sabato 14 luglio 2018

VIOLETTA BELLOCCHIO "La festa nera" (Chiarelettere)


Ci sono delle musiche belle e tra le musiche belle, però, ce n'è sempre qualcuna che sembra la tua  pelle, giusta per il momento, per quella sera o per l’epoca. Vale per tutte le arti, ancor più per quella più prossima alla musica, la parola - tra scritto e oralità, tra composizione e ritmo -  LA scrittura di Violetta Bellocchio mi  è sempre sembrata un pulsar, un sintetizzatore adatto ai giorni che percorriamo. Lo è ancora di più in “LA Festa nera”  che l'autrice dichiara di aver scritto anche per il piacere e divertimento, oltre che per alcune urgenze del dire, e anche per una sfida nel percorrere una apparente letteratura di genere,e  anche per rispondere alla chiamata ad un progetto di una collana editoriale di Chiarelettere che si chiama “altrove”  e che fa della distopia un elemento centrale.

La storia de “ La festa nera è quella di tre persone, Misha Nicola e Ali,  Sono tre giovani reporter ma meglio potremmo dire formano una troupe di quelle che producono molte inchieste indipendenti, a volte graffianti aggressive come ma anche spettacolari  - come quelle delle Iene in Italia, o di Vice.com ecc in ambiti curiosi o estremi o estremamente attuali. nel tempo in cui è collocata la storia, il mondo è dopo la sua fine ed è ripreso. Forse è solo il mondo italiano così stretto dentro uno spazio nel neo-nowhere padano del 2026 o del 2030 o giù di lì. Eppure così prossimo.

Nel mondo dei tre non-eroi, tutto gira attorno al cellulare, tutta la fruizione -e le inchieste dei tre vanno solo via filmato da smartphone, protesi-post-human , non arto fantasma, ma “arto-poltergeist”, quindi arto presente/non presente. E’ un mondo in cui nessuno vede più un film per intero, si brancola per pezzi e magari si legge qualche pagina di libro, meglio se poesie perché brevi e frammentarie. I tre hanno avuto un certo successo, specie Misha Fontana, volto e anima, Frontgirl di questa troupe. L’Italia che i tre attraversano lungo una via di fuga dell’umanità sbarellante e senza centro sta lungo la Statale 45 e la Valtrebbia, che c’è ancora coi suoi paesetti, ma il mondo esploso - anche se molte cose prima del 2015 sono ormai out o untouchables -  il futuro dopo la fine è il frutto di uno sgretolamento che inizia ora, tempo presente 2018.

I tre hanno subito un loro terremoto personale e di gruppo, ora cercano di rientrare nel giro cercando ancora storie. Inseguono vite rifugiate in comunità autarchiche e isolate dal resto di questo tempo devastato (Genna). Ci sono cultrici del dolore, un gruppo di uomini che hanno ognuno dentro una sua storia di violenza sessuale, non spenta, senza redenzione, blindati  da ogni possibile contatto col femminile; c’è una comunità in cui si educano bambini a leggere e sparare. Una comunità che rifiuta ogni tecnologia e così via. Il cammino va verso una setta dall’aura mitologica, LA Mano - dove un fantomatico Padre guarisce da ferite. La road map di freaks dell’anima, mostruosi tentativi trash di santità, misticismi del male occultato.  Casi umani, per la società dell’iper-spettacolo.  La specialità del terzetto che spesso infila il dito nelle piaghe con un misto di cinismo e pietà. Ci somiglia questo mondo italiano descritto da Violetta Bellocchio come se lo vedesse. Con una prosa elettrica e visionaria. Anzi no, non “come”: lo vede, perché è già qui. Direbbe Flaiano: non chiedetemi dove andremo a finire, ci siamo già. C’è anche Milano che infatti è già come ora: divisa tra un centro, dentro la prima Circonvallazione in cui abita ancora un'umanità protetta e con una certa normalità. E invece fuori, come fosse la landa abbandonata di “Codice 46” di Winterbottom, Già fuori, verso Piazzale Loreto si accede all'inferno di una suburra misteriosa, Per non parlare di quello che accade nel resto d'Italia. Essi vivono, essi followano, essi commentano.
Il paese è diventato un paesaggio devastato abitato ormai da umanità randagia, terrorizzata, e con loro restano i vecchi che abitano ancora paesi semi-fantasma, sono l’Italia anziana del nostro futuro siamo noi adulti di oggi che diventeremo vecchi tra qualche decennio. Attorno a loro, agglutinati, sciami di appartenenze, raggruppati per demoni, nazione, bisogni, credenza, terrori.

2.

Ha scritto di recente  Vanessa Beecroft in un lavoro per San Patrignano: “fuori da questa comunità l'umanità sembra essere disumanizzata aliena insensibile, come non avesse più un  vissuto, invece l'umanità dentro è  autentica, ha vissuto esperienze terribili e ora è costretta entro regole di comportamento che negano i suoi mondi del passato e sono come in un purgatorio”. Questa frase è parte di un diario di lavoro esperienza di murales, fatti con l’argilla, con una tecnica di sovraimpressione, come dei bassorilievi, di corpi, figure che emergono dal premere - con le mani, i corpi i volti, degli ospiti di San Patrignano che resta in quel Calco, che sarà in Mostra a Roma al MAxxi nei prossimi mesi.
Beecroft scrive questa frase nel tempo presente del 2018, è indicativa perché già dice oggi la comunità che viene, anzi LE comunità, quel che sarà nel rifugio o comunità inconfessabile che vive in fabbriche abbandonate o borghi, fattorie, unioni di  umanità mutata antropologicamente. Questo aggregarsi è il tema del libro, il tema del reportage dei tre, il tema da sviscerare.
Ma lo possiamo ancora raccontare? oggi che pochi vedono pochi leggono ,tutti pensano già di sapere? Possiamo ancora raccontare la realtà e soprattutto possiamo ancora “raccontare” ? i tre reporter (video reporter) sono in fondo dei narratori ma sembrano muoversi dentro la impossibilità di poter narrare E’ il racconto  il vero arto fantasma di un mondo accecato da troppe visioni digitali. Scrive oggi 2018 Giuseppe Genna nel suo romanzo “ History” - di cui parlerò un'altra volta: “narrare non ha più senso”  e in questa dimensione di lontananza, si aspetta sempre come quando raccontando di un party nero di un uomo potente e già dentro una postumanità futura,  ”Quando viene il tempo del racconto, è  finito ogni racconto,  che si racconta da sé stesso, accadendo”.

