lunedì 22 dicembre 2014

NICOLA GARDINI "Stamattina" (Ladolfi editore)

 **  “Oggi” è la prima parola del nuovo libro di Nicola Gardini, Stamattina, e già dice molto di questo tentativo di creare una fotografia del presente in versi. Non e­splicitamente storico, ma dentro il postmoderno di irrealtà e simulacri, Gardini sceglie un obiettivo classico e inattuale: scrivere l’immanenza e la presa in diretta delle cose da parte di un individuo. Tempo, oggetti, paesaggi in un dichiarato rapporto positivo con l’esistente, anche se come autore consapevole tiene conto dell’ombra e dell’orma, del vuoto dietro le cose. Stamattina è dire l’individuale, registro e diario, ma con un senso di slittamento e di precarietà legato anche alla prospettiva di un’esistenza che dentro questa volontà di aderire al mondo ne vede anche la sua naturale evanescenza (“ho capito all’improvviso / che non rimane già più niente”). Richiami classici, oppure di un ’900 dell’oggetto (per esempio il “Partito preso delle cose” di Ponge, e forse anche in Gardini c’è un po’ della sua allegria materialista).
In effetti in Stamattina gli elementi con cui viene a contatto l’io-scrivente (un parco, le nuvole, le viole di un giardino e altri elementi anche minimi) compongono il puzzle temporale di una percezione del mondo. Sono atomi e grani di un rosario per invocare il presente e tenere le cose attraverso la poesia dentro il suo rischio di vuoto infinito (“il vuoto si è riempito di sfere”). Inseguire passo-passo le cose del giorno (significativa la poesia “Dunque”, quasi un elenco di appunti per un’agenda) disposte alla percezione a definire un’armonia di quelle sfere, attraverso una lingua lavorata e resa semplice con studiata ripresa di canoni (con prevalenza di endecasillabi, in strofe e a volte sonetti manipolati, tagliati) italiani e anglosassoni (Gardini, docente a Oxford, è traduttore di molti autori, tra cui Dickinson e Ashbery, un nome dai critici spesso a lui accostato). Nei versi centrale è il dire, esteso fino al non dicibile, inteso non come mistero, ma come l’estrema presenza della cosa, di un attimo vero, di un momento di un senso dell’esistenza, inafferrabile ma evidente, restituito spogliando i versi il più possibile di ogni orpello iper-letterario, anche se consapevole del limite (non a caso il libro di saggi uscito in contemporanea da Einaudi, Lacuna, è un “saggio sul non detto”). Dire e non-detto definiscono un perimetro fisico del mondo, non un linea verso una metafisica. L’aggiustamento del tiro, anche attraverso riflessioni che emergono qua e là (“tutti presenti / e invece sembra sempre / che qualcuno manchi” nel linguaggio che è “castello di Atlante”), serve a dire che “la cosa c’è sicuramente”, ma noi sulle cose “non diremo mai la verità” per via di una continua manque, di uno slittamento che la nostra condizione non può ignorare. Gardini non cede a questa teologia negativa novecentesca, resta qui a percepire “all’improvviso un pensiero / mai fatto / far rima tra i passi e la libertà”. Definire una disposizione del sé attraverso una sua fenomenologia: l’io-poetico attiva, tiene assieme stringendola in forma e sintassi nette, una sorta di rammemorazione del presente, attraverso la rappresentazione in segni: diventa “cosa” la cosa che percepiamo rappresentata, la parola, mai l’oggetto. Ma non si percorre qui il sentiero della lacerazione e dell’inesperienza. Seppur fluttuanti, come in certe stampe giapponesi o in Giudici (“io sento nostalgia / delle cose che vedo”), le cose sono perché sono state e la realtà esiste nella temporalità. Stamattina è un libro di componimenti come micronarrazioni, anche se Gardini torce i tempi verbali: siamo in un presente che “mentre sei, sei stato” ma per tentare un “discorso” che “del passato facesse un futuro”. E struttura tutto in una ciclicità, come l’impianto stagionale del libro, che termina in giorni invernali in cui “su tutto è sceso il freddo”. Però siamo qui, ad attraversare il gelo e scrivere “con le suole / che sto passando” correndo “incontro ai giorni che finirono”.

Mario De Santis


Nicola Gardini, Stamattina, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero 2014, pp. 102, euro 10,00.

** già pubblicata in "Poesia" (Crocetti) dicembre 2014

ALDO NOVE "Addio mio novecento" (Einaudi)



** Aldo Nove il ’900 ce l’ha inserito per enigma nel nome d’arte (forse Palazzeschi, sicuramente “Aldo dice 26x1” del Comitato nazionale di liberazione Alta Italia). L’ultimo suo libro in versi, Addio mio Novecento, è perciò una summa, sulla soglia dei cinquant’anni di Antonello Satta Centanin, e un addio alle origini che quel nome ha prodotto, tra autobiografia e biografia letteraria. Un addio a memorie e alla possibilità stessa di considerare la memoria un patrimonio e il presente un movimento di storia. Cinquant’anni di pace occidentale rivelano a noi la “prassi di spavento” dentro il presente di un mare trasformato in “acquitrini”. Un tempo che è “questo, ma non è nostro”, “tu non farci caso, ma tu scrivi”, si legge (e rimanda al “Nulla è sicuro, ma scrivi” di Fortini, e forse quel suo composita solvantur è rilevato da Nove nella disseminazione presente). Lontano ere geologiche c’era un “prima”, quel ’900 in cui nacque Woobinda, fatto di “scodelline” e “magazzini”, un’infanzia-mito che fu l’infanzia della storia, un secolo di trasformazione sociale, politica, biologica. L’“andare” dentro il tempo storico era come fiaba ed epopea, avventura, l’infanzia era una “foresta che si inoltra azzurra / nel sogno” esplorata dal bambino – ora invece spazio e tempo non sono quelli dove viviamo con “ogni tipo di comfort” ma sono quelli che l’io dispiega nella sua lingua, una dimensione psico-sentimentale, una materia di realtà non decifrabile né identificabile. Tutto “scorre, pesante, si sente / come se giungesse da dentro” ma dov’era coscienza c’è un fluire che – più che nevrotico e franto, come poteva essere in Sanguineti, ma spiegabile in un’idea o ideologia – rivela nella forma sintattica una nostra percezione di realtà desertificata. Un testo fatto spesso di vicoli ciechi della frase, nel cielo chiuso di un’immobilità di sguardo e di una sparizione di senso e non solo: “quando arriva il significato / non c’è più nessuno”. L’io che prende forma dalla lingua del libro di Nove ci spinge a guardare fisso il “deserto che si ingorga di domande”, dove “non c’è più annuncio”, nessun angelo della storia. Un presente in cui “lo sguardo retroverso / diventa memoria dell’oblio / senza contraddizioni, movimento”, sì, ma è solo movimento dalle foglie alle radici, non viceversa. Linfa esaurita, immemore nonsense rispetto al tempo in movimento del 900 in cui “le cose ci piacevano”. Invece ora “tutto fluttua”, “tutto deraglia”, come anche la scomposizione della sintassi non ascrivibile a una visione. Attenzione: niente nostalgia, semmai ironia in Nove: e allora Viggiù è sì “il posto dove sono nato”, ma esso è pure un topos letterario come Nove uno pseudonimo. Bisogna tener conto quindi che “la maschera del poeta” – scrive Aldo/Antonello – “mima la menzogna / e manifesta il reale”. Ironia, ma non nichilismo – chissà se influenzato dal lavoro sul Francesco santo e giullare – e Nove colora i testi di lievità, di un’allegria, come puntello contro il “teatro inaridito del creato”. Guardare accettando che le cose del mondo finiscono: le “stagioni del nastro magnetico” sono cancellate con i nomi, le epoche e la stessa poesia, l’affermazione di un io, è schiacciata in “millenni tra le virgole” e non è più una forma che rifletta a pieno la realtà “né a capo / ci sono svolte, disarticolata / la lingua”. Dobbiamo accettare il deposito, la “centrifuga di millenni”, ore, giocattoli, corpi, “scatole colorate” in cui abitare, “uomo allunato”: piccoli centri, ma ormai “senza circonferenza”, fuochi centrali di un’immanenza celebrata dentro una poesia-litania, ma al limite dell’afasico. Oggi il fanciullo-Rimbaud come il bambino-Antonello non saprebbero più esplorare e far deragliare il gioco di vocali, perché “il nome di tutto deraglia” e da qui si vede “un fiume di gente / scorrere attraverso la storia. / Il fiume è la memoria / di ognuno. Il resto è il Niente / che lo contiene”. Il secolo della plastica era addirittura più umano. Osservare il cambiamento senza nostalgia, ma con la luce di una consapevolezza: questo midhàr, questo deserto è pure energia/movimento /eros visto proprio – se pure frammentato – in quanto tempo. Non siamo più ora, ma ci siamo nel tempo: gli orizzonti, gli attimi e i ritagli “che sono una famiglia […] e sono / il movimento, è / noi per sempre / che ne siamo parte, / ciò che diventa, / è il tempo, // è la tua bocca / […] il grembo”. Siamo stati quindi siamo. In che tempo, futuro o passato? In entrambi: l’attesa messianica è ciò che da sempre il passato lasciava trasalire, intorno, accaduta. Cancellato del tutto, ecco che il ricordo è a venire.

