martedì 20 dicembre 2022

TARABBIA, OLTRE IL POSTMODERNO E L'AUTOFICION: RISCRITTURA E REALTA'. Su "Il continente bianco" (Bollati Boringhieri)

 


Nelle ultime righe de “l’Odore del sangue” (precisamente nell’appendice del romanzo) Goffredo Parise porta la voce narrante, lo psicoanalista Filippo, al punto estremo della sua vicenda: dopo aver sepolto la moglie, uccisa come epilogo tragico della relazione erotica con un giovane amante, ragazzo rozzo e fascista ( iniziata da lei con la complicità ambivalente di lui) Filippo si aggira per Roma, a Piazza del Popolo ed esplora la notte.

Il punto estremo è allora la violenza diffusa, più che quella particolare di un singolo omicidio che pure lo ha toccato tragicamente. La violenza particolare è parte di un destino storico.

La piazza è il “ritrovo dei giovani borghesi” e – dice ancora Filippo con una visione che è del Parise di quegli anni, mutata dopo la morte di Pasolini e da lui “ereditata”[1] -   anche la piazza dei fascisti dove parlava Almirante. Non solo: il protagonista del romanzo di Parise incrociando nella notte un gruppo di quei ragazzi “borghesi travestiti da borgatari” che forse sono il contrario, proletari con apparenze dei modi con cui i borghesi si travestono da poveracci, li inchioda a una visione :

“(..) ragazzi in giubbotti di cuoio che sfrecciavano rombando in motocicletta. Eccoli, erano loro, i giustizieri della notte, quelli che avevano assassinato Pasolini, quelli che avevano stuprato le ragazze del Circeo, quelli che avevano bruciato un somalo dormiente su un letto di cartoni, “per scherzo”. Intravedevo le loro facce, anche nella velocità della corsa. Parevano facce americane, alcune bionde e butterate, altre nere dai capelli ricci, di arabi americanizzati. Erano, nella loro anonima e meccanica criminalità, le facce di Roma. Dei figli della borghesia o delle borgate di Roma, la stessa cosa: entrambi vestiti allo stesso modo, entrambi con fattezze di tipo americano e criminoide con appena una punta di quella vanità e brutalità mediterranea e romana che si vede appunto a Roma.”

Tutti immersi nella cultura del consumo, della superficialità del benessere e al tempo stesso “criminoidi”. Parise esprime una visione tragica della società italiana al culmine del suo cambiamento modernizzante: non serve molto distinguere, dice Filippo, è da quel milieu di che è nato l’omicidio della moglie, come la strage del Circeo o la morte di Pasolini e quei ragazzi sono tutti (borghesi e proletari) la stessa  “faccia di Roma”,  città (e paese)  che nel 1979 Parise percepisce  come cambiato,  violento, superficiale, corrotto dai consumi  e senza redenzione (dopo decenni di stragi, la violenza politica, il rapimento Moro ma anche l’esplosione id criminalità con protagonista la banda della Magliana)


Il nuovo romanzo di Andrea Tarabbia “Il continente bianco” (BB) è un romanzo che se da una lato sembra usare i capisaldi del postmoderno (la citazione) non lo è, ani ne vuole essere il superamento.
Infatti Tarabbia ha deciso di usare come calco esplicito proprio “L’odore del sangue” di Goffredo Parise.
Uno psiconalista cinquantenne, con una moglie molto bella , Silvia, con la quale non ha rapporti, se non contorti, mentali, aperti alla sperimentazione. Silvia si invaghisce, anzi meglio è presa da una vera ossessione erotica per un ragazzo, tipico giovane del suo tempo ma anche fascista. QUesta passione della donna che il marito vuole condividere diventarà sempre più avvitata su sé stessa, fino al punto di sfociare in violenza tragica. Ci sono però delle differenze, più avanti le vedremo. 

 Mi preme intanto dire subito che Tarabbia sceglie questa via del ricalco,  per raccontare qualcosa di inedito, nuovo e profondo che attraversa il nostro paese e che – questo sì – sembra  affondare ancora in questioni non risolte dei decenni passati e per portarlo nella “scena” del testo facendo deflagrare la realtà nelle contraddizioni dell’essere “autore” e personaggio (in qualche modo usando l’autofiction ma facendola girare a vuoto).