 Questa è l'estrema sfida è il sogno di chi vorrebbe raccontare la realtà ovvero sottrarre l'arte dal racconto. LA nuda verità.
Violetta Bellocchio si era già misurata con la verità più difficile, quella che dice  io su carta, ovvero sulla scena, raccontando la sua esperienza personale con l’alcol in “Il corpo non dimentica” nel 2014 (recensione) Con “La festa nera” Bellocchio ancora si pone lo stesso problema ma lo disarticola, arricchendolo in più rifrazioni. Affidando la narrazione da un punto temporale successivo agli eventi ad uno dei tre personaggi (Ali) Bellocchio recupera lo iato tra Io e “io”, ma lo amplifica lo rifrange in due direttrici:
  1)  il primo piano e quello della scrittura, proprio del Passo grammaticale e sintattico. Violetta Bellocchio ci torneremo ha il dono di un flow sintattico capace di seguire i frattali di una forma psichica che pian piano emerge,  gettata là dove sembra invece soltanto una registrazione selvaggia, “in presa diretta” ( tanto per usare un linguaggio del reportage video giornalistico)  dell'esistente. E qui a dispetto dell’evidente amore per il linguaggio visivo in tutte le sue forme, Bellocchio dà dimostrazione  che la scrittura è ancora forte come strumento.
2) l'altro piano è quello del punto di vista, come dicevamo,  perché ci sono lo stesso gioco di  geometrie, di slittamento in false prospettive. I tre vanno per raccogliere verità inaudite e realtà marginali di questi gruppi lungo la Val Trebbia. ma chi racconta è senza peccato? o senza deformazione nell’occhio?
Misha che guida con il suo talento e il suo istinto la troupe, ha sul muro della casa dove vive pagine di Vanity Fair con reportage di Dominick Dunne.  

3.

E’ un indizio sul quale vale la pena fare una digressione, perché ci aiiuta a focalizzare dettagli utili per noi che di dimeniamo disperati a capire il mondo tra parole letterarie come geroglifici ormai per il post-pubblico e il frullato di visione della realtà che mai è reale.
 Dunne era un produttore cinematografico, amico di Bogart e della Taylor, con grandi problemi di droga, riuscì ad uscirne, ma la tranquillità non durò, nel 1982, sua figlia, Dominique Dunne , meglio conosciuta per la sua parte nel film “Poltergeist” , fu assassinata.
La ragazza, trentenne alla morte, aveva vissuto in Italia e al momento di finire strangolata -  - per mano del suo ex, un cuoco che aveva conosciuto, e da cui si voleva separare dopo una storia non lunga, stava girando “Visitors”.
 UN segno del destino, tutta questa angoscia di presenze demoniache esterne, che il cinema aveva fatto entrare nella vita lavorativa di Dominque, nella sua carriera per la fiction , e invece finire tragicamente assassinata per le VERE (demoniache? no, psicotiche) pulsioni o frustrazioni di un maschio che non si rassegna all’indipendenza di una donna.
Il padre Dominick ha assistito al processo contro l’omicida, John Thomas Sweeney, condannato per omicidio volontario e scrisse proprio per Vanity Fair un articolo: " Giustizia: il resoconto di un padre del processo per l'assassino della figlia " nel  marzo 1984 .DA allora divenne giornalista giudiziario per la rivista, fino a diventare star di trasmissioni di Crimine in TV esattamente quelle che ci convincono - oggi - che sia in corso una festa nera di ombre pronte ad assassinarci. Forse invece sono solo i demoni di chi le conduce queste trasmissioni  o li scrive quegli articoli.
Insomma non è un caso che Misha abbi Vanity Fair, proprio quella rivista e quegli articoli -e non a caso VF, che prende il nome dal romanzo inglese “Vanity Fair: A novel without a Hero”, talvolta tradotto come “ La fiera delle vanità”  di William Makepeace Thackeray, romanzo di una decisa sferzata verso una realtà normale non “romanzesca” forse “vera”? pubblicato a Londra nel 1848,  lo stesso anno in cui uscì il Manifesto del Partito comunista di Marx e Engels, il vero grande romanzo distopico dell’Umanità.

4.
  Misha non si fida della realtà e di quel che vede. Va a scavare sotto la facies dell’umano, per scoprire il teschio. Quando Jessarae uno degli ospiti di Secondo Zion, setta che predica la fine del mondo  “già arrivata” con una sorta di retro-avventismo archeologico che gli impedisce di toccare tutto quello che è fabbricato dopo il 2015 anno dell’Apocalisse. E se l’apocalisse come la redenzione di Cristo è già avvenuta il tempo che ci resta, ovvero il futuro, è solo “tempo che resta” di un avvento avvenuto già. E allora i ltemp oche viviamo che cos’è? Storia? e dove porta? verso una festa nera?
Jessarae  dice a Misha “noi viviamo secondo il verbo della realtà” ma Misha sa che non si può fidare e sotto cerca altro. L’altro dell’altrove. Il non detto,  il punto fragile di accesso a mondi chiusi ed escludenti tracce di monadi di monadi. Misha usa l'istinto psicologico feroce sincero di una diva che ha la capacità di intuire ma anche una persona che è sempre sul punto di  bruciarsi le ali, Sfida la realtà che l’aveva mandata in pezzi.
Perché anche Misha Nicola e ali hanno avuto la loro : sbagliarono un dettaglio in un reportage, la rete cominciò a commentare,  la tempesta perfetta di insulti divenne stormshit così violenta da diventare devastante.
Ho provato un sentimento di sincero disagio leggendo come soprattutto Ali, la  più debole dei tre,  vive questa tempesta, perché Violetta Bellocchio è brava a squarciare con l’invenzione il velo presente e fari vedere cosa sarà nel futuro - dovrei dire: cosa potrebbe essere? siete così  fiduciosi? - l’onda montante di odio che già stiamo vivendo.
 Una ferocia distruttiva dei commenti, che determina il loro stop alla carriera. MA che potrebbe essere ciò che si spezza dentro per sempre.