Mario De Santis


Aldo Nove, Addio mio Novecento, Einaudi, Torino 2014, pp. 114, euro 11,00.

** recensione già pubblicata da "Poesia" (Crocetti), dicembre 2014.

LA MIA BATTAGLIA, LA SUA BATTAGLIA, LA NOSTRA (PERDENTE) BATTAGLIA (DEI LIBRI, E NON SOLO) - Karl. O. Knausgard, "la morte del padre" (Feltrinelli)

La casa editrice Feltrinelli pubblica oggi di nuovo tutta l'opera di Karl Ove Knausgard, autore norvegese di un iper-romanzo di 3000 pagine per 6 volumi che è stato caso letterario in Norvegia dal 2009 al 2001 vendendo 500.000 copie nel suo paese - un norvegese su dieci.
come se in Italia un libro diviso in 6 volumi potesse vendere 6 milioni di copie. qui un articolo de L'inkiesta che riassume il caso

Prima battaglia persa, nostra: secondo me non saremo mai (più) un paese di lettori. La rincorsa del ritardo secolare era da fare nel 900 della democrazia rappresentativa, delle elites democratiche, della scuola. Oggi è populismo, democrazia mediatica diretta, delegittimazione dei "mediatori" - scrittori, giornalisti, insegnanti, politici ecc. Ed è l'era dei tablet e dei social network. Letture altre, comnq. visto come va il mercato da noi (5% di ebook, ridicolo, - 17% di libri venduti e letti (il volume delle biblioteche è minimo) possiamo dire:  il sapere non passerà più per i libri: se non è già passato, amen. In italia legge libri in modo significativo il 10-15% delle persone. E spesso la classe dirigente - manager, dirigenti, privati e pubblici - non è in questo 15%.

Tornando a Knausgard: il volume era apparso meritoriamente da Ponte alle Grazie. Evidentemente la follia romantica di pubblicare un opera che in molti  - tra questi, qui Walter Siti su Repubblica qualche giorno fa, seppur con rilievi interessanti di perversa qualità non-letteraria  - non esitano a dire come tenti un qualche rinnovamento del progetto-Proust,  si è scontrata con le ragioni del mercato e del fatturato. In Italia più che altrove, con troppo realismo cinico anche nel mercato editoriale vincono sempre quelle (e non mi riferisco solo personaggi tosti e pescecani che hanno guidato grandi gruppi editoriali: mi riferisco anche ai pugnalatori nobili del Mulino che affossano Carocci, nonostante gli appelli di molti, come leggete qui dal Fatto -  figuriamoci quindi  un grande Gruppo editoriale, perché non dovrebbe seguire le logiche commerciali se i primi "figli di mignotta"  sono i "padri nobili"?

Quindi seconda battaglia persa. quella di una casa editrice media - seppur dentro un "grande gruppo" -  Ponte alle Grazie di poter sostenere un'opera così. Ora vediamo Feltrinelli, che pure non è ben messa. In bocca al lupo.

Per la cortesia di Ponte alle Grazie, avevo incontrato 4 anni fa Knausgard in Italia per l'uscita del primo volume, quello che oggi ripubblica Feltrinelli. Incontro magnetico e straniante come il libro e tutto il progetto . qui il post del "vecchio blog" soulfood del 2010 e sotto il video con l'intervista radiofonica integrale, di fatto inedita fino ad ora, in cui Karl parla del suo libro e del titolo "Min Kamp" che evoca volutamente, ironicamente e provocatoriamente il Main Kampf di Hitler, l'apoteosi dell'uomo massa opposto a questo uomo-singolo, anche se poi la tragedia hitleriana fu una singolare coincidenza di follia di uomo-singolo che incontro nell'intimità il consenso di altrettanti milioni di uomini-singoli.....

lunedì 8 dicembre 2014

DOMENICO STARNONE "Lacci" (Einaudi)


la recensione per Repubblica/RSera


Incipit. “Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te o ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso all’improvviso, ti dà fastidio. Lo so che fai finta che non esisto e che non sono mai esistita perché non vuoi fare brutta figura con la gente molto colta che frequenti. Lo so che avere una vita ordinata. Doverti ritirare a casa a ora di cena. Dormire con me e on con chi ti pare ti fa sentire cretino. Lo so che ti vergogni a dire: vedete mi sono sposato l’11 ottobre 1962, a ventidue anni; vedete ho detto sì davanti al prete, in una chiesa del quartiere Stella, e l’ho fatto solo per amore, non dovevo mettere al riparo niente”.

Trama. Per un misterioso furto e devastazione della casa, Aldo, un uomo, più che settantenne, rilegge le lettere che la moglie gli aveva inviato durante i quattro anni in cui l’aveva abbandonata, dopo dodici anni di matrimonio e  due figli, tra il 1974 e il 1978, vivendo una storia d’amore a Roma con una giovane donna e  trovando anche il successo come autore televisivo. E’ l’occasione per riflettere su quella  parentesi rimossa e sulle conseguenze dell’amore mancato, verso sua moglie, verso la giovane Lidia, e sul presente di famiglia borghese  rattrappita  intorno al non detto, sul suo essere stato padre inadatto, debole, malinconico, in cui il ritorno a casa  non fu vera pace, ma l’inizio di una storia di amarezza, paura e dolore, quotidianità conflittuale  e strangolante  che dai coniugi passava invisibile ai figli.  Sono loro i protagonisti del finale  a sorpresa. Con il oro gesto,  ormai adulti, rivelano che,  se esistono legami impossibili da spiegare, ricostruire amore e famiglia è altrettanto impossibile,  molto più che  saper amare davvero.

Stile. Starnone adotta diversi registri e smonta la storia in  capitoli e quadri mescolando i tempi. La prima voce è Vanda, la moglie, le sue lettere dell’abbandono, con una furia e lucidità di una donna ferita ma combattiva, feroce quasi. I rumors secondo i quali Starnone  potrebbe  “essere  Elena Ferrante” certo si alimentano  qui, perché – coincidenze a parte - sono pagine di tempesta e dolore travolgenti. Poi la parola passa al marito, già vecchio, fintamente  svagato, con una prosa che si distende in una malinconia asciutta, fino ad arrivare ai capitoli di Anna, la figlia minore, con i suoi rancori, fantasmi, la fame mai sopita di amore trasformata in avidità e bulimia, portando la narrazione verso la freddezza calcolatrice  del suo gesto straniante, in cui coinvolge  il fratello Sandro. Perché i figli che non sono come i nodi dei lacci, che puoi anche scioglierli:  i figli puoi solo farli o tagliarli via.


