C'è un libro recente
di Agota Kristof , un libro di poesie titolato “Chiodi”, pubblicato dalla casa
editrice Svizzera Casagrande, che sta
riscuotendo un buon successo tra il pur ristretto numero di lettori della
poesia in Italia, lettori spesso scriventi, come è noto.
Kristof è certo una delle autrici più importanti del 900, amata di un amore
dolente quanto le cose che scrive, conosciuta soprattutto per la sua “Trilogia
della città di K.” .
in “Chiodi” si raccolgono poesie scritte
nell’arco di alcuni anni dopo il trasferimento di Agota in Svizzera, la gran
parte in ungherese, quelle dell’ultima sezione, in francese.
E’ ovviamente un libro
tradotto – da Vera Gheno (ungherese) e
dal poeta Fabio Pusterla (francese) – e vorrei poggiare il discorso proprio
considerando questo testo in traduzione “anche” un testo di poesia “in
italiano”.
Perché questo sbilanciamento sulla traduzione?
Primo. La traduzione non
è un dettaglio secondario, anzi, un elemento fondamentale per capire meglio la
poetica e starei per dire la vita stessa di Agota Kristof per il passaggio di
confine tra le due lingue nella sua storia letteraria e per il mutamento e il
taglio tra due vite, due epoche, due mondi.
Secondo. La traduzione.
Meglio: l’italiano della traduzione, ci dice anche qualcosa della poesia italiana
contemporanea, specie quella di ultima generazione. Una poesia in cui è sempre
più prevalente (lo si registra soprattutto dagli esordienti e ma è una tendenza
presente anche tra i poeti sotto i 40 anni ), la scelta di quello che chiamerei
“stile
semplice”
(la definizione è di Enrico Testa, dal titolo di un suo libro sulla prosa e che è stato ripreso a sua vlta da Raffaella Scarpa per introdurre la sezione della antologia "Parola Plurale " e che porta il titolo de suo saggio "Gli stili semplici" i cui si identificano stilemi e un'area di autori come Claudio Damiani, Umberto Fiori, Vivian LAmarque, Stefano Dal Bianco, Mario BEnedetti (quello di Umana Gloria, ma al momento del saggio di Parla Plurale, Benedetti non aveva ancora pubblicato il suo capolavoro certo molto più rivoluzionario sul piano dello stile che è stato "Pitture nere su carta") Gian MArio Villalta, Silvia Bre e il primo MAgrelli. La mia definizioe di stile semplice aggiornata al 2018 è che si sta passando in troppi casi, dal semplice al "semplicistico",
Il 900 della lirica tra Ungaretti e Sereni, che arriva fino a De Angelis o Benedetti e oltre lo potremmo chiamare “stile alto” della lirica del 900 (per rubare un
titolo anche qui, potremmo dire: il “Grande Novecento” della lirica, come da
volume di saggi di Antonio Girardi).
(Si tratta come sempre di formule di orientamento, non di definizione esasutiva, tantomeno per i singoli autori. Spero nell'indulgenza di chi legge un post lungo sul web , scritto a memoria, non un saggio a cui si lavora per mesi.)
E allora:
Lo stile semplice è a basso tasso di figuralità, letterarietà, polifonia
linguistica, complessità sintattico-formale, ecc – e ogni traduzione di poeta
straniero finisce per essere, in modo inevitabile e incolpevole, depotenziata e
appunto semplificata. Naturalmente quando l’invenzione di figure, quando la
complessità dei temi è rilevante un grande poeta afferma la sua forza anche in
traduzione. Certo la lingua perde la sua tramatura fonetica, uno degli elementi
forti di uno stile poetico. Il caso più evidente è W. Szymborska, una poetessa
dalla fittissima musicalità, per chi come chi ha avuto anche solo la
possibilità di sentirla leggere, persa nella pur buona traduzione di Marchesani,
riducendo i suoi teti ad una pur vivace aneddotica, sorta di parabole ironiche,
costruzione di immagini, che restano ma non sono certo il linguaggio della
poesia.
La poetessa polacca è uno dei simboli di ciò che vorrei discutere più
avanti.
Ovvero che accade,
credo, spesso che certi autori diventino canone ma nella lingua della
traduzione, diventano cioè koinè della prosodia poetica italiana, dello stile, delle
soluzioni formali adottate, insomma la
poesia, anche la grande poesia, straniera sta influenzando in traduzione non
poco gli scriventi italiani. (1)
Quello che vorrei
tentare è di mettere in connessione le due cose, con un tentativo di sintesi
finale. Ovvero che l’equivoco di un rifiuto della “retorica letteraria” sia
preso a pretesto come un modello per non interessarsi affatto della
letterarietà della poesia, il che vuol dire che lo stile semplice è di fatto
uno stile semplicistico.
Ripartiamo da Kristof.
CHIODI, KRISTOF
1.
La poesia non ha confini?
“Chiodi” appare dunque
(lo spiega in scritti e interviste la stessa AK) poesia già per scelta, asciugata
da retorica letteraria. Di forte impatto tematico, è una poesia che si presenta
in versi liberi, costruendo per immagini un paesaggio dell’anima, partendo da
quello fisico. Ovviamente lo è ancora di
più scarna, con l’effetto della
traduzione italiana, ma non solo per questo.
Questo svuotamento del letterario è stato un
percorso di sofferenza e scelta non facile per l’autrice, ma ben definita. Corrispondeva
ad un’esperienza di spersonalizzazione, disappartenenza, spaesamento biografico
esistenziale che molto dice ancora dell’Europa di oggi. Kristof, nel 1956
lascia l’Ungheria e a ventun anni approda per caso nella svizzera francese.
Lascia a casa le sue vecchie poesie e la letteratura nella sua lingua, salvo
leggere qualche raro libro in ungherese nella biblioteca di Neuchâtel . Continuerà
ad usare la sua lingua, per scrivere, i primi anni in grande solitudine, prima di passare al francese. “fu la mia lotta
per conquistare questa lingua” scrive in “L’Analfabeta” scritto negli anni
duemila.
In un intervista disse
anche : “smisi di scrivere poesie in ungherese, non potevo sopportare la loro artificiosità,
mi suonavano false”. Il francese era in quel momento una scelta del suo oggi, del presente, della finitudine
estrema, priva di illusioni. Si potrebbero accostare le paarole di Walter Benjamin: “non posso che pronunciarmi
sempre a favore della mia epoca”. E’ una scelta di lotta e di coraggio, di
realismo. Il francese è questo per
Ristof, è la lingua che lei pratica da zero come “analfabeta” quale era AK, in
quanto profuga politica, che approda in
una terra straniera, e pure quella di chi ricomincia a “Vivere”. Non è un caso
che la prima dell'ultimo gruppo di poesie di questo libro si chiama proprio “ Vivere” ed è la prima in
francese ( e ci sono tutti verbi all'infinito “amare educare vivere, baciare,
fare ecc” , insomma quasi un gioco da
bambini nell’elenco di verbi). Ecco che i “chiodi” nella poesia omonima sono
quindi sì a chiudere le porte a mettere
le grate, da un lato, ma anche forse le
parole che ci inchiodano a questo nuovo “fortino del dolore”, come lo definisce
Pusterla nella postfazione, dentro cui
in qualche modo la identità (è una condizione del poeta, ma anche un invito per
noi, in ogni tempo) è questo che c'è ,
accentando ciò che sono i dintorni, lo spazio che abitiamo, l’ intermedio di un
paesaggio freddo, non accogliente, senza vie da cui si è venuti, senza
direzioni dove andare. Allora ecco che i chiodi/francese/svizzera sono un
doloroso radicamento necessario, un inchiodarsi ad un destino, quello degli
umani che ora le sono intorno e in cui si trova gettata: “ così si edificano
gli anni così si edifica / la morte” è la chiusa della poesia che dà il titolo
al libro. Potremmo dire: leopardiano, il
guardare senza illusioni, in faccia la mortalità dell’esser nati. O con Beckett
(autore così affine) “non posso continuare, continuerò”.