5.
Chi racconta nello scritto di LA festa nera è Ali, la più giovane rispetto a Misha e Nicola, che hanno anche un rapporto tra di loro, di strana coppia, e non è un  caso che Ali sia  anche il tecnico del suono (ricordate quanto è fondamentale il suono in “The Blair Witch Project” ? la vera fonte della paura in una note di fantasmi che non si vedono, ma si sentono). Il sound è fondamentale: nel  reportage del trio, una sorta di traccia seconda ,non solo video. Ogni tanto mentre visitano questi luoghi,  Misha dice “ faccio un giro per conto mio” ma ha il microfono aperto,  Ali continua a sentirla,  anche Nicola, sentono quello che il reportage non può vedere,  lo vede ancora la parola del racconto nel buio, fuori dalla scena  come se Misha cercassi indizio o il la realtà stessa, il suo cuore profondo o nero, fuori dal narrato, fuori dal narrabile.



  6.

forse non conta più come dice un certo punto Misha “ fiction o non fiction per me non importa” forse il cuore segreto è proprio nella scrittura, e nel suo parente prossimo, il non detto.  Narrare è dire “al lupo!” senza che il lupo ci sia, dice Nabokov. 
“Dio è l’unico essere che per regnare non ha bisogno di esitere” dice Baudelaire in uno dei suo “Razzi”.
Il narratore è come dio. Le storie di Dio non hanno bisogno di Dio.
Non a caso  Dio, il Sacro è un tema fondamentale - e il suo risvolto ,a superstizione: l’approdo del libro e verso “la Mano” verso il Padre. Che è un arto fantasma.
Mischa Nicola e Ali cercano ormai anche per loro il miracolo capace di sanare anche le loro ferite  interiori. la letteratura in fondo è un'opera di continuo slittamento, in questo è  distopia, non solo inventa luoghi, spaziotempi, ma differisce sempre la coincidenza tra io e “io” che vivono in tempi paralleli.

Possiamo guardarci da fuori vivere, come fossimo un regista, un Narratore o un Dio. Lo slittamento del punto di vista - di Misha che vede, di Nicola che riprende, di Ali che sente e poi scrive - o forse non lei, ma quel personaggio in cui s’è scissa per resistere alla stormshit, dice  la deriva del soggetto che è già cominciata , oggi , 2018, da un pezzo.

Non vedremo questi magnifici reportage, sono interrotti, ma ne avremo, ne abbiamo dal futuro prossimo, questa apocalisse al contrario, il racconto in parole. Racconto traslato che fa da un tempo successivo da un anteriore tempo slittato. E così vivo che quasi lo vediamo, anzi senza quasi. Scene, inquadrature, sismografia emotiva, dettagli (Dio è nei dettagli dice Borges), improvvisazione il nervo rock di una  vicenda umana e un’avventura di  narrazione.
LA  scrittura di Violetta Bellocchio mastica allucinazione, dove raccontare per i tre non-eroi è “sonnifero e benzodiazepina”. Come dal lento planare dell’MDMA, lucido lentissimo e  velocissimo,  noi procediamo con i tre nel Bosco del Reale, perdendoci. Verso l’Ultimo reportage, l’impossibile, cercando l'ultima verità, là dove c'è la Crepa. “ Perché c'è sempre una crepa in tutte le cose”.
Crepa della narrazione è che deve finire, che è falsa.  Crepa della vita è che è no.
La Crepa c'è tempo che sta tra il racconto  e  la realtà, dentro c’è il ricordo che precipita.
 C'è il fuoco nelle vene,  che incendia.

domenica 8 luglio 2018

ODIO LA POESIA LIRICA. (Sette punti sulla poesia e due spunti: “Vera deve morire” di Julian Zhara e “Odiare la poesia” di Ben Lerner)


Spesso negli infiniti post dei blog negli anni zero, in qualche libro o antologie ora in tanti post di facebook, s’è discusso della “lirica”. Molti poeti hanno mostrato un’avversione, un odio verso la lirica, sia perché i grandi poeti riconosciuti acclamati sono tali (DeAngelis su tutti) sia perché quel minimo friccicore attorno alla poesia mostrato dal pubblico, finisce per privilegiare Neruda e Merini se non i poeti del romanticismo pop. Questo odio non è stato bilanciato di una difesa della lirica per quel timore di apparire antichi e socialdemocratici, rispetto ai belli barricaderi. È venuto il tempo di rivendicare che la poesia o è lirica o non è – il che non significa che si debba essere liristi sospirosi o ermetici, e questa difesa la fa – di fatto -  un poeta che invece si è sempre mostrato se non sulle barricate. Julian Zhara (d’ora in poi JZ – pronunciatelo come il rapper)