Pregi e difetti.  Pregevole lo stile, precisione dei sentimenti, personaggi nitidi, concentra in centoquaranta pagine come è cambiato il senso della  famiglia e dell’amore, la crisi del maschio, la dissoluzione dei “lacci” affettivi, mostra una crisi maschile che si accompagna a mutazione della Storia italiana , seppure qui appena accennata  (Aldo se ne va negli anni del referendum sul divorzio). Il finale lascia di stucco: forse troppo affrettato, troncato, tutto precipita, lascia un senso di mancanza, l’amaro in bocca. Potrebbe essere anche  un pregio.

venerdì 28 novembre 2014

RACHEL POLONSKY "la lanterna magica di Molotov" (Adelphi)

la recensione per Repubbblica /RSera

Incipit. “In un angolo del soggiorno di Molotov c’è una lanterna magica. Dando le spalle alla finestra affacciata sul vicolo Romanov, giro la manovella di ottone della lanterna e attraverso il vetro sbircio dentro l’obelisco di mogano che mi arriva alla vita. Immagini scolorite si succedono con un clic del meccanismo girevole.”
Contenuto e stile . Rachel Polonsky,  studiosa inglese del mondo slavo, arrivata in Russia per scrivere un saggio scientifico e decisa a fermarsi a Mosca solo diciotto mesi, ci è rimasta per dieci anni , seguendo anche la voce delle proprie radici personali. Viaggiando per tutto il paese, lo ha esplorato in modo non sistematico ma capillare fino al dettaglio. Ha raccolto storie di luoghi e persone tra Mosca e terre lontane, legate  soprattutto al periodo degli anni di Stalin, anche risalendo ad aneddoti sulla  vita di Čechov e Dostoevskij e Pasternak, passando per i poeti Mandel'štam e Cvetaeva, e raccontando tantissimi altri personaggi, comprese persone comuni, come la folla  di frequentatori per decenni delle terme di Banja Sandunov, fino ad arrivare a brevi ma taglienti, ironici ritratti della nuova oligarchia ignorante della Russia di Putin.

Polonsky si è lasciata guidare dalla ragnatela di intrecci e riferimenti, anche casuali, a cominciare  dalla  scoperta che l’appartamento di Mosca dove sarebbe andata a vivere, all’inizio del Duemila,   era appartenuto a  Vjačeslav Michajlovič Skrjabin, noto come Molotov.  E la studiosa parte da questa figura controversa -  uno dei principali rivoluzionari bolscevichi, unico tra questi a sopravvivere alle fucilazioni di Stalin, e divenuto suo braccio destro negli affari internazionali come nelle purghe  –  e dai suoi libri e documenti, conservati ancora nell’appartamento per un viaggio nei meandri di un periodo terribile e oscuro. Assieme ai libri, nell'appartamento di Molotov c’era una  lanterna magica, che diventa solo il pretesto per iniziare a seguire il filo delle ombre tra realtà e magia, inseguendo vite febbrili e tragiche, testimonianze di vittime, figli, sopravvissuti, in un montaggio delle memorie che segue il destino di scienziati  e letterati  russi, per lo più  perseguitati da Stalin ( ma i loro libri erano, ironia tragica della storia,  nella biblioteca del suo ministro). Un resoconto di un’epoca, basato su migliaia di documenti usati con grande perizia filologica, priva di pedanteria, e anche su un viaggio reale : dalle dacie degli scienziati in Finlandia,  Polonsky ha attraversato “tutte le Russie” toccando molte città e villaggi tra cui Murmansk, Rostov,  Irkutsk, Staraja Russia, Vologda e poi la Siberia, il fiume  Don e ancora Mosca.

Una psicogeografia di una terra ricostruita rovistando nelle macerie reali e metaforiche di una storia politica e culturale segnata da orrore e da gloria. “La lanterna magica di Molotov” è un libro davvero inclassificabile, ma affascinante e bello, che  sarà maggiormente apprezzato da chi vuole approfondire le vicende delle persecuzioni interne nel periodo staliniano o ha amato  “Vita e destino” di Grossman o “ I racconti della Kolyma” di Salamov e da chi vorrà sapere di più dei luoghi simbolici della Grande Madre Russia, una terra di vangelo e rivoluzione, di fervente cattolicesimo ortodosso e crudeltà sanguinarie, di sofferenza e indifferenza, di grandi poeti e di miserabili criminali.


Pregi e difetti. Sono gli stessi della Russia o dei suoi grandi romanzi: ci si perde, si confondono i nomi,  si mescolano leggende e realtà, si sprofonda nel terribile ma si ama il suo sublime, e  alla fine si è saturi di personaggi   e luoghi ma  resta addosso una sensazione di ebbrezza febbrile e follia.

lunedì 24 novembre 2014

in lettura: JEROME FERRARI "Un dio un animale" (E/O)


la recensione per Repubblica/RSera


Incipit. “Le cose vanno male, certo. Eppure tu saresti partito, e tornato a casa quando l’abbraccio del mondo si fosse fatto troppo poderoso. Invece non è andata così, perché le cose vanno male in una loro maniera misteriosa e crudele, e fanno si che contro di loro si infrangano tutte le illusioni di lucidità. Sei partito, il mondo non ti ha abbracciato, e quando sei tornato non ti sentivi più a casa tua”.
Trama. il protagonista e voce narrante - ma che parla a sé stesso con un “tu” nel flusso della scrittura - ripensa la sua storia, prima  di ragazzo nato e cresciuto in un paese dell’interno della Corsica, percepito come una tomba da cui fuggire.  Solo l’amore fugace ed estivo con Magali, venuta in vacanza come ogni estate o le scorribande a caccia di merli con l’amico del cuore Jean-Do sono attimi felici di un’adolescenza magica. L’occasione della fuga sarà prima la vita militare, poi l’ingaggio come mercenario in Iraq insieme al suo amico fedele.  Sarà un viaggio all’inferno in cui il protagonista perderà anche l’amico. in parallelo Magali, mai più tornata in Corsica,  è diventata  manager in un’azienda di cacciatori di teste e la sua sola dimensione è un’altra guerra, quella della competitività a tutti i costi. Tornato a casa, di quel ragazzo felice non resta nulla, il suo mondo è sfaldato e l’orrore attraversato  in guerra lo divora.  Tenterà di ritrovare un appiglio i quei giorni felici da ragazzi,   cercherà Magali, che ritroverà a sua volta  in lui una chance per uscire dal tunnel di solitudini e orrore da colletti bianchi.  Sarà per loro una disperata, dolorosa ricerca di senso, altrettanto fugace e fragile come il loro amore giovanile, intorno  nulla sembra avere però più senso, nemmeno questo  loro tentativo.
Stile. Jerome Ferrari, premio Goncourt nel 2012, già nel  2008 mostrava con questo libro le sue doti di scrittore. Qui lo straniamento esistenziale che invade il protagonista e il lettore  è reso proprio  grazie all’abilità di Ferrari nel saper condensare in 117 pagine una storia a più strati e profonda. La fine di un mondo contadino, l’impalpabilità dell’amore, lo spaesamento di individui soli,  la guerra contemporanea e il sistema delle aziende e del lavoro, accumunati dalla medesima privazione di speranza: tutti temi toccati con l’escamotage di un monologo interiore condotto con la seconda persona dalla voce narrante del protagonista, ormai tornato a casa. Lo stesso Ferrari fa con l’altro personaggio femminile, Magali, fino a fondere in un’unica onda narrativa di grande fascino queste due solitudini. Stessa caustica capacità anche di rendere con poche immagini o frasi, precise, poetiche le illuminazioni del protagonista sul mistero terribile e grandioso della vita anche quando è intrisa di morte. Tutto ciò però  non trova riparo in nessuna casa, in nessun luogo originario, in nessun amore.

