lunedì 8 dicembre 2014

DOMENICO STARNONE "Lacci" (Einaudi)


la recensione per Repubblica/RSera


Incipit. “Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te o ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso all’improvviso, ti dà fastidio. Lo so che fai finta che non esisto e che non sono mai esistita perché non vuoi fare brutta figura con la gente molto colta che frequenti. Lo so che avere una vita ordinata. Doverti ritirare a casa a ora di cena. Dormire con me e on con chi ti pare ti fa sentire cretino. Lo so che ti vergogni a dire: vedete mi sono sposato l’11 ottobre 1962, a ventidue anni; vedete ho detto sì davanti al prete, in una chiesa del quartiere Stella, e l’ho fatto solo per amore, non dovevo mettere al riparo niente”.

Trama. Per un misterioso furto e devastazione della casa, Aldo, un uomo, più che settantenne, rilegge le lettere che la moglie gli aveva inviato durante i quattro anni in cui l’aveva abbandonata, dopo dodici anni di matrimonio e  due figli, tra il 1974 e il 1978, vivendo una storia d’amore a Roma con una giovane donna e  trovando anche il successo come autore televisivo. E’ l’occasione per riflettere su quella  parentesi rimossa e sulle conseguenze dell’amore mancato, verso sua moglie, verso la giovane Lidia, e sul presente di famiglia borghese  rattrappita  intorno al non detto, sul suo essere stato padre inadatto, debole, malinconico, in cui il ritorno a casa  non fu vera pace, ma l’inizio di una storia di amarezza, paura e dolore, quotidianità conflittuale  e strangolante  che dai coniugi passava invisibile ai figli.  Sono loro i protagonisti del finale  a sorpresa. Con il oro gesto,  ormai adulti, rivelano che,  se esistono legami impossibili da spiegare, ricostruire amore e famiglia è altrettanto impossibile,  molto più che  saper amare davvero.

Stile. Starnone adotta diversi registri e smonta la storia in  capitoli e quadri mescolando i tempi. La prima voce è Vanda, la moglie, le sue lettere dell’abbandono, con una furia e lucidità di una donna ferita ma combattiva, feroce quasi. I rumors secondo i quali Starnone  potrebbe  “essere  Elena Ferrante” certo si alimentano  qui, perché – coincidenze a parte - sono pagine di tempesta e dolore travolgenti. Poi la parola passa al marito, già vecchio, fintamente  svagato, con una prosa che si distende in una malinconia asciutta, fino ad arrivare ai capitoli di Anna, la figlia minore, con i suoi rancori, fantasmi, la fame mai sopita di amore trasformata in avidità e bulimia, portando la narrazione verso la freddezza calcolatrice  del suo gesto straniante, in cui coinvolge  il fratello Sandro. Perché i figli che non sono come i nodi dei lacci, che puoi anche scioglierli:  i figli puoi solo farli o tagliarli via.


Pregi e difetti.  Pregevole lo stile, precisione dei sentimenti, personaggi nitidi, concentra in centoquaranta pagine come è cambiato il senso della  famiglia e dell’amore, la crisi del maschio, la dissoluzione dei “lacci” affettivi, mostra una crisi maschile che si accompagna a mutazione della Storia italiana , seppure qui appena accennata  (Aldo se ne va negli anni del referendum sul divorzio). Il finale lascia di stucco: forse troppo affrettato, troncato, tutto precipita, lascia un senso di mancanza, l’amaro in bocca. Potrebbe essere anche  un pregio.

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