martedì 23 febbraio 2021

LA SCRITTURA DEL SILENZIO. Su Don DeLillo e "The Silence". La scrittura di fronte all'estremo tecnologico.

 

Nessuno sa come e se sarà giocato il SuperBowl 2021, ma di sicuro il SuperB del 2022 non sarà giocato

Uno dei protagonisti dell’ultimo libro di Don DeLillo potrebbe aver pronunciato questa frase, facendo una parodia del fake, ovvero  parodia della famosa citazione-fake attribuita a Einstein, sulla quarta guerra mondiale che si combatterà “con pietre e bastoni” e che viene ripetuta da uno dei protagonisti di “Il silenzio” (Einaudi, 2021). La battuta sul SuperBowl non c'è , il SuperBowl del 2021 l’abbiamo visto – col pubblico limitato e in piana pandemia. Quello del 2022 chissà.

La frase fake attribuita a Einstein invece Don DeLillo l’ha collocata in quella posizione di esergo, senza nessuna avvertenza nemmeno in nota che sia un fake, come è universalmente riconosciuto.
Possibile che ci sia questo errore clamoroso, non solo per un autore così colto, il paladino dello svelamento delle apparenze che casca in un fake così? E nessuno in casa editrice se ne è accorto?

Credo la frase sia sigillo di ambivalenza, beffarda e provocatoria che DeLillo a 84anni, “animale morente” della letteratura post-moderna, fa verso sé stesso, infrangendo la sua immagine di maestro dell’invenzione letteraria ma  rivelatrice di verità profonde.
Un altro errore, anche se non verificabile – è più sottilmente iconico/estetico – è la copertina dell’edizione americana ripresa da Einaudi e che presenta una bellissima immagine, quasi da manifesto pubblicitario (il copy era il lavoro di DeLillo prima di fare lo scrittore). Faccio la mia ipotesi, partendo dal riassunto della vicende di “The Silence”




Come è noto anche a chi non l’ha ancora letto, tutta l’azione si svolge a poche ore dal SuperBowl 2022 e coinvolge cinque personaggi. DeLillo ha scritto questo breve romanzo – o lo ha finito – nell’anno della pandemia ed è uscito negli Stati Uniti a fine ottobre, a pochi giorni dall’84esio compleanno dell’autore di Underworld o di End Zone, i libri in cui più è presente lo sport  (nel primo il Baseball, nel secondo il Football), il ragazzo italoamericano del Bronx che non si perde una partita dei New York Giants più o meno da 75 anni e sicuramente non si è mai perso un Superbowl da quando esiste, dagli anni 60.

Avrà visto anche l’anomala finale del 2021, ma per un uomo della sua età non c’è dubbio che il pensiero sia che ogni anno potrebbe essere l’ultima che vede. Io penso che  questa intima verità, umana e preletteraria, fatto, potrebbe essere un chiave generale per capire il senso di un libro di 103 pagine sul collasso delle reti di dati, ma anche del linguaggio. Utile per spiegare il cortocircuito della citazione falsa (e della copertina sbagliata). C’è un gioco alla resa, di provocatoria autoparodia (o meglio di parodia dei critici e dei concetti associati a i suoi libri) e di uscita dai luoghi comuni associati alla poetica di Don DeLillo, che sembra qui avvelenare il suo stesso pozzo. In vista del suo silenzio definitivo. 

The Silence andrebbe letto anche alla luce della coincidenza tra blackout e superBowl, uno dei simboli del dopoguerra americano, emblema del “gioco”(la rivoluzione digitale viene interpretata spesso come un “game” ) 1  ma ci porterebbe a connessioni lontane, ora entriamo nel libro.




Il silenzio avvolge il mondo, all’improvviso, in The Silence, il buio avvolge i device e gli schermi li priva della loro intima luce azzurrina, così mistica e spettrale, li spegne, misteriosamente. Errore imprevisto. Tutto tace soprattutto i milioni di televisori e device accesi per seguire la cerimonia d’inizio. Così stanno facendo i tre protagonisti, nel salotto di una casa di New York a cui si dovrà unire la coppia che è in viaggio in aereo verso gli Stati Uniti. Proprio in prossimità dell’atterraggio, il collasso. Smettono di fluire informazioni ma soprattutto i dati che fanno funzionare tutti gli apparati tecnologici. Tra questi anche l’aereo, costretto ad un atterraggio analogico, manuale, d’emergenza a New York, planando su una spianata della East cost, buia, totalmente buia. Scenario apocalittico. La critica DiLillo al superpotere della tecnica, capace anche di portare l’uomo nel suo delirio di onnipotenza divina, prima nucleare, poi genetico, è nota. Arriva fino alla coerenza da idiosincrasia, per cui lo scrittore newyorkese non ha un cellulare e scrive a macchina.


 Proprio per questo la copertina scelta dall’editore americano e anche a seguire da Einaudi, mi era sembrata un eccesso, un a scelta sbagliata. Questo ho pensato d'istinto, ma poi è difficile che non passi il vaglio di autore così importante e così ho pensato 'è volutamente sbagliata'.
(Ovvio che fare l'interpretazione di un testo è esattamente come costruire o alludere a un  'retroscena' o una 'realtà seconda' che è tipica dell'immaginario post moderno. E' arbitrario, ma inevitabile. Proseguo sul mio sentiero personale)

L'interpretazione di una copertina volutamente troppo cool, un'iconica esaltazione della bellezza del cellulare, l’ho aggiunta al segnale della citazione fake e mi sono chiesto perché questo Falso Einstein da sito trash di aforismi, per un autore così colto, perché questa sorta di immagine patinata molto simile alle foto per campagne stampa degli smartphone, con quello smartphone nel buio, sospeso come una navicella spaziale.

