giovedì 30 novembre 2017

The ballad of sexual dependency" di NAN GOLDIN

The ballad of sexual dependency" di NAN GOLDIN
Bè a me non mi è piaciuta. Anche se ho amato Nan Goldin 15-20 anni fa alle prime mostre italiane che ho visto..Proprio per quella crudezza che oggi mi lascia freddo...
MA forse mi frega ormai l'età. Quella appena passata alla triennale è stata un mostra-movie la sequenza di centinaia di foto in 40 minuti circa. E' una delle sue opere più famose.
Di 34 anni fa. Li dimostra tutti. La gioventù autodistruttiva invecchia ancora prima della gioventù dorata. Questa però on ha avuto - non ha - la capacità di trasformarsi in "mito" come la "gioventù bruciata.
il 1977 sta passando tutto sommato sotto silenzio. In Italia e in UK, certo non mancano mille occasioni, ma si capisce che dureranno come quella stagione, si consumerà in un grido, per quel che era.
Goldin aveva iniziato prima, intorno al 71, nella new york tossica di velluto e sotterraneo.
iniziava a prendere degli appunti con la macchina fotografica nelle serate i newyorkesi - e poi nei vari downtown di Boston, New York, Londra, Berlino, tra gli anni ’70 e ’80 e continuerà fino a questi primi anni in cui esplode l'eroina, nel girone carnevalesco e dantesco dell' edonismo una pecie erò di Lussuria post-punk.
The aBAllad è una sorta di diario degli amici - sfatti o strafatti - diciamo n selfie ante- litteram - GOldin si
fotografa anche con le ferite che il fidanzato le aveva lasciato picchiandola (che differenza di sensibilità, no?)
Un racconto in 700 fotografie che è appunto una psecie di i biografia o autobiografia dedicata alla sorella morta suicida a vent'anni e anche la fotografia di un'epoca. A cavallo tra gli anni 70 e gli 80, sorta di documento storico però per certi aspetti oggi fa un effetto distante e muto...almeno a me.
Sono anni di formazione per la mia generazione che fiorisce e sfiorisce nel giro di un weekend postmoderno.
Gioia, noia, paranoia.
THe Ballad è una delle opere più famose di questa grande fotografa americana dentro ci sono anche icone come Andy Warhol Keith Haring tanti altri ....anche la musica che accompagna dovrebbe essere una colonna sonora, ma è anche sbagliata e scontata, quasi camp, nel mettere l'italiana "mamma" con le mamme che allattano.. e c'è una volontà di muso duro quasi eccessiva, manco i bambini ridono, nessuno ride....Dilaga il predominio della occhiaia, dei denti gialli delle sigarette, delle droghe, Zero sorrisi, case e interni sporchi ma ormai sembra un'iconografia costruita ad arte.
Più di quello che fosse al'epoca..
Insomma è un po' da "estetica del marcio" che per certi aspetti è anti- bellezza che però sta ispirando forse anche molto una certa "anti bellezza della moda" molto mainstream...
Oppure l'estetica della nuova linea Gucci
-
Ecco anche Nan Goldin oggi inscrive quella storia in questa riscrittura modaiola del "imperfetto" del "camp-trash-indie" alternativo
Magari il ventenne rimane sicuramente da un lato impressionato dall'estremo anni 70,una specie di esaltazione del Sottobosco Urbano giovanile : è tipico di ogni generazione giovane una certa sfrenatezza o deragliamento di droghe di alcool, Naturalmente differenti sono le epoche e le situazioni...
Ecco però è come hai fatto un effetto di estremo misurato ad arte.
Insieme alla mostra, ho visto il film collegato, "Nico 1988" che è un film bellissimo, che riporta si a quegli anni, ma raccontati dal punto di vista della decadenza che è una decadenza dell'età.
Si ricollega alla generazione che può essere sollecita melanconicamente dalla mostra di Nan Goldin..ma che è oggi anche super acquirente giovanile di moda -e sono anche genitori di quei ventenni che a loro modo vanno a cercare nell'armadio di papi & mami...
c'è tutto un disegno immaginario che sta cercando di parlare e riparlare alle generazioni che sono stati giovani sfruttando Da un lato la loro voglia di essere ancora attivi e dall'altra quella della nostalgia. ( l'emblema sicuramente più evidente è la riunione vecchi decrepiti Delle Band degli anni 70 ).
per ora se attingono non è stato dato di vedere,
culturalmente è ovviaente tutto molto più pulito, tutto questo sporco degli anni 70 dei Padri è un po' come se fosse una consegna di una merda, l'offerta su un piatto d'oro di una cola con cui fare un'installazione ...
un senso di colpa , un marcio shakespeariano che la generazione dei Padri ex fricchettoni ex punk rockettari ha consegnato ai figli, i quali da un lato magari prendono questo aspetto ribellistico, ma forse dall'altra lo "consumno" come forma pop e se ne scarica la portata esemplare vera, diventa maniera - scaricano un'energia aggressiva...
Wannabe Hamlet.



IL TEMPO E' IL SUO RACCONTO. parte 4


5.0

In questo quadro in cui si collocano assieme la scienza di Rovelli, la narrativa di Lerner e Lipperini,  in cui cerco di individuare la possibilità di riconsiderare il nostro senso della storia (e se la storia fin qui vissuta abbia un senso), vorrei introdurre ora un filosofo e saggista come  Giorgio Agamben,  che a questa riflessione – sul tempo, la storia, la soggettività, la politica e la biopolitica -  ha dedicato tutta la sua vita studiando tanti autori, primo tra tutti Benjamin.  Qui però lo prendiamo in considerazione con il suo ultimo singolare e forse non casuale e non secondario libro – e che ho letto, per caso dopo quelli citati.
:  “Autoritratto nello studio” (Nottetempo) .Un libro  che è appunto un resoconto anche per immagini, memorabilia, foto, documenti iconografici, spin-off di decenni di ricerca filosofica, visti dal suo studio – luogo fisico, più di uno, tra Roma e Venezia -  e di cui tenta un vero bilancio di senso. (un’autoficion di un non poco avventuroso  “romanzo della ricerca filosofica”.)
E’ indirettamente teoretico, ma pure lo è, questo percorso di ricordi di Agamben.  Sottotraccia,  corre l’energia di una confessione, e se con Sant’Agostino quel “genere narrativo” della coscienza è stato anche alla base della filosofia moderna, che in dondo è stata sempre una sistemazione narrativa e prospettiva del modo di vedere il mondo da parte di un Soggetto. ( In più questo approdo lo tradurrei anche in odo più colloquiale “Sì, ma tutto questo che ho studiato con raffinatezza di analisi del linguaggio, a me serve? E a chi mi è caro?”)

Agamben ci accompagna nei suoi studi mentre fa un rendiconto da filosofo sul senso di tutto quell’impegno – e sul senso di quei ricordi. Cruciale ad un certo punto la questione di  chi la erediterà questa storia (di studi, nel doppio senso)  perché solo così assume senso aver tanto studiato):
La trasmissione del sapere è dunque intimamente legata al sapere stesso, in questo io tendo a vederci anche un non-detto, l’eredità reale e concreta di quei luoghi e di quegli oggetti. Ed è intimamente legato ai pensatori del tempo come Benjamin e Heidegger che Agamben ha frequentato

5.0.1

Come in Ben Lerner di NMAV, la spinta a ricercare e a creare, a generare pensiero ha il dark side of the moon nell’assenza di una generazione e successione diretta biologica, di un erede, come lo si dice nel senso comune, un segno non tanto e non solo di un sentimento personale, seppure sulla singolarità biologica dell’Homo Sacer Agamben abbia basato la sua ricerca più potente, quanto come segno epocale di un’incertezza di direzione storica.

La memoria di ciò che sono stato è anche la proposta di una storia possibile di generazione, sembra dirci Agamben. Essere stato discepolo, e figlio, nella mia storia – che qui va a finire insieme la mio tempo storico e biologico, per una generazione che invecchia assieme al secolo XX che pure l’ha così tanto fatta emergere, ci fa cercare ora, in questo tempo sterile, su questo binario tronco,  tutte le possibilità affinché la Storia non finisca: affinché non finisca contro l’opaco il vostro sguardo nascente.