Pregi e difetti. Libro bello,  amaro. Con una durezza forse esibita, forse necessaria.  A tratti insostenibile in certi passaggi la violenza, pure oggettiva,  a tratti commovente nel saper trasmettere pietà di fronte alla ferocia. Quella eterna dell’anime come dell’uomo, non differenti, quella eterna di Dio verso tutti. E che pure è amore, indicibile. Romanzo che pretende un lettore attento, che segua l’onda del fluire della scrittura che non sia in  cerca di facili. consolazioni.

estratto

pag, 20..."Prima che l'ubriachezza rendesse irriconoscibili le tue nostalgie hai pensato che niente ti avrebbe fatto più piacere del rivedere quel paese da cui spesso avevi desiderato scappare. Sei voluto tornare per ritrovare qualcosa che forse in quel momento avevi già perso, perso per sempre. Hai continuato a bere e le cose sono state tremendamente chiare, hai valutato la portata vertiginosa della sconfitta che sarebbe arrivata e della tua impotenza, e ti sei detto che se avevi un minimo di coraggio e compassione saresti effettivamente dovuto tornare a casa senza far rumore, mentre tutti dormivano, e piazzare una pallottola nella nuca di tua madre e una nella nuca di tuo padre, poi passare di casa in casa armato di coraggio e di amore per ammazzare i vecchi,sgozzare poppanti nelle proprie culle e i genitori nel tepore del letto coniugale e tutti i bambini uno per uno, e trafiggere il cuore palpitante delle ragazze perse nei loro sciocchi sogni."....

 Sentimenti da cartavetro passata sul rovescio della pelle.
Ferrari  Premio Goncourt per l'affascinante altro libro,  "Sermone sulla caduta di Roma" del 2012


venerdì 21 novembre 2014

mercoledì 19 novembre 2014

GIANCARLO GIANNINI "Sono ancora un bambino" (a cura di Gabriella Greison, Longanesi)



 Sulla mia tomba vorrei scrivere ‘Fu un elettronico mancato’ ”. Per fortuna sarà sempre come è un grande attore, ma non soltanto. Scopriamo dal suo scoppiettante e profondo libro autobiografico “Sono ancora un bambino”, curato da Gabriella Greison e pubblicato da Longanesi, che Giannini perito elettronico lo è davvero e continua a farlo per hobby così come è inventore, fotografo, pittore, cuoco instancabile .
L'anticipazione della video-intervista a Giancarlo Giannini, uno dei più grandi attori italiani che racconta in un libro i molti aspetti della sua vita. “

 Versatile e istrionico non soltanto sul set, a teatro e in sala doppiaggio, travolgente nel quotidiano, nel privato, come quando lo incontri percepisci subito l’energia incredibile che gli è valsa pure qualche malalingua che lo voleva drogato perché troppo iperattivo. E questo come mille aneddoti, dettagli sono contenuti nel libro: le amicizie indelebili e profonde nate con il lavoro con Lina Wertmuller e Fellini, Mariangela Melato (“eravamo fratello e sorella”) e Vittorio Gassman, ma anche Marcello Mastroianni e Ugo Tognazzi, per i quali viene qualche volta ancora oggi scambiato e lui, paziente, affettuoso vero il loro ricordo, non delude la fan e firma col loro nome gli autografi.

E’ conosciuto negli Usa come grande attore ma anche come “King of pesto” da quando ha raccontato in TV la sua ricetta per il sugo freddo libgure e da allora la sua ricetta spopola. Negli USA – che considera la sua seconda terra amata, in particolare l’Arizona dove per un periodo voleva addirittura trasferirsi – è attore amato e voluto da grandi registi – e talvolta mancato, per i troppi impegni – e da colossi del cinema come Billy Wilder, Francis Ford Coppola, Ridley Scott. E gli incontri a non finire, l’amore per un mestiere che arriva fino alla passione nel dare voce ad Al Pacino e Jack Nicholson e all’attività di regista e insegnante. Per fare un Pasqualino settebellezze ci vuole insomma un Giancarlo mille curiosità. Con l’ inesauribile energia dei mattatori e dei bambini che giocano

ARTURO PEREZ-REVERTE "Il cecchino paziente" (Rizzoli) - recensione

E' uscita ieri la recensione su RSera la versione Ipad di Repubblica per IPad in abbonamento,  a "Il cecchino paziente" di Arturo Perez-Reverte ( da Rizzoli)




La trascrivo qui

Incipit. “Erano lupi notturni, cacciatori clandestini di muri e superfici, bombardieri impietosi che si spostavano nello spazio urbano, cauti, sulle suole silenziose delle loro scarpe da ginnastica. Molto giovani e agili. Uno alto e l’altro basso. Indossavano jeans e felpe nere per camuffarsi nell’oscurità: quando si spostavano nei loro zainetti macchiati di pittura tintinnavano le bombolette provviste di tappini adatti a pezzi rapidi e di scarsa precisione. Il più anziano dei due aveva sedici anni.”

Trama. Alejandra Varela, detta Lex, critica d’arte esperta di writers, viene incaricata da un importante editore di realizzare un catalogo dei lavori di Sniper, la leggenda dei graffitisti spagnoli e non solo. Naturalmente dovrà scovarlo, inseguirlo nei territori di confine urbani, stanarlo dietro il muro di protezione dei suoi tantissimi seguaci, cercarne le tracce su internet. E poi, se lo troverà, dovrà convincerlo a passare dall’altra parte della barricata e a diventare “un artista” conosciuto in tutto il mondo e adeguatamente pagato. Lex si avventura in una caccia all’uomo tra Madrid, Lisbona, Verona e Napoli, attraversando un mondo che è un mix tra gruppi paramilitari, integralisti della purezza del gesto urbano senza compromessi, fanatici del messaggio sui muri. Ma a cercare Sniper non è solo il mondo dei galleristi milionari. Lo cerca anche un potente uomo d’affari spagnolo, con tutt’altre intenzioni: suo figlio, infatti, è morto cercando di realizzare un’azione che Sniper aveva indicato come obiettivo su internet. L’inseguimento porterà a una rivelazione e a un regolamento di conti sorprendente, proprio nel nome di una purezza impossibile.

Stile. Preciso, analitico, ben strutturato, è in parte un giallo-caccia all’uomo,  in parte un romanzo-affresco sulla storia di un’arte urbana che è anche fenomeno sociale. Perez Reverte guida il lettore con la consueta perizia del dettaglio. I vari personaggi gli forniscono l’occasione di raccontare un movimento, le sue azioni e la sua morale, e di spiegare il senso di dipingere sui muri o fare delle semplici tag  come se ne vedono ormai in ogni metropoli globalizzata.

Pregi. Non è un semplice giallo, anche se ne ha la forma. È anche una sorta di reportage narrativo  (l’impronta del grande inviato di guerra rimane)  su gruppi metropolitani underground e aiuta forse a comprendere mentalità radicali dell’antagonismo, non solo nel campo dei writers.

Difetti. Al contrario, potrebbe deludere chi cerca un semplice giallo passatempo – o il lettore di Reverte abituato ai suoi gialli-romanzi storici che, pur molto precisi e dettagliati, sono più densi di azione.

martedì 18 novembre 2014

INTERVISTA CON AMOS OZ


Lo hanno sempre chiamato traditore. Da bambino per aver fatto amicizia con un poliziotto inglese, nel '67 per aver proposto da subito uno Stato per i palestinesi e ancora oggi, quando difende questa posizione, nonostante Hamas, gli attentati a Gerusalemme come l'ultimo, di poche ore fa, e le
minacce dell'Isis. Ma per Amos Oz, uno dei più grandi scrittori israeliani, da sempre in testa alle classifiche dei toto-Nobel, essere chiamato traditore non è un'offesa se il tradimento è il coraggio di cambiare posizione o la fedeltà a un'idea.