Tralascio per ora che il buio e il silenzio si è rivelato l’essere-ovunque del virus, che DeLillo cita a un certo punto, per bocca di un personaggio (lui dice nell'intervista al Manifesto che ha finito il romanzo nel marzo 2020, quindi forse è una frase aggiunta alla fine) e mi soffermo sull’oggetto e sull’icona e poi  sulla frase finta.

E’ una gag, lucida, beffarda di fronte all’estremo biologico dell’autore, che non è solo una coincidenza biografica, ma un tema, per DeLillo. Davanti alla morte, al suo ingresso nell’Ade, ècosì lucido da azzardare anche una messa in discussione (fino alla parodia) di tutto il suo percorso letterario, tutte le teorie per lo meno che sembrano stare dietro i suoi libri, per non farle diventare parte del gioco, ma con una mossa di “sconfessione” che è – nel gioco complessivo – un suo estremo azzardo finale. Provo a spiegare.

Torniamo all’indizio della frase sbagliata. Come noto è una di quelle citazioni che si “auto avverano” nella circolazione orizzontale delle condivisioni social dove le fonti non si controllano più. La scrivono tutti deve essere vera, come le fake news o le teorie di cospirazione le dietrologie, le teorie di cripto ragioni dei fenomeni. Le “frasi” sono l’elemento chiave del libro , oltre che essere – tra battute secche, dialoghi come ablativi assoluti e ritmo della sua prosa -  uno degli elementi centrali dello stile DeLillo.

Il romanzo è un breve Novel – o forse una pièce teatrale – con cinque personaggi, due sono sull’aereo, che arriva drammaticamente a terra, Jim e Tessa, lui assicuratore, lei poetessa, lei scrive tutto quello che le capita di osservare, “brevi frasi concise” – o versi, sempre frasi – invece  lui legge ossessivamente le concrete e inutili frasi che tuttavia designano il perfetto pragmatico hic et nunc : altitudine, distanza da percorrere tempo a destinazione,  dello schermo piccolo che ogni posto ha davanti a sé. Stanno tornando da Parigi, ripensano alle frasi in francese, ascoltano quelle del comandante della compagnia francese. All’improvviso l’aereo perde quota, gli schermi vanno al nero. Atterraggio d’emergenza.

Già nella prima parte i personaggi hanno dialoghi che a volerli misurare sul piano della realtà sembrano sfasati, sembrano parlare per sentenze, aforismi, appunto frasi: concetti irrelati e al tempo stesso densissimi, come sempre in DeLillo che qui accentua ancora di più, ma stavolta non per disseminare indizi di senso, in una – ci sia concessa un generalizzazione -  poetica del postmodernismo, di cui è uno degli esponenti maggiori, ma forse giocando a sovvertire il gioco concettuale di ipotesi, connesioni remote del reale, in modo estremo, forse cinico, forse umanamente disilluso. Lo fa utilizzando le parole d’ordine di quella sua poetica,  per farle collassare in overload di senso, annullandole.

Non solo la contrapposizione tra Jim che legge frasi inutili e che dimentica subito, e Tessa che appunta l’inutile, perché ha bisogno di vederlo scritto.  All’arrivo in clinica sarà un’impiegata addetta allo smistamento dei feriti (Jim ha un taglio in testa) presa da un flusso incontrollabile e ciarliero, come tutti in questo libretto sul blackout/game over, a formulare ipotesi sulla “situazione contingente”. L’impiegata parla della tecnologia resa obsoleta da un guasto che va oltre ogni immaginazione (il termine esatto è sarebbe glitch, un picco d’onda nell’elettromagnetica, causato da un errore imprevedibile). Nelle parole dell’impiegata, fin da subito c’è quel parlare filosofico che tuttavia andrà poi ad esaurirsi, dopo il picco delle teorie elaborate, sempre con medesimo tono, da Martin, il giovane studente che con Max e Diane attende Jim e Tessa.

Intanto però l’impiegata come una predicatrice apocalittica parla della fine della “fede nell’autorità dei nostri device” e dei sistemi di diffusione delle informazioni (e delle frasi) “tweet, troll, bot”. Poi il buio, totale, nella clinica, anche dei generatori d’emergenza. E l’impiegata – come Max nella seconda parte non può che andare indietro nel tempo alla sua infanzia, alla sua vita, al suo “primo matrimonio, primo cellulare, primo divorzio, primo viaggio” parlando dei sistemi di sorveglianza “più sono avanzati più sono vulnerabili” e altre interpretazione della situazioni che potrebbero anche adattarsi all’allegoria scelta da DeLillo, potrebbero essere scambiate (come equivoca Massimiliano Parente) come anti-moderno, se non che – come dicevamo – alcuni indizi ci fanno pensare che qui lo scrittore stia tentando uno scacco matto a sé stesso, per uscire dalla Babele di informazioni in cui rischia di essere risucchiato e forse parte: dandosi scacco l’autore è l’unico che può salvare un’autenticità della letteratura che viene prima della sua declinazione in scrittura,  che diventa qui dunque la messa in discussione anche della sue visioni del mondo che aveva rilasciato in 40 anni di romanzi.

