lunedì 12 agosto 2024

IL SOLE SPLENDE SUL NIENTE DI NUOVO. CASCANDO CON BECKETT. Appunti per il prossimo libro 2

 


“Oggi potrei camminare solo sulla Striscia di Gaza”.
E’ una frase che diceva spesso, durante il 1988, il penultimo anno della sua vita, Samuel Beckett, quando si era trasferito al Tiers Temps, una casa di riposo parigina, dopo le numerose cadute dei mesi precedenti e sulla spinta della moglie Suzanne, anche lei malata che non poteva accudirlo.


La cosa più grave però , era il fatto che era cambiata negli ultimi tempi, stava maturando un risentimento, una rabbia senile inaspettati verso Samuel (cosa che addolorava molto lo scrittore, il quale da un lato ne capiva forse la natura di sentimento estenuato, estremo, quasi di chi ha ceduto psicologicamente, un carattere che forse era solo “scoppiato”, caricato di pesi e cure dopo una vicinanza simbiotica col marito).
In questa struttura Beckett viveva in una stanza spartana, come suo costume: un letto, un comodino, uno scaffale con libri che stava leggendo (le biografie di Oscar Wilde, di Nora Joyce e libri di Kafka) e un tavolino. Una bottiglia di Whisky.
Ogni tanto prendeva in prestito un piccolo televisore per vedere le partite di Rugby. Nella foto è lui che guarda la tv, nel suo ultimo anno di vita.
Nel giardino all’aperto, quasi come la scenografia di “Aspettando Godot” c’era un solo albero.
Beckett ci passeggiava sotto, sempre malfermo sulle gambe, ma non si rassegnava a non camminare. Quando la debolezza lo metteva a rischio cadute camminava avanti e indietro lungo un tappeto antiscivolo, stretto e lungo posizionato lungo il muro della clinica.
Quella era la sua “Striscia di Gaza”.
Sono notizie contenute in “Condannato alla fama: la biografia di SB” di James Knowlson, pubblicata da Cuepress e con la solita ottima cura da Gabriele Frasca (avevo letto un’altra biografia, edita da Garzanti, ma questa è più bella) .
In questi giorni di caldo e scrittura, cercando sempre qualche parola (qual è la parola?) casco su Beckett, altrettanto estremo come il sole che splende feroce.
Del resto di Beckett è quell’incipit folgorante che mi ha inchiodato sui vent’anni al primo libro dell’irlandese letto in vita mia: Murphy
“Splendeva il sole, non avendo alternative, sul niente di nuovo”.
Leggo le pagine della biografia sulgi ultimi anni.
Un po’ fa sorridere, è un Beckett che inciampa come un clown, come un vagabondo male in arnese, come un suo personaggio insomma, però è fino all’ultimo attivo e anche deciso: è malato ai polmoni ma sa che ormai smettere di fumare non lo guarirà, così come continua con l’abitudine di farsi un paio di bicchieri di whisky ogni giorno verso il tardo pomeriggio, magari con chi lo veniva a trovare o davanti la tv.
E’ anche ovviamente un corpo fragile, con le sue numerose cadute, come tanti nostri nonni, lui che aveva scritto quella poesia memorabile, “Cascando” (ma dentro il pozzo dell’amore, il falling in love). La poesia “Cascando” (in italiano il titolo anche nella versione originale, quasi fosse un movimento musicale) è un precipizio estremo dell’amore che sa la sua impossibilità costitutiva e al tempo stesso il suo ripetersi dell’errore (fall in love, caderci dentro) – alcuni frammenti nella traduzione di G. Frasca):
nuovamente dicendo ecco vi è un’ultima
volta persino per le ultime volte
ultime volte per mendicare
ultime volte per amare
per sapere di non saper fingere
un’ultima volta anche per le ultime volte
E’ un’idea estrema e sempre ultimativa, della vita come dell’amore, nel suo essere, nel suo viversi, ma anche e soprattutto nel suo dirsi implodendo nel linguaggio che non arriverà mai che sarà sempre “mal detto” eppure instancabilmente detto
E poi la chiusa, tremenda, che fa esplodere insieme un sentimento quasi stilnovista di amore come trascinamento inoppugnabile di un dio dello spirito che ci domina, ma insieme a una coscienza ironica, quasi crudele, novecentesca, di chi sa che tutto quel sentire è un “sentire” è linguaggio che in realtà non sa /non è (il) dire (l’amore e tutto il resto) e così il poeta :
nuovamente atterrito
di non amare
di amare e non te
di essere amato e non da te
di sapere di non saper fingere
fingere
io e tutti quegli altri che ti ameranno
se ti amano
Sempre che ti amino.