5.0.2

(Qualcosa di simile abbiamo fatto – devo citarmi, chiedo venia – noi tutti allievi di
Biancamaria Frabotta per il suo settantesimo anno e per la fine della sua carriera universitaria mettendo assieme scritti per un volume (“Il libro degli allievi” Bulzoni) : un modo singolare e irrituale, perché sentivamo tutti forte la necessità di restituire l’esperienza e trasmetterla. Con la memoria rendere omaggio a chi aveva fatto dello studio un gesto e un'attività non solo intimamente collegato al suo essere poeta, ma anche aveva posto una dedizione estrema alla trasmisione dell'esperienza cultuale arrivata fin lì, nei primi anni 80. Un docente capace di magistero umano oltre che letterario, perché è stata in cattedra anche da grande Poeta. Non il solito volume di studi formale e accademico, in omaggio, ma “memorie vive”,  una traccia di ciò che siamo diventati oggi grazie a quel magistero o semplicemente incrociando questo magistero, fino anche – per ognuno di noi – la traccia di tutto ciò che NON è stato, di ciò che non siamo diventati (ognuno ovviamente lo legge in filigrana).

5.0.3

Da questo punto di vista la narrazione è il laboratorio di un passato sempre possibile, perché rileggibile, modificabile in teoria – come in teoria ci dice ci sono  dimensioni parallele la scienza – dove, in teoria, potrebbe accadere altro.
Non c’è solo il lutto alal fine del tempo, non c’è solo la scienza triste per i suoi limiti mortali. Ciò che è passato è anche rifondativo del possibile in sé: è la potenza, non solo del pensiero e del pensatore, ma il punto sorgivo dell’atto a venire che si genera, si sta generando   anche nel lutto,  di ciò che non sono stato, il lutto (meglio: la malinconia)  di chi non ho generato, né creato, il lutto di chi non c’è più ad essere qui, in quel che io sono diventato.

Figlio e romanzo a venire per il protagonista di Lerner, gli “studi” di Agamben, la giustizia per la storia di Graziella per Dora, l’esercizio del passato come lente proiettiva di un futuro possibile, anzi: l’apriori, del fatto che un futuro è sempre possibile, o meglio: un accadere è sempre possibile, il possibile è nel continuo accadere della vita, prima di tutto del bios. Poi del Nostos.

5.0.4


 Bisogna rivedere la stratificazione temporale in cui, tuttavia, nulla è dato per archiviato. Se la suo come metafora del tempo per la fisica è una metafora, ma se poi la trasporto nella storiografia processuale di questo paese questa affermazione da teorica, si fa pratica. Tutto è in uno spazio di polarità di eventi – i quanti nella materia e dunque perché non possiamo considerare così la materia della nostra storia: si trasformano al punto da creare una “differanza ( Luce Irigaray) nel tempo : abbiamo bisogno di un nuovo afferire (concretamente, anche di nuove strutture poetiche e narratologiche: il nuovo sperimentare che fa come l’angelo di Klee), esattamente come le categorie del genere sessuale rivoluzionarono il dire generale ( e dunque i destini generali, sempre agiti da diverse narrazioni) a partire stavolta dal tempo,  dalla differenza che generò un inferenza, un narrarsi differente.

5.1
E’ qui che si rinnova l’utopia forse, in un tempo che sembrava averla archiviata per un limitato relativismo. Il tempo a venire  è anche in ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, quel passato che non è accaduto – il contrario della nostalgia -  e che diventa preludio di un possibile (“futuro” usiamo ancora la parola ma con altro senso), anche se forse non accadrà e sta in un fluxus di narrazioni che esse si danno il senso. Che rinnovano il senso. Per un filosofo come Giorgio Agamben ill suo “Autoritratto nello studio” è l’occasione per parlare di sé ma sempre da filosofo, mettere i in fila materiali di una vi leggi la facies,  in un lampo, di un’eredità possibile e il senso generale di un tempo che è tutto compresente,  qui come nei quadri allegorici del barocco.
L’eredità è ricevuta e da trasmettere, in  una dimensione sempre aperta  per Agamben,  di tensione,  tra ciò che rimane di una vita di studi filosofici ma anche di incontri che hanno influito su una visione del pensiero. Le forme della vita stanno dentro il complesso della vita stessa e necessariamente non possono essere separate dallo “studio” come luogo e come attività e come tema filosofico.

5.1.2

Ne L’autoritratto  il percorso attraverso tutto il pantheon di incontri e letture fatte, mette assieme i
vivi e i morti, i libri e le persone: per cui Benjamin e Heidegger sono sullo stesso piano emotivo per Agamben benché con l’ultimo ci siano stati rapporti in vita, con l’altro no. Tutti sono “presente” e presenti.  Alla fine tuttavia è come se il precipitare di tutte le esperienze, letture, incontri di una vita si affollino come un deposito di futuro, non solo di passato, ai piedi di chi li ha vissuti, quegli eventi. E ai piedi chi potrebbe raccoglierne l’eredità.  Eventi che ora, nella memoria stanno tutti assieme in un parallelo di tempi verbali, o nell’indecisione fallace dei tempi verbali

 scrive Agamben : ” una pagina dei taccuini di Chiaromonte contiene una straordinaria meditazione su che cosa rimane di una vita. Non che cosa abbiamo o non abbiamo avuto è per lui il problema essenziale – la domanda vera è, piuttosto : “che cosa rimane?”, “che cosa rimane del seguito di giorni e di anni vissuto come si poteva, e cioè secondo una necessità di cui neppure ora riusciamo a decifrare la legge, ma insieme come capitava, e cioè a caso? La risposta è che rimane, se rimane, ‘ quello che si è, quello che si era
Si è. Si era. Quando? Non c’è tempo, accade, è accaduto. E’, qui e non solo ora. Per noi alla fine  scrive sempre Chiaromonte citato da Agamben -  “rimane l’amore, se lo si è provato, l’entusiasmo per le azioni nobili, per le tracce di nobiltà e di pregio che si incontrano nelle scorie di una vita”  e dunque  “rimane quello che era, quello che merita di continuare e durare, ciò che sta”.

Il tempo è quel che rimane. Quel che rimane non è un sintagma che esprime passato, del resto resto si rimane per dopo, e si sta.

5.2

Giorgio Agamben dall’Autoritratto: “Si deve stare ore sulla stessa pagina e nemmeno sognarsi di leggere il seguito poi ripetere l’esperienza con un’altra pagina…il tempo della lettura si arresta in un punto morto tra passato e futuro che si dovrebbe chiamare presente immaginario dove la successione si inverte in regressione e ciò che ha luogo non è una lettura progressiva, ma il divenire di una memoria. I l libro non si legge: si compita piuttosto attraverso una serie di ricordi staccati e indimenticabili che emergono da un punto immemoriale al di fuori del tempo
Si esiste come quando il lettore legge, tutto sta. E la memoria è fuori dal tempo, non ne ha bisogno, lo ricostruisce continuamente essa stessa, producendosi, come una narrazione.  La memoria è realmente tale quando fa a meno del passato perché tutto ciò che ricordo sta, fa a meno del futuro, perché è ciò che sta continuamente.
Alla luce di queste parole considero i libri di Lerner e Lipperini una sperimentazione dei nostri tempi e di un futuro possibile. A venire, in arrivo.

5.3

Faccio una deviazione per citare un saggio uscito lo scorso anno di Enzo TraversoMalinconia di sinistra” (feltrinelli)  Non ci interessa tanto la questione politica, quanto la più generale prospettiva di mutamento della storia che il pensiero politico della sinistra ha tratto da tutto l’impianto umanistico, letterario e filosofico di cui si nutriva.

Ci interessa quanto sia in gioco la memoria e che rulo determinante anche politico intrattiene la narrativa con la questione del tempo e della memoria che alla luce della scienza si rinnova sulla via già tracciata da Bergson.

