domenica 30 settembre 2018

ANTONIO SCURATI "M" (Bompiani) - (pre recensione)

quando ho letto nel romanzo "M" il nuovo libro di Antonio Scurati (Bompiani) questo passo scritto da Mussolini nel 1919, non ho potuto non pensare a Domenico Modugno, che nel 1958, 40 anni dopo, da del suo volare l'Inno d'Italia il canto che accompagna la composizione di una comunità che vuole spiccare il volo, che vuole espandersi, che ha fame di generare la propria vita il proprio destino.
Così promise Mussolini, anche se con questa prosa ipertrofica, ma sapiente, e solo pensando a questo, immagino come abbia fatto nel profondo a spostare l’attenzione crescente delle masse italiane (anche se non plebiscitaria certo) dal salario (tema centrale del biennio rosso del dopo guerra) all’identità, ad una sorta di "agonismo utopico".
Al sogno, si diciamolo, che c’è nel Volo di Mussolini come ci fu in “Volare “ di Modugno.
Modugno canta, è il popolo che canta, non ha bisogno di proclamarlo, allarga le braccia come aveva fatto in qualche modo Pio XII a San Lorenzo, colpito dalle macerie dei bombardamenti aveva allargato le braccia aveva guardato in alto, verso dio e il cielo di bombe.
Quello del papa doveva essere un segno di fede in Dio, Modugno canterà poi la pace e la fede di tutti in loro stessi, della comunità di un paese che ora cresceva, nuovo. Mussolini promise la fede in Lui medesimo come Dux.
E sempre più gente in tutta Italia come in piazza Venezia, allargarono le braccia , sognando di volare. In tutti, sempre un gesto, da palco, come quello di Fabio Bonetti che non a caso alal fine del periodo d’oro del paese gli anni 80, scelse “Volo” come cognome..
Sono a pagina 120 del nuovo libro di Scurati. E questa non può essere una recensione.Ma al momento mi pare molto bello e considerando che la prosa va come un treno, non credo rallenterà – inoltre impianto, struttura, stile mi paiono azzeccati, necessari, soprattuto il corpo a corpo tra la prosa di uno scrittore di oggi e la scrittura di migliaia e migliaia di documenti speso giornalistici e letterari soprattutto quelli di questa prima fase dal 1919, anno da cui prende avvio il racconto di M.
Scurati ha saputo “ridare voce” a questi testi, una interesante operazione (sia metacritica che metaletteraria) e che sta appena dietro la novità più eclatante: tentare per la prima volta un romanzo con Mussolini come protagonista (ma di fatto è un romanzo corale, diciamo che M è il corpo centrale, alla lettera.)

Mi sembrano queste la novità e la bellezza stilistica di questo libro che si legge facilmente nonostante la mole di 800 circa.
Ci sono molti punti, illuminazioni storiche dentro questo racconto di Mussolini e del fascismo da dentro, che allungano le ombre in avanti e lo sguardo all’indietro, nel tempo, nella storia.
Il passo del volo è significativo del cuore vitale del romanzo e del propulsore della storia di "M".
, Volare è l'ardimento e la prova di superamento dei propri limiti, tanto mitica e al tempo stesso modernissima. Era nella poesia dei futuristi, D'Annunzio di Fiume e Mussolini, il primo capo di stato a guidare il proprio aereo. (Geniale la scelta e ottimamente raccontata dell’arrivo ad un’assemblea del fascio con la tuta sporca da pilota e l’inizio del discorso “sono appena atterrato..”
Questo fu Mussolini e chiunque vinse dopo (l’Italia di Volare, collettivamente) – e vince ora – ovvero la propulsione delle proprio ingresso nella storia quasi come un volo. E questo libro “M” di Scurati In qualche modo ci restituisce.
Marx diceva che la violenza è la levatrice della storia e Freud in qualche modo né mise a punto una teoria generale di scontro di pulsioni, in noi come nella storia della civiltà.
Ecco, a differenza di tante analisi storiografiche o - oggi - politiche, la letteratura coglie con le sue armi fuse a una dettagliatissima documentazione storica (che fa si che tutto quel che viene detto e narrato sia tratto da documenti anche se poi rifuso nello svolgimento diegetico) un elemento chiave di come funziona la Storia. Almeno questa.
Scurati non si inchioda, anche se antifascista, alla riflessione né storica né tanto meno ideologica, è il battitore libero da scrittore del cuore segreto del Fascismo, della sua esplosione e contagio rapido, fino agli osanna degli anni 30.
Ecco la cultura di sinistra ha saputo riconoscere questa forza solo dopo negli studi o nella letteratura nel cinema, ma mai DURANTE ma quando c’era da battere la carne e fottere la Storia. E nel guardarsi fottere la Storia medesima.
Sarà sfracello, ma per lo meno si muove. Vola. Mussolini fa, anche se non sa. All’inizio non lo sa dire a parole e questo Mussolini, figlio del secolo anche in questo, figlio mallevado culturalmente e non solo da un'amante, l'ennesima, dalla grande giornalista e scrittrice Margherita Sarfatti, che fa da levatrice delle sue doti, lui, con questa capacità di essere figlio e al tempo stesso avere l'intelligenza emotiva, pre-linguistica generare, di fecondare e fottere la storia, di sapere che fare storia è essere questo marciatore che va tanto veloce quanto i cambiamenti, che entra nell'esistenza collettiva, ma come pure Modugno biologicamente, con il fgesto con il corpo, prima del boom, col sorriso di Volare, lo sguardo al cielo, finalmente che si guarda Blu dipinto di blu e senza bombardieri.
il fascismo stato più rapido più veloce della sinistra. Una lezione per oggi.
Antonio Scurati anche fa un gesto più veloce del suo ragionare, almeno lo ha fatto: ha deciso di fare come Tolstoj, che conobbe Anna Karenina – un personaggio ispirato a un fatto vero “mentre la scrivevo” disse il grande romanziere russo.
E Scurati ci chiama a liberare no nsolo il giudizio, ma anche la lettura, il passo della prosodia, l’aggregarsi dei significati, dei documenti, delle narrazioni, con più velocità di quanto possiamo pensare come lettori (ma perché mi devo leggere 800 pagine su mussolini?) Perché è la storia di un uomo che ha imparato a scrivere la storia facendola. Mussolini, ma in qualche modo pure Scurati.

GAJA LOMBARDI CENCIARELLI "La nuda verità" (marsilio)


 Ho letto sulla Stampa Tuttolibri la recensione dell'ultimo libro di Gaja Lombardi Cenciarelli “La nuda verità” ( Marsilio). Titolo della recensione di @Alessandra Lattanzi (ma ovviamente titolo non suo, come si capisce leggendola): “L'affascinante traditore rapisce il cuore alla dottoressa colpevole di mala umanità”.
Che per certi aspetti è un titolo melò. Per altri un incrocio tra il titolo di Cronaca Vera e un film anni 70 con la Fenech. Intendo il suo andamento prosodico, la volontà di concentrare nel solo nucleo e per forza da soap brasiliana.
Ora è curioso che il direttore del medesimo Tuttolibri, Bruno Ventavoli abbia lanciato in contemporanea l’appello agli editori “Pubblicate meno”.
Io lancio l’appello ai titolisti dei cartacei : titolate meglio.

Già nei giorni del post-campiello i titoli “Vincono le donne nell’era del #metoo” s’era posto il problema dei titolisti italiani . non solo per la cultura.


(Digressione ) Credo dipenda dall’erronea strategia anti-agonia, anti-calo di vendite: la strategia del sensazionalismo e della sintesi semplicistica. In un paese che legge poco, con una zona grigia di distratti e confusi, imbozzolata in un rullo compressore d’ipertrofia verbale, grafomania da social, commentarium rizomatico che al confronto i tomi della patristica teologica medioevale je fanno un baffo per quantità, in tutto ciò, fa più danni un lettore che memorizza e sparge quel che capisce leggendo solo il titolo semplicistico, che un non-lettore-assoluto di giornali fatti così. Almeno questo ultimo fa danno di suo. L’altro fa danno indotto da uno che dovrebbe spiegare cose complesse in poco spazio, non abbassare sempre il livello. Tanto i giornali non si vendono lo stesso e quell’ipotetico lettore-televisivo non è intercettato. Ai cercatori di semplicismo, lo abbiamo visto in questi dieci anni di “colonne di destra” - la ggente è annata a destra, anche con le tante cazzate delle “colonne di destra” che avrebbero dovuto (nelle intenzioni di direttori nel panico e soprattutto di uomini del marketing incompetenti) catturare il lettore basico. Chi è basico non lo compra il giornale, per ora, ci arriverà speriamo ma con altra strategia. Magari la stessa che hanno adottato nel cibo e nel vino: attizzare che la “qualità” è cool. Chissà (fine digressione )

Nel frattempo però sia chiara una cosa, al titolista di Tuttolibri: che se uno arriva sul Tuttolibri della stampa non è un lettore di Cronaca Vera (sì, certo anche siamo tutti figli del grande Tommaso Labranca e sappiamo come apprezzare il trash, ma è cosa diversa). E che può succedere? Che se non si consce Gaja Lombardi Cenciarelli autrice e non si ha tempo di leggere la recensione, l’idea che resta al lettore informato e lettore forte che frequenta il TTL: è un romanzo melodrammatico.C'è il rischio. In my Humble Opinion. Magari sono io il vizioso che legge così le cose.

Questa lunga tiritera, per dire che la sintesi della trama di un romanzo non è il romanzo, certamente non nel caso de “La nuda verità”.
Quello che mi è piaciuto del libro di Gaja è che i personaggi sono indigesti e lo restano, fino alla fine. Che malgrado un ’evoluzione romanzesca, una trama e una sottotraccia, un colpo di scena a metà e uno alla fine, moralmente, interiormente, quando chiudi il libro non c’è ricomposizione. Questo fa la differenza tra una trama riassunta da un titolo che si svolge come allude il titolo e i romanzi in cui chi li scrive è scrittore, ha esperienza dlla materia, conoscenza di scritture in proprio e di scritture altrui come la consolidata e ottima traduttrice dall’inglese che è Gaja Lombardi Cenciarelli medesima.
Il romanzo è duro, per questo che un buon romanzo. Io ho questa perversione. Se non altera il mio equilibrio, la scrittura non mi dice nulla. Qui invece Lombardi Cenciarelli lavora e cesella la materia psicologica e il mito.

Prende per le budella il lettore, o meglio lo fa prendere dal suo personaggio, Donatella Mugghiani. Oncologa di alto livello professionale, ma persona labirintica, vie contorte interiori protette da alte mura di scorza d’animo tagliente.
Ai suoi pazienti prospetta sempre il peggio, non consola, non dà speranze. Meglio non illuderli, ma questa è la “nuda verità” di questa malattia bastarda che è il cancro, che vuole combattenti bastardi.

LA dottoressa Mugghiani - scrive Lattanzi nella recensione - “salva le vite umane ma ferisce le anime dei malati”. A suo modo, è una strategia di lotta imposta dal dominio un male subdolo: perché non ci si pensa, qui, con i tumori, non c’è un percorso chiaro delle altre malattie, in cui la differenza la fa la bravura del medico che in teoria sa come deve curare. Qui in teoria,alla fino, non si sa un cazzo. la cura finale e definitiva non c’è. Come la vita, alla fine c’è sempre la morte. LE malattie umane al 98% sono redente. il cancro no. inoltre, puoi fare tutti gli accertamenti che vuoi, ma “finché non apri” dice la Mugghiani al suo collega che la rimprovera dell’asperità di carattere “non sappiamo niente”. Quindi meglio prepararsi alla battaglia.

Non ci si pensa mai, ma ci ho pensato leggendo questo romanzo: che travaglio interiore si porta dietro questo medico che è l’oncologo, che deve affrontare continuamente una malattia di cui non sa il perché, sa il come, certo sa tante cose, ma non si capacita di come le cellule poi degenerino ancora.
LA “verità” della malattia ha il Male come segreto.

Se in più, come nel caso della Mugghiani, c’è una storia personale di ferite, di abbandoni familiari irrisolti che la bambina Donatella ha riversato nella solida luminare della medicina, stimata da tutti, allora vai a guardare in parallelo un altro "come", il Come agisce la penetrazione della seduzione di Stefano nei confronti di Donatella,e la capitolazione di una donna chiusa in una sua solitudine ben temperata da giornate sempre uguali e però: anche se leggi tutto Freud non ne capirai mai il segreto.