Alla fine, il silenzio non è una forma di vuoto, non necessariamente. Azzardarsi a dire che torni a essere pienezza sottratta alla falsificazione del linguaggio, della tecnica, anche quello della fisica, sarebbe egualmente un azzardo affermativo che non facciamo. Dobbiamo fermarci e aspettare, tacendo (come dice a sé Tessa, poi Diane, poi Max alla fine).
Certo però c’è un silenzio, tra gli altri, che brilla, ogni tanto: quello dell’intesa erotica o amorosa, come Jim e Tessa nel bagno dell’aeroporto prima della medicazione (“Lo sguardo che si scambiarono riassumeva quella giornata, il fatto d’averla scampata bella e la profondità del loro legame. Lo stato delle cose, il mondo esterno avrebbe richiesto un altro tipo di sguardo”) un punto profondo dell’intimità silenziosa tra due, di una comunione non esplicitata (inconfessabile, per dirla con Blanchot) non detta che si nota qua e là nel testo.

Dicevamo che  L’impiegata è il preludio di quel che farà il personaggio di Martin. Ex studente ai corsi di fisica dove insegnava Diane, che ha smesso, e che invitato a casa aspetta insieme a Max l’inizio del Superbowl. Col Blackout, DeLillo assegna la parola (opposta al silenzio) prima a Max e Martin, con due forme di falsificazioni, anche se di valore diverso: sia Max che Martin iniziano a parlare a vanvera, in uno sproloquio da commedia dell’assurdo (c’è Beckett in sottofondo, ma c’è soprattutto Joyce di Finnegan’s Wake, la veglia allucinata della lingua sconosciuta e inventata, poi citato a pagina 93).

Innanzitutto, c’è da dire che anche qui sono “le frasi” protagoniste, a simboleggiare il punto di non ritorno del sistema di produzione e distribuzione dell’Informazione, arrivata al punto massimo di sviluppo tecnologico (A.I. capace anche di programmare – ma come Joyce! -  una lingua tutta sua, inventata, sconosciuta, evocata nel libro) ma che dopo aver avvolto il mondo in questa sua seconda natura, va in tilt, ictus globale, fall-out, precipitando il mondo in un panico ( la radice “pan” di pandemia per questo “pandemonio” come lo chiama uno dei personaggio, che si scatena) una paura irrazionale, panico.

Alla fine, la sfida da sempre del moderno tecnologico è che la tecnica ripari sé stessa, la scienza trovi la giusta teoria, insomma per attualizzare:  il vaccino contro il virus, il programma che ripara il glitch.
“The Silence” però materializza l’incubo sul piano teorico, mostrando il fallout anche delle stesse spiegazioni filosofiche non solo di fronte all’imprevedibile, ma anche di fronte allo stato presente della circolazione del sapere e dell’informazione. Non è un racconto apocalittico, ma mistico. Non predice quel che ci sarà, ci avverte dell’ombra certo che sottende al nostro sistema tecnologico che ci spinge a credere abbia un’anima propria, ci fa diventare irrazionali  paranoicamente iper-razionali, straparlando. Così Martin, che straparla.

E che ruolo assegna DeLillo alle parole? Dicevamo Max e Martin  si sdoppiano, e parlano da soli.
Max fa Calibano, e tira fuori la voce-massa, una telecronaca di una partita che non c’è, comincia recitarla, a prodursi nel flusso di coscienza televisivo, come se decenni di partite – ma anche di spot – siano depositati nell’inconscio, come pensa osservandolo la moglie Diane (le donne, Tessa e Diane, sono il resistente, il perplesso e l’ironico in questo Novel).
Dall’altra parte Martin è la voce-colta,  inizia subito come Prospero a disegnare tutti i fili di connessione (parascientifica, dunque magica)  tra le cose:  in apparenza parte da dati logici, usando spiegazioni scientifiche, tecniche, che poi virando alla fake news. Dice subito Martin, appena i tre vedono che anche internet non funziona, oltre la tv:  “potrebbe essere il governo degli algoritmi. I cinesi, I cinesi lo guadano il SuperBowl. Loro giocano football americano. I Beijing barbarians. Tutte cose verissime” . Ecco è partita la logica-fake.  Così funziona il procedimento para-logico del para-normale: per accumulazione di frasi, di elementi, sintagmi, molti veri, da cui tutti assieme, per osmosi l’impressione di “verissimo” ma non verificato (come la fonte della frase di Einstein)  e nonostante la presa in giro di Diane (“è qualcosa di extraterrestre”) Martin che pure è scienziato,  va avanti e parla di “Reti nascoste” cercando quel che nasconde lo schermo nero. E usa le teorie di Einstein ma lo fa in modo su cui bisogna soffermarsi un momento.

Martin è studioso di Einstein, ma è anche fissato col suo idolo. Cerca i significati riposti o cancellati,  nel manoscritto del 1912, attendendosi rigorosamente – dice – al fisico tedesco, ma in sostanza auto avverando delle tesi prese alla lettera non dallo svolgimento matematico, che l’unica lingua da usare a rigore, ma dalla sua “traduzione” in forma grammaticale – tale è “la lettera” che Martin a un certo punto parla anche con accento tedesco o dice parole in tedesco  (il nome forse evoca Heidegger,  grande filosofo, autore di una sua filosofia sul linguaggio, ma anche  generatore di “ frasi” spesso abusate,  congegnate al punto tale da rivelarsi forse solo un “gergo dell’autenticità” come le definì Adorno contestandolo) .