Scrive Traverso
“….La visione marxista della storia portava in sé una prescrizione mnemonica: bisognava inscrivere gli eventi del passato nella nostra coscienza storica al fine di proiettarsi nel futuro. Era una memoria strategica delle lotte emancipatrice del passato una memoria orientata verso il futuro. Oggi la fine del Comunismo ha troncato questa dialettica tra passato e futuro e l'eclissi delle utopie che accompagna il nostro tempo "presentista" ha condotto la memoria marxista alla soglia dell'estinzione. Il futuro è diventato una sorta di dialettica negativa mutilata. Questo mutamento ha favorito la riscoperta di una visione malinconica della storia come "rimemorazione" dei vinti Walter Benjamin è stato l'interprete più profondo che appartiene una "tradizione nascosta" del marxismo e questo mutamentoquesta transizione dall'utopia alla memoria ....
Quando, dopo il 1989, siamo rimasti spiritualmente senzatetto e impotenti di fronte al fallimento di tutti i passati tentativi di trasformare il mondo, siamo stati costretti a rimettere in discussione le idee stesse su cui avevamo tentato di interpretarlo.
Quando un decennio più tardi sono apparsi nuovi movimenti di Uniti sotto una bandiera sulla quale c'era scritto "un altro mondo è possibile" essi hanno dovuto reinventare le loro identità intellettuali e politiche. Più precisamente hanno dovuto reinventare se stessi ……. Questo passaggio da un'epoca di fuoco e sangue che nonostante le sconfitte subite rimaneva decifrabile a una nuova era di minacce globali senza esiti prevedibili ha un sapore malinconico.    Questa malinconia non è soltanto un guscio riempito di struggimento e rimemorazione si tratta piuttosto di una costellazione di emozioni e sentimenti che avviluppano una transizione storica, il solo modo in cui la ricerca di nuove idee progetti può coesistere con la tristezza e il lutto dopo la fine delle esperienze rivoluzionarie. Né regressiva né impotente, è la malinconia di una sinistra che, senza cercare scappatoie, carica sulle proprie spalle il fardello del passato, spesso soverchiante…”

Aggiunge Traverso che ogni prospettiva di azione politica del cambiamento del mondo verso il possibile futuro va ripensata “ …attraverso il Prisma della malinconia in questo passato a un tempo familiare e sconosciuto - vissuto trasmesso poi rimosso infine è rimasto Ignoto alle nuove generazioni - i dibattiti intellettuali si mescolano esperienze culturali più ampie difficili da sistematizzare……..Le tracce di questa malinconia di sinistra sono assai più facilmente riconoscibili delle molteplici espressioni della Fantasia che nelle elaborazioni dottrinali e  acquistano del resto nuovi significati quando sono riesaminate attraverso la lente dell'immaginario collettivo che le accompagna."

io lo chioserei così: E’ il racconto che fa il tempo, nel senso che è il racconto centrale nell’elaborazione di ciò che dovrà sostituire il discorso della ideologia, ed avere un ruolo nell’agire politico, nell’ispirarlo, anche più di prima.

6.0

Cerco anche di rileggere, filtrare, le narrazioni letterarie e memoriali di Lerner, Lipperini e Agamben oltre che in questa chiava “maliconica” anche alla luce delle tesi scientifiche ma non scientiste espresse da Carlo Rovelli che generano invece esaltazione…E’ interessante  che il fisico sperimentale che ci ha guidato presentandoci il lavoro matematico e torico sperimentale di cui si occupa,  in qualche modo “fuori dal tempo” nel senso però di “fuori dalla concezione di temporalità” che abbiamo, e dopo aver scritto un libro in cui si presentano le ultime ricerche che la fisica quantistica sta effettuando sul tempo che dimostrano come il tempo non esista, scriva ad un certo punto ( Rovelli  in LODT  ……. )
  C’è un terzo ingrediente che fonda la nostra identità e probabilmente è quello essenziale, quello per il quale questa discussione delicata compare in un libro sul tempo: la memoria (..) .il nostro presente pullula di tracce del nostro passato. Noi siamo le storie per noi stessi. Racconti. Io on sono questa istantanea massa di carne sdraiata sul divano che batte la lettera “a”..sono i miei pensieri pieni di tracce della frase che sto scrivendo, sono mia madre e mio padre, sono i miei viaggi adolescenziali, sono tutte le tracce degli attimi di me, sono quello che un istante fa ha battuto sul computer la parola “memoria”. ..Io sono questo lungo romanzo che è la mia vita. “
E poi aggiunge un concetto importante per lo scienza di fisica nucleare che decostruisce la nostra nozione di tempo “
 “E’ la memoria che salda i processi sparpagliati nel tempo di cui siamo costituiti…il tempo è la forma con cui noi esseri il cui cervello è fatto essenzialmente di memoria e previsione, interagiamo con il mondo, è la sorgente della nostra identità e del nostro dolore. ..il tempo è dolore.”

via Agostino, Husserl Bergosn e Proust, ma anche il buddismo, Carlo Rovelli quanto più scientificamente  demolisce non solo l’idea di tempo che abbiamo, ma tout court l’idea che IL TEMPO in genere, qualsiasi forma esterna o universale, aprioristica, possiamo dare  ad esso, possa esistere, tanto più riconsidera il valore costitutivo della memoria che produce una sua forma d’onda di tempo in forma narrazione e dunque esso è in quella dimensione interiore e assolutamente singolare che appartiene a Marcel, Carlo o Mario, a X a Y ecc -   noi possiamo definirla “tempo” e seppure va poi a coincidere, leggendo, con quella  idea di tempo che ci siamo fatti anche noi, molti di noi, ciò non significa che esista un’idea di tempo oggettivo.

6.1
Occorre, sembra dirci Carlo Rovelli,  d’ora in poi convivere con una dissoluzione della temporalità, del suo ordine e forma, proiettandola se non nel quotidiano pratico, almeno nel senso interiore,  come lo hanno sempre pensato storici, scrittori e filosofi. Il tempo che “non esiste” , ma che è frutto di una mutazione, di un’ agglomerato di “eventi” che “accadono”  in uno spazio di trasformazione della materia. (“Non esiste il tempo esiste solo lo spazio”, una delle frasi choc del libro di Rovelli, se vogliamo).

Tutto ciò, tuttavia restituisce libertà, dà un grande valore alla memoria e alla narrazione come suggerisce alla fine lo stesso fisico, e ci sembra il preludio teorico epocale con cui poter ridefinire non solo l’idea di romanzo, ma tutta un’idea del senso della vita, laddove questa è l’accadere, per singoli e per molti.. Di come si restituisce senso a ciò che si è vissuto, ciò che non c’è più, ciò che è passato, ciò che non è invece potuto accadere. E che cosa rimane, oggi, di tutto ciò?

6.2
Sicuramente rimane in un luogo psichico, la memoria. Ma la memoria, se è il solo modo in cui sopravvive quel falso movimento che era la nostra storia, legata alla nostra idea di tempo, è anche un luogo atopico, un non-luogo. Se riandiamo ad Agamben la memoria (similmente a quel che dice Rovelli ) è la forma dell’identità, è anche vero che  la nostra identità è atopica, è un sottrarre il nome al nostro luogo dell’anima interiore, dove ciò che dice io è in realtà una polifonia di molti-io è un multiple-name o un no-name. Un tempo che si dispone in cose e luoghi – e nomi -tranne me


 Agamben:

“…Essere a casa nel non ritrovarsi. La sola cosa sicura è che non sappiamo più dove veramente siamo…sentiamo di essere in un punto, quel dove – ma non sappiamo situarlo più situarlo nello spazio e nel tempo. Tutti i luoghi che abbiamo abitato, tutti i momenti che abbiamo vissuto ci assediano, ci chiedono di entrare – da dove? Dove è dovunque e in nessun luogo. Diventare intimamente stranieri a sé stessi, senza più patria né matria.”  (p. 9)

martedì 28 novembre 2017

IL TEMPO E' IL SUO RACCONTO. 3


4.0

Lerner come  Lipperini costruiscono un libro come dispositivo complesso in cui il tempo narrato, e il tempo narrato scritto,  svolgono un’elaborazione del “possibile domani e del “possibile ieri” e sono un tempo alternativo in cui “il tempo” non è più necessariamente un fiume inesorabile, ma un luogo memoriale in cui mettersi in salvo. E in cui mettere in salvo la Storia. La redenzione della Storia ritrova nella memoria la sua stella, che ingloba inevitabilmente il what if, il cosa sarebbe accaduto se, non come semplice esercizio narrativo, ma come principio dell’interpretazione della Storia medesima, dei suoi fatti narrati che influisce costantemente nell’agire presente, nel determinare il tempo a venire.

