5.0
In questo quadro in cui
si collocano assieme la scienza di Rovelli, la narrativa di Lerner e Lipperini,
in cui cerco di individuare la
possibilità di riconsiderare il nostro senso della storia (e se la storia fin
qui vissuta abbia un senso), vorrei introdurre ora un filosofo e saggista come Giorgio
Agamben, che a questa riflessione –
sul tempo, la storia, la soggettività, la politica e la biopolitica - ha dedicato tutta la sua vita studiando tanti
autori, primo tra tutti Benjamin. Qui
però lo prendiamo in considerazione con
il suo ultimo singolare e forse non casuale e non secondario libro – e che ho
letto, per caso dopo quelli citati.
:
“Autoritratto nello studio” (Nottetempo) .Un
libro
che è appunto un resoconto anche per immagini,
memorabilia, foto, documenti iconografici, spin-off di decenni di ricerca
filosofica, visti dal suo
studio – luogo
fisico, più di uno, tra Roma e Venezia
- e di cui tenta un vero bilancio
di senso. (
un’autoficion di un non poco avventuroso “romanzo della ricerca filosofica”.)
E’ indirettamente
teoretico, ma pure lo è, questo percorso di ricordi di Agamben. Sottotraccia, corre l’energia di una confessione, e se con Sant’Agostino quel “genere narrativo” della
coscienza è stato anche alla base della filosofia moderna, che in dondo è stata
sempre una sistemazione narrativa e prospettiva del modo di vedere il mondo da
parte di un Soggetto. ( In più questo
approdo lo tradurrei anche in odo più colloquiale “Sì, ma tutto questo che ho
studiato con raffinatezza di analisi del linguaggio, a me serve? E a chi mi è
caro?”)
Agamben ci accompagna nei suoi studi
mentre fa un rendiconto da filosofo sul senso di tutto quell’impegno – e sul
senso di quei ricordi. Cruciale ad un certo punto la questione di chi la erediterà
questa storia (di studi, nel doppio senso)
perché solo così assume senso aver tanto studiato):
La trasmissione del sapere è dunque intimamente legata al sapere stesso, in
questo io tendo a vederci anche un non-detto, l’eredità reale e concreta di
quei luoghi e di quegli oggetti. Ed è intimamente legato ai pensatori del tempo
come Benjamin e Heidegger che Agamben ha frequentato
5.0.1
Come in Ben Lerner di NMAV,
la spinta a ricercare e a creare, a generare pensiero ha il dark side of the moon nell’assenza di una
generazione e successione diretta biologica, di un erede, come lo si dice nel senso comune, un segno non tanto e
non solo di un sentimento personale, seppure sulla singolarità biologica dell’Homo Sacer Agamben abbia basato la
sua ricerca più potente, quanto come segno epocale di un’incertezza di
direzione storica.
La memoria di ciò che sono stato è anche la proposta di una storia possibile di
generazione, sembra dirci Agamben. Essere stato discepolo, e figlio, nella mia
storia – che qui va a finire insieme la mio tempo storico e biologico, per una
generazione che invecchia assieme al secolo XX che pure l’ha così tanto fatta
emergere, ci fa cercare ora, in questo tempo sterile, su questo binario tronco,
tutte le possibilità affinché la Storia
non finisca: affinché non finisca contro l’opaco il vostro sguardo nascente.
5.0.2
(Qualcosa di simile abbiamo fatto – devo
citarmi, chiedo venia – noi tutti allievi di
Biancamaria Frabotta per il suo settantesimo anno e per la fine
della sua carriera universitaria mettendo assieme scritti per un volume (“Il libro degli allievi” Bulzoni) : un
modo singolare e irrituale, perché sentivamo tutti forte la necessità di
restituire l’esperienza e trasmetterla. Con la memoria rendere omaggio a chi aveva fatto dello studio un gesto e un'attività non solo intimamente collegato al suo essere poeta, ma anche aveva posto una dedizione estrema alla trasmisione dell'esperienza cultuale arrivata fin lì, nei primi anni 80. Un docente capace di magistero umano oltre che letterario, perché
è stata in cattedra anche da grande Poeta. Non il solito volume di studi formale
e accademico, in omaggio, ma “memorie vive”, una traccia di ciò che siamo diventati oggi grazie
a quel magistero o semplicemente incrociando questo magistero, fino anche – per
ognuno di noi – la traccia di tutto ciò che NON è stato, di ciò che non siamo
diventati (ognuno ovviamente lo legge in filigrana).