L’accento tedesco di Martin – come le parodie comiche – è quello, riconosce Diane, che aveva Einstein. Noi però  sappiamo, come dicevo prima, lo spiega bene Carlo Rovelli nei suoi libri,  che il linguaggio della fisica sarebbe esclusivamente quello dei numeri, delle formule,  per l’appunto gli algoritmi matematici, non la loro “traduzione” in frasi che finiscono per diventare asserzioni. Martin invece lo fa,  citando addirittura alcune presunte “parole e frasi che lui [Einstein] ha cancellato” dice, e quindi costruendo una sotto-teoria complottista dentro il manoscritto dello svelamento razionale del 900 . DeLillo ci porta così nel territorio dove fede, paranoia e visionarietà combaciano, come suor Edgar alla fine di Underworld. E’ il suo terreno, da sempre, ma qui il personaggio Martin è grottesco, io ci leggo un distanziamento in extremis, una stanchezza .

In sostanza DeLillo ci avverte del blackout non solo della tecnologia ma anche del sapere (o meglio, delle persone che lo usano in modo paranoico, gli intellettuali). Martin ( come succede a Max con la info-sfera dei media e della Tv) diventa ventriloquo di un sotto-Einstein segreto, lo diventa al punto di imitarne la voce, portando così al massimo grado l’entropia del sistema di circolazione delle informazioni e del sapere (L’entropia è espressione del “grado di disordine” di un sistema, L’entropia nella teoria dell’informazione è misura del grado di complessità di un messaggio: se da un lato può essere la complessità ad esempio della spiegazione di Einstein relativo a un sistema di leggi matematiche rigorose (in questo caso è un disordine positivo, è il progresso della scienza ) la maggiore complessità affidata anche a una logica che vuole essere aleatoria o anarchica, ma presentandosi come nuova logica, finisce per crearlo realmente un disordine del sistema,  che lo annulla (come nel contrasto tra gli scienziati e i no-vax,  che infatti spesso citano casi come quello di Einstein come prova del fatto che neppure le teorie del fisico tedesco fu accettato all’inizio,  salvo – c’è da dire -  che “l’inizio” dei no-vax dura da decenni, ma quell’anti-scienza non ha saputo fornire le prove scientifiche).  È l’effetto delle teorie complottiste, là dove però esse rivendicano solo di essere come nuovi percorsi logici che sconfessano i i precedenti.


Martin tira fuori teorie non meno assurde, con il suo sproloquio. Giuste o meno, lo fa per frasi fatte, per titoli. All’opposto c’è invece un altro silenzio, oltre quello erotico, che ha connotazioni ancora positive: è il  “nulla da cui emergono le parole” come lo chiama Tessa (DeLillo che parla italiano, sa che è la parte finale di poetessa non ché tessitrice)  e da cui attinge per scrivere i suoi versi o far emergere un ricordo rimosso. Questo silenzio pieno di ciò che abbiamo dimenticato, è da custodire.  La parola della letteratura, alal fine è quella che non si materializza. E’ quello che Caproni chiamava la “res amissa”. DeLillo lascia intravedere dietro al grande silenzio del mondo, un positivo silenzio interiore. Non rimpiange un tempo andato, ma suggerisce: tacere.

Del resto, lo stesso DeLillo fa un ‘operazione di brevità singolare. Dopo aver costruito il monumento di Underworld che intrecciava la guerra fredda alla produzione di energia nucleare, fino all’iperproduzione consumistica di rifiuti, possibile che sul mondo della tecnologia informatica, dell’AI, di Google, Amazon del controllo dei dati con gli smartphone, abbia da dire solo queste 103 pagine?  Claudia Durastanti su TTL, ha scritto che forse sogniamo tutti che questo sia il preludio del Grande Romanzo di DeLillo sul mondo della globalizzazione e delle reti, dei social, sperando – scriveva Durastanti – che faccia in tempo a finirlo. La mia ipotesi è che con questo libro DeLillo risponde a chi spera questo: non lo farò, sarebbe parte di quel game. Non voglio far parte di quel gioco.

 L’84enne potrebbe aver rinunciato. non per debolezza – o almeno, non solo – ma per intima convinzione che inseguire la circolazione ipertrofica di informazioni, il caos di vero e falso, il flusso di dati con i suoi meccanismi algoritmici, le fluttuazioni economiche legate ai supercomputer, il mondo del deep web, le criptovalute ecc. e aggiungere da letterati non solo la “chiacchiera” del commento globale, ma anche un libro, un romanzo,  un’allusione allegorica stile Underworld, potrebbe produrre l’effetto che produce la ossessione di Einstein in Martin.

Non solo: forse DeLillo si è reso conto che - come per il complottismo sovranista ha attinto alla retorica ideologica e dietrologica degli anni 70 che vedevano la permeazione degli Usa in ogni affare politico mondiale - così oggi le fake news le teorie negazioniste contro le versioni “ufficiali” si siano nutrite proprio di contro-cultura e letteratura postmoderna, quella distopica prima tra tutte.