A mio avviso la più grande poesia d’amore del vero 900, quello implacabile e scavato dentro, indisponibile alle illusioni (del resto lo sapeva già Leopardi, non a caso poeta amato da Beckett, come anche Kafka, l’altro grade cantore del non-amore i cui libri lo hanno accompagnato sempre)
E però questo uomo così solido sul suo corpo affusolato, quasi come l’alberello del “godot” secco e fragile e insieme eterno, questo uomo comincia cadere negli ultimi anni della vita, inciampa.
Pochi anni prima, nel 1984, aveva scritto all’interno di “Worstward Ho” (che frasca traduce con “Peggio tutta”) una delle sue più famose (e travisate dal web che le rilancia, spesso sbagliate) frasi di uno scrittore:
“Tutto solito. Nient’altro mai. Tentato mai. Fallito mai. Fa niente. Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio”.
Fallire. Cadere.
Molto dell’universo poetico di Beckett oscilla tra questi due negativi (o "nulla positivi" per dirla con Adorno)
Il positivo-positivo, quello non si può dire, non del tutto. Non è detto nel dire. (ciò che segue questa frase famosa, nel libro, evidenzia di sicuro un significato post-tragico di orizzonte fosco, che il soggetto arrivato a questo lembo finale della coscienza matura. Certo non corrispondente all’ottimismo superficiale degli sturtupper che la frasetta se la sono rilanciata per anni)
Sottile, secco come foglia o pergamena, questo Beckett ultimo è al suo lembo finale di una scia che era stata, sempre più da quando è passato dai primi romanzi al teatro, verso il 1960, un tentativo superamento della scrittura.
Nel 1988 scrive quello che è il suo ultimo testo, giudicata da alcuni interpreti come poesia, da altri come prosa, da altri ancora “no-genere”.
Un testo in cui ci sono frammentazioni, trattini (dash, in inglese, che intendono una sospensione di ciò che procede). Si chiama “Qual è la parola” e ha due versioni, inglese e francese, “Comment dire” e “What is the word”. Qui Beckett coglie non lo scrivere, ma quell’attimo sospeso in cui si cerca la parola, sospeso in un equilibrio che potrebbe perdere e cadere, fallire – se non la trova. Sospeso sul precipizio tra “il farsi e il disfarsi del linguaggio” . (leggo dalle note di Gabriele Frasca)
E Beckett scrive questo testo sul non-ancora-scrivere, lo scrive con una grafia “ a ragnatela” scrive Knowlson nella biografia. E’ una reticolo-poematico che forse è l’estremo resistere dello “scritto” e insieme, tessitura tutta giocata sulla fonetica, sulla rete di rime e assonanze, l’emblema di un dire-orale che viene prima – se viene (foneticamente o mentalmente la parola è tutta interna al corpo ancora, prima che esca sta in bilico “sulla punta della lingua” e casca sul foglio.
Un poesia– come il suo vecchio corpo, affaticato, ma sempre bello e forse ancora più bello – in cui tutto oscilla, quasi sempre sul punto di cadere, di ricadere su sé corpo che si ritrae in bocca, in lallazione.
La letteratura di Beckett è qualcosa che corrisponde sul piano testuale e del linguaggio, alla pittura di Francis Bacon con la figurazione, la figura sembra sempre sul punto di sciogliersi, colare, fondersi, mettere in evidenza che è ancora soggetto e corpo e figura, ma al tempo stesso la sua impossibilità, la sua castrazione.
James Joyce e Virginia Woolf lavorarono sull’epifania per dare a questa diversa percezione – con i diversi saperi che si erano affacciati sulla scena del 900 – una forma.