Così fece Kristof, attraversando confini
di lingue, spazi innevati e vuoto mortali, nell’intermedio nulla che come una
neve, pare anche la carta e il testo.
2. La poesia può nascere da un grado zero,
come da analfabeti?
“Parlo il francese da
trent’anni - scrive Kristof nel 2004 ancora in “L’analfabeta” - lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo
conosco (..) per questo lo definisco una lingua nemica”. Il paradosso è che con
il francese riesce lasciare quell’artificiosità retorica che la infastidiva
dello scrivere nella sua lingua, e conquistare quella poetica aspra arida
baluginante di forza lucida che l’ha poi distinta negli anni.
Per lei sarà fuori
questione dover conservare una lingua
salvata dal passato, per usare la metafora del bulgaro Elias Canetti
(approdato anche lui in Svizzera, ma madrelingua tedesco, quella della sua
minoranza, quindi favorito), sia sul piano tematico che su quello linguistico.
La nuova lingua nemica, e dura, non sarà
un tentativo di traduzione dell’ungherese, né ne cercherà la bellezza di Racine o Valery, O
Baudelaire o Mallarmé per citare i canoni, né tenterà di replicare “il poetico”
della sua lingua che ha in mente.
Restare aggrappati nel mare del vuoto
al francese, al suo grezzo e materico francese da principiante, come un legno,
naufragando e su questo inchiodare un dolore muto di esperienza dello sradicamento,
di desolazione, di transizione personale ma che riguarda tutti – e a maggior
ragione, tutti noi, oggi: “vengono
uomini dietro di loro non c’è nulla” e “le città lentamente strangolano i loro/
gracili giardini”.
E qui vive l’Io del/la poeta, sofferente
in un “corpo gonfio” che passa attraverso una via crucis della migrazione, in
cui i chiodi fanno da simbolo segreto
di un tempo in cui però dio non c’è, il senso di abbandono – come in Beckett –
è totale.
Lontana dalla sua comunità, Kristof dirà
l’assenza di comunità che è oggi di tutti, che ci fa simili al suo essere rifugiata
nel nulla, un limbo doloroso e sgomento :
“Qui le persone sono così felici / che nemmeno amano / sono realizzate non
hanno bisogno / l’uno dell’altro nemmeno di dio / la mattina si siedono davanti
alle loro case inondate di luce / e fino a sera aspettano la morte”.
Operaia nella fabbrica
di orologi, Kristof trasferita a Neuchatel dal centro profughi, impara le
parole del nuovo luogo in cui vive, ma scrive poesie: “le macchine hanno un ritmo regolare che
scandisce i versi” e di questa durezza è fatto il testo Kristof parla di un “deserto” che deve attraversare per
l’integrazione, schiacciata tra ricordi sempre
più evanescenti e il nulla della non appartenenza, che sta dietro il
paesaggio di una svizzera metaforizzata a orizzonte di un secolo votato ad una
infelicità senza desideri. Le parole scarne, con dentro la musica d’angoscia
della catena di montaggio sanno dirlo:
Non
piangevo solo temevo le vertigini
Nel
vuoto che ti lasci dietro
Non
c’è niente a cui posso aggrapparmi
Neanche
la tua mano sarà qui domani.
L'intreccio con la biografia stavolta è
importante per il testo. La dislocazione del sé, la vertigine della perdita
sono vita, letteratura, e ad un certo punto scelta stilistica. (2). Agota Kristof aveva
sentito la presenza di una lingua nemica già durante la guerra, col tedesco e
nella zona vicina al confine dove si trasferì da bambina, il 20% dei locali lo
parlava, era una linguamadre, seppur ungheresi.
Quando è poi in Svizzera la lingua nemica è il francese, non scelto ma capitato
per caso e la impara dalle compagne operaie, una parola per volta.. Ma sarà poi
– adottandolo pe scrivere - una scelta non un tradimento, una costruzione seconda, nuova: guardare in faccia
la realtà, ciò che è perduto non merita la falsità retorica della nostalgia “da
qualche parte io ho/ fratelli che vivono irreali come i morti”. Non si torna
indietro, lo strappo è ferita, ma non c’è lamento. E’ questa ultima la lingua
che Kristof sceglierà, perché insopprimibile è l’ esigenza a dire da parte del
poeta, decidere per il “qui e
ora”.
3. Non più verso l’origine, ma verso la
riva più sicura
Ad un giornalista che le chiedeva “verso
quale riva nuoterebbe se la sua barca colasse a picco tra due rive, l’Ungheria
e la Svizzera? “ rispondeva infastidita
ma concreta “Verso la riva più vicina naturalmente”.
Verso il porto più sicuro, diremmo con metafora non peregrina, oggi.
Kristof non è il tipo da mettere avanti la letteratura a tutto (“nessuna libro
è triste quanto la vita” dirà) ma compie dei gesti etici e politici da poeta:
sceglie la comunità dove è gettata, la Svizzera. Non un mito dell’origine, passata,
della memoria e del sangue, ma una
cittadinanza di suolo del presente dell’approdo.
Ci sono attese, treni lontani che non si fermano, in fuga, ma è il qui a cui s’inchioda la coscienza
coraggiosa del io poetico: “da dove sono partita non importa” scrive in un
verso e sotto un altro: “nemmeno pena mi è arrivata più da te solo
silenzio”. Né redenzione, né nostalgia,
il lucido nulla che ci è davanti è il nostro mondo, la nostra terra. Quel che
ci tocca è questo. Da qui guardare avanti:
“Fratelli/ non vi ha amato nessuno ma
domani / metterete piede sui raggi / della luna / i vostri occhi si
abbelliranno laverete via macchie di sangue / dalle vostre mani dalle vostre
labbra / attorno a voi cresceranno gli alberi / si placherà anche la notte e il
vento porterà / cenere tiepida sulle vostre terre sterili”. Kristof tra il
solipsismo letterario e la comunicazione, sceglie col francese tuttavia una
comunità e dunque un pubblico. Non precipita nel pozzo. Ci tocca condividere un
destino e un deserto comune.
fin qui la Kristof, col suo francese. Scelta coerente col suo impegno
esistenziale.
Nell’analogia della traduzione, del taglio col passato, dell’assenza di
letterarietà, ora ci rivolgiamo alla ricezione italiana di questo libro, al
successo condiviso sui social network dei suoi testi. Una poesia facile di fatto, comprensibile dal punti di
vista linguistico, con qualche immagine di ellissi allusiva, ma con uno stile
diretti.
4. Verso la riva opposta alla
letteratura
Questo volume piace molto per questo,
sue poesie vengono condivise. E’ autrice molto amata, dicevamo, i lettori di
“Chiodi” sono certo anche i lettori della “Trilogia” e di ”Ieri”, ma non tutti.
Libri come questo si affermano a mio avviso, per il dettato semplice che è più
affine al dettato di base di uno scrivente poesia media di oggi, ma per ragioni
opposte.
Il rifiuto della
letterarietà in AK è consapevole, il taglio con la sua tradizione e la sua
patria è dolore, nella poesia italiana diventa un “si può fare a meno di leggere
Montale e Zanzotto” fatemelo dire brutalmente.