Non è una resa, ma altro: un significato non solo letterario o filosofico, ma addirittura politico del gesto di “non scrivere”. Diverso da quello di Philip Roth, che, per lo scrittore de La macchia Umana, aveva una radice più personale , anche se contava pure la disillusione del suo ruolo da letterato, e forse egualmente è giunto  alla decisione, dopo tanto scrivere, di scegliere il silenzio. Nel romanzo, dice ancora DeLillo al Manifesto a Francesca Borrelli "il personaggio di Max aspira solo a seguire una partita di football americano, ma a causa della interruzione della corrente ciò che vede fissando la Tv è uno schermo vuoto. Così descrivo l’interruzione visuale del desiderio di assistere a qualcosa: non c’è più nulla da vedere".


Ecco, "nulla da vedere. Forse non c'è neppure più nulla da scrivere.

Forse dovrei tacere anche io, ovvio. Ma la sfida di uno scrittore è sempre sul filo della polifonia che è molto più di una contraddizione che pure c'è e DeLillo ci gioca.

Un silenzio pieno di significanza è quello che tuttavia si contrappone al blackout.
 Di fronte al pericolo che già c’è – il silenzio per troppe parole – Esistono allora altri modi di silenzio. L’intesa erotica, il tacere fuori dal gioco e una terza modalità , che si manifesta a Max quando dopo il blackout, decide di uscire per vedere che succede “là fuori”: Quel silenzio è nella muta prossimità del “noi” .

Max la prova, quando esce e incontra i vicini (“comportandoci per la prima volta da veri vicini. Uomini, donne, cenni di assenso con la testa”). DeLillo ha sempre criticato l’egoismo individualista, pur essendo un fiero difensore della cultura americana dell’individuo, e fa riecheggiare nel Martin alla fine esausto del suo straparlare, quando dice: “il mondo è tutto, l’individuo è niente” (  che detta così è sia lo spettro di un globalismo totalizzante, sia anche il richiamo ad interessarsi del destino di tutti). Un senso di comunanza saggia del noi di massa, di cui Max è voce, più saggia e assennata della voce iper-colta di Martin (quando Diane chiede cosa dicono i vicini di quel che sta succedendo Max risponde che secondo la maggioranza è “un problema tecnico. Nessuno ha dato la colpa ai cinesi” quasi a dire che il virus del complottismo è generato sempre da élite, è il miliardario Trump che istiga gli americani impoveriti con i suoi tweet che la colpa è dei cinesi) mentre invece i cinque, espressione di un élite partono da solitudini distanti (“forse ognuno di quegli individui rappresentava un mistero per l’altro, per quanto il loro legame poteva essere stretto, ognuno di loro era racchiuso nella propria individualità”)

 In questa prossimità del noi invece non ci sono parole, e DeLillo stesso non dice molto, non dice ma trasferisce tutto nella combinazione tra detto e non detto, tra scrittura e spazio bianco. Il racconto di DeLillo, proprio utilizzando le sofisticate nozioni scientifiche e filosofiche allude – come le parole di Diane – a “qualcosa che accade “al tempo” più che alla tecnologia, come se si negasse il salto in una distopia che sarebbe alla fine solo verbale. Se c’è, esiste per come Rovelli ne parla in L’ordine del tempo, ma è altra cosa.  “E’ successo qualcosa” vuol dire che c’è stato e c’è. Il dubbio che “stiamo vivendo una realtà imprevista” ci deve far tacere perché non la sappiamo e possiamo dire. Se la dicessimo, come accade anche ora con il talk pandemico o l’infodemia,  con la paranoia colta di Martin, sbaglieremmo e faremmo peggio.

Ipotesi radical di interpretazione per The Silene: DeLillo suggerisce: non tentiamo di dirla, è peggio, anche in un romanzo distopico (se mai questo lo sua, ma forse no, come suggerisce Loredana Lipperini in un suo post) . Peggio ancora se lo condividiamo per frasette nell’instant-now continuo di un social.

Teniamoci alla prossimità del noi, sia pure spaventata. La voce narrante (seguendo le riflessioni di Max)  ipotizza quel che è sempre successo, dopo ogni disastro: la gente inizia una sorta di liberazione, e dopo   “tutti camminano, guardano, si interrogano, donne uomini, drappelli casuali di adolescenti, tutti che si accompagnano vicendevolmente mentre attraversano l’insonnia di massa di questo tempo inaudito”. In quel “si accompagnano vicendevolmente” è il nodo di un gesto minimo silenzioso che si oppone al Grande Silenzio. A questo gesto cosa oppone il colto ma paranoico Martin? La querula produzione di un discorso para-logico, che culmina con il fake della falsa frase di Einstein sulla terza guerra mondiale. Non solo: A pag. 70 e 71 ci sono tutte le frasi fatte del complottismo letterario distopico, l’elenco ha effetto comico nell’accumulazione. La voce narrante:  “Diane si rende conto che sono tutte sciocchezze” – è con lei. Martin invece non fa parodia (come Chaplin del Grande Dittatore). Dall’altra parte c’è Tessa, che cita proprio la pandemia (“abbiamo freschi i ricordi del virus”)  e arriva a dire che forse “siamo un esperimento riuscito male” messo in atto “da forze che vanno al di là della nostra comprensione” e chiama in soccorso proprio il sapere umanistico e  dice “Non è la prima volta che queste domande vengono poste. Gli scienziati si sono espressi a voce e per iscritto, fisici, filosofi”. E’ un dubbio, ma poi “si scolla” scrive DeLillo e ce la mostra che immagina di spogliarsi nuda. “senza erotismo, per mostrare a tutti chi è lei veramente”. Ancora una volta, il gesto silenzioso, l’eros.