4.1
Tornando al libro di Lipperini  LADS.
La costruzione memoriale delle vite parallele – parallele anche nel binario assenza-presenza – di Dora e Graziella, la cronaca del suo lavoro e della sua scomparsa, gli intrecci di trame si proiettano sul tempo presente, anche qui  sulle “decisioni narrative” dell’Io-narrante (Loredana/Dora) che nel continuo confronto tra i tempi, introduce una disseminata autoriflessione sul destino. Significativo, credo,  l’episodio del  cosa sarebbe successo se  Dora/Loredana durante l’ultimo incontro con Graziella fosse stata più empatica e avesse cercato di convincere l’amica incontrata, ,  per caso,  dopo un litigio che le separò, a non andare in Libano.
 Questo  ripensamento di una storia rimasta in ombra,  induce Dora a riconsiderare tutto il senso della sua come della nostra vicenda storica, di ciò che ci ha portato ad oggi -  “destino” o “ caso”,  come è il senso di cosa abbia portato Dora stessa senza Graziella – ma grazie a lei?  -   a trovare una strada,  in qualche modo segnata, con il giornalismo la radio, la letterature come era nei suoi sogni – e di come però la morte stessa abbia interrotto  quella della sua   amica geniale – ed è questo aspetto del ripensamento che modifica anche in senso morale, otre che forse teleologico,  il senso del tempo, della storia dei destini generali come di quelli individuali. 

Le possibilità, avute e non avute. L’assenza di chi non le ha avute:  un lavoro del lutto  per l’amica scomparsa (ma anche per la madre, più recentemente)  così da ridefinire  la misure e il valore di ciò che si è vissuto.   Memoria, lutto, dolore. Politica, etica, scelte. Kairos, Storia. Come per lo scrittore protagonista del romanzo di Lerner la vita da concepire, per Dora è la morte di Graziella, ancora inconcepibile, è ciò che genera un’azione.
Una morte dignitosa - la sepoltura, la giustizia per la morte - da un lato, una vita biologica che si fa strada cercando possibilità, Iniziao vita, fine vita, non sono le due colonne d’Ercole dentro cui pass la politica contemporanea? E dunque una narrazione, letteraria, entra di diritto nella discussione politica, perché è là dove si sperimentano i valori che sono in campo. In questo senso fondamentale per il nostro tempo è il racconto. Il tempo riprende senso, si ridisegna in una forma anche nuova, teleologica e politica, dentro il racconto, non dentro un quadro ideologico. Anche se la politica e l’opinione publica, ahimé, non ne tengono conto, specie in questo paese di scarsi lettori.


4.1.1

Nel valutare tutti questi libri alla luce delle teorie esposte da Rovelli, mi verrebbe da dire che La narrazione è l’unica possibilità di esperienza reale del tempo, le altre sono – secondo la scienza –bastate su un tempo lineare, su una logicità concatenata delle cose. Non ammettono variazione, autocritica, ripensamento, aggiustamento che passa invece dal vissuto psichico degli accadimenti..
La narrazione è l’unica possibilità di riconsiderare – salvare? -  anche ciò che del tempo è perduto. Non solo come luogo fissato per sempre, ma perché la memoria è inscindibile dal ripensamento. Il tempo è trasformazione, compreso ciò che si è vissuto. E’ un invito, non significa che del vissuto si deve fare sarabanda emotiva.

Prendiamo ad esempio le illusioni, specie quelle più radicali, della politica, quelle di chi credeva di cambiare il mondo, e che ora pensa siano andate perdute: lo sono, sono,certo,  inattuali – ma come scriveva Marina Cvetaeva ne “Il poeta e il tempo”,  ciò che è contemporaneo non necessariamente è attuale.  Nella narrazione si comprende  quanto dentro tante vittorie pesi un controcanto al buio di sconfitta, e il suo contrario: così l’assenza irrisolta di Gabriella (come in uno strappo del tragico che rinnova Antigone e Priamo, senza il corpo e  neppure un sepolcro su cui piangere) misura per Dora e per il lettore che la segue nella sua scrittura, il valore di tutte le nostre  battaglie. Collettive, personali. Ma neanche segna la necessità che quella storia vada Scritta per sovrascrivere il silenzio su di essa.


4.1.2



su LADS di Lipperini, tenterei anche un ulteriore ipotesi - forse poco ortodosso:  un’interpretazione specificamente “storica” e relativa all’Italia  di questo mutamento dell’ idea di Tempo Storico così come vi sto accennando, tra scienza e letteratura….. Una filosofia della storia ad hoc, per un paese solo: Il nostro.
 Il tempo italiano sembra governato da Saturno, il pianeta della malinconia. Bloccato nel peso del passato non sciolto, impedito al futuro.  Una rivoluzione temporale che trascina con sé sempre macerie. La verità monca della storia di Gabriella e della storia italiana di cui fa parte sono un tempo storico che divora i suoi figli, i sopravvissuti sonnambuli di un tempo storico “del dopo”, che da quel punto morto della storia, esplosa con le bombe e con i troppi morti, non a caso inizierà a definirsi,  ad ogni passo verso il futuro, come un tempo della posterità. O tempo postumo, come i suoi poeti. E la narrazione del Narratore/Dora/Loredana avviene da questo punto di vista.
Ci troviamo a vivere un’epoca in cui per molti il tempo non avanza più, si ripete nella misura di una distanza da un passato. Non offre prospettive.  Ed è qui, che in questa coincidenza di riflessione filosofica del post-moderno, con le sue forme narrative di storiografia, con la sua ridefinizione della storia  proprio attraverso la narrativa, anche di finzione, che LADS intreccia le trame italiane dei misteri, le finzioni,  i fatti irrisolti, i destini individuali. Che presente viviamo? Che possibilità abbiamo di raccontarlo? è efficace ancora il romanzo storico e realista? E il noir, la distopia?

4.1.3
Sono molti e proficui i rimandi di LADS,  polifonia di significati capace di  mescolare i generi, è un “conglomerato” di forme del romanzo. Andrebbe svolta  – per citare solo qui qualche parentela italiana,  in qualche modo si apparenta al lavoro negli anni di uno scrittore come  Giuseppe Genna (in uscita col suo nuovo “History” )  o del collettivo Wu Ming  (ma aggiungerei anche il bravo Davide Oreccchio, specie con l’ultimo libro”Mio padre la rivoluzione”) in cui prevale la distopia finzionale su cui si innesta la verità storia e dall’altra di un’autofiction ormai classica , si potrebbe ironicamente definire  post-Walter Siti . Ma poi c’è un recupero anche della storia, non semplicemente come romanzo storicocome è stato       “ La Gemella H”  di Giorgio Falco e del suo  recupero (anche come gesto politico-letterario) della autobiografia personale nell’ultimo  “Ipotesi di una sconfitta”, anche qui un ripercorrere il secolo dentro uno svolgimento dei destini personali. Lo stesso lavoro dentro la storia che contraddistingue i romanzi di Helena Janeczek, siaLe rondini di Montecassinoin cui la Storia è una memoria sopravvissuta di una battaglia ma anche di tutte le storie in dividuali che dal presente ri-tendono a quel punto storico, sia l’ultimo “la ragazza con la Leica che introduce un altro elemento, nel racconto delle biografie di Gerda Taro e Robert Capa: quanto dobbiamo della memoria storia anche al fissarsi di un’istantanea, quanta percezione del presente storico, allo stesso modo, dipende dal guardarlo sempre come un archivio di immagini (mediatiche). Insomma quello che vorrei dire è che la migliore filosofia politica a cui dovrebbe attingere “la politica” secondo me si sta scrivendo ei romanzi che indagano questi nodi tra memoria, storia e presente. 


4.1.4


Per contrasto e solo per breve deviazione vorrei accennare anche per alcune significative tangenze con uno dei libri in oggetto qui,  ad un libro di cui si è molto parlato : il romanzo di Teresa Ciabatti, “La più amata”. Di questo romanzo mi interessa sottolineare qui solo la differenza di approccio ad una materia personale E storica insieme, per definire forse una diversa sensibilità al tema del tempo e della storia, approfittando del fatto che le vicende narrate vanno a sovrapporsi per un tratto al segmento storico narrato da Lipperini – tra metà anni 70 e metà anni 80 soprattutto - . “La più amata” è un romanzo in cui l’autrice non sembra però interessata dalla concezione di una Storia e non ha la ricchezza di costruzione e di senso – da questo punto di vista - che ha “LADS”. Forse un segno generazionale ? il non aver voluto  cogliere (perché è mancato il vissuto politico, perché forzata da una visione catodica della realtà?) la ampiezza di risonanze degli innesto tra storia personale e la Storia collettiva che ha LADS. 