Perché mi viene un parallelo: La nuda verità dell’Eros è come la verità del Tumore, per certi aspetti.
So che è una dura, nuda affermazione, questa. Vi farà reagire male, come le diagnosi della Mugghiani, ma è così. Come dice Alberto Sordi/Nado Mericoni allo spettatore del varietà: “hai ventun anni è ora che tu sappia di chi sei figlio”. Lo dico a voi, siete grandi, lo dovreste sapere che malattia della morte è l’amore.

Ed è su questo doppio binario che si muove il romanzo di cui possiamo ora svolgere un po’ la trama: la dottoressa Mugghiani che subito cogliamo nel suo dialogo con la nipote di una paziente, la signora Capriati - che sarà un ganglo della storia - tagliare con l’accetta ogni illusione e speranza in modo busco, irriverente, tagliente, la seguiamo poi nella scena chiave, sempre ad inizio romanzo, alla festa dove conosce il fascinoso del titolo di TUTTO Libri, Stefano, verso il quale si piega con insospettata debolezza.
Certo Stefano è bello in modo pazzesco, è colto e brillante, ricco, ma pian piano diventa subito arrogante, saccente, sa bene di essere eroticamente irresistibile e decide di fare il dio greco imprevedibile, con machismo e narcisismo che covano sotto la patina d’eleganza.
Stefano finirà anche per sedurre la segretaria della Mugghiani Francesca, approfittando anche qui di altre fragilità. C’qualcosa di misterioso in lui. E si capirà meglio, c'è un sottofondo, un dietro le quinte della storia.

Ma certo quello che conta oltre il romanZesco che lascio al lettore, è il cuore misterioso della fragilità dell ‘Eros. Diciamo dell’unica fragilità possibile, quella dell’Eros che riguarda maschi e femmine.
Ma non è un romanzo sull’amore, ma più sull’ineluttabile. Che per ceti aspetti coincide con l’eros, se guardiamo al fondo del mito che ci trasciniamo dentro.

Il mistero malato dell’Eros.
Stefano è irritante, la Mugghiani incomprensibilmente debole. Come un eroe tragico, levavo la testa al cielo e dicevo: ma perché, cazzo? Se volete, anche con invocazione da titolista da rivista patinata: “ma perché ci s’innamora della persona sbagliata?”. Anche se è lì davanti l’errore.

Domanda semplice che non ha risposte semplici, che forse non l’ha, se non l’infinta risposta di una civiltà che ha impiegato duemila anni per costruire il mito dell’Amore e ora è solo all’inizio della lotta contro questo mostro, divoratore, che è l'eros della seduzione come conquista, come rapporto di forza, ammantanto di "romanticismo" a volte. Solo da poco e solo grazie all'omeopatia di un'altra letteratura, di un "altro" punto divista, potremo fore invertire l'onda.

Per ora dell'Eros, Ne sappiamo il “come” ma non riesce a individuare il momento esatto, la “cellula pazza” che poi scatena la metastasi di una passione, che può essere devastante.
Come lo sarà per Donatella, facendo crollare anche la sua fortezza professionale, anche se poi nella pazzia, c’è sempre una cellula-specchio che è più pazza della pazzia e quella sarà, nel finale, che non vi svelo, determnate a lasciarci a bocca aperta.

In ogni caso, questo è un romanzo che non ricompone e che non dà fiducia nella possibilità di arrivare alla nuda verità - la verità vi prego, sull’amore - no, la nuda verità è che il nostro vivere è un meraviglioso precipizio, anche quando va verso la gioia della vita della nascita è sempre un precipitare. Questo è del resto l’amore, torre costruita dalla poesia dei maschi per gettarsi giù, nel vuoto.
E preferire che a gettarsi siano più femmine - è notoria la storia di Goethe che si innamorò, ma fece suicidare solo il suo personaggio dopo la delusione, non lui che continuò ad amoreggiare tranquillo.

Ogni volta che amiamo noi, che non siamo Goethe ma dei pirla-Werther, è a questo vuoto che tendiamo, che si ripresenta in armonia con altri vuoti antichi ed interiori. E anche se lo sappiamo, non c’è nulla da fare.

A tutti noi è capitato, nonostante tutti libri letti da Cavalanti a Freud a Recalcati, passando per Galimberti, di crollare allo stesso modo. E’ tutta la vita che crolliamo. Caschiamo. Rimando con Amo. Cadendo e cadendo, ancora. E leggiamo, per esempio Beckett:

Di nuovo dicendo / se non mi insegni non imparerò / di nuovo dicendo anche per le ultime /volte c'è un'ultima volta/ ultime volte di mendicare / ultime volte di amare / di sapere di non sapere di fingere /un'ultima anche per le ultime volte di dire / se non mi ami non sarò amato / se non ti amo non amerò /il battiburro di parole stantie di nuovo nel cuore / amore amore amore tonfo del vecchio pistone /che pesta l'inalterabile / siero di parole // di nuovo atterrito / di non amare / di amare e non te / di essere amato e non da te / di sapere di non sapere di fingere // fingere/ io e tutti gli altri che ti ameranno / se ti amano //a meno che ti amino.

Ecco, dice Gaja,dicendolo nel corpo agente, in potenza, di Donatella, potenza e fuoco dell’agire narrato, ecco che, nonostante tutto questo che sappiamo, cadendo, cadiamo. “Ancora”.

STEFANO PIEDIMONTE L'uomo senza profilo (Solferino)

Stefano Piedimonte ha scritto un nuovo libro. Divertente e intelligente. Si intitola "L'uomo senza profilo" Dico libro, perché l'oggetto ancora è parte di quella oscillazione di "genere" di cui parla Stefano stesso in un suo post di oggi, raccontanto del suo primo (e grande, confermo) editore, che gli disse "il libro mi piace, dobbiamo ancora capire come venderlo e di che genere è.

Di sicuro è un genere contemporaneo, è la narrazione che si fa e si deve fare oggi. E' un romanzo, ha i meccanismi della finzione, parla di sé e anche di qualcosa che non è "sè" (il suo profilo wikipedia) parla della realtà. Gioca con la biografia. Ponte una questione seria, con leggerezza. LA legerezza di Walser e di Palazzeschi col suo Perelà.
(ovvio il rmando ironico al tipo di romanzo oposto proprio già all'epoca a quello walseriano, ovvero "L'uomo senza qualità" di Musil. Oggi la qualità è il nostro profilo facebook?)

Di certo questo romanzo non è - come ha scritto un critico che Stefano cita e ringrazia - una deriva dell'autofiction.
Certamente racconta di sé, in prima persona, del suo percorso milanese, del suo trasferimento da Napoli, del giornalismo che non fa più e della scrittura che fa (ma questo è anche un reportage autobiografico, nella misura in cui il new journalism aggiunse ai fatti le impressioni e le analogie soggettive ma su cosa che ci riguardano TUTTI) racontadei suoi amici (noi) racconta delle cassiere dei supermercati e della notte.
E racconta del fatto - è il cuore narrativo e divertente del libro - che un giorno uno studente universitario iniza scrivere la voce "wikipedia" per conto di Piedimonte (che Wikipedia invece non aveva autorizzato a fare: cioò l'essere vivente Piedimonte non poteva scrivere la voce su sé stesso, e capite già che vertifine di semiotica? si può dire semiotica su facebook=)
solo che questa "voce" che la nozione di "eciclopedia" vorrebbe fosse "oggettiva" invece si rivela essere un disastro, una trappola di finzione, con cose esagerate e false, per cui questo è anche un pamplhet di verità, e Piedimonte - si fa per dire - è stato costretto a scrivere un "romanzo" per dire le cose vere, più di quanto siano vere le cose dell'encicolpedia (on line, la deriva dell'on line? parliamone).
Chi siamo noi? noi stessi? o il nostro profilo facebook? o - per chI ce l'ha - la nsotra voce wikipedia? Il narcisimo a tempi dei social, l'anonimato ai tempi dei social, la vita ai tempi dei social. Tutte cose che "l'autofiction" non poeva sapere perché l'autofiction è vecchia, è alla deriva per sé stessa, spiazzata dalla autoficion collettiva dei tanti "io-minimi" di massa dei social.
Certo Stefano è noto, realtivamente come tutti gli scrittori - c'è sempre quello più noto, fino a Omero che è l'unico che non ha uno più noto di lui - e qui parla di Wikipedia, ma il cuore del problema è centrato.
Narrativamente, L’autofiction è messa in crisi esattamente dal punto che Stefano punge (“romanzo pungente” te lo hanno detto? Però anche “romanzo puntatore” che potrebbe essere una prima puntata) ovvero, mi spiego:
l’autofiction aveva senso nel momento in cui “l’autore” si faceva “personaggio” ma seppure si chiamava mettiamo: "walter siti, come tutti”.
Ovvero, era come noi, ma lo leggevamo proprio perché era Walter Siti e non me o Mario Rossi o Gennaro Esposito. Che sono/siamo “nessuno”.
Ma il romanzo di Siti che inizia così è del 2006. E non c'era Facebook.
Lui (Walter) era “uno “ e noi “centomila” anonimi e andava bene, eravamo interessati all "uno". Certo si parlava di TV e reality, l'uomo-massa era nella scatola-media, ma non era ancora "social".
Ma adesso che i "centomila" vogliono tutti essere “qualcuno” - e lo sono, perché c è Facebook è tutti abbiamo un “profilo” - all autore “uno” conviene essere “nessuno” - ma pure come i “centomila” nessuno esiste, perché la sua/nostra/mia/di tutti vita non esiste, se non per quella online (invce se non narrata nel talismano dei fogli del nonno, leggete il libro di Stefano e capirete) e per pochissimi intimi. Op er nostro padre e madre e nonno..
non esistiamo, perché esiste solo il nostro “profilo”.
E il libro/romanzo/reportage/autodafé di Stefano tocca questi punti, un po' pirandelliani, un po sociali, un po' personali.
E nel caso specifico proprio perché Stefano gode di una certa fama, si ritrova con la voce scritta da altri - con dentro “invenzioni “ romanzesche e buffe - con una disavventura comica che dà ritmo al libro, e in questo caso è fa da contrappunto ai suoi ricordi del passato familiare (la vera storia) e il suo quotidiano (il "vero” e proprio e per questo anche con understatement, “non romanzesco” quasi "come tutti" - benché scoprirete anche un non comune Stefano - ma lo scoprirete leggendo il romanzo e non la voce Wikipedia.
PS a testimonianza che il profilo non dice sempre il vero, sotto la foto di Stefano c'è scritto "Rizzoli" ma il romanzo lo pubblica "@Solferino" - mai fidarsi della rete.
PPS ogni autore tiene al suo libro libro come il figlio da proteggere,ma sono sicuro che sempre lungo la linea del NON, Stefano sta lavorando ancora a un romanzo che rinnovi il suo percorso, di cui questo è un ottima Prima puntata pilota (Romanzo pilota").

CORRADO BENIGNI "Tempo riflesso" (Interlinea)



Corrado Benigni a me pare un kafkiano che crede in Dio.
Il suo sguardo sul “nulla che frugherà nei tuoi giorni” rimanda alla tradizione di quel 900  dell’angoscia e dello smarrimento senza centro che è del secolo alle spalle,  ma ne indica con nettezza un secondo tempo, un tempo specchio, qui, nel nostro, che forse mai sarà secolo, con una seconda mente, come in una sorta di “bicameralità” dell’esistente.

E verso questo tempo più vero, c’è una fiducia nel poter cogliere una via metafisica,  che ricollega la poetica di Benigni invece ad un novecento alto e solenne. Il libro già dal titolo    (“ Tempo riflesso”, Interlinea edizioni, 2018) colloca il qui-e-ora come pelle di una dimensione sotterranea, dentro una definizione dell’architettura cosmica che grazie al dettato limpido, pulito, si profila con i contorni ben delineati e conseguentemente con un’assertiva certezza.

 Benigni prosegue in qualche modo il lavoro che aveva fatto con il primo libro (“Tribunale della mente”, 2012)  in cui tutta la costruzione simbolica era legata alla materia che il poeta maneggia quotidianamente, la legge, ed era un libro intessuto di lessico e sintassi giuridica che costruiva un tentativo di allegoria del processo di conoscenza dell'uomo nei confronti della realtà, della vita attraverso il gidizio dello strumento linguistico.
 Tutto è regolato attraverso il giudizio che noi possiamo dare delle cose, quindi il poeta partecipa – secondo la tradizione lirica -  con la sua ricerca verbale, di costruzione formale,  a questo processo estetico ma anche epistemologico.
Con questo nuovo libro c’è però un passo diverso, forse ulteriore, ma certo il giudizio kantiano è fuori da questo discorso, già dalla dichiarazione dell’ incipit: “Sospendete per un attimo il giudizio, leggete/ tra le righe di questo sonno”. Il poeta ci indica un diverso punto di visione (ed è un’attività extra-vigile, il sonno) dentro cui recuperare un testo e una diversa logica. Non è onirismo, né ci sono cedimenti a surrealismi, anzi per certi aspetti – lo vedremo poi – Benigni soffoca la figuralità, la autonomia del linguaggio e del significante, e pone solide basi del dettato dentro una versificazione che ha il suo piedistallo in un ragionare.