La scarnificazione
della lingua fatta da Kristof è presa a pretesto per una pratica di letteratura antiletteraria (ma poi
cambierò definizione) che sta dominando
le scelte poetiche, di chi esordisce in poesia negli ultimi anni. Una scrittura fatta di essenzialità che va a modellarsi non su/contro /a fianco di forme, stili, poetiche attinti al passato
recente o meno. (nella linea della lirica, tra Eugenio Montale e Mario
Benedetti, per dire). La poesia di
traduzione (vertice : Szymborska) o certi numi tutelari italiani (Merini) diventano
un neo-canone linguistico privilegiato di uno stile semplice e svuotato..
PARTE SECONDA
IL CANONE POETICO
DELLO STILE SEMPLICE (E L’INFLUENZA DELLE TRADUZIONI)
Azzardo un’ipotesi: che esista un “ipertesto-letterario
acefalo”, che trova nell’italiano mediato della traduzione di poeti stranieri
il suo modello principale per i poeti più giovani, che non possiedono più – ma per scelta o forse no - un’origine, o quanto meno uno sguardo
attraverso il patrimonio di una tradizione.
(lo dico in parentesi, ma è questione complessa: da qualche anno si rimprovera alla narrativa di avere uno stile "medio" - ma appunto invece lo "stile semplice" di Testa non era necessariamente negativo, avvicinare la lingua letteraria al parlato è stata per tanto tempo una virtù - e una necessità anche politica, da Dante a Manzoni. Poi fi una scelta stilistica ancora politica con la "mimesis" della realtà contadina e urbana del dopoguerra. MA qui in ogni caso sta accadendo con la poesia quello che già è stato riproverato alla narrativa, forse non a caso propro in virtù di un postivo riavvicinamento di lettori, seppur con percentuali basse) alla "poesia" se intendiamo con questa un componimento di versi. La questione la teniamo sullo sfondo)
5. Antiletterario
o a-letterario ?
E’ necessario fare un
quadro generale. Nella poesia italiana contemporanea esistono due tipi di
anti-letterarietà, quella a posteriori, consapevole e avversa alla tradizione
del lirico – specie del gergo – come lo chiamò con felice sintesi Sanguineti - poetese -
da superare, una poesia che sperimenta
fuori dal letterario e che va oggi anche verso
la prosa da posizioni di ricerca sulla “prosa in prosa” ecc. una avversione
alla facile retorica, o in generale al già-scritto come tale, in letteratura, che prende le mosse dall’esempio storico della
neo-avanguardia e approda fino a le ricerche di GAMM, a Bortolotti, Zafarano, Policastro e altri (Franca Mancinelli ad esempio e Guido Mazzoni, autori diversi e di diversa caratura) e guarda ora più ad
esperienze europee e non solo, con un’anti-letterarietà che ovviamente
presuppone molta ricerca, molta discussione teorica, riferimenti alla filosofia,
scienza e ad altri saperi. Un’anti-letterarietà complessa.
Qui interessa però l’altro filone di
poesia contemporanea, quella che oggi è approdata ad uno “stile semplice” ovvero la liofilizzazione della complessità letteraria, un manierismo della via più leggera e classica della poesia (generatori di nerudismi automatici a volte) quella
che ha sempre fatto della resa alla lingua comune, della leggibilità un punto
di forza. Ci sono stati tanti modi di sottrarsi. Quello di Saba, dai cascami
dannunziani a quelli dell’ideologia, quello di Giudici, di parte della scuola
lombarda che arriva fino a Umberto Fiori (ma Sereni e Raboni eli collocherei
nella lirica) quella fi Fortini, un gigante a aprte.
un elemento in comune è la sottrazione di figuralità, verso il narrativo, ma sempre
in un fraseggio metrico tonale, con un
linguaggio tendente alla denotazione, da cui però, in questo teatro del reale,
l’io sembra almeno messo in disparte o di-messo. In ogni caso - sto procedendo
tra incompleti accenni storici - era pur sempre una poesia che si muoveva
dentro una dialettica di scrittura che presupponeva un’idea della stessa, di tipo
letterario, oltre che consapevole del suo presente storico.
Quella che ha prevalso nel presente italiano è però solo un
sottoprodotto di questo filone del “semplice”. Ha in Berardinelli e Patrizia
Cavalli due pilastri della perplessità
verso “la grande poesia”: poesie che non
cambiano il mondo (Cavalli dixit, con un titolo epocale) addirittura un
odio – a mio parere, frustrato e da ex poeta piuttosto fallimentare - di
Berardinelli che ha allevato una schiera di altri poeti non rilevantissimi o apaprtati in questa nicchia-contro, come
Febbraro o Marchesini (ottimo critico, preparato, polemista, diverso il risultato in poesia, a mio avviso) ai quali, però, tramite un patto di scuola e fedeltà ha creato i
presupposti per una certa posizione dentro l’editoria e i media (ad esempio il
Sole 24 ore Domenicale) creando presupposti di koinè.
. In questi ultimi il gran rifiuto – espresso sul piano
polemico – nasce dall’interpretazione della letterarietà contemporanea come “maniera”
di una grande letteratura che non si ripeterà e i “manieristi” però sarebbero
collusi col potere editoriale e politico (non a caso è “Il Foglio” il giornale
che li ospita di più.
In ogni caso se qui la motivazione è “politica” essi sono – parlando da pulpiti
giornalistici (essi pure collusi ,Confindustria, Forza Italia con l’editore senatore
Pera) – degli “influencer” per le autoproduzioni dal basso.
Su questo versante il Canone che potremmo “ Patrizia Cavalli” o “Valentino Zeichen” è quello
che si sta affermando, entrambi dentro una sopravvalutazione critica, nata in
ambiente romano, con due motivazioni: la prima la dominanza dell’area
geoculturale (Pasolini, Moravia, Siciliano) l’altra geo-storico-letteraria (un riferimento
al “classico” inteso proprio come riproposizione in uno stile di approssimata
aura rotonda, lo fece anche Sandro Penna, ma in altre epoche quando il rifiuto
della retorica era una scelta di fatto stilistiche di rifondazione della
retorica medesima – esempio che prosegue un poeta come Claudio Damiani).
Diverso il caso di una matrice della poesia a canone comunicativo che ha avuto
nel potere di Antonio Riccardi, e del suo maestro Maurizio Cucchi a capo della
collana più importante della poesia contemporanea (Lo Specchio Mondadori) su cui
non mi soffermo, ora con dirigenze mutate.
Mi interessa dire che
queste premesse sono state lo sdoganamento ( non diretto, ma in qualche modo il
cappello entro cui è avventuo) per la giustificazione anche critica di un affermarsi
dello “stile semplice” dovuto certo all’affermarsi della società di massa e
dell’istruzione di massa e in tempi recenti alla condivisione orizzontale dei
testi che rivendica la “disintermediazione” critica (chi li critica è snob, è
vecchio,fa parte della kasta ecce cc).
Su tutti- anzi prima di tutti e da sola - sta invece per molti poeti di oggi
l’esempio “pop” di Alda Merini soprattutto
nella sua rifrazione col pubblico, la
Merini del Costanzo Show, offrendo l’idea che lo Zeitgeist fosse quello: una spontaneità del dire, una
sentimentalità accorata, una presunzione di verità, pur nel modo dolce e
gentile di un’anima ferita, creando un vero repertorio ideologico e poi formale
nei suoi versi (si può misurare l’inciampo, perché prima o poi alcuni di poeti
e specie poetesse scrivono una poesia dall’incipit “sono nata il”)
La gran parte di questi componimenti sono – come del resto tanti della stessa
Merini che disperse quel mezzo talento che aveva che ancora compare nelle prime
raccolte - spesso sciatti, semplici, ma
dove ciò che conta è la fede nella poesia - non nel testo, ma di nuovo in un
grumo crociano di intuizione e destino d’anima eletta.