Pur avendone un’occasione incredibile,  a partire dalla biografia narrata nel libro,  quella del personaggio Teresa-la-bambina e di suo padre, primario di provincia: la oro Villa di Orbetello era piena di frequentazioni che facevano capo all’amico e sodale di massoneria e Gladio del padre di Teresa, il proprietario della non lontanissima Villa Wanda nell’Aretino, quel Licio Gelli che è uomo chiave per molte cose dell’Italia del passato, compreso l’omicidio di Graziella Di Palo nella catena di collegamenti degli eventi. Questo fa di LPA un testo bidimensionale, rispetto a LADS . Nella misura in cui un autore è rappresentante di una generazione anche nolente, quella di Ciabatti nata dalla metà anni 70 in poi, è quella del riflusso individualistico nel consumo degli 80-90, distante e opposta alla generazione di Dora e Graziella, capaci di interpretare in modo tridimensionale la Storia di cui siamo parte.
( Lo fa invece molto bene, pur parlando apparentemente molto di Privato un grande romanzo buddenbrookiano  come quello di Edoardo Albinati, “La scuola cattolica”.)

5.0


In questo quadro in cui si collocano assieme la scienza di Rovelli, la narrativa di Lerner e Lipperini,  in cui cerco di individuare la possibilità di riconsiderare il nostro senso della storia (e se la storia fin qui vissuta abbia un senso), vorrei introdurre ora un filosofo e saggista come  Giorgio Agamben, che dei temi del tempo si è occupato come filosofo, ma che nell'ultimo libro preferisce del suo "studio" fare un' "autoritratto".

Nel prossimo capitolo

lunedì 27 novembre 2017

IL TEMPO E' IL SUO RACCONTO. (2)

(Capitolo secondo) 




3.0

Letto “LADS ” e mentre stavo finendo di leggere  LODT di Rovelli, mi è capitato anche di riprendere un libro lasciato sospeso (non perché non mi piacesse anzi) , perché mi sembrava si allineasse a questa riflessione sul tempo e le esperienze –  “Nel mondo a venire” di Ben Lerner, (Sellerio)
Anche questo un libro che narra di un pezzo di vita di un personaggio-io (senza nome) che ha molti tratti in comune con quel che sappiamo dell’autore:  è un poeta e critico d’arte, ha una cattedra universitaria a Brooklyn, dove vive, e ha pubblicato da poco, per un piccolo editore, un romanzo accolto con grande favore, anche se non con grandi vendite. Sull’onda di questo successo di critica il suo agente ha venduto al New Yorker un racconto lungo, proposto anche a diversi editori come se fosse il nucleo di un nuovo romanzo, fino a strappare un anticipo per un “libro a venire” (parodia e citazione di Levinas, Di quei paradossi del tempo parliamo). Questo libro a venire si intreccia nel protagonista col suo mondo, i suoi fatti quotidiani, le sue ore e giorni, e sul suo avvenire su cui dirò più avanti.

3.1


LA struttura di “Nel mondo a venire”  e l’idea di concatenazione  temporale che Lerner concepisce merita intanto  un piccolo focus su questa densità che non è solo un virtuosismo della costruzione formale della narrazione.. Partendo dal titolo, che in originale è  “10:04”  e si riferisce al minuto della video-installazione “The Clock” e che il protagonista vede in una galleria e  in cui appare  una sequenza di “Ritorno al Futuro” – altro film culto, del 1985  così come TwPks lo fu dei 90. Emerge un’idea di un tempo malinconicamente riverso su sé stesso, già da tempi che dovevano essere “del futuro” – uscivamo dalla guerra fredda (s i firmavano accordi Salt, ricordate?) e ci lasciavamo alle spalle gli anni 70 duri di crisi e di piombo. Invece  – scoperte della fisica o no – questo stare nella spirale di un tempo che si rimangia è tratto generazionale negli autori nati nel boom economico e che oggi hanno 50-60 anni e sono alla prese con la fragilità del presente – e forse della vita, in generale. Scrive Bel Lerner in “NMAV” :

“..“ Avevo sentito descrivere The Clock come il collasso più estremo del tempo narrativo su quello reale, un’opera ideata per cancellare la distanza fra l’arte e la vita, la fantasia e la realtà. Ma uno dei motivi per cui avevo guardato il telefono era che per me quella distanza non si era cancellata affatto: anche se la durata di un minuto reale e di un minuto di The Clock erano matematicamente indistinguibili, erano comunque minuti che appartenevano a mondi diversi. Il tempo di The Clock lo guardavo ma non ci ero immerso dentro, o, in altre parole, stavo vivendo lo scorrere del tempo in sé, non vivevo esperienze calate nel tempo.

Mentre creavo e disfacevo una serie di narrazioni sovrapposte sulla base di quel collage di filmati, ebbi l’intensa consapevolezza di quanti giorni diversi si potrebbero costruire a partire da un giorno solo, e provai più un senso di possibilità che di determinismo: lo scintillio utopistico della narrativa
”….

Non a caso però il collasso che vive il protagonista, un newyorkese,  è quello post-collasso delle torri gemelle, con il 2001 a fare da spartiacque tra quello che pensavamo post-moderno felice degli anni ‘90 del vecchio XX secolo  e il non-si-bene-cosa del XXI.

Se leggo Lerner, mi verrebe da dire che sembra sia toccato a questa generazione un vivere la  vertigine di incognite del cambiamento: dal tempo biografico, biologico a quello storico.

Vivere quello che era sempre stato il passaggio “naturale” verso la vecchiaia, oggi, in un momento in cui invece si vive anche biologicamente un’ età tra i 50 e i 60 davvero sconosciuta nella sia identità. Non si capisce bene cosa si è, e cosa si diventerà. E questo sommato ad un mutamento del Tempo Storico in cui ciò che era stato il 900 termina, ma con esso un tempo lungo di esperienze – e avviandosi  verso incognite di un età globale.
C’è inoltre in questo passaggio forse già una chiave che ritengo importante, seguendo le conclusioni di Rovelli sul piano scientifico e cercando di pensare in che modo questo cambiamento dei parametri del tempo che la scienza induce a fare, possa avere conseguenze, umane e culturali,  letterarie, laddove la letteratura possiamo intenderla come un’epistemologia del reale e una teleologia della storia, seppur dentro un apparato di finzione.
 Naturalmente la Sci-fi, il fantasy, il romanzo distopico negli scorsi anni aveva fatto di questo tempa già una ricerca, come scia del post-moderno,  ma ora time they are a changing.

3.1.2

Il libro di Lerner come quello di Lipperini scivolano avanti e indietro nei tempi, attraverso un dispositivo formale che segue quello psichico, in un apparente non-ordine diegetico e ne rinnova uno antico, la forma della memoria.. Lo fanno, questo  intendere psicologicamente il tempo, che si ricollega alle riflessioni Bergson e Proust – ma con una oggettività che la scienza ci consegna e che dovrebbe consegnarci il tempo solo come memoria e come tale poliforme, diffuso, instabile – da legare al discorso e alla scrittura, più che alla legge universale.
Quello che lo spiazzamento tra essere e non essere pongono le gli avatar, le molteplici o nulle (WU MING) identità, in un ‘epoca che ha fatto del Nick Name i lsuo fiore all’occhiello, diventa anche lo spiazzamento del “dove mi trovo” temporale.
In che punto della Storia è la mia psiche? Verso dove sono proiettato?

A mio avviso la conseguenza letteraria dovrebbe essere  anche una certa destrutturazione narratologica, a cui siamo abituati, ma che rimescola insieme sia la ricerca letteraria formalista, sia i generi della Sci-fi, i romanzi della distopia ma li sposta decisamente su un piano contemporaneo e  conoscitivo –filosofico, forse politico e direi magari con riflessi nella sfera del  biopolitico.
Torniamo al libro di Lerner.


3.2

Come dicevamo, grazie al suo anticipo sul romanzo da scrivere, il protagonista di NMAV è ritratto da specchi multipli: è uno scrittore che deve costruire/scrivere  un libro, futuro  ma di fatto quel  NMAV che abbiamo in mano, questo qui pubblicato da Sellerio, è già il brogliaccio di quel tentativo di scriverlo,  anzi :  il romanzo che stiamo leggendo è quello che nel libro si dice sarà il libro a venire.

Lerner procede con una narrazione che riprendendo per suggestione un’altra immagine di geometrie sperimentali potremmo chiamare “frattalica” ( la geometria che si occupa di scrivere teoremi per figure geometriche in realtà complesse e irregolari, figure irregolari ma geometriche)  in cui la prima persona è il “sé” scrittore-narratore  (non è autobiografico, ma i pezzi per il New Yorker del personaggio-che-dice-io,  e che stanno proprio in questo libri qui, Lerner, alla fine li ha pubblicati realmente sul NY con una distopia editoriale interessante  ).