Vorrei soffermarmi su questo libro perché Benigni è uno dei più apprezzati poeti delle generazioni ultime e - come in altra poesia che si sta scrivendo ora, proprio quella presente in volumi di recente uscita di poeti giovani e più maturi - nei testi di Benigni ci sono versi dal forte connotato di riflessione, con un’accentuata densità del fraseggio meditativo, certo frutto di un pensiero e di una visione che penso di poter definire filosofica che, in questo “Tempo riflesso”, forse in certi momenti schiaccia la poesia sotto il concetto, a differenza del “Tribunale della mente” a mio avviso più equilibrato. Ma è interessante. Sono versi limpidi, precisi, fortemente assertivi in certi casi.

 Se da un lato la legge, come il linguaggio, il logos, è una struttura che mette ordine al mondo, il poeta in epoca moderna invece ha il compito di individuare i punti di rottura. Benigni lo fa ribaltando dall’oggi, una tradizione. Diciamolo in grana grossa, laddove per Montale oltre la rottura della maglia della rete, per indicare un’icona lirica classica, resta un’opacità, un indecidibile del senso, un vuoto, una non-certezza di possibilità altra, per Benigni questa possibilità esiste, è netta.
            Domani tutto sarà cancellato.
            Ma la strada è una lingua che ci vede
            E sotto la terra un bosco – immobile -aspetta di nascere.

Benigni appunta le sue riflessioni in versi su un segreto tenersi al di à delle apparenze riflesse in cui siamo immersi (“Tutto è legato a tutto, meccanismi di un’unica eternità.”) un tutto cosmico che andrebbe rivelato, indicando con nettezza una dimensione ulteriore . LA poesia di Benigni ha fede.  E’ questo che urge.
C'è fiducia che arrivino segnali, lingue, parole, simboli che possono aiutarci a comprendere questa ulteriorità:

         non smettere di essere fedele
         al disegno delle radici sull’asfalto,
         alla legge non scritta del ritorno.

Insomma dove Kafka pone il suo uomo di campagna davanti alla legge, una porta da cui tuttavia resterà escluso per sempre, consegnandoci con la sua parabola un’angoscia che si è sovrapposta nel ‘900 all’angoscia ulteriore della Storia, con il suo assurdo negativo quasi ne fosse una profezia, Benigni si dice certo che tra le “pieghe del nulla” ci sia un disegno di radici e di una redenzione.
Se dovessi collocare questa poetica, la metterei all’ombra di Mario Luzi o di Yves Bonnefoy.
Corrado Benigni fa decisamente quella che in altri tempi (quando si leggeva l’arte e la letteratura dentro un disegno progressivo idealista o marxista che fosse) si sarebbe chiamata una svolta reazionaria ma può essere anche letta come rivoluzionaria, al tempo stesso – perché esiste anche una possibilità di raggiungere quel compito di scartare dalla norma con una svolta decisa verso un ordine metafisico a cui nessuno più crede, diventando l’inaudito – e così riporta la poesia ad indicare una trama delle cose (“tutto si muove in un’unica sintassi”).
Certo se reazionario è tornare a un punto del pensiero indietro nella storia dal punto di vista cronologico, la rete di pensieri che Benigni tesse usa poi snodi simbolici, concettuali e lessicali che al passato si legano, di ascendenza simbolista - e sono le parti del libro che mi convincono meno - quando in “Tempo riflesso” indica l’esistenza di un “alfabeto perduto” qualcosa che sta “sotto lo spessore delle voci” dove c'è un senso cosmico e trascendente della realtà (più avanti Benigni scrive di una “trascendenza tangibile nell’infinita interiorità di un filo d’erba”) che rimanda all’idea storica post-Baudelairiana delle corrispondenze dei simboli.
 Questa fiducia in una lingua che si rivelerà dietro la nostra non è tuttavia altrettanto fiduciosa nei confronti dello strumento della parola poetica. Anche questo un classico, ma interessante se letto nel solco di una perdita di fiducia nella forma poetica, nel mirino per la sua artificialità.
La distanza da ogni idea alta di poesia è nel gesto linguistico, nella prosciugata figuralità di questo libro.  Benigni è poeta accorto e consapevole, si tratta immagino di una scelta, che ci dice molto di un tensione della poesia contemporanea al “dopo la poesia” “al “verso la prosa” o addirittura la “prosa in rosa” su cui meditare in altra sede più ampiamente ** . Benigni usa un verso libero, senza nessuna evidente predilezione metrica, senza nessuna orchestrazione sonora  del dettato  e dei significanti  (nei simbolisti invece la musica del verso era invece elemento di rivelazione essenziale) fino ad arrivare alla sezione “Dall’invisibile” fatta di brevi prose.  E’ più la fiducia nell’allegoria del tutto, che risponde a un libro della natura, che non la ricerca di uno stile e una voce. Col suo dettato chiaro e ragionato, Benigni scrive:

Tutto lascia una scia di scrittura.
Tutto si muove in un’unica sintassi. (…)
nessuna direzione è tracciata,
eppure qualcuno per noi
volta le pagine di un libro
dove ogni azione è segnata.
Ma a quale appello rispondono
Le cose che non riesco a nominare?
Nulla è promesso, nulla è sottratto
E la strada è muta.
Lo dicono queste pietre
Che abitano il presente prima di noi. 


C’è difficoltà di nominazione, ma esiste una “scrittura” altra, la sua scia sono le pietre, non il segno. Noi siamo dentro una tessitura trascendente di frammenti che “dicono di noi quello che ancora non sappiamo” p. 16) .
 È un’arcaicità dell’universo, delle galassie – o una geologia preistorica ( temi simili ma in modo assai diverso, non dentro questo quadro di riferimenti trascendenti, sono stati affrontati da un poeta   come Bruno Galluccio, che riconduce la sua ricerca ad una più raffinata e ponderata visione del cosmo che gli deriva dalle competenze di astrofisico, e Aliberti, con quel rimandare ad una preistoria precedente)

La foresta segreta che Benigni indica come esistente non traspare e non appartiene al linguaggio, tanto meno quello letterario, ma direttamente alle “pietre” (dunque il suo indicarlo in un libro letterario, di scrittura e di carta  è una didascalia, un riflesso di un altro vero libro della natura ).
Una poesia in cui torna prepotente quello che Gianluigi Simonetti nel suo “La letteratura circostante” analizzando le correnti della poesia italiana degli ultimi decenni ne individua una che definisce “il mito delle origini”:

L’inizio è di fronte a noi
Che a ritroso andiamo verso il tempo.
Siamo i passi di una distanza da ricolmare

E – a proposito della parola Benigni  aggiunge nella stessa poesia, in chiusura : “ Ora la parola ci legge e nella forma delle pietre/ è scritta l’evidenza, la fiamma dove tornare”). Noi “non possiamo parlare in nome della verità/ma possiamo dire il vero, custodire una voce”. Il fine ultimo è in questo incubare una dimensione intima e mistica, cuore segreto dietro le cose. Il tempo procede ma “come una lente rovesciata/ il passato ci mette a fuoco” . L’origine è sia spaziale che temporale. Ecco, se è scritta con evidenzia che non ammette appelli o ambivalenze, in tono apoftegmico, la nostra teleologia, o il destino, è altrettanto evidente che Benigni, scegliendo l’opzione di una scrittura asciutta e piana, e collocandola dentro questo universo concettuale, la riduce ad una condizione ancillare del vero, mentre a mio avviso il vero (sia esso fatto di tante verità, o anche di una lucida assenza di possibilità) è sempre nella scrittura, non nella voce (personalmente sono con Derrida, nel dubitare di  possibilità di far risuonare dentro di noi una phoné originaria) altrimenti la scrittura di ogni sua autonomia - e non è più ciò che distingue la poesia.  
Trovo simbolico a proposito di ancillarità, , che l’ultima sezione del libro sia un dialogo cieco con delle fotografie che nel libro non ci sono.  E una sezione interessante, ma anche qui l’essenziale della sua fenomenologia è comunque quella di un testo è al servizio di un oggetto, un testo celibe o un arto senza il suo corpo. Le Poesie  della sezione del libro “Apparenze” sono scritte in riferimento a fotografie di grandi artisti dell’immagine  – Giacomelli, Salgado - che tipograficamente non sono riprodotte (solo citate in nota). Questo ne fa didascalie cieche, mette la scrittura nell’ al-di-qua di un’invisibile che tuttavia esiste e mi sembra di poterle leggere come metafisiche.

Una scelta che non so classificare se di forza o di ammissione di debolezza del testo poetico, che dovrebbe essere immaginifico di suo, contenere le immagini, cosa Che Benigni non sceglie di fare, intanto a partire da quel basso tasso figurale che si diceva e poi - simbolicamente - alludendo a una vera immagine (e non a caso andava sotto questa definizione la disputa teologica sulla vera immagine di Cristo che ha impegnato i teologi medievali) . Benigni porta i testi verso una prosodia lineare, quasi con denotazione nominale, che però vorrebbe indicare un tempo pieno dietro il tempo riflesso. Un vero pronto a rivelarsi ma senza porre nel linguaggio, nella materia della lingua la forma di questa rivelazione.
 Siamo all’opposto del senso dentro una materia linguistica. Troppo è prepotente l’idea che il senso sia altrove. La scelta mette tuttavia - per altre ragioni certo, non per mancanza di una visione - anche Benigni nell’alveo dei poeti che cercano di recuperare la comunicabilità come elemento centrale in una sfida difficile e disperata nel panorama dell’intrattenimento *** contemporaneo. Ma qui la scelta è dentro un quadro di scelte modellate sulla weltanshaung del poeta.
Corrado Benigni in realtà si attesta, pur elaborando una visione complessa e meditata del destino che si oppone al tragico e al liquido, angosciante, scorrere  inafferrabile del magma del presente,  con linguaggio preciso:  ancora una volta, facile a dirsi,  come un avvocato, un uomo di legge che deve definire una sentenza. ****

Per Benigni esiste una “meridiana” (e una “trama delle parole” , p. 12) da seguire, una rivelazione che arriva dentro una “scintilla”, significativa la ripresa del termine della teologia aristotelica. Anche un materialista come Bejamin, vedeva nelle macerie del passato illuminazioni profane con tratti esoterici. Benigni è più dentro una collocazione latina e cattolica: vede una “ scintilla “ di un tempo parallelo o l’ombra di una  sorta di caverna platonica, dal cui fondo far attingere la coscienza, una diversa “perfezione”  che emerga dal caos che ci tocca vivere, dal “nulla” citato all’inizio.
 Il tempo è un procedere che tuttavia accumula distanza, l'inizio di questo tempo è - dice il poeta -  di fronte a noi, il compito è camminare, colmare la distanza, uscire dal linguaggio Il linguaggio sembra essere una valvola, una sistole/diastole tra il nulla e il qui;  la posizione etica e cosmica di Benigni, dicendosi certa dell’aldilà - o meglio di nu oltre l’apparente -   finisce per essere che è proprio la poesia. Dopo la lirica, per BEningni non è una lirica del dopo, ma è un oltre, in un certo senso. Scrivere  è solo una dimensione, invece “il movimento del tempo” “raccoglie tutto di me/ briciole, frammenti, tracce/ parole restate in voci altrui/vita che mi sopravvive” (p.26)  e così, l’invito è al silenzio e a ricongiungersi ad una “fiamma” che ha anche nel sostantivo un evidente ( e forse troppo ovvio) richiamo al divino,  perché - verso chiave -   “ in un atomo tutto è già scritto prima di noi “. Insomma, ci sta dicendo che dentro la materia è una forza divina qualcosa che sta  prima. Se Benigni è un Kafkiano che crede in Dio, possiamo anche dire che è un antibeckettiano che crede davvero e senza ironia in Godot (in una prosa su un frammento di Beckett scrive “viviamo per un mandato – sconosciuto, come le radici che ci nominano nel sonno”. Godot non arriva, ma ci dà un mandato?(p.40) .