Per Beckett e Bacon c'era una via ancora più radicale: quel corpo formale deve essere invece scorticato dall’interno (perché la realtà è l’impossibile, tuti e due sono du questo versante del XX secolo, anche se il 900 è un prisma) e lavorano a tenere i brandelli di qualcosa che sta per prendere forma, che non arriva a prenderla, che è lì li, che non sai se quella colata di carne si coagulerà oppure si sciglierà, se quel fluire di sillabe diverrà frase o si scioglierà in afasia.
Stanno in quel prima, che sembra esaltare una creazione, ma pure nel dopo, la castastrofe dell’increato.



martedì 6 agosto 2024

ELEGIA CAFONA. Perché sento affinità con "Hillybilly Elegy" di J.D. Vace e perché rileggere in modo diverso Pasolini e Iovine o Carlo Levi.(Appunti per il prossimo libro 1 )

 


Quando ero quindicenne nel  XX secolo, sentivo e risentivo il disco live di Crosby Stills Nash & Young “4 way street”  che conteneva una lunga ballad accattivante intitolata “Ohio” ma non ne sapevo il significato. Pensavo fosse all’epoca la solita canzone on the road e invece era una ballata politica: su scontri con morti durante manifestazioni contro il Vietnam alla  Kent State University.
Dell’ Ohio non  sapevo nulla, se no che fosse uno stato interno degli Usa, più o meno immaginario tra Western e on the road. E’ l’America profonda delle maggioranze silenziose che da qualche anno non stanno più zitte.
Quella dell’assalto a Capitol Hill.  Nel 2020 la sfida in Ohio tra Trump e Biden è finita 18 a 0 (zero) per Trump

All’università del Kent gli studenti di oggi protestano contro Israele. I risultati elettorali ci dicono l’orientamento e l’antropologia sociale della maggioranza. A votare Trump lo stesso identikit di tutte le destre occidentali: prevalentemente maschi adulti, over 40, poco istruiti. IN parte poveri,  in parte poveri, ma più consistente la percentuale di chi guadagna oltre  50 mila dollari. Insomma, operai e piccola impresa da lavoro. Un proletariato-imprenditore di sé stesso, del lavoro manuale o della piccola ditta. Ne sappiamo qualcosa anche noi.


Ho iniziato mentre volavo per New York (che non è “America” è una bolla a sé) due libri che hanno l’Ohio come scenario: “Elegia Americana” di J. D. Vance, In Italia pubblicato da Garzanti per settimane in testa alle classifiche nel 2016 e  “Demon Copperhead”,  romanzo di  Barbara Kingsolver (ha vinto il Pulitzer 2023) pubblicato da Neri Pozza. E mi stanno piacendo e in qualche modo raccontano una storia in cui mi identifico.

In entrambi i romanzi ci sono storie di gente “degli Appalachi” e storie di ragazzini con madri single, abbastanza incasinate, e radici in quel mondo del midwest .
Kingsolver racconta la storia di un ragazzino  Demon (che si chiama in realtà Damon ma finisce per essere chiamato Demon) che nasce da una ragazza appena diciottenne con problemi e che genera queto figlio destinato a non avere un padre e a seguire le peripezie di una famiglia allargata quanto disarmonica e soprattutto i cambiamenti di umore (e di partner) della madre. E’ una storia di non-padri ma contemporaneamente di radicamento al  clan familiare e in qualche modo è lo stesso filo conduttore di “Elegia americana” . Sono a metà dei due libri.