Leggiamo il protagonista alla prese, mentre vive, con continue decisioni di scrittura (“posso scrivere questo che mi è appena capitato, nel nuovo romanzo?”) che diventano di fatto variazioni al romanzo che poi sarà. Ecco dunque qualcosa in più del mise en abyme o della metaletteratura: c’è un  meccanismo di “variazione” della narrazione,  in cui le varie parti del libro stanno incastrate in una costellazione coerente ma non completa, che attraversa il tempo di scrittura di NMAV e del suo “doppio” libresco a venire, facendosi  spazio dei suoi accadimenti, in cui alla fine non seguiamo tanto una trama quanto uno stare dentro una situazione, il tempo è un luogo narrativo.  (sembra proprio come si potrebbe immaginare calato nel concreto quel  non-più-del-tempo descritto da Carlo Rovelli, ci torno più avanti).

3.2.1


E’ dunque un libro in cui ci sono fili, loop ma non c’è una classica trama, ma c’è intreccio di accadimenti. Non è nuovo a ciò il cosiddetto romanzo Post-Moderno,  è vero. Tuttavia rispetto a quello l’intreccio si costruisce attraverso un cumulo di elementi, eventi importanti o secondari, anche sconnessi,  ma che vanno comunque a costruire coscienza dell’io narrante, un io-luogo, un IO-Aperto. Il Narratore si fa spazio che  definisce e  ri-organizza non tanto  un tempo di fatti –sì, anche quelli – ma soprattutto dispone il testo come una composizione interiore,  (Lerner è un poeta non dimentichiamolo). Non c’è un’idea di “come sarà” – un a-venire, non viene concepito dal Soggetto-che-scrive ma è come se si vivesse alla giornata, in cui la fine della Storia, lascia semmai più vivace la coscienza che li accoglie come fenomeni e li ricorda.
Esattamente come la fine del tempo, ci dice Rovelli, non è la fine della memoria.
(la fine della Storia degli umanisti non è nulla, del resto rispetto alla  devastante prospettiva della fine del tempo che oggi stanno dimostrando gli scienziati).

3.3

Una  narrazione che estende il suo interrogarsi anche a conseguenze dai risvolti  “biopolitici” per questa radicale revisione del senso del tempo. Questo a me sembra un punto importante.

Tutta questa costellazione di eventi appartiene al personaggio di Lerner che abbiamo detto sopra, con una complicazione in più, anche questa estremamente emblematica di una generazione baby-boom a basso di riproduzione   ( la storia ulteriormente si avvolge ad elica come il DNA, su un’altra, come lo è la storia del falsario nel libro di Loredana Lipperini) .
Avviene  nei segmenti di NMAV in cui si narra di generazione di umanità a venire: infatti uno dei fatti da scrivere è quando Alex, che è la migliore amica del protagonista, gli chiede di aiutarla a concepire un figlio,  attraverso la fecondazione intrauterina: lui, l’amico, deve donare il seme.. Nello stesso periodo di tempo al narratore viene diagnosticata una malformazione congenita dell’aorta che, ove dovesse aggravarsi, lo costringerebbe a un delicato intervento. Ed è segno del suo invecchiare, biologico come biologico è procreare.
 Su tutto ciò, di tutti anche piccoli eventi della sua giornata, il   protagonista si interroga continuamente su questi eventi e  se metterli nel racconto per il NY o nel prossimo romanzo. In più, non sa se avrà un domani, ma pure potrebbe avercelo (nel figlio, biologicamente).
           E’ così anche NMAV di Lerner : che il tempo divora la narrazione o viceversa (come quando nel in LADS Lipperini racconta di come abbia deciso di non scrivere solo la storia del falsario, ma di fronte al Vermeer, di scrivere anche quella  di Dora).

In queste narrazioni abbia a che fare con  l’immagine – l’idea -  di un tempo a venire che con la lettura innesca in noi in realtà il “già-passato”.  IN Lerner il filo di accadimenti sulla malattia innesca qualcosa nell’altra storia, della vita generata, del figlio possibile. Due piani integrati da una scrittura che continuamente rimanda ad una altra scrittura a venire, generando una proliferazione di dimensioni temporali parallele.
         Il tempo è la vita che percepiamo, la vita in divenire, la vita che accade, ma la vita è questa qua, piena di disordine,  in cui non c’è fondatezza, sembra dirci l’io narrante di Lerner,  e  tutto sembra sovrapporsi: è la presenza del passato e la proiezione nel futuro, in una dimensione di quotidianità di un presente incerto e instabile a fare l’onda temporale. Così il libro di Lerner mostra in atto, nel gesto dello scrivere stesso, che la forza della biologia è un vento politico ma inoperoso, è la costruzione di futuro. Direbbe Bergson è “l’evoluzione creatrice”.

Lo fa non solo attraverso l’agire dello scrivente, ma anche la storia che scrive, i fatti del suo diario-romanzo-laboratorio,  con le scelte di una comunità inoperosa a due (protagonista e amica Alex) perfettamente inserita nelle dinamiche dei nostri tempi, si direbbe: non è amore, non è sesso, non è famiglia, non è amicizia, non è un contratto sociale, ma forse è tutte queste cose assieme in una forma tuttavia inedita e singolare di “patto” di “giuramento” antico – Alex che non vuole una relazione ma neppure fare “solo sesso” con il protagonista, gli chiede di essere il padre biologico di suo figlio, lo “usa” per una forma di bene-senza coppia, ma lo  costringe però ad una curiosa “fedeltà”: a non fare sesso con altre donne,  almeno per il periodo in cui dovrà produrre il seme per il laboratorio medico, gettandolo in quella grottesca produzione di vita fatta tuttavia masturbandosi davanti ad un film porno….. .

  3.3.1


           Tra comicità, flanerie, malinconia di futuro, invenzione di una storia, passati paralleli sempre presenti, quello che chiamavamo destino diventa un labirinto (o laborintus)  di temporalità in cui la letteratura da un lato sembra secondaria, rispetto a questo impegno di procrastinazione della specie e quello di mantenimento della sua salute personale. Al tempo stesso, raccontandola – così come noi lo leggiamo ora nel libro - si partecipa alla medesima precarietà del mondo, con quella fragilità indistruttibile dell’umano. Nella fluttuazione che distingue il nostro permanere temporaneo sul pianeta, in un tempo indefinibile e in una Storia sempre sull’orlo di una catastrofe (alla lettera, la bufera che sta per colpire NY in NMAV)  la letteratura riesce ad essere testimonianza e strumento umano davvero determinanti.
E questo proprio nell’epoca di decadenza sociale del suo ruolo - Unepoca segnata nella sua deriva, a causa  proprio dalle scelte democratiche e culturali della maggioranza del pubblico, che sta scegliendo in maggioranza la più facile via dell’intrattenimento sociale, della compulsività di accumulare contenuti poco impegativi in  rete,  dentro una galassia di micro-glimpse narcisistici. E tuttavia paradossalmente tanto l’opinione pubblica maggioritaria NON sceglie la letteratura come via di una formazione della propria cittadinanza psichica nel mondo, tanto quanto i narratori sanno – da santi bevitori – accogliere anche questa galassia di negazione così come tutti i più piccoli dettagli del vissuto comune, che tutti facciamo sia chi legge mille libri che chi non ne legge nessuno:

Scrive Lerner scrive fiducioso – nell’avvenire? Nella letteratura? :

Ma mi chiedo se non sia il caso di considerarle brutte forme della collettività che possano servire come prefigurazione delle sue possibilità: la prosodia e la grammatica come materiali con cui costruiamo un mondo sociale, un modo di organizzare il significato e il tempo che non appartiene a nessuno in particolare ma scorre nelle vene di tutti noi.”

( ……..)   "Io potevo avere solo un’esperienza urbana del sublime perché solo in quel caso la grandezza incalcolabile era frutto di un’intuizione collettiva. Il debito accumulato, le tracce di antidepressivi nell’acqua del rubinetto, l’enorme reticolo arterioso di traffico, i cambiamenti climatici di violenza sempre maggiore... ogni volta che guardavo la punta di Manhattan dal lato del fiume su cui era cresciuto Walt Whitman mi riproponevo di diventare uno di quegli artisti che per un attimo trasformavano brutte forme della comunità in immagini delle sue possibilità future, un guizzo di propriocezione in anticipo rispetto al corpo collettivo. Ciò che provai quando cercai di assorbire lo spettacolo dello skyline – e invece ne fui assorbito io – fu una pienezza indistinguibile dallo svuotamento, il dissolversi della mia personalità in un’idea di persona così astratta che ogni atomo appartenente a me in pratica apparteneva a Noor, e il racconto del mondo si ricombinava attorno a lei.