 Tutta questa trama sotterranea di radici ci visita nella mente, noi inconsapevoli. Potrebbe essere dio, l’inconscio collettivo di Jung o un sapere mistico, orientale, non è dato sapere, non ci interessa qui affibbiare a Benigni un preciso credo, anzi è suo merito tenere viva la tensione del pensiero senza cedere del tutto ad una dottrina. Ci interessa la dinamica esplicitamente metafisica di Benigni. E se è vero che in un’altra breve prosa cita Houellebeq, altro reazionario-rivoluzionario antistoricista e le sue “particelle elementari”(p 41)  a sua volta desunte dalla fisica, ecco che questa cecità della conoscenza invece “rende tutto più visibile” per Benigni e quel “qualcosa” che pare esserci nelle particelle elementari della  polvere (è un immagine Lucreziana de “”La natura delle cose”) nascosto nell’invisibile, esiste. Anzi, con il  tono perentorio di un testo che da estetico si fa etico: “sta a noi, mappe nel vento che nessuna mano trattiene, trovare l’assetto”. Il compito è un dovere: trovare l’ordine delle cose e del tempo. ****



note


**  Questa decisione è davvero importante, e forse è la vera questione di cui discutere, al di là delle singole voi e singole poetiche. Ho l’impressione che la pluralità delle voci poetiche sia diventata tale e distintiva in singolarità, da rendere impossibile per molti poter condividere un proprio codice intimo. Difficile inoltre poterlo poi – da poeti – collocare in una dimensione di senso generale, in un sapere condiviso, con la possibilità e disponibilità di chi ci legge a penetrare la foresta dei simboli del singolo poeta (un solo esempio, immaginiamo il percorso di una poetessa come Amelia Rosselli oggi, il suo inciampare nella lingua che diventa tema del lapsus. Sarebbe difficile – a meno di appartenere ad una ristretta cerchia di amici sperimentatori –- vedi i Gamm -  poter avere attenzione, interpretazione, uditorio.
*** uso la parola che è stata usata con irrisolta ambiguità nel tradurre i libro di Balchot L’entretien infini, che si dovrebbe tradurre con quel termine desueto che è il “trattenimento” ovvero un consesso di una piccola comunità che discute e conversa, usa le parole per dialogare sul senso delle cose, e seguendo questa traccia anche la letteratura è “trattenimento” o intrattenimento, ma la parola è stata sottratta dall’entertainment anglosassone della società dello spettacolo.
**** E’ anche vero che la stessa fisica sperimentale  che  maneggia l'estremo e il tempo,  maneggia la realtà non visibile in quanto realtà che però interprete in un'altra maniera:  Carlo Rovelli nel “l'ordine del tempo”  spiega con parole chiare che è vero che c'è qualcosa da addirittura di ulteriore rispetto all’atomo, come scrive Benigni, (nel voler dire l’infinitesimale della realtà, usa un elemento vecchio ormai, di un secolo, a cui un poeta non aggiornato si ferma, rivelando il limite di cultura scientifica della nostra cultura umanistica) a dice Rovelli
**** Da questo punto di vista se Luzi è un ascissa della concezione metafisica del fare poesia, Valerio Magrelli è l’ordinata che nel panorama della poesia contemporanea che ha recuperato proprio il pensiero – anche se Magrelli è un poeta che vive e accetta il mondo, sta per partito preso con le cose  potremmo dirlo con parafrasi di Ponge. In ogni caso forse Benigni guarda al Magrelli di Ora serrata retinae, se questo “Tempo riflesso” va inteso come da incipit come un’analoga serrata degli occhi, dentro un sonno che vede oltre).

venerdì 7 settembre 2018

DA KRISTOF A VIVINETTO, EQUIVOCI DELLA SEMPLICITA' IN POESIA (ma non facciamone un "caso")

C'è un libro recente di Agota Kristof , un libro di poesie titolato “Chiodi”, pubblicato dalla casa editrice Svizzera Casagrande,  che sta riscuotendo un buon successo tra il pur ristretto numero di lettori della poesia in Italia, lettori spesso scriventi, come è noto.
Kristof è certo una delle autrici più importanti del 900, amata di un amore dolente quanto le cose che scrive,  conosciuta soprattutto per la sua “Trilogia della città di K.” .
in “Chiodi” si raccolgono poesie scritte  nell’arco di alcuni anni dopo il trasferimento di Agota in Svizzera, la gran parte in ungherese, quelle dell’ultima sezione,  in francese.
E’ ovviamente un libro tradotto – da Vera Gheno (ungherese)  e dal poeta Fabio Pusterla (francese) – e vorrei poggiare il discorso proprio considerando questo testo in traduzione “anche” un testo di poesia “in italiano”.
Perché questo sbilanciamento sulla traduzione?


Primo. La traduzione non è un dettaglio secondario, anzi, un elemento fondamentale per capire meglio la poetica e starei per dire la vita stessa di Agota Kristof per il passaggio di confine tra le due lingue nella sua storia letteraria e per il mutamento e il taglio tra due vite, due epoche, due mondi.

Secondo. La traduzione. Meglio: l’italiano della traduzione,  ci dice anche qualcosa della poesia italiana contemporanea, specie quella di ultima generazione. Una poesia in cui è sempre più prevalente (lo si registra soprattutto dagli esordienti e ma è una tendenza presente anche tra i poeti sotto i 40 anni ), la scelta di quello che chiamerei   “stile semplice”

 (la definizione è di Enrico Testa, dal titolo di un suo libro sulla prosa e che è stato ripreso a sua vlta da Raffaella Scarpa per introdurre la sezione della antologia "Parola Plurale " e che porta il titolo de suo saggio "Gli stili semplici" i cui si identificano stilemi e  un'area di autori come Claudio Damiani, Umberto Fiori, Vivian LAmarque, Stefano Dal Bianco, Mario BEnedetti (quello di Umana Gloria, ma al momento del saggio di Parla Plurale, Benedetti non aveva ancora pubblicato il suo capolavoro certo molto più rivoluzionario sul piano dello stile che è stato "Pitture nere su carta")  Gian MArio Villalta, Silvia Bre e il primo MAgrelli. La mia definizioe di stile semplice  aggiornata al 2018 è che si sta passando in troppi casi, dal semplice al "semplicistico",
Il 900 della lirica tra Ungaretti e Sereni, che arriva fino a De Angelis o Benedetti e oltre lo potremmo chiamare “stile alto” della lirica del 900 (per rubare un titolo anche qui, potremmo dire: il “Grande Novecento” della lirica, come da volume di saggi di Antonio Girardi).

(Si tratta come sempre di formule di orientamento, non di definizione esasutiva, tantomeno per i singoli autori. Spero nell'indulgenza di chi legge un post lungo sul web , scritto a memoria, non un saggio a cui si lavora per mesi.)

E allora:
Lo stile semplice è a basso tasso di figuralità, letterarietà, polifonia linguistica, complessità sintattico-formale, ecc – e ogni traduzione di poeta straniero finisce per essere, in modo inevitabile e incolpevole, depotenziata e appunto semplificata. Naturalmente quando l’invenzione di figure, quando la complessità dei temi è rilevante un grande poeta afferma la sua forza anche in traduzione. Certo la lingua perde la sua tramatura fonetica, uno degli elementi forti di uno stile poetico. Il caso più evidente è W. Szymborska, una poetessa dalla fittissima musicalità, per chi come chi ha avuto anche solo la possibilità di sentirla leggere, persa nella pur buona traduzione di Marchesani, riducendo i suoi teti ad una pur vivace aneddotica, sorta di parabole ironiche, costruzione di immagini, che restano ma non sono certo il linguaggio della poesia. 


La poetessa polacca è uno dei simboli di ciò che vorrei discutere più avanti.
Ovvero che accade, credo, spesso che certi autori diventino canone ma nella lingua della traduzione, diventano cioè koinè della prosodia poetica italiana, dello stile, delle  soluzioni formali adottate, insomma la poesia, anche la grande poesia, straniera sta influenzando in traduzione non poco gli scriventi italiani. (1)
Quello che vorrei tentare è di mettere in connessione le due cose, con un tentativo di sintesi finale. Ovvero che l’equivoco di un rifiuto della “retorica letteraria” sia preso a pretesto come un modello per non interessarsi affatto della letterarietà della poesia, il che vuol dire che lo stile semplice è di fatto uno stile semplicistico.
Ripartiamo da Kristof.

CHIODI, KRISTOF

1.    La poesia non ha confini?


“Chiodi” appare dunque (lo spiega in scritti e interviste la stessa AK) poesia già per scelta, asciugata da retorica letteraria. Di forte impatto tematico, è una poesia che si presenta in versi liberi, costruendo per immagini un paesaggio dell’anima, partendo da quello fisico.  Ovviamente lo è ancora di più scarna, con l’effetto  della traduzione italiana, ma non solo per questo.
 Questo svuotamento del letterario è stato un percorso di sofferenza e scelta non facile per l’autrice, ma ben definita. Corrispondeva ad un’esperienza di spersonalizzazione, disappartenenza, spaesamento biografico esistenziale che molto dice ancora dell’Europa di oggi. Kristof, nel 1956 lascia l’Ungheria e a ventun anni approda per caso nella svizzera francese. Lascia a casa le sue vecchie poesie e la letteratura nella sua lingua, salvo leggere qualche raro libro in ungherese nella biblioteca di Neuchâtel . Continuerà ad usare la sua lingua, per scrivere, i primi anni in grande solitudine,  prima di passare al francese. “fu la mia lotta per conquistare questa lingua” scrive in “L’Analfabeta” scritto negli anni duemila.
In un intervista disse anche : “smisi di scrivere poesie in ungherese, non potevo sopportare la loro artificiosità, mi suonavano false”. Il francese era in quel momento una scelta del suo oggi, del presente, della finitudine estrema, priva di illusioni. Si potrebbero accostare le paarole di  Walter Benjamin: “non posso che pronunciarmi sempre a favore della mia epoca”. E’ una scelta di lotta e di coraggio, di realismo.  Il francese è questo per Ristof, è la lingua che lei pratica da zero come “analfabeta” quale era AK, in quanto profuga politica,  che approda in una terra straniera, e pure quella di chi ricomincia a “Vivere”. Non è un caso che la prima dell'ultimo gruppo di poesie di questo libro si  chiama proprio “ Vivere” ed è la prima in francese ( e ci sono tutti verbi all'infinito “amare educare vivere, baciare, fare ecc” , insomma  quasi un gioco da bambini nell’elenco di verbi). Ecco che i “chiodi” nella poesia omonima sono quindi sì a chiudere  le porte a mettere le grate, da un lato,  ma anche forse le parole che ci inchiodano a questo nuovo “fortino del dolore”, come lo definisce Pusterla nella postfazione,  dentro cui in qualche modo la identità (è una condizione del poeta, ma anche un invito per noi, in ogni tempo) è questo che c'è , accentando ciò che sono i dintorni, lo spazio che abitiamo, l’ intermedio di un paesaggio freddo, non accogliente, senza vie da cui si è venuti, senza direzioni dove andare. Allora ecco che i chiodi/francese/svizzera sono un doloroso radicamento necessario, un inchiodarsi ad un destino, quello degli umani che ora le sono intorno e in cui si trova gettata: “ così si edificano gli anni così si edifica / la morte” è la chiusa della poesia che dà il titolo al libro.  Potremmo dire: leopardiano, il guardare senza illusioni, in faccia la mortalità dell’esser nati. O con Beckett (autore  così affine)  “non posso continuare, continuerò”.
 Così fece Kristof, attraversando confini di lingue, spazi innevati e vuoto mortali, nell’intermedio nulla che come una neve,  pare anche la carta e il testo.