1.
JZ con “Vera deve morire” (pubblicato da Interlinea) elabora un discorso della sutura di un’assenza e nel farlo utilizza a sua volta un materiale-dell’-assenza, un registro-canone tematico, della poesia, in questo caso lirica. È il tema amoroso dell’assenza dell’amato/a. Nella (precedente?) attività come poeta, nelle performance, in vari interventi d’occasione e torici come anche nelle discussioni sui social, lo stesso JZ considerava tendenzialmente esaurita (o comunque esprimeva distanza) sia la poesia lirica come impianto di elaborazione di soggettività, sia lo stesso soggetto (Io) che è terminazione espressiva e ricettiva di quel genere.
La “poesia lirica” per JZ era ed è dunque “assente” da una possibilità di poter essere significativa per la nostra “vita pratica” (prendiamo questo sintagma così com’è, da Gilda Policastro e dal titolo del suo ultimo libro che pure sto leggendo). Disutile, la poesia lirica, lo è, per JZ, anche nella sua sola modalità di corpus, ovvero la parola poetica scritta. Tipografia e psicologia, due impianti del moderno da considerare esausti (in una discussione su Facebook, gli studi di Gabriele Frasca erano il punto d’appoggi per questo discorso).
Il registro della lirica è come la Vera-assente personaggio in questo libro (verrebbe da dire da sempre è così, ogni lirica d’amore è anche meta referenziale) è un “altrove, due sillabe vuote”. Qualcosa che non c’è più. Sovrappongo “amata” e “poesia” in questo vuoto.
Ora questo libro, tipografico e lirico.
LA mia lettura di JZ è questà: egli è "inevitabilmente" un poeta lirico, che conduce i suoi esperimenti perché inevitabile ripartire dalla lirica per farli da poeta. Nella nota finale JZ considera “il lirismo una febbre che deve sfogare”, ma credo questo libro sia anche molto significativo per questo (questo singolo ed altri importanti) ritorno alla lirica che è al tempo stesso un approdo consapevole non una malattia infantile (la malattia infantile è il “lirismo” sospiroso fin troppo diffuso, specie - e stupisce - in poeti venti-trentenni.
Strappami la lingua madre poi
Avvicina la tua bocca alla mia,
amplificami i lamenti, da permettermi
di dirti piano, a voce bassa,
parole semplici, poiché, dentro la bocca
come il picchettìo del rubinetto
chiuso male; se balbetto sciolto
è perché mi hai tolto la lingua
(…)


La consapevolezza non argina lo straripare dalla posizione da cui un soggetto finisce per parlare. Balbettando in assenza, il poeta è come Belacqua in Beckett/Dante: sta in quella posizione sempre.
  La biografia - elemento chiave nella convenzione di cosa sia poesia lirica -  inoltre fa ritorno dentro la poesia di JZ: “ha rovinato più la biografia dei grandi la scrittura dei minori/ di quanto la scrittura, la biografia dei grandi autori”. Non c’è la rivendicazione del biografismo, ma questo è un libro di biografia, di una vita in versi. Ad alcuni potrà anche essere utile nel dolore di una storia finita. MA non ci interessa sapere se “Vera” è vera, ma se non la canonica storia d’amore, di certo è lirica e biografica per il rapporto con la lingua.  

JZ è un poeta che è approdato nell’italiano prima che in Italia, racconta nella nota a fine libro in cui mostra molta consapevolezza critica. Diviso nell’infanzia tra la lingua madre e la Tv e le letture di libri italiani, sul balcone a Durazzo. Così se nella poesia in una contorsione erotica dei corpi, l’amata strappa al poeta “la lingua madre” mentre “avvicina la sua bocca alla mia” (p.8) che scatena un balbettare (nell’eros c’è una trasposizione anche “fàtica” un venire all’altro, amando, nella lingua) la questione  emerge bene in un altro testo, più avanti (p.16) :  se l’io-autore extra testuale JZ ha come lingua madre l’albanese, allo stesso modo esso è presente con questa lingua che dona al  personaggio che dice Io nel testo che ha di fronte l’amata e dice : ”nella lingua dei tuoi antenati/ la parola amore se esiste è letteraria” perché di fatto quegli antenati veneti tutto ciò che associavano linguisticamente ai sentimenti che provavano era un semplice “voerse ben” (così come gli antenati albanesi del poeta era altro – ci sono lacerti di albanese non tradotti, per esprimere questo scarto irriducibile)
A cosa approdano dunque “il poeta” e “l’amata”? all’amore che può essere solo “amore” – lingua artificiale di comune proprietà ma non ereditata dal percorso storico-esistenziale degli “antenati”.
Non può essere un passaggio solo relegato a questioni teorico-linguistiche, formali. Qui c’è la lirica non come genere di controversia, ma c’è una tradizione, c’è un’acquisizione di cultura e di letteratura e tutto si riversa in quella destinazione d’uso interiore-esteriore che è il confronto tra soggetto e mondo. Ovvero la lirica.
Con in più il fatto che l’Io poetico si calca sulla biografia dell’autore, è un “Io”  che, dicevamo, ha trovato accoglienza nella lingua (e poi nel suolo) di un popolo (italiano) che a sua volta non ha avuto per secoli una  lingua, essendo quel popolo un cumulo di dialetti e sudditanze estere, che ha adottato con l’indipendenza – e  imposto a scuola -  una lingua letteraria e di grammatici-notarili risalente al medioevo, solo per autorità Règia e poi Repubblicana,  con uno sforzo d’arrivare ad un italiano medio e nativo solo adesso, otto secoli dopo che quella lingua era stata inventata (da poeti, dunque se il poeta nella biografia reale  usa “ti amo”  lo sta dicendo da fingitore o perché lo sente? o lo dice davvero, ma ha a disposizione solo un codice artificiale rispetto alla storia antropologica cui appartiene?  siamo un’indecidibilità tra sentimento vero e lingua artificiale)

c’è un altro paradosso: grazie alla TV e proprio nel periodo in cui anche Zhara bambino la apprendeva (per De Mauro la svolta dell’italiano medio acquisito che prevale sul dialetto è recente). Un poeta lirico a mio avviso sta dentro questa corrente collettiva anche quando dice “io amo te” e Zhara ci sta. Ma se non è il biografismo amoroso a fare di JZ un poeta lirico, lo è il biografismo linguistico nella dialettica tra albanese e italiano. E considerando tutte le questioni storiche, e ora anche migratorie, implicite, la questione dell’Altro, dello Straniero, direi anche che Zhara è un poeta lirico-politico, e nel suo empireo sposterei al centro Fortini.