"Solo chi esce fuori delle convenzioni della comunità a cui appartiene è capace di cambiare se stesso e il mondo", ha detto di recente. Ed è questala tesi che scorre sotto il suo nuovo romanzo, Giuda (Feltrinelli).
Protagonista Schmuel, uno studente che ha realizzato una tesi su Giuda visto da una prospettiva ebraica. Nell'inverno del '59, rimasto senza soldi e senza fidanzata, si ritrova ad accettare vitto e alloggio da un vecchio studioso che ha partecipato all'epopea fondativa dello Stato nel 1948, amico
di Ben Gurion, rimasto solo dopo aver perso il figlio nella guerra arabo-israeliana. In cambio dovrà fare da spalla alla gagliarda verve dialettica dell'uomo. 

In casa una donna, Atalia, matura e molto bella e misteriosa. Si occupa dell'anziano, si rivelerà essere la figlia di un'altra figura storica, un dissidente, indicato anch'esso come traditore perché da
sempre contrario alla fondazione di uno Stato. Ne nasce un singolare triangolo di discussioni sulla religione, la politica, la figura di Giuda e su Israele e il conflitto con i Palestinesi. Un romanzo di passioni, in cui la politica e la Storia si intrecciano a sentimenti umani come la lealtà e
il tradimento. Incontriamo Amos Oz a Milano, è uno degli ospiti di Bookcity.


Quello del tradimento è un tema particolarmente sentito, per lei.


"Me lo porto dietro da sempre. Avevo 8 anni, mi trovavo nella Gerusalemme ebraica sotto amministrazione britannica, divenni amico di un sergente britannico. Io gli insegnavo qualche parola di ebraico, lui mi insegnava qualche parola di inglese. Gli altri ragazzini cominciarono a dirmi che ero un traditore, perché parlavo con 'l'oppressore'. Da allora sono stato chiamato molte volte traditore dai miei concittadini ma non mi sono mai offeso. Credo d'essere in buona compagnia, ci sono uomini che vengono considerati traditori solo per il fatto che non avevano paura, non erano codardi, avevano il coraggio di cambiare".



È quello che succede al padre di Atalia, che avvertiva Ben Gurion di non dar vita a uno Stato ebraico perché nazioni e confini si portano dietro sempre conflitti. Anche lei pensa che lo Stato ebraico sia stato un tradimento del sogno della terra promessa?


"Il mio è un romanzo, non è un manifesto. Ci sono tre o quattro voci, ognuna con idee molto forti, ma diverse tra loro. Quella espressa da Abrabanel, il padre di Atalia, non è maggiore delle altre, ma solo lui fa questa proposta.
Se io avessi voluto dire la stessa cosa, avrei fatto un saggio o uno delle centinaia di articoli che ho scritto sull'argomento. Atalia dichiara che suo padre non apparteneva al suo tempo, era nato o troppo presto o troppo tardi. L'idea di Abrabanel, di un mondo senza Stati né confini né eserciti era
molto bella, ma se fosse passata quella, Israele non sarebbe mai esistito e, solo per fare un esempio, non solo tutti quelli in fuga dall'Europa per paura della Shoah, ma anche le centinaia di migliaia di ebrei che vennero dall'Iraq sarebbero rimasti lì e oggi sarebbero stati massacrati dall'ISIS
così come sta succedendo ai curdi e ai cristiani". 


Uno Stato era necessario all'epoca, uno Stato dovrebbe essere necessario oggi per i Palestinesi. Sia i palestinesi sia gli israeliani oggi non hanno un'altra terra, un posto dove andare. Perché tuttavia non si riesce a convincere la maggioranza degli israeliani? È davvero solo la paura?


"Qui stiamo uscendo dal romanzo per parlare di attualità (il romanzo è ambientato nel 1959, ndr), continuo a pensare che uno Stato indipendente palestinese sia l'unica soluzione al conflitto ma viene ostacolata dai moltissimi militanti fanatici, da una parte e dall'altra".

Tornando al romanzo. Shmuel  è un giovane studioso del cristianesimo e di Giuda, che lui ritiene non un traditore, ma appunto il primo cristiano e addirittura il migliore. Perché?


"Il tradimento di Giuda è stato l'evento scatenante dell'antisemitismo da parte cattolica. Giuda è sempre stato sinonimo di tradimento, in tutte le  lingue. Ma ci sono molte incongruenze anche nel racconto: Giuda era ricco, che se ne faceva di 30 denari? Poca roba, al tempo. E il bacio non serviva,
Gesù predicava a Gerusalemme, tutti lo conoscevano, per arrestarlo non c'era
bisogno del bacio. La storia non sta in piedi. Invece Giuda crede che Gesù sia Dio e proprio per questo provoca la sua crocifissione, questo sì, ma come un compimento della sua missione divina, perché Giuda credeva in questo più di qualsiasi altra persona".

Le diverse voci e posizioni di cui parlava rappresentano una metafora del dialogo necessario all'interno della comunità ebraica di Israele e non solo?


"Non amo che i romanzi siano considerati metafore complessive, univoche. I romanzi raccontano la vita, le cose grandi e le cose semplici, la viltà e il tradimento, tutto il resto, le questioni generali, sono sullo sfondo".

Parlando di sentimenti, nel romanzo c'è pure una storia d'amore: se esiste una forma positiva di tradimento delle idee, si può estendere  questa possibilità anche all'amore? Anche in amore c'è un tradire positivo?


"Talvolta sì, ma non si può generalizzare. Tutti noi siamo dei traditori qualche volta, ma agli occhi di alcuni e non agli occhi di altri. In questo romanzo l'amore che viene tradito, ma in senso 'positivo', è quello del protagonista Schmuel verso i genitori. Per un intero inverno il ragazzo
tradisce madre e padre e lo fa per crescere. Si tradisce sempre la propria infanzia per crescere. E poi penso che una persona non possa amare il proprio Paese se non ne visita un altro, non possa amare la propria lingua se non ne impara un'altra e non riesca a capire l'amore vero se non quando
ama la seconda volta".

Un personaggio del libro parlando di Israele dice: due popoli che amano la
stessa terra sono come due uomini che amano la stessa donna, ci sarà sempre
odio tra i due.


"Succede dappertutto, non solo in Israele. Con una differenza: due uomini
che amano la stessa donna non possono arrivare a un compromesso, invece due
popoli che amano la stessa terra sono come due uomini che hanno una stessa
casa: possono dividerla in due piccoli appartamenti e arrivano a un
compromesso".

Con quello che sta succedendo, la rimonta dell'odio, il proselitismo
dell'ISIS, lei continua a essere ottimista per il futuro?

"È difficile fare il profeta, specie per chi come me viene dalla 

terra dei profeti. Tuttavia, conoscendo il Medio Oriente da 75 anni, posso dire che da
noi quando uno dice 'mai' o 'per l'eternità' di solito intende un periodo
che va da sei mesi a trent'anni".



giovedì 13 novembre 2014

SPOSE E FIGLI MANCANTI. Diario del tempo che mangia i suoi figli. (su Mauro Covacich "La sposa", Bompiani)

Il tema e l’icona della “Sposa” si ripropone in questi giorni con due opere di autori italiani, a metà tra denuncia e testimonianza di realtà, che diventano anche simboli di un tempo storico, attraverso un’operazione artistica.

Da un lato c’è “La sposa” (Bompiani)  il nuovo libro di Mauro Covacich, una raccolta di racconti intrecciati come un romanzo di storie parallele e in qualche caso comunicanti, che ruota attorno alla fiducia verso il futuro, alla scelta di non generare figli – come sintomo di sfiducia, di egoismo narcisista o come estremo realismo? – e che si apre con il racconto che non a caso dà il titolo al libro: quello del viaggio di Pippa Bacca, vestita da sposa, verso oriente, un viaggio che era anche un’operazione artistica, un‘installazione  in movimento – e che si concluse in modo tragico con la morte dell’artista, uccisa, violentata, con una  crudeltà che nessun teatro del 900 potrà mai eguagliare, perché  davvero conferma che negli immediati  dintorni delle nostre illusioni c’è la strage, vera,  e di queste, pure.