L’eredità è stata presa da questo punto di vista – sul piano della popolarità -
da Mariangela Gualtieri - con gli ultimi due libri, che sono distantissimi dalla
ricchezza di forme e riferimenti di un bellissimo volume – e spettacolo di
Teatro della Valdoca di cui è cofondatrice - “Fuoco centrale” - e da Chandra Livia Candiani,
che imita in peggio la ultima Gualtieri.
Intendiamoci, ci sono - come Patrizia Cavalli e come diversamente u un
grandissimo poeta come Valerio Magrelli che ritagliò un continente dove non
c’era, tra le neoavanguardie e la parola innamorata nei primi anni ’80 - poeti
che fanno della sottrazione alle retoriche dominanti (neovanguarida e parola
innamorata all’epoca) una scelta precisa.
Decidono di percorrere una poesia che cerca la complessità in una lingua ce si
misura con l’impegno quasi etico della leggibilità, pur consapevoli di esempi
altri, per un ‘adesione ad un ‘esigenza umana, anche se non confessionale, in
cui si reputa centrale cogliere l’essenzialità, magari in qualche caso temendo
le complessità come un contenitore intellettuale che blocca la poesia. Eredi di
questa storia sono poeti che non vorrei confondere col mio discorso, gli ultimi
di ua storia, tra i giovani (ma non più così giovanissimi) come Gianni Montieri,
Luca Vaglio Isabella Leardini , giovanissimo ma precoce Giorgio Ghiotti, e
altri, in loro vedo la scelta di una
linea italiana, Giudici-Penna-Magrelli-Cavalli (che non sono una linea,
ovviamente ma devo semplificare)
La Rete
Ce ne sono altri che hanno però bisogno di maturazione e di attraversare il
già-scritto per rendere le scelte poetiche consapevoli, se ne sente la
fragilità e che tuttavia mi sembra stiano prendendo il sopravvento, se non
altro in termini di presenza editoriale grazie all'età più giovane e alla normale pratica diffusione pre.editoriale nelal rete dei social.
Uno in particolare è un esempio anche virtuoso di impresa dal basso, seppur tra piccolissimi editori, ben
capaci di creare comunicazione e rete, come "Interno Poesia" di Andrea
Cati che è un progetto che si muove su due assi ed è forse il fenomeno più significativo della poesia contemporanea, proprio per questa novità (su cui ho qualche dubbio di tenuta della colana, ma che pure va pensata con altre categorie critiche, come cerco di dire negli ultmi paragrafi più avanti)
I due assi sono quell verticale della tradizione non in senso retrivo, tradizione non significa andare per forza ai poeti morti del 900, ma anche ai vivi del 2018: sifgnifica che un poeta come Tommaso di Dio o Francesca Serragnoli o Corrado Benigni per fare solo qualche nome (questo è un articolo pieno di assenza per rapidità) apaprtengono a questo lungo corso della poesia, se letti nella densità e compattezza e anche novità di stlemi, di scrittura oltre che ampiezza di riflessione. Appartengono alla storia storia che altri critici chiamano del "stile alto" della poesia del 900.
L'altro asse è quello orizzontale del (consenso diretto del) pubblico per cui il libro assume valore a partire dal riconsocimento del pubblico diretto, che la rete rede oggi possibile. C è un problema di cambiamento del funzionamento della ricezione e la rete è
uno dei principali elementi di questo cambio di canone della qualità - se il valore si debba misurare sul testo, secondo una lettura dell'eredità del "secolo della forma" come è stato il 900, quindi se letto stando al "testo in sé", letto da chi
ha competenze o se si nega la critica letteraria come non più necessaria (è bello ciò che piace a molti).
In questo senso il orgetto "Interno POesia" ha un grande valore per la propensione didattica e di stimolo verso un genere negletto, mostra un limite, quando raccoglie alcuni libri a partire dalla possibilità di distrubuzione dopo il successo in rete o perché piacciono a una fetta di persone che li pubblica grazie al crowdfundig, quindi dal basso - ed è qui che ci sono autori collocati dentro questa area primaria dello “stile semplice”, che a vote di venta un po' troppo semplice.
6.
La trappola del trap (trapoetry?)
Guardiamo cosa accade nella
musica di oggi: il Trap, di Achille Lauro, di Young Signorino, per esempio o la
fabbrica di hit-pop- di Takagi e Ketra, arrangiatori che esplicitamente si dicono (in un ‘intervista si esprimono così) portatori di una musica "dalla strada" diretta semplice e di fruibilità, che è contro "la borghesia" della musica (sic) dove metterebbero anche Tiziano Ferro, non solo De Gregori. (3)
Accade sempre: spostiamoci a New York negli anni 50, basti guardare la polemica (ad
altissimo livello però qui) che ci fu nel dopoguerra tra il compositore
newyorkese Morton Feldman (e del sodale John Cage) e la scuola di Darmstad,
Schoenberg, ecc oppure l’avversione totale di Francis Bacon verso Mark Rothko –
amico e sodale di Feldman non a caso.
Oh Francesco Sole mio
Ad un livello più basso, accade anche in poesia: Guido Catalano, Gio Evan,
Francesco Sole ecc. il loro successo, il pubblico che fruisce, ecc. Ciò che
viene inteso come poesia da un pubblico che non ha tutti gli strumenti
strutturali per leggere la complessità, per provare piacere di fronte alla
complessità, eleggono quei testi facili-facili (gradino sotto anche lo “stile
semplice” quasi cabaret o direttamente music-spoken-word o "cantautorato-parlato" ), ma è legittimo e normale accada, diventa anche impossibile darne un
giudizio negativo, se si riesce a ragionare sulla "versificazione" (meglio dire così) come di un arcipelago. Essite una ragnatela di rimandi che ci permettono di classificare certi oggetti come "poetici", ma per "poesia" si intende la produzione di testi che rispondono ad un principio: hanno una ricca stratificazione di rimandi formali e di significati non banali.
Per questo se è vero che uno "stile semplice" in narrativa è anche portatore di buona o ottima qualità letteraria, in poesia, il luogo del laboratorio del linguaggio che con scelte stilistiche, linguistiche atipiche cerca una sua propria verità, è più difficile che uno stile davvero semplice possa essere un vero testo di poesia - può essere un discorso semplice con righe spezzate e a/capo ancicipati sulla pagina.)
Credo sia importante tnere in mente due cose:
La prima: forse più utile più utile ragionare ormai per più filoni e aree parallele, inutile fare la lotta
di conquista egemone di tutto il territorio cercando di individurare una tendenza o più d'una della poesia contemporaea: come in tutte le arti le tendenzesono infinite.
La seconda: ci vuole una decisione, bisogna ricorrere alle categorie critica dell'asse Contini-Mazzoni per alcuni filoni, pera altri è necesaria una premessa estetica: la categoria di ciò che è "valore" deve essere fatta se la teoria estetica che la sorregge è una "estetica delle ricezione". Ci potrebbero aiutare i “cultural
studies” di stampo amercano-gramsciano, usati per la musica, ma ci torniamo dopo.
FabioVolo, esempio classicissimo: da autore l’ho senttito io personalmente avere
parole risentite perché i suoi romanzi
venivano collocati in libreria (venivano, ora non più) nella “Varia” non in
“Narrativa” e perché non è mai stato recensito come romanziere al pari di
altri,e magari stroncato come altri, ma sempre intervistato come “fenomeno” – al di là del bene o del male. Sempre
fuori dall’ambito “recensioni letterarie”.