2.   La poesia può nascere da un grado zero, come da analfabeti?

“Parlo il francese da trent’anni - scrive Kristof nel 2004 ancora in “L’analfabeta” -  lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo conosco (..) per questo lo definisco una lingua nemica”. Il paradosso è che con il francese riesce lasciare quell’artificiosità retorica che la infastidiva dello scrivere nella sua lingua, e conquistare quella poetica aspra arida baluginante di forza lucida che l’ha poi distinta negli anni.
Per lei sarà fuori questione dover conservare una lingua salvata dal passato, per usare la metafora del bulgaro Elias Canetti (approdato anche lui in Svizzera, ma madrelingua tedesco, quella della sua minoranza, quindi favorito), sia sul piano tematico che su quello linguistico. La nuova lingua nemica, e dura,  non sarà un tentativo di traduzione dell’ungherese, né ne  cercherà la bellezza di Racine o Valery, O Baudelaire o Mallarmé per citare i canoni, né tenterà di replicare “il poetico” della sua lingua che ha in mente.
Restare aggrappati nel mare del vuoto al francese, al suo grezzo e materico francese da principiante, come un legno, naufragando e su questo inchiodare un dolore muto di esperienza dello sradicamento, di desolazione, di transizione personale ma che riguarda tutti – e a maggior ragione, tutti noi, oggi:  “vengono uomini dietro di loro non c’è nulla” e   “le città lentamente strangolano i loro/ gracili giardini”.
E  qui vive l’Io del/la poeta, sofferente in un “corpo gonfio” che passa attraverso una via crucis della migrazione, in cui i chiodi fanno da simbolo segreto di un tempo in cui però dio non c’è, il senso di abbandono – come in Beckett – è totale.
 Lontana dalla sua comunità, Kristof dirà l’assenza di comunità che è oggi di  tutti, che ci fa simili al suo essere rifugiata nel nulla, un limbo doloroso e sgomento :
“Qui le persone sono così felici / che nemmeno amano / sono realizzate non hanno bisogno / l’uno dell’altro nemmeno di dio / la mattina si siedono davanti alle loro case inondate di luce / e fino a sera aspettano la morte”.

Operaia nella fabbrica di orologi, Kristof trasferita a Neuchatel dal centro profughi, impara le parole del nuovo luogo in cui vive, ma scrive poesie:  “le macchine hanno un ritmo regolare che scandisce i versi” e di questa durezza è fatto il testo Kristof parla di un  “deserto” che deve attraversare per l’integrazione, schiacciata tra ricordi sempre  più evanescenti e il nulla della non appartenenza, che sta dietro il paesaggio di una svizzera metaforizzata a orizzonte di un secolo votato ad una infelicità senza desideri. Le parole scarne, con dentro la musica d’angoscia della catena di montaggio sanno dirlo:
Non piangevo solo temevo le vertigini
Nel vuoto che ti lasci dietro
Non c’è niente a cui posso aggrapparmi
Neanche la tua mano sarà qui domani.


 L'intreccio con la biografia stavolta è importante per il testo. La dislocazione del sé, la vertigine della perdita sono vita, letteratura, e ad un certo punto scelta stilistica. (2). Agota Kristof aveva sentito la presenza di una lingua nemica già durante la guerra, col tedesco e nella zona vicina al confine dove si trasferì da bambina, il 20% dei locali lo parlava, era una linguamadre, seppur ungheresi.

Quando è poi in Svizzera la lingua nemica è il francese, non scelto ma capitato per caso e la impara dalle compagne operaie, una parola per volta.. Ma sarà poi – adottandolo pe scrivere -  una scelta  non un tradimento, una  costruzione seconda, nuova: guardare in faccia la realtà, ciò che è perduto non merita la falsità retorica della nostalgia “da qualche parte io ho/ fratelli che vivono irreali come i morti”. Non si torna indietro, lo strappo è ferita, ma non c’è lamento. E’ questa ultima la lingua che Kristof sceglierà, perché insopprimibile è l’ esigenza a dire da parte del poeta,  decidere per il   “qui e ora”.

3. Non più verso l’origine, ma verso la riva più sicura

  Ad un giornalista che le chiedeva “verso quale riva nuoterebbe se la sua barca colasse a picco tra due rive, l’Ungheria e la Svizzera? “   rispondeva infastidita ma concreta “Verso la riva più vicina naturalmente”.
Verso il porto più sicuro, diremmo con metafora non peregrina, oggi.
Kristof non è il tipo da mettere avanti la letteratura a tutto (“nessuna libro è triste quanto la vita” dirà) ma compie dei gesti etici e politici da poeta: sceglie la comunità dove è gettata, la Svizzera. Non un mito dell’origine, passata, della memoria e del sangue, ma una  cittadinanza di suolo del presente dell’approdo.
Ci sono attese, treni lontani che non si fermano, in fuga, ma è il qui a cui s’inchioda la coscienza coraggiosa del io poetico: “da dove sono partita non importa” scrive in un verso e sotto un altro: “nemmeno pena mi è arrivata più da te solo silenzio”.  Né redenzione, né nostalgia, il lucido nulla che ci è davanti è il nostro mondo, la nostra terra. Quel che ci tocca è questo.
Da qui guardare avanti:
“Fratelli/ non vi ha amato nessuno ma domani / metterete piede sui raggi / della luna / i vostri occhi si abbelliranno laverete via macchie di sangue / dalle vostre mani dalle vostre labbra / attorno a voi cresceranno gli alberi / si placherà anche la notte e il vento porterà / cenere tiepida sulle vostre terre sterili”. Kristof tra il solipsismo letterario e la comunicazione, sceglie col francese tuttavia una comunità e dunque un pubblico. Non precipita nel pozzo. Ci tocca condividere un destino e un deserto comune.

fin qui la Kristof, col suo francese. Scelta coerente col suo impegno esistenziale.

Nell’analogia della traduzione, del taglio col passato, dell’assenza di letterarietà, ora ci rivolgiamo alla ricezione italiana di questo libro, al successo condiviso sui social network dei suoi testi. Una poesia facile di fatto, comprensibile dal punti di vista linguistico, con qualche immagine di ellissi allusiva, ma con uno stile diretti.

4. Verso la riva opposta alla letteratura

Questo  volume piace molto per questo, sue poesie vengono condivise. E’ autrice molto amata, dicevamo, i lettori di “Chiodi” sono certo anche i lettori della “Trilogia” e di ”Ieri”, ma non tutti. Libri come questo si affermano a mio avviso, per il dettato semplice che è più affine al dettato di base di uno scrivente poesia media di oggi, ma per ragioni opposte.
Il rifiuto della letterarietà in AK è consapevole, il taglio con la sua tradizione e la sua patria è dolore, nella poesia italiana diventa un “si può fare a meno di leggere Montale e Zanzotto” fatemelo dire brutalmente.
La scarnificazione della lingua fatta da Kristof è presa a pretesto per una  pratica di letteratura antiletteraria (ma poi cambierò definizione)  che sta dominando le scelte poetiche, di chi esordisce in poesia negli ultimi anni.  Una scrittura  fatta di essenzialità che va a modellarsi  non su/contro /a fianco di  forme, stili, poetiche attinti al passato recente o meno. (nella linea della lirica, tra Eugenio Montale e Mario Benedetti, per dire). La poesia di traduzione (vertice : Szymborska) o certi numi tutelari italiani (Merini) diventano un neo-canone linguistico privilegiato di uno stile semplice e svuotato..


PARTE SECONDA

IL CANONE POETICO DELLO STILE SEMPLICE (E L’INFLUENZA DELLE TRADUZIONI)

Azzardo un’ipotesi: che esista  un “ipertesto-letterario acefalo”, che trova nell’italiano mediato della traduzione di poeti stranieri il suo modello principale per i poeti più giovani, che non possiedono più  – ma per scelta o forse no -  un’origine, o quanto meno uno sguardo attraverso il patrimonio di una tradizione.

(lo dico in parentesi, ma è questione complessa: da qualche anno si rimprovera alla narrativa di avere uno stile "medio" - ma appunto invece lo "stile semplice" di Testa non era necessariamente negativo, avvicinare la lingua letteraria al parlato è stata per tanto tempo una virtù - e una necessità anche politica, da Dante a Manzoni. Poi fi una scelta stilistica ancora politica con la "mimesis" della realtà contadina e urbana del dopoguerra. MA qui in ogni caso sta accadendo con la poesia quello che già è stato riproverato alla narrativa, forse non a caso propro in virtù di un postivo riavvicinamento di lettori, seppur con percentuali basse) alla "poesia" se intendiamo con questa un componimento di versi. La questione la teniamo sullo sfondo)


5. Antiletterario o a-letterario ?

E’ necessario fare un quadro generale. Nella poesia italiana contemporanea esistono due tipi di anti-letterarietà, quella a posteriori, consapevole e avversa alla tradizione del lirico – specie del gergo – come lo chiamò con felice sintesi Sanguineti -  poetese - da superare,  una poesia che sperimenta fuori dal letterario e che va oggi anche verso la prosa da posizioni di ricerca sulla “prosa in prosa” ecc. una avversione alla facile retorica, o in generale al già-scritto come tale, in letteratura,  che prende le mosse dall’esempio storico della neo-avanguardia e approda fino a le ricerche di GAMM, a Bortolotti, Zafarano, Policastro e altri (Franca Mancinelli ad esempio e Guido Mazzoni, autori diversi e di diversa caratura) e guarda ora più ad esperienze europee e non solo, con un’anti-letterarietà che ovviamente presuppone molta ricerca, molta discussione teorica, riferimenti alla filosofia, scienza e ad altri saperi. Un’anti-letterarietà complessa.

 Qui interessa però l’altro filone di poesia contemporanea, quella che oggi è approdata ad uno “stile semplice” ovvero la liofilizzazione della complessità letteraria, un manierismo della via più leggera e classica della poesia (generatori di nerudismi automatici a volte) quella che ha sempre fatto della resa alla lingua comune, della leggibilità un punto di forza. Ci sono stati tanti modi di sottrarsi. Quello di Saba, dai cascami dannunziani a quelli dell’ideologia, quello di Giudici, di parte della scuola lombarda che arriva fino a Umberto Fiori (ma Sereni e Raboni eli collocherei nella lirica) quella fi Fortini, un gigante a aprte.

un elemento in comune è la sottrazione di figuralità, verso il narrativo, ma sempre in un fraseggio metrico tonale,  con un linguaggio tendente alla denotazione, da cui però, in questo teatro del reale, l’io sembra almeno messo in disparte o di-messo. In ogni caso - sto procedendo tra incompleti accenni storici - era pur sempre una poesia che si muoveva dentro una dialettica di scrittura che presupponeva un’idea della stessa, di tipo letterario, oltre che consapevole del suo presente storico.


Quella  che ha prevalso nel presente italiano è però solo un sottoprodotto di questo filone del “semplice”. Ha in Berardinelli e Patrizia Cavalli due pilastri della perplessità verso “la grande poesia”: poesie che non cambiano il mondo (Cavalli dixit, con un titolo epocale) addirittura un odio – a mio parere, frustrato e da ex poeta piuttosto fallimentare - di Berardinelli che ha allevato una schiera di altri poeti non rilevantissimi o apaprtati in questa nicchia-contro, come Febbraro o Marchesini (ottimo critico, preparato, polemista, diverso il risultato in poesia, a mio avviso) ai quali, però, tramite un patto di scuola e fedeltà ha creato i presupposti per una certa posizione dentro l’editoria e i media (ad esempio il Sole 24 ore Domenicale) creando presupposti di koinè.
. In questi ultimi il gran rifiuto – espresso sul piano polemico – nasce dall’interpretazione della letterarietà contemporanea come “maniera” di una grande letteratura che non si ripeterà e i “manieristi” però sarebbero collusi col potere editoriale e politico (non a caso è “Il Foglio” il giornale che li ospita di più.
In ogni caso se qui la motivazione è “politica” essi sono – parlando da pulpiti giornalistici (essi pure collusi ,Confindustria, Forza Italia con l’editore senatore Pera) – degli “influencer” per le autoproduzioni dal basso.
Su questo versante il Canone che potremmo “ Patrizia Cavalli” o “Valentino Zeichen” è quello che si sta affermando, entrambi dentro una sopravvalutazione critica, nata in ambiente romano, con due motivazioni: la prima la dominanza dell’area geoculturale (Pasolini, Moravia, Siciliano) l’altra geo-storico-letteraria (un riferimento al “classico” inteso proprio come riproposizione in uno stile di approssimata aura rotonda, lo fece anche Sandro Penna, ma in altre epoche quando il rifiuto della retorica era una scelta di fatto stilistiche di rifondazione della retorica medesima – esempio che prosegue un poeta come Claudio Damiani).

Diverso il caso di una matrice della poesia a canone comunicativo che ha avuto nel potere di Antonio Riccardi, e del suo maestro Maurizio Cucchi a capo della collana più importante della poesia contemporanea (Lo Specchio Mondadori) su cui non mi soffermo, ora con dirigenze mutate.


Mi interessa dire che queste premesse sono state lo sdoganamento ( non diretto, ma in qualche modo il cappello entro cui è avventuo) per la giustificazione anche critica di un affermarsi dello “stile semplice” dovuto certo all’affermarsi della società di massa e dell’istruzione di massa e in tempi recenti alla condivisione orizzontale dei testi che rivendica la “disintermediazione” critica (chi li critica è snob, è vecchio,fa parte della kasta ecce cc).