Avevo visto l’omonimo film di Ron Howard, nel 2020 quando  J.D. Vance non era ancora passato alla politica e non c’erano notizie particolari su di lui. L’ho rivisto pochi giorni fa.
Devo confessare che mi è piaciuto e l’ho in qualche modo sentito mio.
Certo, il fatto che oggi l’autore sia diventato nel frattempo il vice di Trump non depone a favore dell’autore, ma leggendo il libro capisco anche la sua parabola politica oltre che psicologica.


Oggi colpisce che l’autore di quel libro che almeno in Europa nessuno si era filato più di tanto – se non come autore del libro da cui il famoso regista trasse il film -  sia l’affilato ed energico vice del Tycoon, ma resta un libro significativo e in qualche modo per me condivisibile.
Il titolo italiano del libro e del film  sono clamorosamente fuorvianti, meglio sarebbe stato infatti  tradurre “Elegia burina” o – con una citazione “colta” riferita a Ignazio Silone – meglio ancora “Elegia cafona”. Infatti “Hillbilly” è un termine per indicare i bianchi poveri (di origine irlandese per lo più) contadini di arre depresse del Midwest, un’area oltre che povera , impoverita in modo pessimo negli ultimi decenni, in un’area che comprende  Virginia, il West Virginia, il Kentucky, la Pennsylvania e l’Ohio, appunto lo stato che cantavo senza saperne nulla.

La chiamano Rust Belt, cintura di ruggine: più che il foliage bellissimo d’autunno, sono gli scarti del ferro (l’acciaieria Armco  di Middletown, che ha subito un declino dopo gli anni d’oro) e i relitti e le rovine del “fu florido”  polo industriale che fino agli anni Cinquanta era il cuore dell’economia di quell’area. Oggi molte industrie hanno chiuso, depressione, disoccupazione, dipendenze da alcol e droga hanno stravolto il paesaggio umano e urbano.

C’era anche un altro romanzo intitolato proprio “Ohio” di Stephen Markley (Einaudi)  nel 2018 divenne un caso: anche qui,  romanzo sui millennial dell’America profonda. Ma sono molti i nomi di scrittori che hanno raccontato la provincia americana, però alla fine a New York come Milano e Roma non viene capita davvero.

Da noi poi, non abbiamo nemmeno capito (né visto arrivare) diverse ondate di Hillybilly nostrani. Nemmeno dopo aver letto Iovine, Silone e soprattutto Carlo Levi (se si rilegge oggi bene “Cristo si è fermato a Eboli” c’è già in nuce l’Italia profonda che voterà dopo decenni Berlusconi. (raccontati meglio da Pennacchi, Canale Mussolini). Dagli anni ’50 di Togliatti, del Pci di Di Vittorio, stare dalla parte dei “contadini” era più un imperativo categorico ideologico, che uno sguardo vero sulle caratteristiche i valori reali di quelle masse di persone alal vigilia del boom economico.
Quel mondo contadino era sì povero, sfruttato, umiliato e offeso, ma era pure individualista, egosita, arretrato e di destra, attaccato al guadagno e alla roba ( l’aveva già raccontato “Libertà” di Giovanni Verga , più ancora che i Malavoglia).

Veniamo a “Hillibilly elegy” di J.D. Vance. Devo di re che in qualche modo mi identifico molto in questa storia di evoluzione sociale, di famiglie che si sono inurbate in città, Vance ha l’età che potrebbe avere anche un mio figlio, se l’avessi fatto all’età in cui i mei hanno generato me. Capisco quella storia, che ha riguardato anche molti come me, comune a quella di tutto il dopoguerra occidentale: finita la seconda guerra mondiale, la pace si è prolungata come mai prima di allora, il benessere ha spinto masse di contadini a inurbarsi, la società industriale degli anni ’60 prometteva felicità, benessere istruzione per i figli. Una vita migliore.