Quando invece a pagina 80 leggiamo “Martin ha ripreso a parlare” torna il comico, oltretutto è un ostinato mansplaining  e DeLillo accentua il sottinteso grottesco. Sarà poi sempre una donna, stavolta Diane, a spezzare l’incantesimo della logica verbale del complottismo del giovane, ancora una volta con l’eros: “Martin Dekker. Tu sai cos’è che vogliamo, non è vero?”. Silenzio.
 E silenziosamente accade, DeLillo non dice. Al capoverso riprende “Potrebbero svignarsela in cucina” - per dire che iniziano col sesso e lei gli chiede nell’amplesso di “dire qualcosa in tedesco”. E lui cita Marx, ridotto a gergo erotizzante. Nel frattempo fuori, Max capisce che tutto il caos di oggi è legato ai “tossicodipendenti digitali”. Così come Diane dice che era “scontato” che questo “pandemonio” accadesse. Allora il suo desiderio è per tornare ad insegnare in presenza, parlare della fisica e cita il Finnegan’s Wake – ovvero un frammento di lingua inventata, senza senso e poi alla fine : “Taci, Diane”.

E Martin che ha straparlato (si anche io lo so) , si arresta e capisce che si è infilato in un cul-de-sac e l’unica soluzione alla  paranoia sarebbe il suicidio. In mezzo c’è questo restare, silenzioso dei cinque, la micro-comunità, la comunità inconfessabile, erotizzata, che fa a meno anche del linguaggio, forse lascia spazio ai versi. Sicuramente ai fatti così come sono accaduti, ai ricordi concreti, la casa, le chiavi i gesti, la marca del whisky, l’infanzia, e poi chiude: “la situazione contingente ci dice che non c’è altro da dire se non quello che ci viene in mente, perché tanto alla fine nessuno ne conserverà memoria”. La medesima Tessa, che pure conserva memoria scritta di tutto nei suoi taccuini,  alla fine conclude sul bisogne che sarà essenziale: “Toccare percepire mordere masticare”.

 E poi incrociare le dita sulla nuca in attesa come Max che fissa lo sguardo nero.


Come il monolite di Kubrick, quel rettangolo di vetro e plastica, nella  sua mutezza insignificante sta a ribadire l’unica scelta: il silenzio sì, ma anche la presenza. Il muto cenno del capo, il riconoscersi in un “noi”.


lunedì 1 febbraio 2021

FEDERICA SGAGGIO "L'eredità dei vivi" (Marsilio)


 “L’eredità dei vivi” di Federica Sgaggio (Marsilio) mescola (come accade sempre più spesso) le molte tipologie di generi a disposizione di chi scrive. In questo caso preponderante è la memoria: il libro, strutturato in 82 brevi capitoli, nube circolare di racconti, episodi che in modo rotatorio descrivono  una linea temporale, che è la vita di Rosa Sgaggio, la madre della narratrice, ma oltre quella si allunga su tutto il secolo XX. Il cuore pulsante di un legame amoros e psichico è pure motore immobile della Storia. 

"L'eredità dei vivi" lo fa mettendoci, come lettori, in una strana posizione: da un lato, tanto prossimi alla vita della famiglia Sgaggio, messa quasi a nudo col suo cuore sentimentale, ma dall'altra lasciandoci come dietro una parete di vetro. Tanta è la forza di evidenza con cui con cui Federica (co-protagonista, voce narrante  e autrice) ci mette tra le mani la sua storia, tanto alla fine percepisce un’impossibile immedesimazione totale, come da tradizione romanzesca, qui in qualche modo abolita. A noi è chiesto una solidarietà, ma dei testimoni, come nelle nozze. O quella di certi amici nei momenti difficili, ascoltare, anche se i dolori familiari sono infelicità assolutamente singolari e quasi ci imbarazza tanto è preciso il resoconto che ci brucia addosso.

Primo tra tutti c'è lo speciale rapporto d’amore filiale al centro di questo che continuerò a chiamare romanzo.  La sua condivisione necessaria converge anche  verso un punto in cui l’empatia richiesta si fa per contrario afasia. 

E quel punto è Francesco, il fratello della narratrice che, a causa di un  incidente in incubatrice, ha vissuto sempre con una forte disabilità, bisognoso di attenzioni e cure praticamente costanti. E’ lui che incontriamo nella dedica in esergo, Francesco è “l’origine” . Tuttavia se la sua presenza nella storia è magnete amuleto e divinità di costante tempesta di vita, va detto che questo libro ha al centro la figura di Rosa, la madre. E con lei, il secolo di cui “L’eredità dei vivi” ci racconta (in questo senso le infelicità collettive sono tutte somiglianti ). E tuttavia dall’afasia, sarà di nuovo una lotta per un cambiamento del linguaggio, una conquista di parole diverse da “mongoloide”, un percorso che porterà dalle lotte materne al giornalismo della figlia (e alla sua particolare cura e richiamo sull’accuratezza delle parole anche nel giornalismo)