Su tutti- anzi prima di tutti e da sola - sta invece per molti poeti di oggi l’esempio “pop”  di Alda Merini soprattutto nella  sua rifrazione col pubblico, la Merini del Costanzo Show, offrendo l’idea che lo Zeitgeist fosse quello: una spontaneità del dire, una sentimentalità accorata, una presunzione di verità, pur nel modo dolce e gentile di un’anima ferita, creando un vero repertorio ideologico e poi formale nei suoi versi (si può misurare l’inciampo, perché prima o poi alcuni di poeti e specie poetesse scrivono una poesia dall’incipit  “sono nata il”)
La gran parte di questi componimenti sono – come del resto tanti della stessa Merini che disperse quel mezzo talento che aveva che ancora compare nelle prime raccolte -  spesso sciatti, semplici, ma dove ciò che conta è la fede nella poesia - non nel testo, ma di nuovo in un grumo crociano di intuizione e destino d’anima eletta.
L’eredità è stata presa da questo punto di vista – sul piano della popolarità - da Mariangela Gualtieri - con gli ultimi due libri, che sono distantissimi dalla ricchezza di forme e riferimenti di un bellissimo volume – e spettacolo di Teatro della Valdoca di cui è cofondatrice -  “Fuoco centrale” - e da Chandra Livia Candiani, che imita in peggio la ultima Gualtieri.
 
Intendiamoci, ci sono - come Patrizia Cavalli e come diversamente u un grandissimo poeta come Valerio Magrelli che ritagliò un continente dove non c’era, tra le neoavanguardie e la parola innamorata nei primi anni ’80 - poeti che fanno della sottrazione alle retoriche dominanti (neovanguarida e parola innamorata all’epoca)  una scelta precisa. 

Decidono di percorrere una poesia che cerca la complessità in una lingua ce si misura con l’impegno quasi etico della leggibilità, pur consapevoli di esempi altri, per un ‘adesione ad un ‘esigenza umana, anche se non confessionale, in cui si reputa centrale cogliere l’essenzialità, magari in qualche caso temendo le complessità come un contenitore intellettuale che blocca la poesia. Eredi di questa storia sono poeti che non vorrei confondere col mio discorso, gli ultimi di ua storia, tra i giovani (ma non più così giovanissimi) come Gianni Montieri, Luca Vaglio Isabella Leardini , giovanissimo ma precoce Giorgio Ghiotti, e altri,  in loro vedo la scelta di una linea italiana, Giudici-Penna-Magrelli-Cavalli (che non sono una linea, ovviamente ma devo semplificare)

 
La Rete


Ce ne sono altri che hanno però bisogno di maturazione e di attraversare il già-scritto per rendere le scelte poetiche consapevoli, se ne sente la fragilità e che tuttavia mi sembra stiano prendendo il sopravvento, se non altro in termini di presenza editoriale grazie all'età più giovane e alla normale pratica diffusione pre.editoriale nelal rete dei social.
Uno in particolare è un esempio anche virtuoso di impresa dal basso, seppur tra piccolissimi editori,  ben capaci di creare comunicazione e rete, come "Interno Poesia"   di Andrea Cati che è un progetto che si muove su due assi ed è forse il fenomeno più significativo della poesia contemporanea, proprio per questa novità (su cui ho qualche dubbio di tenuta della colana,  ma che pure va pensata con altre categorie critiche, come cerco di dire negli ultmi paragrafi più avanti)


I due assi sono quell verticale della tradizione non in senso retrivo, tradizione  non significa andare per forza ai poeti morti del 900, ma anche ai vivi del 2018: sifgnifica che un poeta come Tommaso di Dio o Francesca Serragnoli o Corrado Benigni per fare solo qualche nome (questo è un articolo pieno di assenza per rapidità) apaprtengono a questo lungo corso della poesia, se letti nella densità e compattezza e anche novità di stlemi, di scrittura oltre che ampiezza di riflessione. Appartengono alla storia storia che altri critici chiamano del "stile alto" della poesia del 900.


L'altro asse è quello orizzontale del (consenso  diretto del) pubblico per cui il libro assume valore a partire dal riconsocimento del pubblico diretto, che la rete rede oggi possibile. C è un problema di cambiamento del funzionamento della ricezione e la rete è uno dei principali elementi di questo cambio di canone della qualità  - se il valore si  debba misurare sul testo, secondo una lettura dell'eredità del "secolo della forma" come è stato il 900, quindi se letto stando al "testo in sé", letto da chi ha competenze o se si nega la critica letteraria  come non più necessaria (è bello ciò che piace a molti). 

In questo senso il orgetto "Interno POesia" ha un grande valore per la propensione didattica e di stimolo verso un genere negletto, mostra un limite, quando raccoglie alcuni libri a partire dalla possibilità di distrubuzione dopo il successo in rete o perché piacciono a una fetta di persone che li pubblica grazie al crowdfundig, quindi dal basso  -  ed è qui che ci  sono autori collocati dentro questa area primaria dello “stile semplice”, che a vote di venta un po' troppo semplice.


6.    La trappola del trap (trapoetry?)

Guardiamo cosa accade nella musica di oggi: il Trap, di Achille Lauro, di Young Signorino, per esempio o la fabbrica di hit-pop- di Takagi e Ketra, arrangiatori che esplicitamente si dicono  (in un ‘intervista si esprimono così) portatori di una musica "dalla strada"  diretta semplice e di fruibilità, che è contro "la borghesia" della musica (sic) dove metterebbero anche Tiziano Ferro, non solo De Gregori. (3)     Accade sempre: spostiamoci a New York negli anni 50,  basti guardare la polemica (ad altissimo livello però qui) che ci fu nel dopoguerra tra il compositore newyorkese Morton Feldman (e del sodale John Cage) e la scuola di Darmstad, Schoenberg, ecc oppure l’avversione totale di Francis Bacon verso Mark Rothko – amico e sodale di Feldman non a caso.

Oh Francesco Sole mio


Ad un livello più basso, accade anche in poesia: Guido Catalano, Gio Evan, Francesco Sole ecc. il loro successo, il pubblico che fruisce, ecc. Ciò che viene inteso come poesia da un pubblico che non ha tutti gli strumenti strutturali per leggere la complessità, per provare piacere di fronte alla complessità, eleggono quei testi facili-facili (gradino sotto anche lo “stile semplice” quasi cabaret o direttamente music-spoken-word  o "cantautorato-parlato" ), ma è legittimo e normale accada, diventa anche impossibile darne un giudizio negativo, se si riesce a ragionare sulla "versificazione" (meglio dire così) come di un arcipelago. Essite una ragnatela  di rimandi che ci permettono di classificare certi oggetti come "poetici",  ma per "poesia" si intende la produzione di testi che rispondono ad un principio: hanno una ricca stratificazione di rimandi formali e di significati non banali.

Per questo se è vero che uno "stile semplice" in narrativa è anche portatore di buona o ottima qualità letteraria, in poesia, il luogo del laboratorio del  linguaggio che con scelte stilistiche, linguistiche atipiche cerca una sua propria verità, è più difficile che uno stile davvero semplice possa essere un vero testo di poesia - può essere un discorso semplice con righe spezzate e a/capo ancicipati sulla pagina.)

Credo sia importante tnere in mente due cose:

La prima: forse più utile più utile ragionare ormai per più filoni e aree parallele, inutile fare la lotta di conquista egemone di tutto il territorio cercando di individurare una tendenza o più d'una della poesia contemporaea: come in tutte le arti le tendenzesono infinite.
La seconda: ci vuole una decisione, bisogna ricorrere alle categorie critica dell'asse Contini-Mazzoni per alcuni filoni, pera altri è necesaria una premessa estetica: la categoria di ciò che è "valore" deve essere fatta se la teoria estetica che la sorregge è una "estetica delle ricezione". Ci potrebbero aiutare i “cultural studies” di stampo amercano-gramsciano, usati per la musica, ma ci torniamo dopo.


 FabioVolo, esempio classicissimo:  da autore l’ho senttito io personalmente avere parole  risentite perché i suoi romanzi venivano collocati in libreria (venivano, ora non più) nella “Varia” non in “Narrativa” e perché non è mai stato recensito come romanziere al pari di altri,e magari stroncato come altri,  ma sempre intervistato come “fenomeno” – al di là del bene o del male. Sempre fuori dall’ambito “recensioni letterarie”.
 Mi verrebbe da dire che ha ragione – è il difetto dello snobismo intellettuale che esiste – ma pure dire: rassegnati Fabio, non scalpitare cercando il “titolo nobiliare” – ora la ghigliottina del popolo vince, la kasta è battuta i giornali e la critica letteraria muoiono, relegati a quattro gatti, ora è il quarto stato dominante (“la gente”), e rassegnamoci anche noi lettori e scriventi di letteratura legata al “Grande Novecento” d’essere nobiltà decapitata (Patrizia Cavalli e compresa, se paragonata a Francesco Sole, ovvio) e ce ne stiamo nel nostro castello sgarrupato, dove ogni tanto come i nobili decaduti a Montecarlo o Capri, fanno notizia per il gossip (la Capri della nobiltà letteraria decaduta è “lo Strega” dove tra l'altro col nuovo meccanismo qualcuno potrebbe anche presentare Fabio Volo).


(nella storia letteraria e editoriale ci sono alcuni casi clamorosi di opposizione tra la critica letteraria e i libri di successo - come era successo  col cinema e con i film neorealisti o con Totò -  e certaemnte sono stati espressione di una visione ideologica e a tratti snobistici, si vedano le forti critiche a Elsa Morante per "La Storia", a Susanna Tamaro per "Va' dove ti porta il cuore" e - più simile al nostro discorso - la decisione di Einaudi di pubblicare "Le foriche nel loro piccolo si incazzano" di Gino e Michele)

Forse ne usciremo da quel castello del 900, a furor di popolo e di populismo letterario?. forse, intanto però in tanti vorrebbero entrarci, per avere una certificazione critica da parte di medesimi rappresentati della stessa critica letteraria  che se non parla bene del libro è vecchia o morta, se ne parla bene la si porta come medaglia (è il caso recente di una poetessa di cui mi occupo sotto)

Ci sono poeti inconsapevoli, impreparati – ma pure altri consapevoli ma furbi -  che hanno iniziato a suonare il motivetto da “hit”: che palle questa poesia difficile, che palle il poetese, che segue il calssico di tutte le estati  "i critici sono snob e autoreferenziali" ecc   che diventa in poeti più giovani e ai primi passi, una indifferenza al confronto con poeti e poesia della tradizione recente e meno recente.
Soprattutto indifferenza verso cosa possa essere stato “prendere una decisione stilistica” per un poeta, per quanto non sempre con apriori di riflessione, ma certo una consapevolezza evidente nel testo. Se oggi è necessaria un'estetica della ricezione per capire fenomeni pop e dare loro un valore estetico, tutto è leggibile dentro una prospettiva storica, di contrapposizioni delle poetiche.
 Giudici verso gli ermetici, Cavalli verso la poesia impegnata, Magrelli verso quella innamorata e la neoavanguardia,  ecc.



Quello che viene fuori troppo spesso è invece una poesia che piega all’’atonalità intesa come non essersi posti per niente il problema dello stile, non un ‘uscita dalla letterarietà, perché non vi si è mai entrati a pieno.
Il non avere uno stile riconoscibile se non quello leggibile e “semplice” è anche determinato dal fatto che - calando le contrapposizioni di critici e tra poetiche, ormai come in ambito musicale, salvo l’eterna lotta degli “anti-lirici” - si è dato ormai un panorama in cui la pluralità è diventata un assioma della  più avvertita critica (Parola Plurale, mega-antologia curata  da Andrea Cortellessa, alla  fine finiva per essere un’auspicata e forse indotta implosione di tutte le particolarità, le individualità).
Sotto l’ombrello del “uscire da ogni stile e gergo alto, da retoriche”, si sono riparati in troppi che, come in politica, addossano la corruzione del vecchio, hanno preteso un panorama poetico in cui “uno vale uno”, in cui tutti hanno diritto di esprimersi (Castelporziano, la folla, il pubblico) senza produrre una competenza, né mostrare una ricerca di alcun tipo, ma producendo medaglioni e occasioni di testi, un ‘esperienza di scrittura diretta e liofilizzata, caratterizzata non da un’ opposizione alla tradizione, ma da appunto dalla sua assenza totale (a questo punto definibile come ideologica).

una poesia  “A-letteraria”, è la poesia di chi scrive e pubblica negli ultimi anni, fatta di bassa risoluzione, di mera  "cronaca del sé" (definizione della poetesa e critica Maria Borio) in cui prevvale un espressivismo come valore, non uno Stile".
Quello in cui si esprime  questa fregola espressiva è dato spontaneamente, spesso senza aver letto, spesso, o in ogni caso non meditato bene, studiato,  molti autori contemporanei, non necessariamente il Canone 900. I viveti De Angelis, Cucchi, Viviani, Frabotta, Anrdda, Magrelli, come quelli maturati in questi  “Anni Zero” (come da antologia).