Spesso si dice “la destra sollecita la pancia”, va detto che quelle masse di ex contadini, pur votando in Italia PCI e in Usa (come il nonno di Vance) sempre Democratici ragionava egualmente con la pancia, prima di tutto. Poi ci fu l’arricchimento e lì si è rivelata un’identità sociale che non è stata capita. Basta leggere Operai di Gad Lerner, per capire come i metalmeccanici del sud italia specialmente somiglino ai contadini divenuti operai della Armco, come siano molto più simili ai Veneti della piccola impresa che alla “classe operaia” più idealizzata che capita (anche “Vogliamo tutto” di Balestrini in fondo anticippava nel 1971 qualcosa di simile)


Quel che racconta Vnce è però qualcosa che è accaduto anche in Francia e in Italia. Una società di lavoro indebolita e fiaccata da crisi ripetute – dal 2001 in poi - e dal mutamento globale dell’economia.

Da quella storia di speranza esce una generazione che quella speranza vissuta come una certezza, l’aveva vista dissolversi.

Una generazione arrivata a 60 anni e spezzata, frustrata, e poi nel tempo – e complici anche i social che innescano isolazionismo-relazione distorcente -  incattivita, arrabbiata. Perché in fondo (si può dire che si sbagliano ma non si può far finta che non provino quel sentimento) si è sentita tradita, con una sinistra che – tra letteratura e politica – si dedicava più alle minoranze e alle eccezioni che non alla normalità.

un vizio in Italia ben raffigurato da Pasolini: ha in fondo fatto l’epopea di una banda di ladruncoli, ha eletto a eroi delinquentelli, ma in quelle stesse condizioni di povertà c’erano milioni di persone – come mio padre e mia madre  – che veniva da quel contesto di migrazione interna italiana e che hanno lavorato duramente e onestamente. Erano come il personaggio Antonio Ricci di “Ladri di Biciclette” di De Sica, che ne fece un ‘epopea poi accusato di essere melodrammatico. Poi arrivò Pasolini e fece diventare eroi quelli che fregavano le bicilette agli Antonio Ricci.

(Sto estremizzando ma la mia chiave di lettura al fine è questa, l’ho capito solo ora, con il tempo e l’età e ho cambiato idea su PPP. E nel mio libro, quello che scrivo da anni, c’è una scena che è una riscrittura da un altro punto di vista di una famosa scena di Ragazzi di vita, dalla parte di chi era silenzioso e nei film di Pasolini solo comparsa.

Quella massa di persone, i contadini inurbati gli Hillybilly d’Italia, ha cresciuto la mia generazione di baby boomer sulla promessa di sogni e promesse che negli ultimi anni sono venuti meno, hanno rallentato economia e sviluppo. La delusione si è trasformata per molti in rabbia e paura, che la sinistra intellettuale bolla come paranoie, come “percezione sbagliata” mentre è reale, perché reale il vissuto quotidiano, quello  rasoterra di chi vive nei contesti che altri interpretano da lontano. Contesti con caratteristiche che non entrano nelle rilevazioni statistiche analizzate in contesti protetti (i giornali, prima, il coté intellettuale e artistico le bolle social, di cui pure oggi faccio parte sociologicamente e professionalmente)
Lì non si capisce il mondo della provincia, della suburra, della campagna “wanna be” metropoli o delle periferi.

L’unico che in Italia aveva capito megli certi contesti era  Tommaso Labranca. La sorpesa dei milioni di voti per Berlusconi prima, dei voti per la Lega a Mirafiori negli anni ’90, il ripetersi del fenomeno ora con Meloni e FdI non ha sradicato quel difetto di sguardo, ideologico e valoriale di una certa parte della sinistra intellettuale soprattutto (sono gli eredi di chi sbeffeggiava Berlinguer )