Se ci fosse stato un modo per dirlo senza che sembrasse una boiata pretenziosa da radical chic, le avrei voluto dire che scoprire di non essere identici a se stessi anche nel modo più destabilizzante e doloroso contiene comunque la scintilla, per quanto rifratta, del mondo a venire, in cui tutto sarà come ora ma un po’ diverso perché il passato resterà citabile in tutti i suoi momenti, compresi quelli che dalla prospettiva del nostro attuale presente sono esistiti ma senza succedere davvero. Magari mi avrete visto, seduto su quella panchina a mezzanotte, coi capelli appiattiti dalla bandana, mentre mangiavo una quantità sconsiderata di mango senza solfiti e avevo, nel proiettarmi nel futuro, un piccolo episodio di pianto."


4.0


Lerner come  Lipperini costruiscono un libro come dispositivo complesso in cui il tempo narrato, e il tempo narrato scritto,  svolgono un’elaborazione del “possibile domani e del “possibile ieri” e sono un tempo alternativo in cui “il tempo” non è più necessariamente un fiume inesorabile, ma un luogo memoriale in cui mettersi in salvo. E in cui mettere in salvo la Storia.

CESARE VIVIANI. "OSARE DIRE" ( EINAUDI). lA POESIA CHE RICERCA, SENZA ESSERE SPERIMENTALE. DOPO LA LIRICA, OLTRE LA LIRICA.

Avevamo letto nel 2012 Infinita fine di Cesare Viviani, seguendolo nell’ulteriore tappa del suo lungo cammino di poesia, portare alle estreme conseguenze gli esiti e il senso di quarant’anni di ricerca.  Ma se dagli anni Settanta agli anni Novanta questa medesima ricerca era ancora dentro il Novecento, seppure dopo la lirica, negli ultimi vent’anni Viviani ha iniziato un lungo esercizio di “uscita dalla recita”, come aveva già scritto nel libro del 1981, L’amore delle parti. Il libro del 1993, L’opera lasciata sola fu il punto di svolta che arriva con diverse trasformazioni, al libro del 2012. Già da allora Viviani affrontava i temi che gli sono cari, il rapporto tra vivente, la natura, e un soggetto che si confronta con ciò che sa per interpretarla, il divino, mondato da tutte le false presenze, così come il teatro delle forme della vita comune, dei saperi e dei linguaggi, compresi quelli della poesia e da cui emergeva anche un sentimento di pietas verso l’umano. Iniziava allora anche un progressivo abbandono del territorio della lirica, quasi radicalmente ponendosi sul confine di riconoscibilità (e di grande originalità) della poesia tutta, anche la più sperimentale e antilirica. Percorso estremo per ribadire che ogni forma d’espressione e interpretazione è ingannevole spettacolo. 

Da anni Viviani affronta una riflessione profonda che nasce dalla filosofia, psicoanalisi, dalla meditazione in senso più ampio, e da un’intima indagine del rapporto con il mondo e con il divino, il silenzio di quest’ultimo nella storia. Se il Novecento ha scardinato certezze, e tolto fondamenta al Soggetto, al Vero, neppure la rappresentazione in arte di questo terremoto, della crisi, della nevrosi, dell’assenza, niente ha senso, né l’idea di un’Espressione o Creazione. 


È qui che Infinita fine – come il precedente Credere all’invisibile – prendeva su di sé questa riflessione praticandola, coerentemente, ovvero portando la poesia a un livello di rottura unico nel panorama italiano. La scelta allora degli attuali brevi testi affermativi – ma con un richiamo ad una sua lunga consuetudine di scrittore per aforismi -  senza orpelli stilistici era quella annunciata proprio in alcuni versi de L’opera lasciata sola: “il racconto in prima persona / con i virtuosismi / è una spirale che ad ogni giro si restringe”. Ecco, al giro più stretto ora sono l’apoditticità, la sentenza e l’aforisma, il taglio liminale dell’epigrafe dei testi di Infinita fine. : portata ad un ground zero dell’espressione, per privarla di inganno e per assimilarla alla matericità del mondo, la parola, qualsiasi essa sia, poetica o della terapia analitica o della scienza, dei saperi umanistici, poteva avere ancora un qualche credito, è inevitabile per la natura umana, ma a patto sempre di svelarne il vuoto di sé e del tutto e puntare ad esso, al coraggio di confrontarsi con il silenzio dell’universo: scriveva in un verso che  la “fede nella parola salva”, ma, subito dopo aggiungeva con ironia, solo “la parola ‘paradiso’ salva”, il resto non è nel dire”. La parola, la sua bellezza ingannatrice, è al massimo “rimedio istantaneo agli insulti del tempo”. Dunque se il resto non è nel “dire”, perché continuare ancora? 


Il livello di riflessione attraverso il paradosso di una pratica antipoetica della lingua, della sintassi, della frase e del dichtung nel suo complesso era così estremo che sembra davvero sul punto di un abbandono del fare poesia, all’ ammutolimento di quella materia-natura chiamata sempre a unica appartenenza,  un consegnarsi come scrive in Infinita fine “senza corpo, senza volto, senza espressione” a un “oceano ondeggiante / senza fine” dove tutto c’era tranne che ancora un opera del dire, un’opera dell’arte.
E’ quindi sorprendente, quasi uno scarto ulteriore, ma di lato, l’apparizione del libro del 2016, che già nel titolo riprende direttamente la questione e riporta anche evocazioni di una preghiera della parola e del nome: “Osare dire” (Einaudi, p 114, 2016, E, 11).


 Viviani osa ancora, nonostante quel punto estremo, tornare a dire come nella preghiera del Padre Nostro chi ha fede e pure paura, ma osa rivolgersi al Padre stesso. La preghiera di Viviani è in assenza di un padre-sostegno. E’ nell’assenza totale ora la sfida.  E tuttavia il superamento della paura di procedere senza nessun aiuto (un Dio, un linguaggio, un padre o un nome del padre) è un punto chiave centro del libro. Affrontare la paura di superare il deposito di sapere critico che pensiamo sia strumento e invece ci mantiene in una posizione di relatività, distanza e frattura ((attenzione: lasciare i saperi dopo averli assimilati, siamo all’opposto di un’esaltazione della semplicità e della ingenuità, che sono un approdo di spoliazione di sé)

LA PAURA


Già in apertura di libro il “buio “e il “nero” non concedono riposo a quelli come “noi” – prima persona plurale dice il poeta, a sé stesso e al lettore, ancora qui attardati su un testo poetico, quindi non completamente liberati) noi “affannati a smontare e rimontare il vero”.  Come Petrarca che in apertura di Canzoniere si rivolgeva a “voi che ascoltate” qui il poeta lirico spodesta sé stesso e l’uditorio, intrappolati in una comunità senza comunità, in cui è la dismissione, l’uscita dalla recita, anche se si è pagato il biglietto, l’uscita dal sapere, dalla volontà di sapere, dalle conoscenze, dall’illusione di verità (neppure in poesia né psicoanalisi ecc.) è l’unica possibilità.




Verranno mica a cercare la verità da noi,
quelli lì, anche se hanno pagato?
Prepariamoci.
Perché nessuno di noi ha la verità.
E nel vuoto qualcuno
Si attacca a un libro, altri
A un legno e lo lavorano, o ad un masso.
A un cellulare, o a un corpo vivo.
Ma il sostegno viene da altrove,
e allora puoi immaginare
che è là il tuo caro padre defunto.