           Dall’altro lato c’è “Io sto con la sposa”, un film di A. Augugliaro - G Del Grande – K. Al Nassiry, che svolge,  purtroppo in modo incompleto e poco riuscito, un’idea invece molto interessante, soprattutto per la sua carica simbolica. E di questa idea ci interessa parlare più che del film in sé – l’idea, infatti è quella di accompagnare un corteo nuziale di clandestini in viaggio attraverso l’Europa dall’Italia, dove sono sbarcati, alla Svezia, Paese  desiderato, loro terra promessa, nella speranza che nessuno voglia fermare un corteo nuziale e una sposa vestita di tutto punto. Al di là della retorica,  della debolezza drammatica e  drammaturgica  con cui poi si declina questa intuizione (spacciato per documentario, in realtà opera di semi-finzione, solo in parte, e la sposa innanzitutto,profughi)  resta la carica simbolica perché dentro quell’incarnazione – la sposa da terre altre, lontane e da altre culture – è proprio l’immagine capovolta  di quella fetta di Occidente che non fa figli di cui racconta  Covacich.


La Sposa è un’icona di lungo corso e con il diffuso benessere e con una certa globalizzazione del rituale “in bianco” secondo il modello occidentale, e  complice forse il cinema, disney  e i media dei “matrimoni reali” ecc,  è diventata anche  un’icona diffusa. Si  sposano  in bianco e all’occidentale un po’ dappertutto, anche in certe realtà islamiche, così  come in Oriente, specie nei ceti medi più consapevoli e occidentalizzati.
Il cinema alimenta l’icona e se ne nutre . Così ecco che in anni recenti abbiamo visto (sottolineati, a dire il vero dai titoli in traduzione italiana , ma la sostanza dei personaggi resta) sia una sposa “turca”,  con cui Fatih Akin  narrava l’integrazione turco-tedesca, sia una “siriana”  con  cui il regista Eran Riklis mostrava   conflitti meno noti della galassia mediorientale e drusa in particolare, e poi anche una sposa  “promessa” con cui la brava regista israeliana  Rama Burshtein illustra   pieghe interne del suo paese, specie nella sua componente ultraortodossa.

Parliamo di Icone, ma le Spose ( e le conseguente immagine della Maternità correlata ) sono realtà, sono due tendenze della realtà.
Da un lato, un Occidente occupato a consumare e celebrare la propria opulenza narcisistica in eccedenza,  in autoerotismo da troppe merci, troppo concentrati su questo piano del piacere individuale che si riflette poi in uno stile di vita altrettanto individualistico – e dunque con inevitabili riflessi demografici  – fare famiglia e figli è  mettere da parte  per il futuro, in una redistribuzione su più generazioni della  ricchezza, un “comunismo dell’avvenire”.

C’è più di un segnale che possiamo vedere intorno a noi: uno, le tante donne migranti con figli o incinte negli ospedali; e l’altro, un’immagine fortemente simbolica, secondo me: le carrozzine piene di rifiuti, esse stesse buttate via, il loro mancato riuso   per altri figli che non arriveranno di quei passeggini che invece vengono riciclate  dai tanti nomadi o altri raccoglitori di immondizie da riciclare, appunto: guarda caso, razzolando dentro in ostri eccessi, negli scart idi quella società tendente all’individualità radicale, c’è più monnezza che bambini, insomma.

Figli da spose migranti, non figli da occidentali stanziali.
sul varco tra Occidente e Non-Occidente, sono questi due movimenti – e movimenti legati alla  maternità e per estensione (generica)  alle  spose -   che mi colpiscono, nella coincidenza d’uscita tra il libro di Covacich e il film di Del Grande e soci.
Al contrario del film, il libro dello scrittore triestino è un dispositivo narrativo ben riuscito, anche e proprio nel suo essere sperimentale, sincero, lucido. Dico dispositivo perché Covacich prosegue nel suo tentativo di creare e integrare  letteratura mescolando situazioni esistenziali autobiografiche con spunti di reportage e con invenzioni narrative, inseguendo l’assoluto singolare ed esemplare al tempo stesso, mettendo assieme finzione, autobiografia, giornalismo. 

Seguiamo così Pippa, la sposa-artista,  non a caso nel pezzo in overture di libro: la sua operazione difficile da definire. Andava, fisicamente, verso il medioriente, vestita da sposa, come corpo gettato in  una missione d’arte: “una cosa esposta” dunque, lei stessa sarà l’opera e  insieme  “la metonimia dell’opera, cimelio di una missione ecumenica” come scrive Covacich. Non la missione di colonizzare religiosamente ma forse quella che ogni arte mette in atto: ovvero creare un “eros generatore” di idee, immagini, simboli, tentando  di inseminare un corpo resistente e renitente. Ma fallendo, almeno per questa volta, con la povera Pippa Bacca aggredita e uccisa,  con dolore. 



Un dolore molto diverso da quelle  donne-artiste che si sono esposte in video, o con installalzioni o con operazioni chirurgiche , che si sono fatte appendere ai ganci la loro carne nelle biennali. Loro erano donne che usando in modo così diretto e doloroso il loro corpo ma in scena, sulla scena dell’arte creavano, come scrive Covacich, “soggezione e scandalo, gli stessi sentimenti provocati dal Cristo sulla croce”. Tuttavia Pippa esce da quella scena riparata, sotto i riflettori. Sottratta la scena, resta una “missione per la quale si è deciso di prendere i voti” e il sacrificio e il supplizio si riavvicinano ad un esperienza totale. Non cercata, ma di fatto totale.
Nel libro di Covacich c’è anche un racconto che illumina una sorta a di  “ecce homo” neonato, ovvero l’esposizione dei figli abbandonati in una moderna “Ruota degli esposti” di periferia. Qui in un ospedale romano Covacich coglie, durante un reportage, una storia alternativa di maternità e cura dei neonati, in una diversa triangolazione tra  la madre naturale che abbandona, l’ospedale moderno di Roma che usa “la ruota” e una nuova “ragazza Carla”, un impiegata dell’azienda sanitaria,  avvolta in una sua depressiva solitudine, estenuata da una madre pressante e dall’ennesimo maschio fluttuante e fuggitivo. 
E’ Carla a trovare il bambino abbandonato, e per un attimo  è questo figlio- ready made a dare  luce di possibilità, per lei che non riesce a creare una famiglia perché ogni volta con gli uomini è la stessa storia:  “nemmeno stavolta è andata bene, sarebbe bastato uno meno stronzo... e invece la felicità se la spartiscono tutti questi che scendono dalle macchine salutandosi da lontano, e a lei non resta più niente”. invece l’attimo di un abbraccio e una generazione traslata – abbandono, ruota degli esposti, ospedale, comunità – mettono Carla nella possibilità di partecipare a  quella irriducibile opera che è la vita che prosegue e si genera nel tempo. E diventa Tempo e Storia,  storia  non solo bambini. Così ancora, per vie indirette, il futuro nell’amore di un nipote con cui l’io narrante-autore gioca a freesbee lo rende palpabile, immediato, un richiamo della vita inesplicabile in questi squarci di racconti intitolati non a caso  “miei non-figli.
Sono questi adulti di una generazione benestante e occidentale che tende a fare meno figli ad essere abbandonata a sé stessa. Noi siamo impegnati a mascherarla, questa condizione. Dovremmo svelarla , proprio grazie all’arte che l’avrebbe dovuta illuminare.
Qui si pone un intreccio di paradossi, perché invece l’arte quasi alimenta un’ipocrisia narcisistica, un fraintendimento narcisistico e Covacich lo fa da letterato ma anche da artista che usa altri linguaggi, non necessariamente verbali e di scrittura, come è naturale per uno scrittore.