Mi verrebbe da dire che ha ragione – è il
difetto dello snobismo intellettuale che esiste – ma pure dire: rassegnati Fabio,
non scalpitare cercando il “titolo nobiliare” – ora la ghigliottina del popolo
vince, la kasta è battuta i giornali e la critica letteraria muoiono, relegati a quattro gatti, ora è il
quarto stato dominante (“la gente”), e rassegnamoci anche noi lettori e
scriventi di letteratura legata al “Grande Novecento” d’essere nobiltà
decapitata (Patrizia Cavalli e compresa, se paragonata a Francesco Sole, ovvio)
e ce ne stiamo nel nostro castello sgarrupato, dove ogni tanto come i nobili
decaduti a Montecarlo o Capri, fanno notizia per il gossip (la Capri della
nobiltà letteraria decaduta è “lo Strega” dove tra l'altro col nuovo meccanismo qualcuno potrebbe anche presentare Fabio Volo).
(nella storia letteraria e editoriale ci sono alcuni casi clamorosi di opposizione tra la critica letteraria e i libri di successo - come era successo col cinema e con i film neorealisti o con Totò - e certaemnte sono stati espressione di una visione ideologica e a tratti snobistici, si vedano le forti critiche a Elsa Morante per "La Storia", a Susanna Tamaro per "Va' dove ti porta il cuore" e - più simile al nostro discorso - la decisione di Einaudi di pubblicare "Le foriche nel loro piccolo si incazzano" di Gino e Michele)
Forse ne usciremo da quel castello del 900, a furor di popolo e di populismo letterario?. forse, intanto però in tanti vorrebbero entrarci, per avere una certificazione critica da parte di medesimi rappresentati della stessa critica letteraria che se non parla bene del libro è vecchia o morta, se ne parla bene la si porta come medaglia (è il caso recente di una poetessa di cui mi occupo sotto)
Ci sono poeti inconsapevoli,
impreparati – ma pure altri consapevoli ma furbi - che hanno iniziato a suonare il motivetto da
“hit”: che palle questa poesia difficile,
che palle il poetese, che segue il calssico di tutte le estati "i critici sono snob e autoreferenziali" ecc che diventa in poeti più giovani e ai primi
passi, una indifferenza al confronto con poeti e poesia della tradizione recente
e meno recente.
Soprattutto indifferenza verso cosa possa essere stato
“prendere una decisione stilistica” per un poeta, per quanto non sempre con
apriori di riflessione, ma certo una consapevolezza evidente nel testo. Se oggi è necessaria un'estetica della ricezione per capire fenomeni pop e dare loro un valore estetico, tutto è leggibile dentro una prospettiva storica, di contrapposizioni delle poetiche.
Giudici
verso gli ermetici, Cavalli verso la poesia impegnata, Magrelli verso quella
innamorata e la neoavanguardia, ecc.
Quello che viene fuori
troppo spesso è invece una poesia che piega all’’atonalità intesa come non essersi posti per niente il problema
dello stile, non un ‘uscita dalla letterarietà, perché non vi si è mai
entrati a pieno.
Il non avere uno stile
riconoscibile se non quello leggibile e “semplice” è anche determinato dal
fatto che - calando le contrapposizioni di critici e tra poetiche, ormai come
in ambito musicale, salvo l’eterna lotta degli “anti-lirici” - si è dato ormai
un panorama in cui la pluralità è diventata un assioma della più avvertita critica (Parola Plurale, mega-antologia curata da Andrea Cortellessa, alla fine finiva per essere un’auspicata e forse
indotta implosione di tutte le particolarità, le individualità).
Sotto l’ombrello del “uscire da ogni stile e gergo alto, da
retoriche”, si sono riparati in troppi che, come in politica, addossano la
corruzione del vecchio, hanno preteso un panorama poetico in cui “uno vale
uno”, in cui tutti hanno diritto di esprimersi (Castelporziano, la folla, il
pubblico) senza produrre una competenza, né mostrare una ricerca di alcun tipo,
ma producendo medaglioni e occasioni di testi, un ‘esperienza di scrittura
diretta e liofilizzata, caratterizzata non da un’ opposizione alla tradizione, ma da appunto dalla sua assenza totale
(a questo punto definibile come ideologica).
una poesia “A-letteraria”, è la poesia di chi
scrive e pubblica negli ultimi anni, fatta di bassa risoluzione, di mera "cronaca del sé" (definizione della poetesa e critica Maria Borio) in cui prevvale un espressivismo come valore, non uno Stile".
Quello in cui si esprime questa fregola espressiva è dato spontaneamente, spesso senza aver letto, spesso, o in ogni caso non
meditato bene, studiato, molti autori
contemporanei, non necessariamente il Canone 900. I viveti De Angelis, Cucchi, Viviani, Frabotta, Anrdda, Magrelli, come quelli maturati in questi “Anni Zero” (come da antologia).
Si
produce una poesia "Spontanea", bastata fondamentalmente su concentrati d’aforismi
che vanno a capo, senza metrica. In
certi casi è veritiero quel che è considerato un insulto: baci perugina
che vanno a capo. (4)
7. Il "caso" Vivinetto
L'uso della parola "caso" è solo perché come tale è stato rilanciato, ed è metro per il contesto letterario non solo per il testo.
Ho letto da facebook che era in corso una polemica attorno ad un libro come
“Dolore minimo” di Giovanna Vivinetto. Simone Burratti nel recensirla su “ La
Balena Bianca” ne aveva evidenziato i molti limiti del testo ( rilevando
giustamente come fosse troppo sbilanciato sulla tematica - la transizione
sessuale - a cui corrisponde però uno
stile appunto semplice e appiattito sull’andare a capo di versi liberi senza
una particolare originalità né linguistica né metrica, anzi con eredità di una
retorica talvolta addirittura paludata ed ermetista, letterariamente parlando,
per non dire di ieratiche definizioni delle cose, apodittiche e assolute, ad esempio su cosa sia “il femminile” e “il
maschile” che denotano – pur dentro un’esperienza dolorosa e difficile del
transito – una concezione vecchio stile
dei ruoli e delle identità dei due gender ceh se le avesse scritte un maschio sarebbe stato tacciato di maschilismo).
Tralascio qui la soap-opera social
di reazioni talebane che sono seguite, delll'autrice e dei suoi fan, che su facebook si sono scagliati contro un legittimo esercizio della critica, un ricorrente ghigliottinamento delle presunte elites da parte dei
nuovi arrivati, al grido (testuale)" la critica è morta e non ha strumenti per capire la mia poesia". (Vivinetto emblema della "poesia del cambiamento"?) salvo poi vantarsi di recensioni positive di altri critici di quotidiani nazionali.
Burratti – e qui ci interessa di più questo dato che il giudizio sul singolo poeta - colloca questo libro dentro un generale
tendenza della poesia ultima italiana a una “ svalutazione pressoché totale
della forma” - scrive Burratti – “dove
per forma non intendo solo lo stile, ma l’intero sistema di esplorazione e
rinnovamento linguistico in grado di produrre significati nuovi, in favore del
mero contenuto” col rischio che “ la
poesia italiana, nell’epoca di questa millantata nuova primavera, finisca con
l’incancrenirsi in una koinè patinata, sciatta, addirittura normativa, lontana
anni-luce da quell'”oltranza oltraggio” che ha reso Zanzotto un caposaldo del
Novecento” (qui in nota (5) il link alla recensione ) recensione).
non mi esercito criticamente su questo libro, condivido ciò che ne è stato scritto.