C’è sempre questa idea cattocomunista che i poveri siano buoni e di sinistra “per natura” mentre invece sono esattamente come tutti, variegati e in certi casi, come adesso in America o in Europa, esplicitamente e volontariamente di destra, individualisti, conservatori, che puntano all’arricchimento in qualche caso anche avidi di ricchezza.
L’aveva capito già Dostoevskij quando ne “l’adolescente” fa dire al suo giovane protagonista di quel romanzo dickensiano ““la mia idea è diventare un Rothschild, diventare ricco come Rothschild; non semplicemente un ricco, ma proprio come Rothschild”. Sembra un proclama da trapper di periferia di oggi. Che sia bisnipote di questa stirpe di contadini caponi inurbati o che sia figlio 2G di mitranti recenti, la sostanza è simile.

L’unico ad aver  raccontata con aderenza il sosstrato psico-antropologico italiano è stato Vitaliano Trevisan e prima di lui Vincenzo Cerami in “Un borghese piccolo piccolo”.
Una  classe media ex popolana, proletaria e contadina. Altri esempi non romani: “Cartongesso” di Francesco Maino o “La buona e brava gente della nazione” di Romolo Bugaro e “Gli sguardi cattivi della gente “ d iClaudio Piersanti.
Vado a memoria ce ne sono di libri che ci avrebbero consentito una lettura di quel fermento esploso poi con Berlusconi, la Lega e oggi Fratelli d’Italia ma anche il M5S populista di Grillo.

 Ci siamo abbandonati a “Suburra” e “Romanzo Criminale” di De Cataldo, un po’ pasolinianamente, traviati da film-serie, come fossero storie di  “crime” senza riflettere sull’aspetto sociale che esprimeva. Come anche con Gomorra di Saviano (pessimo servizio la serie tv).
Forse già il “Branco” di Andrea Carraro negli anni ’90 rivelava una suburra non idealizzabile, ma anche  Niccolò Ammaniti di “Come dio comanda” – e prima ancora “ Grande Raccordo Marco Lodoli con i suoi personaggi invisibili e non certo inquadrabili in ideologie e “classi” (si ragiona ancora come se esistesse una “classe” in certi ambienti)

L’ideologia cattocomunista si sposa con il sapore cinematografaro post-pasoliniano,  Troppo romano poi. Forse sempre per restare a Roma, meglio di tutti allora sono rappresentativi i personaggi che animano il bar de “Lo stradone” di Pecoraro.  

Oggi alora il proposito è  leggere con attenzione Davide Coppo “Dalla parte sbagliata”  - magari trovo spunti come già in  Andrea Tarabbia “il continente bianco”  (o il Parise de “l’odore del sangue” a cui è ispirato).
Anche ritornando indietro ad altre letterature, come quella britannica, anceh Ken Loach ormai come in Old Oak fa un ritratto spietato de “fu proletariato”. LA coscienza di classe era un miraggio.
Ora poi si inseriscono anche altre complicazioni, ovvero culture e religioni, valori diversi. )l’aveva anche qui anticipato Kurehishi ai tempi di Mio figlio è un fanatico.
Non è sempre “colpa dell’esclusione sociale” . Sta nascendo un processo identitario di ritorno alle radici che accomuna in modo singolare parte di chi vuole respingere i migranti ma Anche parte dei migranti stessi.
 Quell’ideologia che oggi si divide tra una estesa adesione al nazionalismo vagamente o  radicato anche nell’adesione religiosa (come pure fanno molti di seconda e terza generazione in Francia vedi le analisi di molti sociologi dop ogli scontri di due anni fa) oppure sposano la Ideologia totale del consumo, del Cash che puoi fare in modi ritenuti facili, che non contemplano sacrifici, lavoro, emancipazione.   
Ma questa è una parte complessa, tuttavia ciò che mi sembra il tratto comune è proprio la spinta identitaria. Lo è per i tanti francesi che votano a destra o che sono scesi in piazza con i Gilet Gialli. Lo è anche per quelli osteggiati, ma non è solo una “reazione” è un tratto convinto e radicato.  Basti leggere i libri di Eribon o Louis in Francia (anche li una vasta provincia depressa, ex operaia, delusa, arrabbiata, una classe media senza carta né territorio, ormai, già raccontata da Houellebecq che pure con Sttomissione ci  aveva visto lungo )