Covacich richiama anche l’arte figurativa, come aveva già fatto in altri romanzi. E qui è necessaria un breve deviazione: l’irruzione dell’arte e dell’estetica nella  vita è stato il lungo percorso di un secolo passato, quello in cui alla  fine c’è stato il passaggio  di testimone tra le avanguardie e le masse, ma con non lineari risultati. Il 900 di  Duchamp pensava di far esplodere il paradosso, di rompere gli schemi, di uscire dal museo e rientrarci poi  con sottobraccio un Grande Vetro, sposare nel museo opera e vita, di nuovo. Ma ha avuto anche un secondo effetto, ovvero l’estetizzazione della vita medesima, vissuta come opera d’arte e come DENTRO un’opera d’arte, dentro un film, confondendo piani di finzione  e di realtà. Il situazionismo e l’uso di questa modalità nel marketing contemporaneo sembrano rappresentare questo paradosso.

Il situazionismo e l’uso di questa modalità nel marketing contemporaneo sembrano rappresentare questo paradosso.
Un piccolo sintomo, il fenomeno del selfie  CON l’opera, guardando l’obiettivo, non guardando l’opera (qui vedete una visitatrice proprio non a caso  con l’opera  “La sposa” di Duchamp). Se ne annulla ogni effetto di comunicazione di dialogo tra noi ed essa: non è l’opera che ci dice qualcosa ma un Ego ipertrofico che dice ad un altro Ego “ehi guardami sono qui”. Specchiandosi.

 Ecce mihi. Sono qui ! con l’opera! -  che non ha più funzione critica, un-umlich, non-famigliare. Basta non guardarla, alla lettera. Annullarla: non la so interpretare, so solo che l’opera è una cosa esposta che vale soldi, è famosa  – e IO VALGO con essa.



L’arte è uscita dai suoi perimetri e ci invade, ognuno di noi costruisce sé stesso come vivesse inconsciamente in un’esposizione artistica, di fiction, di grande bellezza.
In tutto questo c’è uno specifico italiano e c’è stato forse anche un punto omega che non abbiamo capito, un apice in cui tutto questo falling down è iniziato, forse è stato quel momento storico dei primi ’90,  in cui si colloca un altro racconto di Covacich, quello dedicato ad Alessandro Bono e alla sua esibizione a Sanremo, nel 1994. In quella serata di gioventù e fiducia in sé e nel futuro di chi allora giovane guardava la Bono in tv, deriso per le sue stecche e per una canzone trash, riceveva la visita dell’omino gobbo di Benjamin: dentro la canzone banale, la profezia: “La risposta amore mio è nascosta nel tempo/ e ogni giorno che va via è un quadro che appendo” cantava il povero Bono, suicida da lì a poco. Covacich narratore se ne rende conto solo vent’anni dopo: era vero,  i  giorni – scrive –  “se ne vanno a frotte... inghiottiti dalla fame di futuro”. 



 La bocca divora il tempo e tutto viene espulso, resta il presente, ci si preparava allora, 1994 a quella  leggerezza che durerà vent’anni e porterà fino alla nevrotica allegria sterile  dei cinquanta anni, a questa sterilità senza desideri, parafrasando Peter Handke .
In quel momento però tutto appariva come dato, il possibile non era futuro, costruzione, ma doveva essere il dato di ora, qui. A noi, alla nostra generazione (io sono del 1964) quella del baby boom anni 60, toccherà la nemesi di raggiungere nel pieno dell’ eta fertile e adulta, nel 1995,  il picco di sterilità più alto, toccando il punto più basso della natalità nelle stime demografiche del secolo. .

Oggi 2014  stiamo toccando di nuovo quel punto. E’ il totalitarismo del presente.  E ogni giorno appendo a al presente il quadro di me stesso.
Non da costruire per il futuro ma da vivere ADESSO, come il corridore del tapis roulant non corre verso il traguardo, ma corre sul posto.* Quella  degli anni 90 trentenne e oggi come Covacich al traguardo dei 50 è stata la prima generazione  forever young.  Saremmo andati a cercare (liberi ormai del tutto da minacce di guerre, fatti gli accordi Salt e finito il Comunismo) nel piacere   e su tutti quello sessuale,  ormai scisso dalla  riproduzione, quella  gioia di vivere, – celebrando e rivendicando l’edonismo post-reganiano . L’ Eros che tuttavia nascondeva il  pericolo di diventare altro dalla libertà, forse merce, simulacro di un “Secol superbo e sciocco” direbbe Leopardi della Ginestra.
Eravamo un’installazione storica di noi stessi, del nostro benessere. alimentavamo nella vita un’estetizzazione di noi stessi. Le installazioni  d’arte –  quelle nelle biennali – ci rimandano (purtroppo) anche questo vorticoso narcisismo. Del resto la stessa attività del fitness è tale – è una sorta di reality del nostro corpo in auto-evoluzione, in auto-re-birthing.


  
 E non è un caso ( complicando i riferimenti) che  anche Mauro Covacich – che per sé, come persona reale  (ma è il corpo o la persona a definire identità e soggettività? Cfr ultimo libro di Roberto Esposito)   è sempre stato un maratoneta, abbia poi reso vera l’opera d’arte-installazione che aveva inventato per un suo personaggio, Rensich,  del romanzo “Prima di sparire”. Non ha solo messo un po’ della sua passione personale nei libri, cosa ovvia, ma ha prestato il proprio corpo, realizzandola davvero: il titolo era “ L'umiliazione delle stelle” lo stesso della finzione, la performance artistico-sportiva immaginata per il personaggio Rensich 





Lo specchio è un labirinto. E forse il narcisismo un alibi, ormai, per più di una generazione che ormai non genera, non fa figli. Bisogna uscirne? Scrive Covacich, nel racconto sul nipote:  “la sterilità di quelli come me sta tutta nella  paura di invecchiare... sottrarre energia preziosa al proprio sostentamento... noi sterili vorremmo proseguire con le nostre gambe e non fermarci mai” la folle corsa di quelli che vogliono sentirsi “liberi da responsabilità, leggeri, rapidi negli spostamenti, viaggiatori last minute, esploratori lonely planet, inquilini di monolocali mansardati, consumatori di quattro salti in padella, frequentatori di tapis roulant, non padri, non madri, ma ovunque potenziali amanti” ma gli altri, i genitori, scrive Covacich-zio “non sono meno egoisti di noi sterili. Non donano al mondo nuovi esseri umani, né donano ai figli la vita, ma lasciano segni, esibiscono trofei, declinano in una forma più ambigua quella che resta a tutti gli effetti pura e semplice volontà di affermazione. Allora forse realizzarsi in questo modo è ancora peggio, pensano di aver fatto qualcosa di buono e invece spacciano come gesto di generosità verso il prossimo un impulso cripto-narcisistico. Riprodursi non è né buono né cattivo. Non siete voi a riprodurre la vita, ma è la vita a riprodursi attraverso i vostri corpi”. 


Covacich apre lo squarcio dentro questo gioco di riflessi che è il riprodursi, parola che alla fine va letta come un gigantesco autoritratto, o mega-selfie,  un’autorappresentazione globale che non ha più futuro, e non è garantito nemmeno con i figli se sono un’illusoria prolunga di noi stessi ( “E l'uom d'eternità s'arroga il vanto” ancora Leopardi).
 Dovremmo essere di più, qualcosa di diverso. Lo prova lo zio sulla pelle: diventare una  sorta di mito per loro, i figli – e per noi stessi. Riconosciuti come degni da salvare, altrimenti saremo tutti consegnati ad una solitudine che per gli sterili appare come un buco nero della storia, ma nemmeno i neogenitori di oggi sono garantiti. Quello che sembra emergere nella filigrana dei racconti de  “La sposa” è dunque una coscienza dell’agire, un muoversi del corpo, prima che del soggetto o della persona, e che sul corpo, nell’ambito della biopolitica si riattiva la storia, rompendo Immobilismo e narcisismo. Forse per la generazione di Covacih è tardi, ma l’agire potrebbe innescare meccanismi anche alternativi di cura e creazione del futuro.