Mi interessa ciò che ha generato.
Se è comprensibile che per spirito militante una poesia così sbilanciata
sull’esperienza personale, rispettabile e coraggiosa, possa essere accolta con
favore da poeti come Franco Buffoni o scrittrici come Dacia Maraini, attivi nelle battaglie sui diritti civili da sempre, oltre che sul piano letterario, è meno comprensibile il parere favorevole – se pure espresso a quensto sembra in
lettera privata poi resa pubblica, piccola scorrettezza – di un poeta come
Cesare Viviani, che scrive, nel suo ultimo “La poesia è finita. Diamoci pace, a
meno che..” (Melangolo) come “le disgrazie
della vita di un poeta (lutti handicap incidenti malattie miseria) e
altrettanto vale per la “diversità”, non possono diventare motivazioni dirette
o contenuti espliciti della poesia, altrimenti risultano essere veicoli
pubblicitari” (6)
Scritto prima, sembra perfetto per stroncare non solo il testo ma tutta la
soap-opera Vivinetto. Come e perché poi abbia dato il suo parere
favorevole ad un libro che è esattamente questo, mi resta (come autore che
stima Cesare, che ha fatto su di lui la
tesi di laurea nel 1989 e lo ha poi seguito e apprezzato) personalmente, oltre
che dal punto di vista della critica, incomprensibile, se non vedo il testo. (Ma mi dicono si trattasse di generico incoraggiamento). Reputo che però il dato dell' "espresisone di una esperienza umana" prevalga anche in chi poi scrive il contrario nei suoi pamhplet (ma so che Viviani non ha gradito che la Vivinetto abbia resa pubblica una lettera privata con un generico incoraggimento positivo)
Non mi interessa
l’accanimento su un autore, ma è altrettanto vero che proprio perché
l’esperienza che vive Giovanna Vivinetto ha tutta la mia solidarietà politica e umana, al tempo
stesso si può dire che un’esperienza unica e singolare non basta a fare buona
poesia. Eppure è significativo come la “potenza espressiva” (cito ancora Viviani nel
suo pamphlet contro i poeti dell’esperienza autobiografica) che deve diventare
la vera esperienza viva, stia virando su una semplicicità e una "diretta comunicazione" di molti poeti della
generazione della Vivinetto e ai lettori di questo tipo di poesia.
per certi aspetti un mutamento, per altri aspetti un impoverimento. Come ha detto un poeta come Tommaso di Dio, "c'è molta poesia di informazione, ma la poesia è "formazione" - formazione di un mondo attraverso lo stile"
8. Tenere
conto delle circostanze storiche (e tenere aperta la dialettica di due sponde)
Adesso provo a fare un ragionamento - dopo aver espresso molti dubbi e forti su questa svolta del pensiero della forma, diventato un pensiero debole di "stancehzza" verso la forma stessa - che invece cerca di collocare ini una diversa prospettiva questa poesia che personalmente non leggo e non scrivo, ma queso non vuol dire che non sia presente, non sia letta e non sia scritta da altri, con godimento e valore. Cerchiamo di capire.
In molti guardano alla possibilità di recuperare un uditorio attraverso una
“poesia senza letteratura” ( è il punto critico da cui parte un testo
importante critico, scritto da Gianluigi Simonetti, “La letteratura circostante” Il Mulino 2018 che certamente però non
giustifica il “circostante”). Questa scrittura media, specie in poesia anche
semplice, che non punta allo “scarto” dalla norma (tutto il 900 gettato via in
un colpo) ma si pone come integrata col pubblico e con i suoi strumenti, in
dialogo positivo con la comunicazione, lo fa “esponendosi massicciamente ad altri gerghi” (ancora
Simonetti) la canzone in primis, proprio per poter coinvolgere più pubblico
possibile.
La scelta di una poesia comunicativa, a questo scopo, proprio nell’epoca dell’erosione massima della
presenza pubblica (pagine culturali, librerie, festival) del genere finisce per avere l’effetto contrario, dell’erodere
la poesia per quel che la distingue, alla lunga, diventando ancella della
testualità pop del cantato (paragonato a certi testi e libri che circolano
negli ultimi tempi non si capirà più
(dal mio punto di vista) perché leggere questi neo-semplici, e non invece, con
più profitto e goduria anche testuale,
ascoltare Calcutta o Caparezza).
Diverso il caso del voler
occupare lo stesso palco, simbolicamente l’esibizione di spoken word fatta da Burbank
prima di un concerto di recente, dove si propone un testo che usa la
comlplessità testuale scritta nella misura in cui però non osctaoli la scelta
della performance come un dato di rivendicazione dell’oralità contro la
tipografia, questione che lascio fuori ora)
Parlo qui di una liricità depotenziata, di una
poesia depotenziata del poetico, che
si muove dunque al riparo da quel che percepisce come un ostacolo, ovvero il
patrimonio della lirica e del 900 ( a cui autori come Cavalli nel 74 o Lamarque
per altre via ne 1980 si opponevano con scelta meditata che inglobava l’assimilazione
di quel 900 contestato – ad esempio la ricchezza culturale che nel contesto
anche dell’emersione delle battaglie femministe assumeva quel teatro
dell’infantile, quella messa in discussione della psicoanalisi e del maschile a
cui dava vita una poetessa come Vivian Lamarque, affatto semplice come sembra e
come a volte viene definita suo malgrado da pessimi imitatori e imitatrici).
il 900 è “troppo complicato”, questa
è la risposta standard.
O semmai arriva la superficie di questa apparente semplicità. Dunque l’opzione
è la migrazione e la mutazione, verso una leggibilità e chiarezza dello “stile
semplice” che nel risconto della fruizione (pubblico spesso live ad applaudire)
fa perno per dire “vedete, piace, dunque
è bella” e diventa valore estetico.
Come si diceva sopra bsigna tenere fermo il concetto: la fruzione è un valore dell’estetica, con l’avvento della società di massa, ma
appunto crea, fa emergere, una nuova isola, con nuovi abitanti: non vanno
respinti, ma nemmeno loro devono invadere, per usare metafore attuali. Come nella critica che si occupa di migrazione, preferire all'integrazione (ambiguo) la poesia fatta di molteplici convivenze. O se si vuole, con una battuta, il Poliamore.
Del
resto già accade, Ludovico Einaudi è amato da molti, ma non suona a Salisburgo, la Filarmonica di
Berlino è amata da tanti, ma non suona negli stadi. Si può convivere e il pubblico vero, in una
certa percentuale passa da un’isola all’altra .
Chi scrive poesia, se guardiamo alla poesia come la "lirica moderna" in senso lato, sa che il poeta non ha più un “mandato
sociale”, definizione di impianto fortiniano argomentata in un volume importante, fondamentale, scritto da uno dei maggiori teorici della letteratura e in particolare della lirica, ma anche poeta al tempo stesso, ovvero Guido Mazzoni.
Ecco, la nuova poesia dello “stile semplice”
non accetta invece questa condizione decaduta – come non la accettano dal lato opposto
i più ostinati tra i poeti che fanno della ricerca un impegno politico: Gilda
Policastro ad esempio reputa un’invasione di campo l’espandersi editoriale di
questa poesia di successo e spesso anche molto pop- e la poesia semplice e diretta punta a rompere l'accerchiamento dei "soliti addetti ai lavori" e farsi capire dal grande pubblico.