5.0.3
Da questo punto di
vista la narrazione è il laboratorio di un passato sempre possibile, perché
rileggibile, modificabile in teoria – come in teoria ci dice ci sono dimensioni parallele la scienza – dove, in
teoria, potrebbe accadere altro.
Non c’è solo il lutto alal fine del tempo, non c’è solo la scienza triste per i
suoi limiti mortali. Ciò che è passato è anche rifondativo del possibile in sé:
è la potenza, non solo del pensiero e
del pensatore, ma il punto sorgivo dell’atto
a venire che si genera, si sta generando anche nel lutto, di ciò che non
sono stato, il lutto (meglio: la malinconia) di chi non ho generato, né creato, il lutto di
chi non c’è più ad essere qui, in quel che io sono diventato.
Figlio e romanzo a venire per il protagonista di Lerner, gli “studi” di Agamben,
la giustizia per la storia di Graziella per Dora, l’esercizio del passato come
lente proiettiva di un futuro possibile, anzi: l’apriori, del fatto che un
futuro è sempre possibile, o meglio: un
accadere è sempre possibile, il possibile è nel continuo accadere della vita, prima
di tutto del bios. Poi del Nostos.
5.0.4
Bisogna rivedere la stratificazione temporale
in cui, tuttavia, nulla è dato per archiviato. Se la suo come metafora del
tempo per la fisica è una metafora, ma se poi la trasporto nella storiografia
processuale di questo paese questa affermazione da teorica, si fa pratica.
Tutto è in uno spazio di polarità di eventi – i quanti nella materia e dunque
perché non possiamo considerare così la materia della nostra storia: si
trasformano al punto da creare una “differanza
( Luce Irigaray) nel tempo : abbiamo
bisogno di un nuovo afferire (concretamente, anche di nuove strutture poetiche
e narratologiche: il nuovo sperimentare che fa come l’angelo di Klee),
esattamente come le categorie del genere sessuale rivoluzionarono il dire generale ( e dunque i destini
generali, sempre agiti da diverse narrazioni) a partire stavolta dal tempo, dalla differenza che generò un inferenza, un
narrarsi differente.
5.1
E’ qui che si rinnova
l’utopia forse, in un tempo che sembrava averla archiviata per un limitato
relativismo. Il tempo a venire è anche in ciò che avrebbe potuto essere e non
è stato, quel passato che non è accaduto – il contrario della nostalgia - e che diventa preludio di un possibile
(“futuro” usiamo ancora la parola ma con altro senso), anche se forse non
accadrà e sta in un fluxus di narrazioni che esse si danno il senso. Che
rinnovano il senso. Per un filosofo come Giorgio
Agamben ill suo “Autoritratto nello
studio” è l’occasione per parlare di sé ma sempre da filosofo, mettere i in fila materiali di una vi leggi la facies, in un lampo, di un’eredità possibile e il
senso generale di un tempo che è tutto compresente, qui come nei quadri allegorici del barocco.
L’eredità è ricevuta e da trasmettere, in una dimensione sempre aperta per Agamben, di tensione, tra ciò che rimane di una vita di studi
filosofici ma anche di incontri che hanno influito su una visione del pensiero.
Le forme della vita stanno dentro il complesso della vita stessa e necessariamente
non possono essere separate dallo “studio” come luogo e come attività e come
tema filosofico.