E’ come  se Mauro Covacich proponesse qualcosa di liminare, una riflessione a margine rispetto alla performance, proprio perché scavata nei suoi aspetti anche ultra-letterari, portando la scrittura a farsi corpo con la carne dell’autore che “imita” quel che lo stesso autore ha immaginato, ma sottraendolo all’immobilità. E’ questo il senso dell’andare, di un rimettere in movimento la storia: come i pellegrinaggi, i viaggi, come forse l’andare di Pippa fuori dalla sua stessa performance ad incontrare un gesto vero e vivo, seppur trovandolo poi nella forma di una morte. L'azione, tutto questa energia di motilità, la “"nevrosi aerobica" come la chiama Covacich, quella del personaggio/autore/narratore che attraversa luoghi e racconti de “La sposa”, è un gesto che se non altro si sottrae al rischio del  “riprodursi” in un figlio come in uno specchio. Dentro uno spirito di solidarietà e di apertura all’altro che viene (dal migrante coi figli, ai figli senza genitori, ai nipoti, agli altri in genere) che potremmo definire appunto una catena  leopardiana, o quasi. Certo una disperata, estrema  motilità.


Quando si agisce, come quando si corre, si crea uno spazio-tempo, scrive Mark Rowlands in “Correre con il branco”, ed è “quello del rammemorare, ma non i pensieri altrui, bensì ciò che molto tempo fa sapevo ma sono stato costretto a dimenticare, via via che crescevo". Qui avviene una diversa solitudine, una ridefinizione dell’individuale che, come per la poesia con le sue metriche e ritmi, con il suo mettere come nella corsa  un “piede” dietro l’altro, costruisce il suo dire l’individuale, una forma della solitudine, un dar forma alla solitudine che sia diversa dal solo riprodurre un corpo in uno specchio, seppur genetico.
E in quella solitudine di noi che corriamo ma siamo a fine corsa, in quel massimo sforzo che  comprime “ l'autocoscienza in uno spazio appena dietro gli occhi" che Covacich cerca una exit strategy dai paradossi dell’intellettuale, dell’analisi.
 E la nostra analisi che la attribuisce ad un artista che ha mostrato visione lucida e sapiente uso della sua arte, in vari linguaggi, è ovvio, ma ci sembra che alla fine de “La sposa” se ne esca con un elogio ad un fare che sembra il contrario della consapevolezza artistica, anzi, se volessimo sintetizzare, dovremmo dire: quanto più ci si sottrae alla consapevolezza,  tanto più diventerà storia

Perché forse l’arte, la letteratura il linguaggio a un certo punto necessitano di una rottura,  di un gesto, di un balzo. E noi siamo a quel punto. Sull’orlo. E non a caso è sull’orlo del “letterario” anche Covacich come autore.
Come il balzo del nipote che senza pensare abbraccia le gambe dello zio, nel terrore che stia davvero per essere inghiottito da un mostro della pozzanghera, come lui gli fa credere.   Noi siamo come lo zio, divertiti nella  finzione, forse ormai semi-inabissati in essa come nei raffinati paradossi . Ma il punto di caduta, lo svenimento della nostra coscienza, la sua perdita, il suo abbandono, è solo quando lasceremo, ci lasceremo essere “esposti” al gesto dell’altro. Che ci desidera, che ci ama, che ci prende per mano dal futuro.


*Queste fughe da fermo per rubare il titolo di Edoardo Nesi non è un caso siano presenti anche nel recente spettacolo di Lucia Calamaro “Diario del tempo” che si apre con Federica Santoro e un monologo sul Tapis roulant).

mercoledì 12 novembre 2014

AMOS OZ. "Giuda" (Feltrinelli)

Poi arriva quel grande romanzo, che pur non essendo immenso e universale come  fu "Una storia d'amore e di tenebra" è pur sempre un bellissimo romanzo: "Giuda" del grande Amos Oz. Mi pare pure come sempre ottimamente tradotto (Elena Loewenthal). Shemuel è un giovane dottorando in storia delle religioni,in crisi personale ed esistenziale, che svolge una tesi su Gesù secondo l'ebraismo, è un socialista sionista della prima generazione post-fondazione dello Stato si Israele (la vicenda si svolge nell'inverno 1959-60) ma non ha più soldi per mantenersi. Sta per lasciare Gerusalemme, quando vede un annuncio: si offre vitto e alloggio e un piccolo stipendio per poche ore di compagnia ad un anziano infermo. Arrivato a casa troverà un vecchio gagliardo e combattivo uomo che ha partecipato all'avventura politica di Ben Gurion, e una donna misteriosa Atalia, che vive con lui ma non è né la moglie, né la figlia.
Sarà proprio lo svelamento dei dolori, delle ragioni, dei risentimenti e dell'odio subito, legato alla vita dell'anziano e di questa affascinante coinquilina a far emergere l'intreccio di temi di questo romanzo, dal quale, oltre ad una Gerusalemme fredda e ruvida, oltre ad un erotismo lieve quanto tagliente, emerge un'analisi lucida di intrecci tra Storia e le due grandi religioni monoteiste sorelle e nemiche.
Si imparano molte cose, attraverso il romanzo 
su di noi, sulla nostra cultura cattolica, su Gesù  (e per rispecchiamento anche sulla cultura ebraica) su che cosa significa avere una fede e tradirla, avere un sogno e tradirlo - o forse che è impossibile non tradire, se questo significa cercare con profondità di sguardo "il punto che non tiene". E di come spesso i visionari sono definiti traditori.
Gli ebrei con Gesù. I Cristiani con Giuda. Gli Israeliani con chi li avvertiva già nel 1948 che "dove c'era uno Stato non poteva essere uno stato  Ebraico, e dove c'era un popolo Ebraico non poteva esserci uno Stato".
Tradire, ma per la verità. Questo vale per gli individui come p
er i popoli in modo diverso.

Oz lascia che scorra via uno  straordinario parallelo, denso, in cui la prosa e la capacità di creare personaggi del grande scrittore riesce a far scivolare anche le pagine più  "saggistiche" del libro e tuttavia necessarie. Perché la storia come le storie individuali, sono molto più complesse di come si presentano e di come  le ideologie, i fanatismi, le religioni - e pure i romanticismi le illusioni - le disegnano.
imparare a decifrare le pieghe della Grande Storia e forse di una intera civiltà semitica dentro quella che potremmo definire una suite da camera per tre personaggi  e molti fantasmi -

. La fondazione di uno stato, il destino di un popolo, la millenaria storia religiosa di una terra, di una città qui dragata via per via, quartiere per quartiere dal suo inquieto protagonista diventano un  percorso interiore e una riflessione sulla Storia complessiva dentro cui sta la vicenda politica di 50 anni di Israele, con tutte le sue contraddizioni impossibili da evitare.
E impariamo che la storia è un perenne attraversamento di contraddizioni in cui pochi sognatori cercano di risolvere le questioni prima, con il dialogo, ma molti uomini grezzi cercano invece di risolverli dopo con la violenza. Che ne apre mille altre, di contraddizioni e di impossibilità.
 Ai romanzi il compito di raccontare i primi, i personaggi traditori e sognatori, i personaggi in crisi, quelli storti, quelli singolari, assoluti..
E se penso a questo romanzo - come l'altro grande di Oz che citavo - confrontato con le banalità lette sulla conflittualità Iraelo Palestinese durante l'assedio di Gaza, non posso che dire grazie al caso e al lavoro che mi ha portato tra le mani questo libro e il privilegio di poterne chiedere al suo autore tra qualche giorno. "Giuda" un altro grande romanzo di Amos Oz, Da leggere. 

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...