lunedì 22 dicembre 2014

ALDO NOVE "Addio mio novecento" (Einaudi)



** Aldo Nove il ’900 ce l’ha inserito per enigma nel nome d’arte (forse Palazzeschi, sicuramente “Aldo dice 26x1” del Comitato nazionale di liberazione Alta Italia). L’ultimo suo libro in versi, Addio mio Novecento, è perciò una summa, sulla soglia dei cinquant’anni di Antonello Satta Centanin, e un addio alle origini che quel nome ha prodotto, tra autobiografia e biografia letteraria. Un addio a memorie e alla possibilità stessa di considerare la memoria un patrimonio e il presente un movimento di storia. Cinquant’anni di pace occidentale rivelano a noi la “prassi di spavento” dentro il presente di un mare trasformato in “acquitrini”. Un tempo che è “questo, ma non è nostro”, “tu non farci caso, ma tu scrivi”, si legge (e rimanda al “Nulla è sicuro, ma scrivi” di Fortini, e forse quel suo composita solvantur è rilevato da Nove nella disseminazione presente). Lontano ere geologiche c’era un “prima”, quel ’900 in cui nacque Woobinda, fatto di “scodelline” e “magazzini”, un’infanzia-mito che fu l’infanzia della storia, un secolo di trasformazione sociale, politica, biologica. L’“andare” dentro il tempo storico era come fiaba ed epopea, avventura, l’infanzia era una “foresta che si inoltra azzurra / nel sogno” esplorata dal bambino – ora invece spazio e tempo non sono quelli dove viviamo con “ogni tipo di comfort” ma sono quelli che l’io dispiega nella sua lingua, una dimensione psico-sentimentale, una materia di realtà non decifrabile né identificabile. Tutto “scorre, pesante, si sente / come se giungesse da dentro” ma dov’era coscienza c’è un fluire che – più che nevrotico e franto, come poteva essere in Sanguineti, ma spiegabile in un’idea o ideologia – rivela nella forma sintattica una nostra percezione di realtà desertificata. Un testo fatto spesso di vicoli ciechi della frase, nel cielo chiuso di un’immobilità di sguardo e di una sparizione di senso e non solo: “quando arriva il significato / non c’è più nessuno”. L’io che prende forma dalla lingua del libro di Nove ci spinge a guardare fisso il “deserto che si ingorga di domande”, dove “non c’è più annuncio”, nessun angelo della storia. Un presente in cui “lo sguardo retroverso / diventa memoria dell’oblio / senza contraddizioni, movimento”, sì, ma è solo movimento dalle foglie alle radici, non viceversa. Linfa esaurita, immemore nonsense rispetto al tempo in movimento del 900 in cui “le cose ci piacevano”. Invece ora “tutto fluttua”, “tutto deraglia”, come anche la scomposizione della sintassi non ascrivibile a una visione. Attenzione: niente nostalgia, semmai ironia in Nove: e allora Viggiù è sì “il posto dove sono nato”, ma esso è pure un topos letterario come Nove uno pseudonimo. Bisogna tener conto quindi che “la maschera del poeta” – scrive Aldo/Antonello – “mima la menzogna / e manifesta il reale”. Ironia, ma non nichilismo – chissà se influenzato dal lavoro sul Francesco santo e giullare – e Nove colora i testi di lievità, di un’allegria, come puntello contro il “teatro inaridito del creato”. Guardare accettando che le cose del mondo finiscono: le “stagioni del nastro magnetico” sono cancellate con i nomi, le epoche e la stessa poesia, l’affermazione di un io, è schiacciata in “millenni tra le virgole” e non è più una forma che rifletta a pieno la realtà “né a capo / ci sono svolte, disarticolata / la lingua”. Dobbiamo accettare il deposito, la “centrifuga di millenni”, ore, giocattoli, corpi, “scatole colorate” in cui abitare, “uomo allunato”: piccoli centri, ma ormai “senza circonferenza”, fuochi centrali di un’immanenza celebrata dentro una poesia-litania, ma al limite dell’afasico. Oggi il fanciullo-Rimbaud come il bambino-Antonello non saprebbero più esplorare e far deragliare il gioco di vocali, perché “il nome di tutto deraglia” e da qui si vede “un fiume di gente / scorrere attraverso la storia. / Il fiume è la memoria / di ognuno. Il resto è il Niente / che lo contiene”. Il secolo della plastica era addirittura più umano. Osservare il cambiamento senza nostalgia, ma con la luce di una consapevolezza: questo midhàr, questo deserto è pure energia/movimento /eros visto proprio – se pure frammentato – in quanto tempo. Non siamo più ora, ma ci siamo nel tempo: gli orizzonti, gli attimi e i ritagli “che sono una famiglia […] e sono / il movimento, è / noi per sempre / che ne siamo parte, / ciò che diventa, / è il tempo, // è la tua bocca / […] il grembo”. Siamo stati quindi siamo. In che tempo, futuro o passato? In entrambi: l’attesa messianica è ciò che da sempre il passato lasciava trasalire, intorno, accaduta. Cancellato del tutto, ecco che il ricordo è a venire.

Mario De Santis


Aldo Nove, Addio mio Novecento, Einaudi, Torino 2014, pp. 114, euro 11,00.

** recensione già pubblicata da "Poesia" (Crocetti), dicembre 2014.

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