5.1.2
Ne L’autoritratto il percorso attraverso tutto il pantheon di
incontri e letture fatte, mette assieme i
vivi e i morti, i libri e le persone:
per cui Benjamin e Heidegger sono sullo stesso piano emotivo per Agamben benché
con l’ultimo ci siano stati rapporti in vita, con l’altro no. Tutti sono
“presente” e presenti. Alla fine
tuttavia è come se il precipitare di tutte le esperienze, letture, incontri di
una vita si affollino come un deposito di futuro, non solo di passato, ai piedi
di chi li ha vissuti, quegli eventi. E ai piedi chi potrebbe raccoglierne
l’eredità. Eventi che ora, nella memoria
stanno tutti assieme in un parallelo di tempi verbali, o nell’indecisione
fallace dei tempi verbali
scrive Agamben
: ” una pagina dei taccuini di Chiaromonte contiene una
straordinaria meditazione su che cosa rimane di una vita. Non che cosa abbiamo
o non abbiamo avuto è per lui il problema essenziale – la domanda vera è, piuttosto
: “che cosa rimane?”, “che cosa rimane del seguito di giorni e di anni vissuto
come si poteva, e cioè secondo una necessità di cui neppure ora riusciamo a
decifrare la legge, ma insieme come capitava, e cioè a caso? La risposta è che
rimane, se rimane, ‘ quello che si è, quello che si era”
Si è. Si era. Quando?
Non c’è tempo, accade, è accaduto. E’, qui e non solo ora. Per noi alla
fine scrive sempre Chiaromonte citato da Agamben
-
“rimane l’amore, se
lo si è provato, l’entusiasmo per le azioni nobili, per le tracce di nobiltà e
di pregio che si incontrano nelle scorie di una vita” e dunque “rimane quello che era, quello che merita di
continuare e durare, ciò che sta”.
Il tempo è quel che
rimane. Quel che rimane non è un
sintagma che esprime passato, del resto resto si rimane per dopo, e si sta.
5.2
Giorgio
Agamben dall’Autoritratto:
“Si deve stare ore sulla stessa pagina e nemmeno sognarsi
di leggere il seguito poi ripetere l’esperienza con un’altra pagina…il tempo
della lettura si arresta in un punto morto tra passato e futuro che si dovrebbe
chiamare presente immaginario dove la successione si inverte in regressione e
ciò che ha luogo non è una lettura progressiva, ma il divenire di una memoria.
I l libro non si legge: si compita piuttosto attraverso una serie di ricordi
staccati e indimenticabili che emergono da un punto immemoriale al di fuori del
tempo”
Si esiste come quando
il lettore legge, tutto sta. E la
memoria è fuori dal tempo, non ne ha bisogno, lo ricostruisce continuamente
essa stessa, producendosi, come una narrazione.
La memoria è realmente tale quando fa a meno del passato perché tutto
ciò che ricordo sta, fa a meno del
futuro, perché è ciò che sta continuamente.
Alla luce di queste
parole considero i libri di Lerner e Lipperini una sperimentazione dei nostri
tempi e di un futuro possibile. A venire, in arrivo.
5.3
Faccio una deviazione
per citare un saggio uscito lo scorso anno di Enzo Traverso “Malinconia di
sinistra” (feltrinelli) Non ci
interessa tanto la questione politica, quanto la più generale prospettiva di
mutamento della storia che il pensiero politico della sinistra ha tratto da
tutto l’impianto umanistico, letterario e filosofico di cui si nutriva.
Ci interessa quanto sia
in gioco la memoria e che rulo determinante anche politico intrattiene la
narrativa con la questione del tempo e della memoria che alla luce della
scienza si rinnova sulla via già tracciata da Bergson.