Sullo sfondo c’è una Roma contemporanea in cui, in modo parallelo a quello di Parise,  forse si è compiuto un (ulteriore)  trauma di “non ritorno” storico e sociale, esprimendo più che l’identità di una singola città ( difficile ormai da determinare in un mondo metropolitano globale)  la crisi di tutta una società italiana e insieme occidentale. Una crisi che si è generata nei primi anni Duemila a cui è seguita una risposta di rancore individuale, una “sindrome unabomber” o nella fine dell’individualismo, nella solitudine[2] delle persone come schegge disperse, nell’era che è al tempo stesso globale ma anche  “era del singolo”[3] in una massa pulviscolare senza più né grandi narrazioni né identità individuali di massa, con un gran bisogno e nostalgia di comunità (specie i boomer)  e  che – a fronte di alcuni casi effettivamente di rabbia violenta e nella sfera personale che si origina dalla crisi sciale (lo raccontano i libri di Didier Eribon e Eduard Louis per la Francia[4] utili per capire sentimenti profondi che stanno dietro l’ondata populista dei Gilet Gialli)  ha espresso sostanzialmente un rancore diffuso, piuttosto indistinto (verso entità globali, personaggi della finanza, istituzioni, ogni tipo di personalità, oltre i politici ovviamente) che si è poi in parte riversato nel consenso alle forze populiste e ora di destra populista.

La decisione di Tarabbia di raccontare questo nucleo magmatico e oscuro della società (e anche di una città ) passa dunque attraverso la dichiarata “riscrittura a memoria” de “L’odore del sangue”, così definita nella nota finale dove si esplicitano anche altre citazioni da altri autori[5]. L’impianto fondante della storia,  però,  è quello del romanzo scritto da Parise nel 1979. Paradossalmente (come in certe opere teatrali di Milo Rau) evidenziare la meta-letterarietà lascia accadere la realtà stessa, il suo duro  nucleo di un Urlo dilaniante, di una ferita sociale mutata in richiesta di riscatto ma anche propensione a una forma di odio, aggressività, rancore e qualche volta violenza diffusa (se le violenze in piazza sono minime, l’odio in rete è invece di massa e va classificato in quel desiderio di sabotaggio di ogni valore come ipocrita, di luddismo etico diffusissimo) che ha un suo nucleo gassoso, instabile, fluttuante nel maschilismo e insieme nel doloroso senso di decadenza di intere generazioni di maschi che stanno reagendo spesso come animali morenti e feriti.


Sopravvivono, specie in Italia, ad aggravare la situazione, anche culture autoritarie e ferite irrisolte di una storia italiana di più generazioni e Tarabbia  usa proprio la letteratura per ripercorrere una storia. Cose se la letteratura fosse un versante immaginifico, psicologico, paludoso di una storiografia.
E per evitare di scrivere un libro “alla Parise” ha deciso di ricalcarlo,  esplicitamente, di usare l’architettura diegetica dell' OdS proprio per riallacciare i fili con i tempi storici che Parise affrontava e sviscerava e - prima di lui -  aveva affrontato come è noto, soprattutto Pasolini.

Nell'analizzare il romanzo d Tarabbia dobbiamo compiere un digressione proprio nello strano rapporto tra i due autori. Potremmo qui dire, che era proprio Pasolini l'autore che a sua volta Parise “riscrive” ricoalca o meglio continua a scrivere al suo posto, a stretto giro, dopo la morte in questo romanzo che scritto nel 1979 lo scrittore vicentino decise di tenere non pubblicato fino alla morte (uscì poi da Rizzoli nel 1986). 
Forse è interessante notare che lo scarto di pochi anni tra il 1968 e il 1975 e la scrittura di Parise che avviene dopo il 1977, la vittoria delle sinistre, un accesso ai consumi delle nuove generazioni, l’omicidio di Moro ma anche contemporaneamente il successo della Febbre del sabato sera e l’inizio degli anni 80. In breve, c’è una differenza ma anche un ponte verso il futuro tra i due autori. Oggi è imprescindibile pensare  che la povertà e il rancore sociale dipendano molto anche dalla percezione frustrata dei desideri di consumo, verso cui anche i soggetti un tempo definiti “proletari” provano una pulsione di identificazione sociale, che si dà non sol nella soddisfazione dei beni primari ma anche nel possesso dei beni voluttuari. (un punto che la lettura di stampo post-marxista non comprende stupendosi poi in questi decenni passati  del successo di Berlusconi tra le fasce sociali di reddito basso).

Restiamo ancora un momento su Parise. Dal manoscritto de “L’odore del sangue”, scrive Garboli, sappiamo che Parise non cambiò di molto il testo scritto di getto nell’79, in un anno in cui si veniva dopo il rapimento Moro ma anche  dopo il massacro del Circeo, e dopo una violenza diffusa, quella rivendicata dalla massa giovanile del movimento ’77,  oltre che da un’ondata di criminalità anche questa radicata nei luoghi  (la Roma della banda della Magliana, la Milano della mala ecc.).  

Sappiamo che in seguito, tenendo presso sé il manoscritto, fu molto colpito dall’omicidio della storica dell’arte Francesca Alinovi nel 1983, vittima di quello che oggi chiameremmo “femminicidio” e maturato in un clima molto diverso dalla violenza politica, era la violenza del privato” che tuttavia aveva  una radice politica.