Si produce una poesia "Spontanea", bastata fondamentalmente su concentrati d’aforismi che vanno a capo, senza metrica. In  certi casi è veritiero quel che è considerato un insulto: baci perugina che vanno a capo.   
(4)


7. Il "caso" Vivinetto

L'uso della parola "caso" è solo perché come tale è stato rilanciato, ed è metro per il contesto letterario non solo per il testo.
Ho letto da facebook che era in corso una polemica attorno ad un libro come “Dolore minimo” di Giovanna Vivinetto. Simone Burratti nel recensirla su “ La Balena Bianca” ne aveva evidenziato i molti limiti del testo ( rilevando giustamente come fosse troppo sbilanciato sulla tematica - la transizione sessuale -  a cui corrisponde però uno stile appunto semplice e appiattito sull’andare a capo di versi liberi senza una particolare originalità né linguistica né metrica, anzi con eredità di una retorica talvolta addirittura paludata ed ermetista, letterariamente parlando, per non dire di ieratiche definizioni delle cose, apodittiche e assolute, ad esempio  su cosa sia “il femminile” e “il maschile” che denotano – pur dentro un’esperienza dolorosa e difficile del transito – una concezione vecchio stile dei ruoli e delle identità dei due gender ceh se le avesse scritte un maschio sarebbe stato tacciato di maschilismo).

 Tralascio qui la soap-opera social di reazioni talebane che sono seguite, delll'autrice e dei suoi fan, che su facebook si sono scagliati contro un legittimo esercizio della critica, un ricorrente  ghigliottinamento delle presunte elites da parte dei nuovi arrivati, al grido (testuale)"  la critica è morta e non ha strumenti per capire la mia poesia". (Vivinetto emblema della "poesia del cambiamento"?) salvo poi vantarsi di recensioni positive di altri critici di quotidiani nazionali.

Burratti – e qui ci interessa di più questo dato che il giudizio sul singolo poeta -  colloca questo libro dentro un generale tendenza della poesia ultima italiana a una “ svalutazione pressoché totale della forma”  - scrive Burratti – “dove per forma non intendo solo lo stile, ma l’intero sistema di esplorazione e rinnovamento linguistico in grado di produrre significati nuovi, in favore del mero contenuto”  col rischio che “ la poesia italiana, nell’epoca di questa millantata nuova primavera, finisca con l’incancrenirsi in una koinè patinata, sciatta, addirittura normativa, lontana anni-luce da quell'”oltranza oltraggio” che ha reso Zanzotto un caposaldo del Novecento” (qui in nota
(5)  il link alla recensione ) recensione).
non mi esercito criticamente su questo libro, condivido ciò che ne è stato scritto.
Mi interessa ciò che ha generato.

Se è comprensibile che per spirito militante una poesia così sbilanciata sull’esperienza personale, rispettabile e coraggiosa, possa essere accolta con favore da poeti come Franco Buffoni o scrittrici come Dacia Maraini, attivi nelle battaglie sui diritti civili da sempre, oltre che sul piano letterario,  è meno comprensibile  il parere favorevole – se pure espresso a quensto sembra in lettera privata poi resa pubblica, piccola scorrettezza – di un poeta come Cesare Viviani, che scrive, nel suo ultimo “La poesia è finita. Diamoci pace, a meno che..” (Melangolo) come “le disgrazie della vita di un poeta (lutti handicap incidenti malattie miseria) e altrettanto vale per la “diversità”, non possono diventare motivazioni dirette o contenuti espliciti della poesia, altrimenti risultano essere veicoli pubblicitari
(6) Scritto prima, sembra perfetto per stroncare non solo il testo ma tutta la soap-opera Vivinetto.   Come e perché poi abbia dato il suo parere favorevole ad un libro che è esattamente questo, mi resta (come autore che stima Cesare, che ha fatto su  di lui la tesi di laurea nel 1989 e lo ha poi seguito e apprezzato) personalmente, oltre che dal punto di vista della critica,  incomprensibile, se non vedo il testo. (Ma mi dicono si trattasse di generico incoraggiamento). Reputo che però il dato dell' "espresisone di una esperienza umana" prevalga anche in chi poi scrive il contrario nei suoi pamhplet (ma so che Viviani non ha gradito che la Vivinetto abbia resa pubblica una lettera privata con un generico incoraggimento positivo)

Non mi interessa l’accanimento su un autore, ma è altrettanto vero che proprio perché l’esperienza che vive Giovanna Vivinetto ha tutta la mia solidarietà politica e umana, al tempo stesso si può dire che un’esperienza unica e singolare non basta a fare buona poesia. Eppure è significativo come la “potenza espressiva” (cito ancora Viviani nel suo pamphlet contro i poeti dell’esperienza autobiografica) che deve diventare la vera esperienza viva, stia virando su una semplicicità e una "diretta comunicazione"   di molti poeti della generazione della Vivinetto e ai lettori di questo tipo di poesia.
per certi aspetti un mutamento, per altri aspetti un impoverimento.  Come ha detto un poeta come Tommaso di Dio, "c'è molta poesia di informazione, ma la poesia è "formazione" - formazione di un mondo attraverso lo stile"




8. Tenere conto delle circostanze storiche (e tenere aperta la dialettica di due sponde)

Adesso provo a fare un ragionamento - dopo aver espresso molti dubbi e forti su questa svolta del pensiero della forma, diventato un pensiero debole di "stancehzza" verso la forma stessa - che invece cerca di collocare ini una diversa prospettiva questa poesia che personalmente non leggo e non scrivo, ma queso non vuol dire che non sia presente, non sia letta e non sia scritta da altri, con godimento e valore. Cerchiamo di capire.

In  molti guardano alla possibilità di recuperare un uditorio attraverso una “poesia senza letteratura” ( è il punto critico da cui parte un testo importante critico, scritto da Gianluigi Simonetti, “La letteratura circostante” Il Mulino 2018 che certamente però non giustifica il “circostante”). Questa scrittura media, specie in poesia anche semplice, che non punta allo “scarto” dalla norma (tutto il 900 gettato via in un colpo) ma si pone come integrata col pubblico e con i suoi strumenti, in dialogo positivo con la comunicazione, lo fa  “esponendosi massicciamente ad altri gerghi” (ancora Simonetti) la canzone in primis, proprio per poter coinvolgere più pubblico possibile.
La scelta di una  poesia comunicativa, a questo scopo,  proprio nell’epoca dell’erosione massima della presenza pubblica (pagine culturali, librerie, festival) del genere  finisce per avere l’effetto contrario, dell’erodere la poesia per quel che la distingue, alla lunga, diventando ancella della testualità pop del cantato (paragonato a certi testi e libri che circolano negli ultimi tempi  non si capirà più (dal mio punto di vista) perché leggere questi neo-semplici, e non invece, con più profitto e goduria anche testuale,  ascoltare Calcutta o Caparezza).
Diverso il caso del voler occupare lo stesso palco, simbolicamente l’esibizione di spoken word fatta da Burbank prima di un concerto di recente, dove si propone un testo che usa la comlplessità testuale scritta nella misura in cui però non osctaoli la scelta della performance come un dato di rivendicazione dell’oralità contro la tipografia, questione che lascio fuori ora)
 Parlo qui di una liricità depotenziata, di una poesia depotenziata del poetico, che si muove dunque al riparo da quel che percepisce come un ostacolo, ovvero il patrimonio della lirica e del 900 ( a cui autori come Cavalli nel 74 o Lamarque per altre via ne 1980 si opponevano con scelta meditata che inglobava l’assimilazione di quel 900 contestato – ad esempio la ricchezza culturale che nel contesto anche dell’emersione delle battaglie femministe assumeva quel teatro dell’infantile, quella messa in discussione della psicoanalisi e del maschile a cui dava vita una poetessa come Vivian Lamarque, affatto semplice come sembra e come a volte viene definita suo malgrado da pessimi imitatori e imitatrici).

il 900 è “troppo complicato”, questa è la risposta standard.
O semmai arriva la superficie di questa apparente semplicità. Dunque l’opzione è la migrazione e la mutazione, verso una leggibilità e chiarezza dello “stile semplice” che nel risconto della fruizione (pubblico spesso live ad applaudire) fa perno per dire “vedete, piace, dunque è bella” e diventa valore estetico.
Come si diceva sopra bsigna tenere fermo il concetto: la fruzione è un valore dell’estetica, con l’avvento della società di massa, ma appunto crea, fa emergere, una nuova isola, con nuovi abitanti: non vanno respinti, ma nemmeno loro devono invadere, per usare metafore attuali. Come nella critica che si occupa di migrazione, preferire all'integrazione (ambiguo) la poesia fatta di molteplici convivenze. O se si vuole, con una battuta, il Poliamore.

Del resto già accade, Ludovico Einaudi è amato da molti, ma  non suona a Salisburgo, la Filarmonica di Berlino è amata da tanti, ma  non suona negli stadi. Si può convivere e il pubblico vero, in una certa percentuale passa da un’isola all’altra .


Chi scrive poesia, se guardiamo alla poesia come la "lirica moderna" in senso lato,  sa che  il poeta non ha più un “mandato sociale”, definizione di impianto fortiniano argomentata in un volume importante, fondamentale, scritto da uno dei  maggiori teorici della letteratura e in particolare della lirica, ma anche poeta al tempo stesso, ovvero Guido Mazzoni.

Ecco, la nuova poesia dello “stile semplice” non accetta invece questa condizione decaduta – come non la accettano dal lato opposto i più ostinati tra i poeti che fanno della ricerca un impegno politico: Gilda Policastro ad esempio reputa un’invasione di campo l’espandersi editoriale di questa poesia di successo e spesso anche molto pop- e la poesia semplice e diretta punta a rompere l'accerchiamento dei "soliti addetti ai lavori" e farsi capire dal grande pubblico.

La questione del “campo” invaso è centrale. Di quel campo parliamo? È necessariamente unico? E se fossero campi diversi o  palchi diversi per gruppi omologhi ma tutti dentro un megafestival?

i poeti dello “stile semplice” legittimano, giustificano,  questa perdita di mandato, incolpando il fatto che la poesia  sia scritta per addetti, difficile, a volte i poeti stesi sono noiosi, arretrati ecc.

Operazione comprensibile, ma faccio una facile profezia : se continua così, finirà per essere negato TUTTO il genere-poesia stesso   accettando di essere decifrabile dal pubblico di chi non avrebbe strumenti se non la lettura “alla lettera” per farlo.(e al macero andranno presto anche Catalano, non solo Bonnefoy)

7. Il contenuto, non più la forma. Lo scandalo non è più “critico” ma di nuovo “erotico” (regressivo)

Ecco dunque la poesia che si fa discorsiva, che è a-letteraria e incontra con facilità la poesia di Kristof in traduzione. E’ una poesia che - a volte con variante “civile” -  tende ad essere chiara, con oggetto del discorso, riconoscibile, referenziale, a basso tasso di figuralità metaforica,  esattamente come una poesia tradotta inevitabilmente è - se non fatta di un’ allegoria facile in immagini articolate. La poesia è principalmente legata alla sua materia di linguaggio e al senso che si genera  uel che è sempre stata la poesia, è legata alal sua materia e a lsenso che da esse ne consegue, da lavorìo su lingua e forma del linguag(7) come accade per Vivinetto, una poesia che vuole stare “con gli altri” nel luogo comune del pubblico, essere condivisa (tuttala poesia vorrebbe essere condivisa, ma questa lo fa programmaticmente, non e interessa la poesia come linguaggio, ma tende ad appiattirsi sul linguaggio comune)
 E’ la glasnost della poesia, la trasparenza rispetto all’ideologia che aveva - a dire dei detrattori, che tuttavia spesso parlano per sentito dire - costruito sistemi inaccessibili a molti. Ora la trasparenza che magari diventa denuncia, testimonianza sofferente di una diversità, rischia di farsi appiattita,  “narrativa, moralistica nell’illusione di sembrare più democratica” (ancora Simonetti) in realtà è solo una pratica di fuoriuscita dalla poesia. La presa di possesso di un’altra lingua, meglio un altro codice, fatta da questo tipo di poeti di un codice spurio di metaforicità e ricerca sul linguaggio, è come l’arrivo alla versificazione di chi era fino a quel momento era  straniero e analfabeta o l’invasione del pubblico - del “popolo” - del palco di Castelporziano. Come ha di recente detto un consigliere regionale parlando dei vaccini: la politica viene prima della scienza, anche in letteratura, il pubblico viene prima della scrittura, dell’opera ecc. il che se lo dice un editore che vuole commerciare  è comprensibile, se o dice uno scrittore meno, perché a quel punto non si capisce cosa differenzi “l’opera letteraria” dalla “conversazione quotidiana”.