La questione del “campo” invaso è centrale. Di quel campo parliamo? È necessariamente
unico? E se fossero campi diversi o palchi diversi per gruppi omologhi ma tutti dentro un megafestival?
i poeti dello “stile semplice” legittimano, giustificano, questa perdita di mandato, incolpando il fatto
che la poesia sia scritta per addetti, difficile, a volte i poeti stesi sono noiosi, arretrati ecc.
Operazione comprensibile, ma faccio una facile profezia : se continua così, finirà per
essere negato TUTTO il genere-poesia stesso accettando di essere decifrabile dal pubblico
di chi non avrebbe strumenti se non la lettura “alla lettera” per farlo.(e al macero andranno presto anche Catalano, non solo Bonnefoy)
7. Il contenuto, non più la forma. Lo
scandalo non è più “critico” ma di nuovo “erotico” (regressivo)
Ecco dunque la poesia
che si fa discorsiva, che è a-letteraria e incontra con facilità la poesia di
Kristof in traduzione. E’ una poesia che - a volte con variante “civile” - tende ad essere chiara, con oggetto del
discorso, riconoscibile, referenziale, a basso tasso di figuralità
metaforica, esattamente come una poesia
tradotta inevitabilmente è - se non fatta di un’ allegoria facile in immagini
articolate. La poesia è principalmente legata alla sua materia di linguaggio e
al senso che si genera uel che è sempre stata la poesia, è legata
alal sua materia e a lsenso che da esse ne consegue, da lavorìo su lingua e
forma del linguag(7)
come accade per Vivinetto, una poesia che vuole stare “con gli altri” nel luogo
comune del pubblico, essere condivisa
(tuttala poesia vorrebbe essere condivisa, ma questa lo fa programmaticmente,
non e interessa la poesia come linguaggio, ma tende ad appiattirsi sul
linguaggio comune)
E’ la glasnost della poesia, la trasparenza
rispetto all’ideologia che aveva - a dire dei detrattori, che tuttavia spesso
parlano per sentito dire - costruito sistemi inaccessibili a molti. Ora la
trasparenza che magari diventa denuncia, testimonianza sofferente di una
diversità, rischia di farsi appiattita, “narrativa, moralistica nell’illusione di
sembrare più democratica” (ancora Simonetti) in realtà è solo una pratica di
fuoriuscita dalla poesia. La presa di possesso di un’altra lingua, meglio un
altro codice, fatta da questo tipo di poeti di un codice spurio di metaforicità
e ricerca sul linguaggio, è come l’arrivo alla versificazione di chi era fino a
quel momento era straniero e analfabeta
o l’invasione del pubblico - del “popolo” - del palco di Castelporziano. Come
ha di recente detto un consigliere regionale parlando dei vaccini: la politica
viene prima della scienza, anche in letteratura, il pubblico viene prima della
scrittura, dell’opera ecc. il che se lo dice un editore che vuole
commerciare è comprensibile, se o dice
uno scrittore meno, perché a quel punto non si capisce cosa differenzi “l’opera
letteraria” dalla “conversazione quotidiana”.
Qui, sulla scorta delle considerazioni di Guido Mazzoni sul mandato sociale e
sullo spostamento della poesia dal piano estetico, all’interno di una
comunità di leggenti tutti consapevoli di ciò che era già scritto, a quello sociale,
va tenuto conto che si è passati con ‘alfabetizzazione di massa a nuove forme
espressive fatte da e per (come
Takagi e Ketra) un nuovo pubblico che ha avuto accesso al sapere umanistico, ma
in maniera non approfondita, non completa, spesso anche senza le basi del
sapere-fare letterario, un pubblico all’interno del quale ci sono schiere di
lettori a volte forti e agguerriti che tuttavia non sanno ridefinire in
consapevolezza articolata (ovvero come funziona un testo) il perché piace di un libro che a loro
piace .(epoca del “like”)
Per secoli si sono suonate arie, canzoni, lied, sinfonie, quartetti, ecc. da
medioevo all’800. Poi è nata altra musica, la canzone popolare è emersa
riattingendo solo a sé stessa, altre fondendo più linee folk-etniche: popolare
anglo- irlandese e afro per il rock, il country, il jazz, il blues. Quella
forma non aveva a che fare con ciò che c’era sempre stato, n Europa.
Possiamo anche prendere atto allo stesso modo che – come nella musica e come in parte già
avviene per la narrativa – si costituiscano più linee e più livelli e differenti pubblici (diversi
palchi, diverse isole): quello della musica classica che non incontra quasi mai
quello del pop o del rock, salvo eccezioni – quasi sempre musicisti che con
profitto mescolano i livelli. Lo stesso, quello del pubblico che legge Merini e
Candiani che non leggerà mai certo non Inglese, Policastro Giovenale, ma neppure
Penna o Caproni, e pretenderà di sapere e dire che quella è poesia, in modo
endogamico, ovvero generando da sé stessa canoni e categorie interpretative,
rifiutando - come snob elitarie - ogni obiezione (provoatoriamente come avviene
in altri ambiti: forte del fatto che ora comanda il pubblico/popolo).
Bene, possiamo ammetterlo, considerarlo, creando le premesse teoriche (che
servono solo ovviamente alla riva degli addetti ai lavori) con un mix tra i Cultural
studies (8) e l’industria del libro e l’estetica della
ricezione ma più ancora della performance
(anche digitale) del testo – cosa che a Burratti sembrava negativa, ma a me
sembra positiva, se si separassero però le due strade.
8. “Cultural studies” per la poesia ?
Una poesia da “analfabeti”
come scriveva di sé la Kristof o principianti, ma in un’accezione più forte: ovvero di chi non possiede che competenze basiche.
E' successo con la musica: all’inzio il rock di Elvis Presley o dopo dei
Beatles, in cui qualche eco di tradizione (soprattutto folk, ma in genere del
blues per Elvis e del rock che si stava producendo in quegli anni per i Beatles).
Fondarono una “musica nuova”, di fatto certo più semplice se paragonata ad una
orchestrazione di Schumann, Beethoven ,Stravinsky, Berio, Sciarrino, ma nel darne
un giudizio estetico sarà impossibile non tener conto più del valore sociale che assume per i lettore che li legge con il massimo della sua reazione possibile e non per la forma-in-sé dell’opera.
Il mandato sociale è ora dato agli insta-poet ( nella società non solo di massa, ma di
“massa-parlante” e giudicante tramite social) per scrivere poesia in modo
comprensibile, come fosse la canzone. Da questo punto di vista allora potremmo
leggere in modo analogo, la scelta che ci fu di realismo nel dopoguerra o di
una poesia come quella di Patrizia Cavalli di cui abbiamo detto, o di Valerio
Magrelli ecc. per il suo tempo (oggi Magrelli è un autore da studiare.
Certo appunto come
dicevamo sopra, questi ultimi due poeti erano ancora dentro quella dialettica
delle poetiche che ha segnato il 900. Ora la dialettica è tra un pubblico che
non sa nulla e nemmeno ha desiderio o
sente la necessità di sapere del 900, dei suoi poeti – non tutti, ok, qualcuno
sa altri no, come il pubblico che li
legge - e tutti gli altri, in blocco.
.
Sono certo del fatto che Zanzotto o De Angelis siano più ricchi, stratificati e
belli Chandra Livia Candiani, ma devo sempre pormi il problema – e proprio
ragionando dal basso, che quel che dico non sia una “cecità” come direbbe Paul
De Man, e se non stia anche io rischiando come all’epoca i soloni che seguivano
Nono o Berio di sottovalutare “ i Beatles” in quella loro poesia
musicale semplice, poco orchestrata.
(Direi di no, se il paragone è la Candiani, al momento aspettiamo ancora “la
poesia-beatles).