La natura va vissuta nel suo essere tremenda presenza: “perdi la folgore/ se non l’hai temuta”. Né liturgie né attività di costruzione del mondo, attività, società: tutto è una “sequela di atti osceni”. La semplicità della chiarezza che Viviani osa dire si lega alla rinuncia ad ogni interpretazione (“distinguere i cambiamenti. È buttare via le ore”) Il mondo va amato ma senza illudersi di comprenderlo, bisogna anzi farsi natura. Naturalmente stare come poeta che continua a scrivere è stare su quel confine del dire che tende a spegnersi, depotenziando le parole è perché quando “ci sono loro”.” non c’è più prato e cielo/ ricordi e prossimità”. La poesia di Viviani aspira ad essere il luogo in cui si mostra questa spoliazione estrema, senza seduzione e senza “promettere paradisi”, anche se è nella “natura umana” a tentare sempre una preghiera o profezia di salvezza. Siamo in un finale di partita della poesia contemporanea in un teatro dell’assurdo in cui ogni conoscenza tende oltretutto a relativizzare sé stessa (la decostruzione, l’analisi). Ecco allora in alternativa Viviani guarda ad altro: il “delirio” (o della “credenza del demente”) come un paradigma, non la logica binaria (“l’essere o non essere”) su cui è costruito il sapere occidentale.  Rinunciare ad ogni “indottrinamento” ma affidarsi a qualcosa evocato da una immagine arcaica e enigmatica “seguire fino ai margini del bosco”( ..)”un coniglio” o “una bambina luminosa”. Siamo quasi nel territorio di un’alterità radicale, un rovescio della logica, una via di fuga dalla rappresentazione del reale. Il bosco è una presenza che ricorre spesso, così come la paura: il mistero, l’ombra e la minaccia, accettare questo è la possibilità futura.




Com’è, come sarà
Vivere senza ricevere aiuto,
senza favori, protezioni,
senza materne associazioni,
anche quando la febbre sale,
anche quando il fiume straripa
e travolge il riparo, orto e baracca.
Sarà come vive il resto della natura,
vicino ai predatori e senza paura.


Niente paura. Un richiamo quasi dal sapore francescano. Nelle cadenza anaforiche, nei richiami sonori, un coro semplice e profondo, una sottile tessitura metaforica dietro gli apparenti enigmi di ogni singola parola scelta. Semmai lo “spavento è nella cultura degli uomini, nella tecnologia “nelle nostre invenzioni/ nelle nostre perfezioni “ma “finché l'uomo non si fa natura resta la paura”. Attraversare la natura “senza voler cambiare nulla” (echi di filosofie orientali? misticismo occidentale?)  – attraversiamo questo “fuoco della materia” “come se Dio fosse un onnipotente / perché Dio è onnipotente “.
Questi due versi finali sono un altro esempio del procedere frastico, linguistico e stilistico senza stilemi di Viviani. In questa frase un avvitamento logico, giocando sull’ambiguità concettuale del rispecchiamento della comparazione (“come”) dei due segmenti uguali, uno usato a spiegazione dell’altro identico “(perché”). Viviani dà vita al suo registro poetico soprattutto in chiave concettuale, lavorando sulla torsione del linguaggio, svuotandolo di senso, smontando immagini, allegorie, come frasi, la sintassi logica, con accostamenti che sono spezzature e viceversa. Torcere la frase, farla arrivare a possibilità di dire qualcosa che non stia appunto nel dire consueto del poetico (o poetese, per usare un neologismo efficace di Sanguineti).

MATERIA VS DIO


Lasciare che il già creato della materia che siamo resti nel divenire di noi, come fosse dio. La vita è dentro inezie aneddotica da prigione, quella per la quale non ci accorgiamo di essere imprigionati “solo/ per custodire/ beni di proprietà”. Ma alla fine “non sapremo mai” se in “tutta la vita/ abbiamo conquistato/ un filo d’erba, un frutto, un sorriso”.
Scorre sempre carsica una corrente di afflato religioso privo di ogni “Gloria declamata” che marca dubbi su Dio, fino a negarlo, come facevano gli chassid, semmai trovando come sia “vicina la gloria/ alla stupidera”. Viviani apparentemente dice cose semplici, sfida la forma della banalità per scartarla. Un procedere che mi verrebbe da accostare – pur nella diversità – al senso del lavoro per frammenti che fu dell’ultima fase di Luzi e Caproni.

CREDERE E VUOTO



Credere è altro concetto chiave in questo libro (come già nel precedente libro fin dal titolo: Credere nell’invisibile).  Di fronte all’universo e all’inesauribile enigma che metteva in discussione la nostra presunzione di essere
          ……………) c’era chi reagiva
Con il sollevamento pesi o con gli addominali
Chi scaraventandosi dal primo cliente
A insistere
Per concludere un contratto,
chi si indebitava per comprare una macchina suv
chi correva in chiesa a supplicare Dio
di rimediare a tutto.

Corrosiva grottesca satira dell’umano, nei suoi affanni ridicolizzati, accostando la supplica a dio all’acquisto del suv. In realtà di fronte al crescente non essere, la via da percorrere è tenere il pensiero verso un abbandono ad “un’inerzia”.  Né amare, né meditare o lavorare: forse siamo nati “solo per credere”? non la cultura, la storia (“Non mi parlare di ugonotti o di horkheimer”) ma anima spoglia (“sono analfabeta”). Forse il semplice gesto muto dell’abbraccio.  “L’autenticità è parola/ senza corrispettivo di vita” scrive in una poesia dedicata a Giudici.
E’ infondo l’indicazione che di una resa al non essere, che non è considerato un’esperienza negativa, uno stato negativo. Quell’altrove su cui poggiarsi è una distesa ampia e deserta in cui non c’è nessuno, è “quel che è mancato alla vita di tutti”. Che cosa è dunque?  Sottile, impalpabile conclusione che riduciamo a conclusione di un ragionamento sottraendoci alle indicazioni del poeta, ma possiamo dire così: quel che è mancato alla vita è stato il suo non poter essere altro che vita, ovvero finire, non il contrario, l’essere senza essere morte e inesistenza, ma non per essere come dio, bensì come cosa. Non poter essere quell’eterno fuoco di una materia dell’universo, che è creata dentro uno spazio-tempo, ma al tempo stesso è privata della deteriorabilità della morte. Dio ci ha fatto questo scherzo supremo donandoci la vita e condannandoci all’esistenza, che tuttavia è inessenziale. Se siamo polvere, abbandoniamoci al senso di esserlo. Polvere dell’universo. La materia inerte e tuttavia sempiterna, (il bosone di higgins) ovvero ad evocare un qualcosa che è dato, che c’è senza essere stata portato ad essere. Questa inerte materia, questo arrivare a sentire di poter abbandonarsi a questo è il recupero dell’impulso del creato, di fronte a tutte le limitazioni della vita ma senza le rappresentazioni del dopo-morte di un’eternità paradisiaca, che è certamente costruzione artificiale del pensiero. Restare cosa, anche se   è dall’universo eterno che viene il nostro essere corpo, carne, vita, finitudine. Ma credere anche di esser parte di questa inerte inerzia della cosa materia è il filo sottile, fragile e potente, della poesia di Viviani, per esempio quando ne riassume la secolare constatazione attorno a cui ruotano tutte le domande sul senso della vita:


Come fu questo impulso di esistenza
l’avvio, la prima smorfia come fu,
non so spiegare questo ritrovarsi al mondo,
è incredibile
come incredibile
è credere.

 L'unica via è la ottundimento della pietra, più si tenta anche la definizione più si cerca un verità anche di fede, capire che cosa è il tempo di esistenza, più si rischia di riempire “con un fiume di parole giorni e anni” quel vuoto a cui bisogna invece tendere, credere, abbandonarsi. Tutto questo riempire di parole quel vuoto in ogni caso “è la prova inconfutabile dell'esistenza del vuoto divino”.



DIRE NELLA FINE




Piano di slittamento della poesia di Viviani è tale perché abilmente si sottrae all’asse del significante, per concentrarsi su quello del significato, ma che in ogni caso è sempre dato attraverso un’elaborazione della  forma, della forma della frase, assemblando costruzione sintattica calibratissima del pensiero che in apparenza non ha neppure la forma di quello, modulandosi per concatenazioni assertive e aforistiche, che aprono infiniti concetti spaziali della logica, costruendo dissonando, deviando dalla logica, in una continua mobilità del pensiero stesso in altra forma, un'altra via, un'altra logica che si fa indicatore di una necessità ulteriore e finale: ammutolire, non nell’arrivare ad una reductio.  Osare dire che non bisogna più dire, il pensare anche qui – come il versificare – non appoggiandosi a nessuna costruzione di sapere (e di fronte a quelle rischiare di apparire poesia di assertività semplice al limite dell’ingenuo, “meglio la credenza del demente” dice ad un certo punto). Questa fase della poesia di Viviani ci pare un tentativo di porsi dentro il processo del pensare la “via ulteriore” che sta dopo di noi come “il tempo che resta” come il tempo di chi annuncia la fine dei tempi, come se coagulasse dal magma di un’elaborazione originaria. Pensare prima dei pensatori.  Pensare come se nessuno avesse mai pensato prima. E appunto osare dirlo.   

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...