Scrive
Traverso
“….La visione marxista della storia portava in sé una prescrizione mnemonica:
bisognava inscrivere gli eventi del passato nella nostra coscienza storica al
fine di proiettarsi nel futuro. Era una memoria strategica delle lotte
emancipatrice del passato una memoria orientata verso il futuro. Oggi la fine
del Comunismo ha troncato questa dialettica tra passato e futuro e l'eclissi
delle utopie che accompagna il nostro tempo "presentista" ha condotto
la memoria marxista alla soglia dell'estinzione. Il futuro è diventato una
sorta di dialettica negativa mutilata. Questo mutamento ha favorito la
riscoperta di una visione malinconica della storia come
"rimemorazione" dei vinti Walter Benjamin è stato l'interprete più
profondo che appartiene una "tradizione nascosta" del marxismo e
questo mutamentoquesta transizione dall'utopia alla memoria ....
Quando, dopo il 1989,
siamo rimasti spiritualmente senzatetto e impotenti di fronte al fallimento di
tutti i passati tentativi di trasformare il mondo, siamo stati costretti a
rimettere in discussione le idee stesse su cui avevamo tentato di interpretarlo.
Quando un decennio più
tardi sono apparsi nuovi movimenti di Uniti sotto una bandiera sulla quale
c'era scritto "un altro mondo è possibile" essi hanno dovuto
reinventare le loro identità intellettuali e politiche. Più precisamente hanno
dovuto reinventare se stessi ……. Questo passaggio da un'epoca di fuoco e sangue
che nonostante le sconfitte subite rimaneva decifrabile a una nuova era di
minacce globali senza esiti prevedibili ha un sapore malinconico. Questa malinconia non è soltanto un guscio
riempito di struggimento e rimemorazione si tratta piuttosto di una
costellazione di emozioni e sentimenti che avviluppano una transizione storica,
il solo modo in cui la ricerca di nuove idee progetti può coesistere con la
tristezza e il lutto dopo la fine delle esperienze rivoluzionarie. Né
regressiva né impotente, è la malinconia di una sinistra che, senza cercare
scappatoie, carica sulle proprie spalle il fardello del passato, spesso
soverchiante…”
Aggiunge Traverso che ogni
prospettiva di azione politica del cambiamento del mondo verso il possibile
futuro va ripensata “ …attraverso il Prisma della malinconia in questo passato
a un tempo familiare e sconosciuto - vissuto trasmesso poi rimosso infine è
rimasto Ignoto alle nuove generazioni - i dibattiti intellettuali si mescolano
esperienze culturali più ampie difficili da sistematizzare……..Le tracce di
questa malinconia di sinistra sono assai più facilmente riconoscibili delle
molteplici espressioni della Fantasia che nelle elaborazioni dottrinali e acquistano del resto nuovi significati quando
sono riesaminate attraverso la lente dell'immaginario collettivo che le
accompagna."
io lo chioserei così: E’ il racconto che fa il tempo, nel senso che è il
racconto centrale nell’elaborazione di ciò che dovrà sostituire il discorso
della ideologia, ed avere un ruolo nell’agire politico, nell’ispirarlo, anche
più di prima.
6.0
Cerco anche di rileggere,
filtrare, le narrazioni letterarie e memoriali di Lerner, Lipperini e Agamben oltre
che in questa chiava “maliconica” anche alla luce delle tesi scientifiche ma
non scientiste espresse da Carlo Rovelli
che generano invece esaltazione…E’ interessante che il fisico sperimentale che ci ha guidato
presentandoci il lavoro matematico e torico sperimentale di cui si occupa, in qualche modo “fuori dal tempo” nel senso
però di “fuori dalla concezione di temporalità” che abbiamo, e dopo aver
scritto un libro in cui si presentano le ultime ricerche che la fisica
quantistica sta effettuando sul tempo che dimostrano come il tempo non esista,
scriva ad un certo punto ( Rovelli in LODT
……. )
“ C’è un terzo ingrediente che
fonda la nostra identità e probabilmente è quello essenziale, quello per il
quale questa discussione delicata compare in un libro sul tempo: la memoria (..)