  
2
Così sequenze polifoniche per stare dentro il flusso di un vissuto registrano nuove feste galanti (registro di neosocialità giovanile, in particolare per poeti che sognano Verlaine proprio per paradosso nell’epoca di Berlusconi). LA deriva, alcolica e notturna, è pure un tema politico: è la pratica impolitica di astensione di larghe fette giovanile che usano la piazza per occuparla con la movida. Questa condizione di deriva alcolica ha come corrispettivo una “disappartenenza”: al reale, a cui il poeta “aderisce ben poco” perché “mi scivola addosso”, osservando vede il sé riflesso in una evanescenza da quel reale osservato dal finestrino, il reale del “paesaggio industriale veneto” che tuttavia è sempre nel doppio registro di realtà percepita e realtà assorbita dalle letture (Zanzotto su tutti) (p.15)
Probabilmente uno dei nodi del discorso di Zhara è  proprio la non-appartenenza, poter esprimere quella forma di psichismo che osserva dal margine la realtà mescolata ai  residui di realtà che “si annidano dentro le palpebre” come lo sporco sul vetro, unica interruzione della trasparenza – unico punto attorno a cui far ruotare dentro un’esistenza pulviscolare questa molteplicità singolare che va a sostituire come un istanza molecolare complessa, piena di molte cose (identitarie, biologiche culturali linguistiche) che sembrerebbe impossibile chiamare “io” – è un noi-me o come la chiamò Cesare Viviani in uno dei suoi primi libri “cori non io” – una coralità di molte risonanze.

3.
(La frammentarietà dell’amore genera un nuovo codice della poesia? O come accaduto, è l’invenzione dei poeti a dare il codice ai sentimenti? Chi è oggi che costruisce il mutamento interiore dei valori? La politica? I magazine patinati? Hollywood? I Social?)

Zhara in “Vera” dà vita ad una composizione che trae i fondamenti della sua composizione della metrica – e per certi aspetti anche dalla musica – e dal montaggio cinematografico. diario o canzoniere di un amore finito. Si nutre di lacerti quotidiani, cerca una sua musica – spesso intere strofe sembrano adattabilissime al cantato –  e costruisce il suo filo di vicenda o situazione, una cornice teatrale e cinematografica che parte dallo scarto minimo (eventi che si fissano – scrive JZ - “nel frame del momento/ scartato dai registi”).
  Le poesie procedono per inquadrature che sviluppano il modulo “classico” (la donna amata, perduta, assente appunto) con un dichiarato (nel fingimento almeno) appello al provato “dolore tondo”. Ma tutto è una “dissolvenza” e al tempo stesso un “incubo” e al tempo stesso ancora una “matrioska” una concatenazione di un vedersi- vedere.
amore vero e poesia vera. Cosa è vero?  Sono i due punti di fuoco.
Per JZ la lirica è un registro di artificio. I biografismi presenti, posti da un fingitore.  La lirica ha sempre presupposto invece biografia, un ‘espressione di sé, seppur divenuta consapevolmente una forma di costruzione dell’allegoria di osservare il mondo a partire da quel dolore singolo: lo aveva fatto Baudelaire, lo aveva fatto Caproni, Montale, Auden.ecc.
Zhara fa parte solo anagraficamente (1986) di una generazione che sta riusando molto, forse svuotandoli, i modi tradizionali della poesia.  Ma JZ si distingue nettamente, per consapevolezza (dote non comune). Non è un epigono, resta uno sperimentatore, della modulazione metrico-ritmica, ma soprattutto dei fondamenti quasi ontologici della sua lingua. L’innovazione sta poi nel dare rilevanza psichica nel teatro postmoderno e tecnologico dell’amore, in cui apparizioni e non apparizioni dell’amata escono dallo schema binario assenza/presenza e introducono - per esempio -  un terzo piano, un’innovazione del gesto, che ha bisogno di un nuovo contesto psichico ed espressivo. Ecco nel cuore dell’Io il rovello dei segni blu di spunta – e dei tempi di risposta -  del messaggio WhatsApp, una forma di presenza dell’assenza. Avremmo bisogno di capire che “nuova intimità” sta prendendo forma nei caratteri antropologici profondi, psicologici, questo sì, nella storia collettiva post-tecnologica che viviamo.
I poeti dovrebbero – scrivendo anche un nuovo codice del De Amore – servire a questo. 

4. Facciamo una digressione verso  Ben Lerner

Nel suo “Odiare la poesia” (Sellerio) Ben Lerner ( ora noto come romanziere, "Nel mondo a venire" un grande rommanzo in cui però la poesia, la riflesisone sul mondo come poeta influenza tutto l'impianto narrativo) lo scrittore americano attribuisce alla poesia una dialettica continua tra lo “spazio di autenticità” che sempre aspira a creare e il fallimento ineluttabile della stessa – che porta a volte a "odiare la poesia" appunto per troppo desiderio e amore -  la poesia questo obiettivo lo “manca” sempre, è forse nel suo statuto già di espressione linguistica che esso manca sempre, già nel momento in cui ciò che è o si suppone sia essere, si dà poi in forma secondaria, ovvero il linguaggio. Del resto, se non facesse così resterebbe un’autenticità mistica.