Nata a Solofra, paese dell'Irpinia, prima della guerra, da famiglia contadina – ma come l’80% in Italia in quegli anni -  Rosa si trasferisce in Veneto alla fine degli anni 50,  a lavorare. E’ l’epoca della grande emigrazione dal sud al nord. Rosa Sammarco conoscerà Renzo Sgaggio, vicentino e impiegato di banca. Si sposano, hanno due figli Federica e – appunto -  Francesco. La nascita del maschio e le difficoltà di gestione fanno esplodere il malessere e Rosa, donna tenace, che non si arrende, ostinata ma generosa, sempre imprevedibile, decide per il divorzio (una conquista nei diritti da poco acquisita, con un referendum che – diranno poi le analisi storico-sociali a posteriori, fu dovuta al voto che proprio le tante donne del sud diedero a favore del divorzio, pere aver sul proprio corpo sofferto l’infermo di certi matrimoni).

Rosa decide di andare via di casa, con i figli,  affrontando le grandi difficoltà economiche soprattutto perché Francesco impone un sacrificio continuo impegno. Francesco sarà però la battaglia di Rosa, e attraverso lui di mille altre battaglie, la sua maturazione da contadina a cittadina, nel comprendere intimo il suo alfabeto di vita, si batte : fa politica, partiti, associazioni, movimenti, al centro la sua vita e destino, la lotta affinché egli possa ottenere diritti, una vita più dignitosa. Con lui anche lei, come donna, e anche La futura donna Federica.  Insomma della sua questione privata ne fa una questione politica. Rosa fa la Storia e al tempo stesso ne è plasmata (“non s’era goduta la vita bohemienne anni Settanta, ma di tutto il potenziale liberatorio che circolava nell’aria ne aveva fatto l’uso più generose che aveva potuto”). Dal dopoguerra e per gli anni 60 e soprattutto 70, la storia sarà come cavalcare una tigre e Rosa è al tempo stesso quella tigre. "La politica – scrive Sgaggio – è un modo di proteggere i nostri amori”

Lo è lei, come anche tanti, tutti quelli  che in quegli anni hanno partecipato nella proposta e richiesta di diritti e hanno piegato un paese verso la modernità delle conquiste e non solo quella del benessere materiale ( che tuttavia Rosa come tanti non disdegnava e in queste fughe verso il desiderio di abiti belli fino a concedersene uno ogni tanto, ci sono pagine di pura gioia nel rapporto madre figlia, che Sgaggio ci consegna anche come testimonianza che tutte le discussioni “alto e basso” della cultura, rapporto tra futilità e serietà, fossero questioni più complesse di come sono state lette in passato, un po’ troppo moralisticamente e ideologicamente. La letteratura, grazie a dio, serve a questo. Basti vedere il capitolo Breeze, quasi un’ode, epica, intima).


Tutte le tessere di questo libro fuoriescono però dal privato, dalla sofferenza di Federica e della madre per Francesco, per le discriminazioni, le prese in giro, le ingiustizie sentite e subite, anche dalla bambina che ha avuto nelle assemblee in sezione il suo doposcuola, le difficoltà e tanto altro - e virano ai grandi tempi collettivi. Il vero peso però per l’anima stava forse nella solidarietà di superficie verso Rosa o Federica,  perché lì emergeva l’incolmabile distanza di chi si proclamava vicino, come la maestra elementare dicendo “poverina” alla sorella del piccolo Francesco, consegnandola così ad una prigione di commiserazione che a volte a più male dell’indifferenza.

 Erano gli anni della politica praticata da tanti, dei partiti delle associazioni. Del Divorzio, dell’Aborto, di Basaglia, della scuola. Ma col passare degli anni, invecchiando assieme al paese che Rosa in qualche modo incarna, la madre sente la delusione la stanchezza, si ritira in casa, davanti alla TV che guarda (Costanzo, “l’unico che si interessava della poverinità” scrive Sgaggio) distrattamente (la tv commerciale nel frattempo invade l’inconscio nazionale)  e pur essendo ancora battagliera contro Berlusconi, la sua forza per niente tranquilla, la sua fede propulsiva nel futuro, si esaurisce fino a ritrovare anche accoglienza nella religione che aveva rigettato. Federica nel frattempo cresce diventa giornalista ha una sua vita autonoma, Francesco è cresciuto e dopo le cure della madre o di molti volontari, ora è in un istituto.

E’ la morte o meglio il lutto a generare questa narrazione per quadri (“la sua morte ti apre il futuro. Lo rende un tempo che un anno zero separa dal presente”) così come era il corpo e la relazione dei corpi (la loro alleanza, innanzitutto dentro il quadro familiare) a generare parola. Il libro è un polittico, che ripercorre episodi, in essi innanzitutto lo stretto fortissimo legame tra una figlia e una madre (sentita “mia” scrive la figlia “allo stesso modo in cui diventa tua la cella di un eremo”) e poi la storia.

Non solo quella familiare, che comunque deborda oltre la morte e la vita, sia nell’oggi, ma anche nel passato del “prima di Rosa”, e in quella di tutti, col padre, il nonno di Federica, che – pur figlio di contadini con le terre “padroni” insomma cade in disgrazia per la morte del nonno di Rosa – va prima in Argentina da semplice migrante e poi torna per mettere su famiglia. E sarà sempre di supporto  a sua figlia e ai suoi nipoti. Così come diversa e più distante è la madre di quel padre troppo presto altro da sé nel confronto di idee, anche nello scontro, troppo tardi finalmente amato, ma troppo presto morto.