.il nostro presente pullula di tracce del nostro passato. Noi siamo le storie
per noi stessi. Racconti. Io on sono questa istantanea massa di carne sdraiata
sul divano che batte la lettera “a”..sono i miei pensieri pieni di tracce della
frase che sto scrivendo, sono mia madre e mio padre, sono i miei viaggi
adolescenziali, sono tutte le tracce degli attimi di me, sono quello che un
istante fa ha battuto sul computer la parola “memoria”. ..Io sono questo lungo
romanzo che è la mia vita. “
E poi aggiunge un concetto
importante per lo scienza di fisica nucleare che decostruisce la nostra nozione
di tempo “
“E’ la memoria che salda i
processi sparpagliati nel tempo di cui siamo costituiti…il tempo è la forma con
cui noi esseri il cui cervello è fatto essenzialmente di memoria e previsione,
interagiamo con il mondo, è la sorgente della nostra identità e del nostro
dolore. ..il tempo è dolore.”
via Agostino, Husserl Bergosn e Proust, ma anche il buddismo, Carlo Rovelli quanto più
scientificamente demolisce non solo
l’idea di tempo che abbiamo, ma tout court l’idea che IL TEMPO in genere, qualsiasi
forma esterna o universale, aprioristica, possiamo dare ad esso, possa esistere, tanto più
riconsidera il valore costitutivo della memoria che produce una sua forma d’onda
di tempo in forma narrazione e dunque esso è in quella dimensione interiore e
assolutamente singolare che appartiene a Marcel, Carlo o Mario, a X a Y ecc
- noi possiamo definirla “tempo” e
seppure va poi a coincidere, leggendo, con quella idea di tempo che ci siamo fatti anche noi,
molti di noi, ciò non significa che esista un’idea di tempo oggettivo.
6.1
Occorre, sembra dirci Carlo Rovelli, d’ora in poi convivere con una dissoluzione della
temporalità, del suo ordine e forma, proiettandola se non nel quotidiano
pratico, almeno nel senso interiore, come lo hanno sempre pensato storici,
scrittori e filosofi. Il tempo che “non esiste” , ma che è frutto di una
mutazione, di un’ agglomerato di “eventi” che “accadono” in uno spazio di trasformazione della
materia. (“Non esiste il tempo esiste solo lo spazio”,
una delle frasi choc del libro di Rovelli, se vogliamo).
Tutto ciò, tuttavia
restituisce libertà, dà un grande valore alla memoria e alla narrazione come
suggerisce alla fine lo stesso fisico, e ci sembra il preludio teorico epocale
con cui poter ridefinire non solo l’idea di romanzo, ma tutta un’idea del senso
della vita, laddove questa è l’accadere, per singoli e per molti.. Di come si
restituisce senso a ciò che si è vissuto, ciò che non c’è più, ciò che è
passato, ciò che non è invece potuto accadere. E che cosa rimane, oggi, di
tutto ciò?
6.2
Sicuramente rimane in
un luogo psichico, la memoria. Ma la memoria, se è il solo modo in cui
sopravvive quel falso movimento che
era la nostra storia, legata alla nostra idea di tempo, è anche un luogo atopico, un non-luogo. Se riandiamo ad Agamben la memoria (similmente a quel
che dice Rovelli ) è la forma dell’identità,
è anche vero che la nostra identità è
atopica, è un sottrarre il nome al nostro luogo dell’anima interiore, dove ciò
che dice io è in realtà una polifonia di molti-io è un multiple-name o un
no-name. Un tempo che si dispone in cose e luoghi – e nomi -tranne me
Agamben:
“…Essere a casa nel non ritrovarsi. La
sola cosa sicura è che non sappiamo più dove veramente siamo…sentiamo di essere
in un punto, quel dove – ma non sappiamo situarlo più situarlo nello spazio e
nel tempo. Tutti i luoghi che abbiamo abitato, tutti i momenti che abbiamo
vissuto ci assediano, ci chiedono di entrare – da dove? Dove è dovunque e in
nessun luogo. Diventare intimamente stranieri a sé stessi, senza più patria né
matria.” (p. 9)