. Ma l’orizzonte d’attesa c’è di questo dobbiamo ragionare - e forse ha più valore l’attesa di una
potenzialità, anche senza alcun atto poetico forte per ora. E del fatto che
un’isola “altra” sia emersa accanto alla nostra.
9.
C’è un pubblico della poesia che non legge poesia. Lo chiameremo "il pubblico in cerca di 'poetico' "
Tornando al punto [ 4.
] : lo “ stile semplice” di lettori e poeti degli Anni Dieci del XXI secolo dunque
incontra la poesia di Agota Kristof, con una poesia prosciugata da ogni orpello
letterario, e la fa sua, ma con un
grande equivoco, e opposta storia.
Quello della scrittrice svizzero-ungherese fu un uso metaforico dell’analfabetismo
reale in cui si trovò, e un immergersi in lingua altra e nemica per condizione
storica, dentro cui Kristof lottò, parallelamente
al sopravvivere di un ‘esule, di una migrante in cerca d’asilo, conquistando
uno stile, che aveva a che fare con il dolore storico dell’ essere gettati nel qui e ora del nulla, della solitudine.
I nuovi poeti che adottano lo stile semplice e amano la Kristof, invece approdano a scrivere ma
per molte ragioni – per scelta, per mancanza di preparazione, a causa di scuola, e università, impoverita –non hanno
bagaglio o patria di letture, neppure da abbandonare.
Come erranti nomadi, i lettori che approdano in questo spazio aperto e zona
temporanea, hanno un italiano senza peso
letterario e di conseguenza storico . Per questo facevamo l’esempio dei “beatles” : il loro esser scarti come
scarafaggi, potrebbe alludere in realtà ad una “potenzialità antropologica” e una neo-soggettività storica.
E’ già accaduto l’emergere, ad esempio nel gender, non c’è dubbio che
parallelamente alla scrittura di donne tra Woolf e Morante, c’era anche tanta
letteratura tematica e semplice femminista – oggi una poetessa di prim’ordine
come Biancamaria Frabotta non ha incluso nell’antologia di Tutte le poesie il
suo Aeffeminata, forse troppo
condizionato dal tema e poco poetico ( allora, come testimonia una poesia di
Dacia Maraini (9)
di quegli anni, volutamente si rivendicava una poesia “dura e terragna” in funzione antiretorica e se retorica
significava una tradizione che di fatto era del potere e “maschile” anche anti-maschile).
La Differanza
passava anche dall’a-letterarietà della lingua. Accade per nuovi autori di 2G
nati in italia da genitori migranti (l’hip pop aveva aperto la strada da Amir a
Ghali) , o integrati da altre lingue e letterature, in tutto il mondo, con un
flusso di chi proviene dall’altrove-dell’Occidente e come Kristof vanno
cercando asilo, lingua, luogo. E la riva più vicina. E ora forse accade per
questo diverso pubblico che senza salire su nessun palco di poeti, si sta
prendendo la scena della poesia.
10. Il neutro del linguaggio e la
poesia del pubblico
C’è dunque un
orizzonte d’attesa che mi pare significativo, di cui potremmo dire fa parte
anche la poesia dello “stile semplice” anche se con risultati non ancora
significativi, neppure a volerli leggere con la lingua dell’ Isola Accanto, #isoladiarturo.
Senza identità e uno strutturato background, vedremo
se – pur non sapendo Schumann - faranno rock n roll.
Scarto dalla norma o
innovazione dentro una tradizione, stile dentro una langue: è’ sempre quello il gesto che viene compiuto dal poeta (lirico/non lirico) è sempre il suo
richiamare ad un “voi” petrarchesco che ascoltano “in rime sparse” il suono
comune ai parlanti lo stesso idioma volgare che diventa già a partire da
questo stile e lingua un gesto di significato etico e estetico assieme. Se ne
percepiscono le tracce, di questo gesto, nei poeti che diventano significativi.
Per ora l’a-letterarietà contemporanea degli Anni Dieci ha dato vita a
poesia, per la gran parte dominante,
certo, ad una poesia muta, che delineano una “svizzera” della letteratura. Un paese fuori
dai blocchi, neutro. Personalmente lo trovo sempre uguale a sé stesso e un po’
noioso. Ma chissà, come la Svizzera alla fine è stata per molti, durante il
nazismo, lo Stalinismo, non sia patria
cui inchiodarsi, come fece la Kristof con la Svizzera reale. Certo come gli
accolti nella Svizzera reale, anche in questa “svizzera-dei-poeti-del-linguaggio-neutro”
si comincia a dire: sono troppi.
1 E’ già
successo, si pensi all’influenza di una poesia dell’esperienza individuale di
rottura modellata sulla pessima traduzione del Baudelaire di De Nardis o il
filosofismo esasperato e pensoso dei nipotini di Rilke che nulla sapevano -
complice pure la lettura attraverso Heidegger - della leggerezza musicale dei
suoi versi, precisi metricamente e ricchi di musica e rime.
(2)
(ho già parlato, sempre cercando di capire qualcosa del
paesaggio della poesia italiana contemporanea,
del simile passaggio da una lingua all’altra – per migrazione, ma anche
per amore dell’italiano, del poeta Julian Zhara, albanese e migrato in Italia
alla fine degli anni 90, ma già amante dell’Italiano nella sua infanzia a
Durazzo, mentre per Kristof il francese è e resterà una “lingua nemica”)
(4) IN quella che ho chiamato
anti-letterarietà c’è una storia, legata a questa scelta: Gozzano e Saba, se
letterario significava D’annunzio, o Montale;
ma come ha mostrato Vincenzo Mengaldo, la tradizione del Novecento è
stato un continuo ridefinire e distruggere il canone, appropriandosene. Basta
vedere nell’antidannunziano Montale quanto lascito di D’Annunzio ci sia, o i
ribaltamenti ironici di Gozzano. Si approda ad una poesia leggibile se concorre
una congerie storica significativa per questa scelta - il dopoguerra rispetto
ai poeti ermetici, la Kristofcon il trauma della sua Ungheria nel 1956. Epoche
in cui un gesto letterario poteva avere senso, dentro un pubblico e ancor più
una classe dirigente sensibile alle
arti. Solo in quel caso l’antiletterarietà è una decisione etica ed
estetica, una decisione esistenziale
comunque un gesto poetico, letterario,
quello di rivolgersi alla comunità:
voi che ascoltate in rime sparse il suono, sempre lo stesso gesto, è il gesto di Dante e Petrarca che, perfetti
cittadini della lingua latina usata nella cultura contemporanea che loro due
pure frequentavano con pienezza, decisero di scrivere in volgare
(6) Cesare Viviani,
cit, p 12
(7) Da questo punto di vista, più vicino all’esperienza di
Kristof tra i giovani poeti allora è Julian Zhara ( ne ho parlato qui http://libri.mariodesantis.net/2018/07/odio-la-poesia-lirica-sette-punti-sulla.html che invece da straniero è stato divoratore di
poesia italiana e nei suoi versi il corpo a corpo con la materia stilistica di
una tradizione italiana si sente tutto – oppure più vicina ad alcuni poeti
giovani italiani di seconda generazione
(Zhara , Vera deve morire, Interlinea)
(8) Cultural Studies
(9) da “La
poesia delle donne” (..) una donna che scrive poesie e sa di/ essere donna,
non può che tenersi attaccata/ stretta ai contenuti perché la sofisticazione/
delle forme è una cosa che riguarda il potere” in Poesia degli anni settanta, a
cura di Antonio Porta, Feltrinelli