Ma c’è un’altra dialettica – superata questa aporia dal sapore  lacaniano – ed è quella storica: Lerner è americano e individua come poesia che era sembrata fondativa e autentica per la comunità del nuovo mondo americano, ed è quella di Walt Withman, una poesia che rompeva con tutti gli schemi e le traduzioni paludate e “inautentiche” e si poneva come espressione di quella soggettività propulsiva contraddittoria della nuova “vasta moltitudine” – per usare parole di WW -  americana, ma che quel suo fare poesia contenendo dentro un recinto di turbolenza liberatoria tutte le contraddizioni di un nuovo sentire – il recinto è un verso libero e incontenibile ma sempre in modo relativo – e che aspirava ad un’universalità davvero autentica ora, rispetto alla poesia lirica anglosassone, viene riletta in modo del tutto opposto per esempio dalla poesia afroamericana di Baraka o di Claudia Rankine ( il cui libro “Citizen” ha come sottotitolo “una lirica americana” come del resto l’altro volume “Don t let me be lonely” stesso sottotitolo. La Rankine affronta – scrive Lerner – “l’impossibilità del tentativo di riconciliarsi con una società razzista in cui essere neri significa o essere invisibili (esclusi dall’universale) o fin troppo visibili (vittime di sorveglianza e di razzismo)”.

Tralascio la questione razziale, ma mi interessa la frase che Lerner aggiunge e che ci riporta alle riflessioni che facevo a partire da dall’esperienza e dalla poesia di Zhara “: L’invito a leggere questi due volumi - di Rankine -  come poesia lirica si scontra con una delle loro più evidenti caratteristiche formali - dice Lerner -  i libri sono per lo più scritti in prosa”. Dunque Rankine rivendica la biografia, fa poesia lirica, ma si sottrae alle formule formale in cui essa si è raggrumata nel tempo.  
Lerner cita di Rankine poi un testo/poesia - un frammento in cui si riporta un’esperienza di una chiamata fatta al numero verde di un telefono amico e di ciò che succede dopo. Tutto in una prosa fluida da discorso libero diretto, frammentata, potremmo dire quasi apparentabile a Carver. Quello però che conta è lo scarto formale che serve a Rankine per fare esattamente la stessa cosa che hanno sempre fatto i poeti lirici (bianchi, dovremmo aggiungere) il racconto di un’esperienza personale, a nome di tutti -  che però qui in questi testi della poetessa afroamericana è “esperienza della spersonalizzazione” – e dunque aggiunge Lerner – “le categorie liriche tradizionali non sono più disponibili”. L’ordine/invito di leggere la sua scrittura come poesia – lirica poi – che c’è nei sottotitoli dei due volumi è ironica e tragica, per Lerner: “provoca l’esperienza tangibile di quella perdita, come l’impressione della sensibilità di un arto fantasma”.

Insomma, un cambio di sensibilità e soggettività implica un cambio di strumenti linguistici, che si adeguino a nuovi paradigmi culturali concettuali e psichici,  ma pure questi devono arrivare non tanto come semplice comunicabilità  - l’errore di tanto lirismo giovane contemporaneo, il caso ultimo è il libro di poesie di Giovanna Cristina Vivinetto nelal stessa collana di INterlinea in cui è comparso Zhara)  - ma certo restando in equilibrio  tra l’effetto straniante/deformante, decostruttivo, con tensione anche radicale ad uscire  da una retorica e forma; però dall’altro, proprio a partire da una rivendicazione come quella di Rankine, è necessario essere  compreso dentro un “noi” – una comunità di lettori che deve essere coinvolta nel io-tu del testo.
Se l’effetto è di non-autenticità a partire dalla forma il rischio è l’inefficacia esistenziale della poesia (non bisogna appiattire sul grado zero, ma che senso ha scrivere poesie per esprimere una posizione in cui la questione dell’Io è così coinvolta - in questo caso - dalla questione della razza se la comunità a cui fai riferimento poi non sa leggere quello stesso testo perché scolasticamente è ancora dentro il “canone poesia-di-bianchi” anche se rivoluzionari come Withman?).

Insomma, se dico “Io “in una poesia e c’è un tu-lettore che ascolta deve trovare una collocazione dentro quell’effetto di spaesamento, deve trovare la chiave per leggere quella composizione come tale, trovando uno spazio di autenticità già a partire dallo scambio di codici, dall’uso comune di questi codici. Perché la loro abolizione è certamente più significativa e simbolica, ma si scontra con un restringimento della comunità con cui vuole entrare in relazione anche dialettica, anche conflittuale – altrimenti sia che tu voglia cambiar il mondo con le poesie o non voglia farlo – il mondo risponde, come risponde ora, non leggendo. Che è un modo diverso di far crollare il palco.
 LA scelta consapevole di restare dentro un codice da alterare fino all’estremo, la trovo la via da percorre. Un nuovo approdo per JZ. E questa l’indicazione generale che vorrei fare partendo da questo testo, rispetto ad altri autori da Voce a Policastro, Giovenale - mi sentirei di collocare personalmente questo libro i più vicino a testi come “LA distrazione” di Andrea Inglese e “L’attimo dopo” o “il numero dei vivi” di Gezzi. Non per similitudine ma per decisione di rimanere con effetto di maggior forza dentro quella che genericamente chiamiamo lirica post-lirica.


(Poi c’è il pubblico, la vera rogna che annulla tutti i discorsi. Non odio, ma indifferenza: né lirici né antilirici. La questione del “voi” e i poeti.)

5.
Trovo interessante questa evoluzione della “lirica americana” descritta da Lerner con Rankine, perché integra molte questioni in ballo anche per noi - il libro di JZ è dentro questi temi.
 Provo a elencarle: sia la poesia di Withman che la poesia di Rankine sono innovazioni stilistiche che parlano a nome di una soggettività nuova che trova nella “umanità nuova” il suo fulcro di sensibilità, di valori, di questioni esistenziali: i nuovi americani per WW, i neri esclusi per Rankine. se sempre la poesia (per il solo fatto d’essere scritta e pubblicata) sta nell’arco di un “io-voi”, deve porselo come problema.

