsi predefiniti di opposizione, le parole d’ordine,  più che a costruire una consapevolezza diffusa del cambiamento,  nel dialogo anche con chi al momento è diverso, ha gusti e formazioni diverse, ha magari un’estetica pop come riferimento  (come quella delle canzoni della Fata) .

 Si fanno tanti spettacoli di denuncia, scrive Iadichino, ma “vanno in scena di fronte a spettatori già informati, già aderenti a “quell’afflato politico”.  Spesso accade che quel pubblico sia fatto da teatranti e dintorni (come sottolineava Cordelli nel 1975 a proposito del pubblico della poesia fatto da soli poeti)

Se è condivisibile in teoria quello che ho letto in una citazione on line, di Jacques Rancière che “la finzione non è la creazione di un mondo immaginario, opposto al mondo reale ,a è il lavoro che produce dissensi, che modifica i modi di presentazione sensibile e le forme di enunciazione, cambiando le cornici, le scale e i ritmi, costruendo rapporti nuovi tra l'apparenza e la realtà”, è pur vero che in pratica bisogna anche capire quali sono le “cornici “da cambiare e i contesti, le competenze di chi vorremmo invitare a cambiare (per non parlarci addosso insomma e per non costruire un muro cieco di codici autoreferenziali e di solo dissenso).

Spesso nella platea dei teatri non si crea il dissenso, al 99% tutti gli spettacoli che hanno questo afflato politico di denuncia e di dissenso ricevono applausi scroscianti (negli ultimi tempi solo uno spettacolo ha creato una crepa, vivaddio, “Caridad” di Angelica Liddell) . Per il resto grande indignazione, grande commozione, grandi applausi. Per questo pubblico già informato e già aderente a quel dissenso che sta sospeso tra il palco e la realtà. È una sorta di eco-chamber confortevole, un parlarsi tra chi è d’accordo (Facebook ci sta anche abituando con l’algoritmo a questa echo-bolla-chamber) . Si fa arte che vorrebbe essere testimonianza e finisce per diventare, se pronunciata di fronte ai nostri simili, uno “ sguardo autocentrato che dimentica il circostante” come scrive in un altro articolo de “La Falena” Lorenzo Donati, utilizzando il termine di Gianluca Simonetti, tratto dal suo libro di critica “La letteratura e il circostante”.

Nel romanzo di Lemebel invece il “Fronte” di Carlo  e il “Frente” della Fata, la loca, stanno faccia a faccia, dialogano, si trasformano uno nell’altra. Anche l'arte in apparenza fatua e vaporosa delle canzoni dà il suo contributo all’ideologia politica (la quale spesso, come anche l’ideologia estetica, sedicente “di ricerca” o rigorosa è ugualmente linguaggio vaporoso ).

 
Interessante che Longhi, alla domanda di Laura Zangarini su La Lettura, su quale sia la funzione del teatro , diche che il teatro oggi dovrebbe “sforzarsi di restituire il cangiante trascolorare del presente nel futuro, debba testimoniare il nostro tempo incerto” dice Longhi, senza però “mai dimenticare la sua genetica ‘ leggerezza’ la sua vocazione innata a essere luogo del divertimento”. Ci aspetta forse molto giocoso e canterino divertimento al Piccolo. A 50 anni e poco più da quell’11 settembre 1973 che non riuscì però a spegnere la musica né a cancellare l’arte di Lemebel e delle tante Fate.

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