Tutte queste presenze , dai bisnonni agli affetti di oggi, come il giovane figli odi Federica, Giovanni, che sono intorno, sono  “eredità” ma da vivi, sono appunto il tesoro, la ricchezza, il bene immobile di una storia, e di un’identità della narratrice, essi stessi sono vivi in questa rimembranza vivida di storie come un “bosco fitto” in ci la favola era “a misura dell’universo morale e dell’esperienza del nonno”. La cornice della storia familiare non è diversa da quella di tanti altri, ma raccontare una vita non ha il fine di stabilire una trama interessante per una serie tv.

Questo di Federica Sgaggio è una testimonianza di realtà, con esattezza, anche minima.  Eppure le “piccolezze” come le chiama a un certo punto ci dicono che una storia singolare è esistita, che pur avendo partecipato “alla Storia” alla massa (anche nel bene) ognuno non era solo massa. Anche senza essere “eccentrica” o “simbolica” una storia è comunque rivelatrice di un disegno di vita, che di questo minimalismo fa tessera di un mosaico collettivo.

E’ però la morte della madre a restituire una libertà di sguardo e questo libro diventa la testimonianza anche del rovescio della massa, nell’individuo, come sua particella organica, ma distinta, e in sostanza di come una figlia di un secolo breve ma intensissimo è diventata ciò che è diventata, con una trasformazione paradigmatica, questa si. A cui hanno concorso le singolari qualità di una madre come anche le azioni collettive di partiti o sindacati, insomma di tutto il complesso movimento di lotta sociale di quegli anni. 

Il libro è dunque questo ricollocare tessere nel mosaico della Storia fatto operò di nomi e volti, narrando spinti dal vento del lento avvicinarsi alla morte di Rosa, perché di parte dal lutto. La Malinconia è una leva di orgoglio, però, di rivendicazione, incontra l’altro vento, quello che spira ancora per chi lo ha conosciuto, dal 900. Una biografia di un “noi” una comunità, narrata sia come dimensione del due (madre -figlia) sia come folla, i molti, le piazze, le assemblee.

 

La madre che ha la morte nel cuore e una prospettiva di angoscia che solo al conquista di diritti (e futuro) possono attenuare, si porta dietro ferite, dolori  grandi e taciuti oltre Francesco, un piccolo episodio domestico, un furto attribuito alla piccola,  porta il padre di Rosa a non parlare alla figlia piccola per nove anni: dico “nove”. Anni). La prossimità quasi senza pudore di sentimenti narrata da Federica Sgaggio permette anche di capire un altro elemento importante che riguardala storia di tutti, partendo da una vita raccontata così da vicino: cosa ha trascinato Rosa, quale vento? Qualcosa che sta a metà tra una fede pre-religiosa e una biologia? Un’ ideale? Un istinto che viene prima del logos? Credo tutte le cose assieme.

Materiale autobiografico, analisi, elemento confessionale, rivendicazione femminista, ma anche elaborazione di una femminilità fuori da schemi ideologici. C’è tutto in questo libro che potrebbe rimanere in cerca di etichette se ne avesse il bisogno il lettore. Memoir? Romanzo?

Nel colophon leggiamo che la vicenda e personaggi sono “frutto dell’immaginazione” dell’autrice e il riferimento “a fatti e persone”  è puramente casuale. Non conosciamo se sia un ‘accortezza,  per una qualche necessità verso persone citate o una presa in giro dell’autofiction. (1)

Sgaggio porta il suo privato sulla scena collettiva, perché tutta l’epopea di Rosa è rappresentativa di un privato che s’è fatto politico per forza di dolore e amore. Rosa approdando,  certo – per istinto e poi per coscienza – all’idea che dentro quel corpo di Francesco ci fosse una persona, quindi riutilizzando tutto l’apporto che in quegli anni si fava strada – della psicologia, ma al tempo stesso conquistandolo “strada facendo” e nell’agorà. Per questo considero “L’eredità dei vivi” più un romanzo politico o addirittura storico, che psicologico o autobiografico, pur essendo intriso di biografia fin quasi all’ auto-analisi della narratrice. E’ lessico familiare  ma di Federica Sgaggio, anche lessico comune per molti. Specie per una generazione di figli che ha condiviso quel pezzo di esperienza familiare che è stata la migrazione, l’inurbamento, la politica – e le conquiste – e poi dopo il benessere degli anni 80, una virata lontano da quella esperienza comunitaria. Comunità, sì,  ma stavolta confessabile, non rigettata anzi addirittura rivendicata dalla figlia di Rosa e del XX secolo.

 

(1)         Si sta ridefinendo la nozione di romanzo, soprattutto in certa parte più avvertita e consapevole del pubblico e degli autori, tra memoria di sé , storia collettiva, mix di Storia con elementi del fantastico, fedeltà mimetica ai documenti storici, recupero di fatti di cronaca (ecco Lagioia, Siti, Barone, Falco, Lipperini, Trevi, Scurati, Mozzi, Fontana, tanto per citare i primi che mi vengono in mente).

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