 

C’è un vasto continente della rabbia, un “eurasia” trans globale che mette assieme rabbie in apparenza diverse, ma tutte con una matrice che sta nel libro di Vance: il tradimento dei sogni di felicità, la promessa di una “promise land” . Bianchi con radici locali e “migranti-discendenti” di 2G che rigettano le promesse, che non credono a regole, percorsi, che hanno solo voglia di “riprendersi il dovuto” magari con espropri proletari come hanno fatto in questi giorni i bianchi razzisti e negli anni passati i nordafricani a Parigi : assaltando negozi di cellulari o di sneaker.

LA rivoluzione è fatta per quello, non per diritti, come del resto le lotte della generazione dei miei genitori : per la pancia, per stare bene, per avere più roba. I diritti, certo ma non sono il primo pensiero e infatti sinistre europee e democratici usa che le hanno cavalcate non hanno ricevuto consensi dall’elettorato tradizionale, ma non tanto per “delusione” quanto perché quel vasto strato popolare ex contadino poi inurbato, come dimostra il libro di Vance si è ripreso un’identità – come stanno facendo per altri aspetti parte delle giovani generazioni di 2G in Francia che spesso protestano con bandiere algerine e marocchine e vagheggiano un “ritorno” messianico alla terra dei nonni).

Non era una “resa” alla destra per delusione, ma la rabbia è stato il motore di una riscoperta di radici mai estinte con un’identità conservatrice che oggi riemerge. Vasti strati popolari che sono sempre stati “di destra” per dirla con una formula veloce.

Che vuole riavere quello che le è stato sottratto. E a quei maschi allevati nella promessa di essere l’asse portante di una tradizione familiare è riemerda la voglia di riprendersi quel sogno “ di tradizione” come mostra bene il libro di Vsnce. Nonostante sia una famiglia di persone che sarebbe meglio evitare, è lo spirto del clan della tribù che prevale è l’identità. Il nazionalismo della propria “nation” (fine del sogno Lennon-BAmbataa-Marley di “una sola nazione”. Oggi prevalgono le mille nazioni-clan. Bianchi, africani, islamici che siano.

Li classifichiamo – quelli bianchi visto che sono partito dall’Ohio – come tossici, privilegiati, violenti, o vittimisti, incel perché in prevalenza maschi. Ce ne sono certo, ma la massa erano figli di chi si è fatto il culo e non ha avuto ciò che meritava – magari proprio a causa di crisi globali dell’economia (e alla fine i veri no global sono i trumpiani oggi) e negli Usa erano anche bianchi orfani, poveri, con fratelli morti nelle guerre, o morti per farmaci oppiacei, proletari intrusi, mal mesi, cafoni, appunto. Figli di cafoni che hanno affollato anche molti romanzi nostrani, ma che abbiamo sempre letto male, interpretato male. Ideologicamente.
Erano vittime, erano i “penultimi” e quando hanno visto le sinistre dedicarsi solo agli “ultimi” hanno ripreso la loro identità, non quella che gli avevano appioppato gli intellettuali di sinistra facendone un ‘ “elegia positiva” ma sempre però esaltando i marginali. Nessuno faceva più “l’elegia dei cafoni” normali, dei burini, dei semplici.
 Ora con una certa dose di rabbia, la rivendicano. E’ tempo in effetti di riscrivere elegie diverse.

SINNO (E LATTANZI O D'ADAMO): CORPI ESTRANEI ANTILETTERARI, QUINDI LETTERARI?

Allora, lunga riflessione : il libro di Neige Sinno, “Triste tigre” ha avuto notevoli riconoscimenti letterari in Francia, è stato tradotto...