Qui, sulla scorta delle considerazioni di Guido Mazzoni sul mandato sociale e sullo spostamento della poesia dal piano estetico, all’interno di una comunità di leggenti tutti consapevoli di ciò che era già scritto, a quello sociale, va tenuto conto che si è passati con ‘alfabetizzazione di massa a nuove forme espressive fatte da e per (come Takagi e Ketra) un nuovo pubblico che ha avuto accesso al sapere umanistico, ma in maniera non approfondita, non completa, spesso anche senza le basi del sapere-fare letterario, un pubblico all’interno del quale ci sono schiere di lettori a volte forti e agguerriti che tuttavia non sanno ridefinire in consapevolezza articolata (ovvero come funziona un testo) il perché piace di un libro che a loro piace .(epoca del “like”)

Per secoli si sono suonate arie, canzoni, lied, sinfonie, quartetti, ecc. da medioevo all’800. Poi è nata altra musica, la canzone popolare è emersa riattingendo solo a sé stessa, altre fondendo più linee folk-etniche: popolare anglo- irlandese e afro per il rock, il country, il jazz, il blues. Quella forma non aveva a che fare con ciò che c’era sempre stato, n Europa.
 Possiamo anche prendere atto allo stesso modo  che – come nella musica e come in parte già avviene per la narrativa – si costituiscano più linee  e più livelli e differenti pubblici (diversi palchi, diverse isole): quello della musica classica che non incontra quasi mai quello del pop o del rock, salvo eccezioni – quasi sempre musicisti che con profitto mescolano i livelli. Lo stesso, quello del pubblico che legge Merini e Candiani che non leggerà mai certo non Inglese, Policastro Giovenale, ma neppure Penna o Caproni, e pretenderà di sapere e dire che quella è poesia, in modo endogamico, ovvero generando da sé stessa canoni e categorie interpretative, rifiutando - come snob elitarie - ogni obiezione (provoatoriamente come avviene in altri ambiti: forte del fatto che ora comanda il pubblico/popolo).

Bene, possiamo ammetterlo, considerarlo, creando le premesse teoriche (che servono solo ovviamente alla riva degli addetti ai lavori) con un mix  tra i Cultural studies
(8) e l’industria del libro e l’estetica della ricezione ma più ancora della performance (anche digitale) del testo – cosa che a Burratti sembrava negativa, ma a me sembra positiva, se si separassero però le due strade.


8. “Cultural studies” per la poesia ?

Una poesia da “analfabeti” come scriveva di sé la Kristof o principianti, ma in un’accezione più forte: ovvero di chi non possiede che competenze basiche.
E' successo con la musica: all’inzio  il rock di Elvis Presley o dopo dei Beatles, in cui qualche eco di tradizione (soprattutto folk, ma in genere del blues per Elvis e del rock che si stava producendo in quegli anni per i Beatles). Fondarono una “musica nuova”, di fatto certo più semplice se paragonata ad una orchestrazione di Schumann, Beethoven ,Stravinsky, Berio, Sciarrino, ma nel darne un giudizio estetico sarà impossibile non tener conto più del valore sociale che assume per i lettore che li legge con il massimo della sua reazione possibile e
 non  per la  forma-in-sé dell’opera

Il mandato sociale è ora dato agli insta-poet  ( nella società non solo di massa, ma di “massa-parlante” e giudicante tramite social) per  scrivere poesia in modo comprensibile, come fosse la canzone. Da questo punto di vista allora potremmo leggere in modo analogo, la scelta che ci fu di realismo nel dopoguerra o di una poesia come quella di Patrizia Cavalli di cui abbiamo detto, o di Valerio Magrelli ecc. per il suo tempo (oggi Magrelli è un autore da studiare.
 
Certo appunto come dicevamo sopra, questi ultimi due poeti erano ancora dentro quella dialettica delle poetiche che ha segnato il 900. Ora la dialettica è tra un pubblico che non sa nulla  e nemmeno ha desiderio o sente la necessità di sapere del 900, dei suoi poeti – non tutti, ok, qualcuno sa altri no,  come il pubblico che li legge  - e tutti gli altri, in blocco.
.
Sono certo del fatto che Zanzotto o De Angelis siano più ricchi, stratificati e belli Chandra Livia Candiani, ma devo sempre pormi il problema – e proprio ragionando dal basso, che quel che dico non sia una “cecità” come direbbe Paul De Man, e se non stia anche io rischiando come all’epoca i soloni che seguivano Nono  o Berio  di sottovalutare “ i Beatles” in quella loro poesia musicale semplice, poco orchestrata.
(Direi di no, se il paragone è la Candiani,  al momento aspettiamo ancora “la poesia-beatles).
. Ma l’orizzonte d’attesa c’è di questo dobbiamo ragionare  - e forse ha più valore l’attesa di una potenzialità, anche senza alcun atto poetico forte per ora. E del fatto che un’isola “altra” sia emersa accanto alla nostra.




9. C’è un pubblico della poesia che non legge poesia. Lo chiameremo "il pubblico in cerca di 'poetico' "

Tornando al punto [ 4. ] : lo “ stile semplice” di lettori e poeti degli Anni Dieci del XXI secolo dunque incontra la poesia di Agota Kristof, con una poesia prosciugata da ogni orpello letterario, e la fa sua,  ma con un grande equivoco, e opposta storia.
Quello della scrittrice svizzero-ungherese fu un uso metaforico dell’analfabetismo reale in cui si trovò, e un immergersi in lingua altra e nemica per condizione storica, dentro cui  Kristof lottò, parallelamente al sopravvivere di un ‘esule, di una migrante in cerca d’asilo, conquistando uno stile, che aveva a che fare con il dolore storico dell’ essere gettati nel qui e ora del nulla, della solitudine.

I nuovi poeti che adottano lo stile semplice e amano  la Kristof, invece approdano a scrivere ma per molte ragioni – per scelta, per mancanza di preparazione, a causa  di scuola, e università, impoverita –non hanno bagaglio o patria di letture, neppure da abbandonare.
Come erranti nomadi, i lettori che approdano in questo spazio aperto e zona temporanea, hanno un italiano senza peso letterario e di conseguenza storico . Per questo facevamo l’esempio dei “beatles” : il loro esser scarti come scarafaggi, potrebbe alludere in realtà ad una  “potenzialità antropologica” e  una neo-soggettività storica.

E’ già accaduto l’emergere, ad esempio nel gender, non c’è dubbio che parallelamente alla scrittura di donne tra Woolf e Morante, c’era anche tanta letteratura tematica e semplice femminista – oggi una poetessa di prim’ordine come Biancamaria Frabotta non ha incluso nell’antologia di Tutte le poesie il suo Aeffeminata, forse troppo condizionato dal tema e poco poetico ( allora, come testimonia una poesia di Dacia Maraini
(9) di quegli anni, volutamente si rivendicava una poesia “dura e terragna”  in funzione antiretorica e se retorica significava una tradizione che di fatto era del potere e   “maschile” anche anti-maschile).
 La Differanza passava anche dall’a-letterarietà della lingua. Accade per nuovi autori di 2G nati in italia da genitori migranti (l’hip pop aveva aperto la strada da Amir a Ghali) , o integrati da altre lingue e letterature, in tutto il mondo, con un flusso di chi proviene dall’altrove-dell’Occidente e come Kristof vanno cercando asilo, lingua, luogo. E la riva più vicina. E ora forse accade per questo diverso pubblico che senza salire su nessun palco di poeti, si sta prendendo la scena della poesia.



10. Il neutro del linguaggio e la poesia del pubblico

C’è dunque un orizzonte d’attesa che mi pare significativo, di cui potremmo dire fa parte anche la poesia dello “stile semplice” anche se con risultati non ancora significativi, neppure a volerli leggere con la lingua dell’ Isola Accanto, #isoladiarturo.  Senza  identità e uno strutturato background, vedremo se – pur non sapendo Schumann - faranno rock n roll.
Scarto dalla norma o innovazione dentro una tradizione, stile dentro una langue: è’ sempre quello il gesto che viene compiuto dal  poeta (lirico/non lirico) è sempre il suo richiamare ad un “voi” petrarchesco che ascoltano “in rime sparse” il suono comune ai  parlanti lo stesso idioma volgare che diventa già a partire da questo stile e lingua un gesto di significato etico e estetico assieme. Se ne percepiscono le tracce, di questo gesto, nei poeti che diventano significativi.
Per ora l’a-letterarietà contemporanea degli Anni Dieci ha dato vita a poesia,  per la gran parte dominante, certo, ad una poesia muta, che delineano una  “svizzera” della letteratura. Un paese fuori dai blocchi, neutro. Personalmente lo trovo sempre uguale a sé stesso e un po’ noioso. Ma chissà, come la Svizzera alla fine è stata per molti, durante il nazismo, lo Stalinismo, non sia patria  cui inchiodarsi, come fece la Kristof con la Svizzera reale. Certo come gli accolti nella Svizzera reale, anche in questa “svizzera-dei-poeti-del-linguaggio-neutro” si comincia a dire: sono troppi.

1      E’ già successo, si pensi all’influenza di una poesia dell’esperienza individuale di rottura modellata sulla pessima traduzione del Baudelaire di De Nardis o il filosofismo esasperato e pensoso dei nipotini di Rilke che nulla sapevano - complice pure la lettura attraverso Heidegger - della leggerezza musicale dei suoi versi, precisi metricamente e ricchi di musica e rime.
(2)      (ho già parlato, sempre cercando di capire qualcosa del paesaggio della poesia italiana contemporanea,  del simile passaggio da una lingua all’altra – per migrazione, ma anche per amore dell’italiano, del poeta Julian Zhara, albanese e migrato in Italia alla fine degli anni 90, ma già amante dell’Italiano nella sua infanzia a Durazzo, mentre per Kristof il francese è e resterà una “lingua nemica”)


(4)       IN quella che ho chiamato anti-letterarietà c’è una storia, legata a questa scelta: Gozzano e Saba, se letterario significava D’annunzio, o Montale;  ma come ha mostrato Vincenzo Mengaldo, la tradizione del Novecento è stato un continuo ridefinire e distruggere il canone, appropriandosene. Basta vedere nell’antidannunziano Montale quanto lascito di D’Annunzio ci sia, o i ribaltamenti ironici di Gozzano. Si approda ad una poesia leggibile se concorre una congerie storica significativa per questa scelta - il dopoguerra rispetto ai poeti ermetici, la Kristofcon il trauma della sua Ungheria nel 1956. Epoche in cui un gesto letterario poteva avere senso, dentro un pubblico e ancor più una  classe dirigente sensibile alle arti. Solo in quel caso l’antiletterarietà è una decisione etica ed estetica,  una decisione esistenziale comunque un gesto poetico, letterario,  quello di rivolgersi alla comunità:  voi che ascoltate in rime sparse il suono, sempre lo stesso gesto,  è il gesto di Dante e Petrarca che, perfetti cittadini della lingua latina usata nella cultura contemporanea che loro due pure frequentavano con pienezza, decisero di scrivere in volgare
(6)  Cesare Viviani, cit, p 12
(7) Da questo punto di vista, più vicino all’esperienza di Kristof tra i giovani poeti allora è Julian Zhara ( ne ho parlato  qui  http://libri.mariodesantis.net/2018/07/odio-la-poesia-lirica-sette-punti-sulla.html  che invece da straniero è stato divoratore di poesia italiana e nei suoi versi il corpo a corpo con la materia stilistica di una tradizione italiana si sente tutto – oppure più vicina ad alcuni poeti giovani italiani di seconda generazione  (Zhara , Vera deve morire, Interlinea)
(8) Cultural Studies
  (9) da “La poesia delle donne” (..) una donna che scrive poesie e sa di/ essere donna, non può che tenersi attaccata/ stretta ai contenuti perché la sofisticazione/ delle forme è una cosa che riguarda il potere” in Poesia degli anni settanta, a cura di Antonio Porta, Feltrinelli








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