 In Italia vorrei citare “LA ragazza Carla “di Elio Pagliarani, che considero un capolavoro della poesia del 900. in esso l’Io-poetica mette n scena linguistica un soggetto nuovo – la giovane inurbata Carla – a permettere a Pagliarani di diventare emblema di una soggettività storica nuova, per esprimere la quale una qualsiasi ragazza “come Carla” non avrebbe avuto né strumenti di espressione, né strumenti di comprensione. La ragazza di nome Carla non avrebbe mai capito il poemetto “la ragazza Carla” ma di sicuro avrebbe provato struggimento per le poesie di Quasimodo. Oggi le nipoti della ragazza Carla hanno preso la parola come del resto i neri americani emancipati da Walt Withman che scriveva “sono il poeta degli schiavi e dei padroni degli schiavi”. No matter, dicono da decenni gli afroamericani, che ora parlano a loro nome e con loro modi. Poesia, ma non si può negare che in questo caso il rap è davvero quello slittamento di mandato - per un pubblico tra l’altro che se da anglofono può avere Whitman come antenato, certo tra i veri antenati, come Vera, non ha nessun poeta testuale.

Rankine invece  ha una posizione di rottura ma parla per il pubblico ristretto dei lettori di poesia abituati  – fatto per lo più di bianchi, seppur bianchi all’ avanguardia Qui, con le debite differenze tra USA e Italia -  siamo dentro quel passaggio ulteriore per cui le nuove masse  medio-istruite del secondo novecento hanno via via tolto ai poeti l’implicito “mandato sociale” (Mazzoni) per riversarla verso altro, la canzone ecc. – e  il goffo tentativo della poesia di farsi prossimo all’“altro”,  anti-lirica, anti-poetese, spoken, di ricerca,  resta circoscritto a canali già-consapevoli. Non che Zhara sia letto da Masse o altri poeti lo siano, ma la scelta sintassi, lingua, un tasso di ordine figurale e logico, lo colloca in una possibile leggibilità allargata. È quasi una scelta etica.

6.
I ceti popolari e le nuove soggettività (per molto tempo sono andate insieme le due cose) continuamente accedono al sapere, è già accaduto nella storia della rivoluzione industriale, accade “in massa” nel secondo dopoguerra ma è la prima volta che ci troviamo di fronte a queste complessità. Le masse popolari sono “”acefale” - come i neri americano mostrano con più evidenza, non hanno una tradizione, vengono innestati dentro una tradizione. Anche in Italia: spesso i nuclei familiari in cui erano tutti analfabeti fino al nonno, i padri alla scuola dell’obbligo e ora finalmente i figli laureati. Che l’italiano e i libri lo hanno praticato per primi.  Leggendo i libri della tradizione borghese ottocentesca – esemplare Manzoni lettura obbligatoria – che si innesto su questa “a-tradizione”, su questo acefalo ingresso nel mondo sociale e culturale di masse contadine e operaie nel dopo guerra. Innesto nel “già dato” della cultura, per questa umanità nuova che ha bisogno di “espressione di sé”. Contrariamente a Withman, che si rifaceva a “testi” nel suo essere innovativo, questa umanità nuova lo ha fatto e lo fa sempre più, smettendo di attingere alla tradizione libresco-letteraria-poetica, non dando vita ad avanguardie letterarie, ma semplicemente frequentando altri codici (musica, social, video ecc.)
Torniamo a J Zhara e "Vera deve morire"

“Ma adesso mi ascolti!
Ti siedi, qua gli occhi,
diserta gli impegni,
lo schermo del cell, le mail,
spegni tutto e vieni vicino

inizia cosi “Vera DM”. È perentorio il poeta lirico, sa benissimo che “voi ch’ ascoltata in rime sparse il suono” è un postulato petrarchesco finito dopo secoli. Al tempo gli udenti erano leggenti, i consapevoli erano leggenti. Ora è a volte Zero. Ora il pubblico che legge (potenzialmente) non è più analfabeta,  ma ha deciso di non-ascoltare i poeti, non leggerli più – e il pota sa che con modi bruschi e da prof severo ci impone l’obbligo. JZ non vuole essee impositivo ma sa che nel rumore bianco, nel sottofondo delle mille lettureevanescenti del display, la poesia si deve far strada a forza.
Fa bene ad iniziare così, anche se qui c'è ancora traccia di un performer che sale sul palco e chiede silenzio.

In questo quadro può essere interessante notare che a più ondate, nel ristretto mondo di chi continua a guardare alla poesia, la scelta sia stata invece costantemente per la lirica, non abolita come la Rankine, ma ripresa nei suoi codici autorevoli, sia dalla prima generazione post anni 60 – penso a Cucchi, De Angelis, poi Frabotta, Magrelli, Valduga, Lamarque, fino a ultime generazioni in cui la poesia si sta anche pericolosamente appiattendo su un lirismo-semplice-comunicativo. Fanno parte di una scelta che per ceti aspetti se deve rivolgersi a un “voi”” che ha costruito un suo canone dentro la lirica, non si possa che essere riformatori dentro quella, se il “noi/voi” è nell’interesse di chi dice “”io” e non vuole essere programmaticamente solipsista e fuori dal mondo.


7.

JZ lo dice esplicitamente, si concentra su una “istanza lirica” – lo scrive nella nota finale – che nasce dentro la triade Rosselli/Pascoli/Pavese, studia la metrica, si confronta come Fortini e oltre Fortini sulla metrica e sull’oralità di certe sue canzonette ultime. L’oralità era il luogo della poesia privilegiato da Zhara  – con le esperienze di spoken music – ora qui c’è un ribaltamento in apparenza restaurativo –  è interessante perché è un lavoro che non ragiona più secondo il postulato della linearità storica della necessità di “essere sempre avanguardia” – segnando quello che chiama un “divorzio con la musica” che però mantiene il suo “amore lontano” con l’oralità della poesia – e qui lo sperimentare del poeta è volto da un lato per abolire l’endecasillabo, diluirlo, disattivarlo da quell’istintiva eredità che ne hai se leggi poesia italiana - dall’altro lo studio di altri metri (decasillabo e tredecasillabo) sono da  Zhara legati agli studi di Ong e altri il cui punto è: come questa oralità – modalità sociale contemporanea post-mediale, che ci appartiene, che comprende l’accettazione del fatto che la canzone sia il neo-mandato sociale sostitutivo della poesia – si fa strumento di composizione  e rielaborazione della “lirica” e della conseguente “poesia scritta”.
Come la scelta di Rankine della prosa, qui con lo stesso percorso secondo me Zhara fa la scelta di riadottare il registro della poesia che va da Pascoli a Magrelli. Diverso dalla scelta di Gherardo Bortolotti, infatti lui stesso non si considera un poeta, ma viene a forza collocato in questa macro-categoria.

 È un interessante laboratorio, e significativo di una fetta di mondo della poesia italiana contemporanea,  questo di JZ ma questa sorta di sbilanciamento iperletterario di JZ con tracce di marca Zanzotto-Frasca,  relega il suo tema certo (l’amore, è un canzoniere esplicito per dichiarazione del poeta in nota) al ruolo di “pretesto di riflessione filologica”. In realtà a me sembra che tutto converga verso una poesia dell’identità e della soggettività – compreso il fatto che un neo-poeta-cortese affronti proprio una questione centrale, il “vuoto” che è l’amore “oggetto ingombrante” tra due corpi perché esso stesso ridotto a “corpo linguistico” dopo che psicoanalisi e politica – il femminismo soprattutto - hanno tolto ogni attribuzione di significato radicato di quel sentimento. Proprio per questo una rivoluzione di sensibilità non può non accompagnarsi anche ad una rielaborazione non solo formale del canone poetico-lirico.

Il caso “Julian Zhara” è interessante perché anche egli come soggetto biografico è un italiano che fa partire la sua espressione con la lingua da lui stesso, ma né più né meno da me, che nato nel 64 da contadini analfabeti per secoli sono stato il primo a leggere e scrivere e parlare l’italiano. O Vera, che ha antenati, come si diceva che non conoscevano la parola “amore” e dunque (forse? Sì no?) non conoscevano l’amore.


8.
(In sintesi, la vicenda di Julian Zhara è: Diventare poeta di una tradizione letteraria e linguistica che muore, proprio mentre il giovane Zhara approda al mondo nuovo e alla sua lingua del futuro. Collocandosi prima nel margine della critica radicale, dello sperimentalismo, ora mette la sua bandiera di cittadinanza dentro un genere. Per accodarsi a un corteo funebre?)

La fine della soggettività nella poesia, l’avversione contro l’io lirico – o la sua morte? – nasce proprio da un’esperienza ormai quotidiana della frantumazione. Esiste una pratica di nuove soggettività per le quali non abbiamo ancora elaborato etiche – i poeti cercano di farlo
Il testo è un luogo dove depositare una forma dell’esistere, nella disgrazia e lutto di non poter più dire “esisto” (e tanto meno io) che è una questione umana radicale, se si pensa alla questione dei corpi in mare, dei migranti delle neocittadinanze e dei diritti civili è questione politica e non solo letteraria

ma se volessimo restare nel cerchio iperletterario: specie dopo Lacan, sappiamo che (io) cogito: “ergo sum”. Sum, è solo sillaba vuota, non esistiamo. Vero. E Vera? E l’amore? E questo libro o meglio: “questo libro”? la dimensione in cui si sta (forma dell’a-soggettivo e impersonale ma che finisce per imparentarci di nuovo a Ungaretti di “Soldati”, di cento anni fa) quella di un’“inerzia” in cui l’io poetico avanza “come la sfera di sporco (..) tra quanto di me si riflette/ e il paesaggio che pare avvolgere tutto” (p.15). Ci siamo dentro, ma è d’altri.
Ci sono però altri mondi e altre realtà che integrano e sovvertono ogni concezione della soggettività acquisita, anche fosse quella più sperimentale. La pratica della comunicazione interpersonale, al pari delle rivoluzioni biologiche, genetiche e morali – le scelte di genere, la procreazione, la sessualità libera – disegnano nuovi comportamenti che hanno bisogno di una sintesi. L’amore è un laboratorio per questi mondi: il nostro è il tempo della fine del tempo ( “il tempo lineare è esaurito” scrive JZ) tutto si dilata (la dilatazione è uno degli elementi chiave e parola che ricorre nelle poesie di Zhara) e così nel laboratorio-amore ecco (lo si accennava prima) entra anche  “il silenzio lungo e lento sospeso nella banda larga” tra un messaggio, la notifica di lettura e poi la risposta aggiunge alla dialettica presenza/assenza della lirica una variante inaudita, incalcolabile, spiazzante che mette di fronte a “silenzi protratti in agonia”.  L’amor de lonh, che non è più così lontano, se è contemporanea, ma anche se dall’altra parte del mondo un whatsapp può fare la differenza, dentro un’assenza di cornice. Al paesaggio si aggiunge la variabile dell’“algoritmo” e tanto quanto la parola è nuova e sghemba dentro un verso metrico, tanto è sghemba del resto l’esperienza di questa interazione solitaria-di coppia che è l’amore che da discorso amoroso/ letterario deve fare i conti con dinamiche psico-comunicative inedite, che viviamo in cui viviamo.

Anche nell’amore tra due, siamo dei soggetti senza capacità di dire “io”, siamo immersi in questo mare ostile, in cui siamo tutti ancora “stranieri”.

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...