Tornando al confronto tra Tarabbia e Parise, invece notiamo che una delle differenze tra CB e OdS sta nella gabbia narrativa della riscrittura. Se in Parise a narrare è Filippo in prima persona, Tarabbia mette in scena anche sé stesso, come paziente  dello psicoanalista che nel romanzo di Tarabbia diventa “P.” ( un’iniziale non casuale) e sdoppiandosi in personaggio col suo proprio nome e cognome.
Tarabbia si fa Tarabbia-personaggio (come lo definiremo da ora in poi)  che di mestiere fa lo scrittore dei romanzi che realmente ha scritto Tarabbia, adottando il trucco dell’autofiction, anche se si mescolano cose vere e cose non vere. Mettere in scena sé stesso affida un compito alla storia narrata, mostrando innanzitutto il profondo coinvolgimento nelle cose della realtà, superandola anche quando Tarabbia-personaggio non è solo l’autore della storia, ma partecipa ad azioni violente col gruppo di neofascisti tra cui pestaggi di immigrati, incendi di campi rom. Silvia ha inoltre più autonomia di azione, è una donna sicuramente più emancipata, ma anche più aperta a un rischio più folle, nel gioco di obbedienza erotica verso Marcello.
Anche il dottor “P.” rompendo in modo clamoroso il set dell’analisi, permette al narratore di essere a conoscenza della storia del suo rapporto con la moglie Silvia (dunque nella prima parte è il medico ad essere narratore) e si fida quando confessa allo scrittore il rapporto di coppia aperta tra lui e la moglie, con lei racconta a P. il sesso fatto con Marcello giovane neofascista, il dottore  – che spesso è assente – quelli per una donna più giovane che vive in Veneto  (elemento biografico di Parise, sempre più si può pensare che l’inziale P. stia per lui, dando un effetto di labirinto metaletterario, anche considerando che in una lettera a Giosetta Fioroni, Parise  scriveva “se fossi diverso, sarei andato da uno psicoanalista per liberarmi delle mie ossessioni, me ne sono liberato scrivendo”).

 C’è inoltre una differenza tra Parise e Tarabbia: quello di Parise è alla fine un romanzo più chiuso nel rapporto tra marito e moglie, che scava in pulsioni psichiche e fantasie profonde, è un “romanzo del “Fallo” (definizione di Garboli nella introduzione del 1986),  o fallocentrico, un romanzo di un maschio che si misura con i propri limiti (apre la coppia, poi è geloso, ossessivo), il tormento intellettuale di un individuo colto e borghese falsamente disinibito, come illustra Garboli.
Quello di Tarabbia (ed è il motivo per cui mi sembra un romanzo importante che va al di là della ripresa meta-romanzesca) affronta il campo più aperto della politica e dell'antropologia sociale, affronta la  questione del maschilismo raccontando un universo mentalità patriarcale che sopravvive in ragazzi giovani e lo lega alle scelte politiche, al consenso politico e alle simpatie autoritarie diffuse (al di là del consenso ampio per la destra in Italia che poi è esploso dopo l’uscita del libro, ma a mio avviso – anche se faccio una forzatura – confermandone le intuizioni e le tesi).

 Questa saldatura psichica tra il precipizio identitario sessuale maschile nella singolarità di uno sciami di singoli dispersi e il desiderio di una identità forte etnica e politica, comunitaria è il tema centrale dell’Occidente e per l’Italia in particolare, che ha connessioni con vari passaggi di un secolo che si è aperto con la Prima Guerra Mondiale ed è ancora in corso dopo le crisi economiche degli anni 2000, il populismo, la mentalità antisistema che ora sembra aver trovato anche uno sbocco istituzionale e consenso, è in qualche mondo lo sfondo del romanzo “Il continente bianco” (in cui uno dei personaggi chiave, Ubu, ancora orienta le sue scelte grazie al fatto che il nonno lo ha fatto crescere fin da bambino mostrandogli la fotografia degli appesi a Piazzale Loreto al contrario, come se fossero esultanti ) .

 Questo recupero storicizzante è implicito nel modo in cui Tarabbia riscrive Parise, ovvero riannodando i fili impliciti di questo libro che legano fortemente Parise a Pasolini. Forse è questo il nodo che cerca di ricomporre Tarabbia, in fondo riandando al famoso binomio dello slogan "il privato è politico".

 Tarabbia fa in modo di sviluppare la sua visione assolutamente originale contemporanea, ma certo in qualche modo idealmente riconnettendo, ricomponendo il discorso di Parise che completa quello di Pasolini, come del resto era nelle intenzioni dello scrittore vicentino [6]
 Dietro quella violenza non organizzata ma spontanea,  c’era già un preludio di individualismo e infatti Parise se intercetta questa onda del riflusso (ma non la cita) ne prendeva l’aspetto strettamente individuale più che collettivo.[7]  
Mi colpisce inoltre la frase che scrive Parise e fa dire al suo Narratore-Marito dopo l’omicidio della moglie, alla fine del libro: “Non si seppe chi aveva ucciso Silvia ma io sapevo che il vero mandante ero io stesso”. E’ evidente, mi sembra, un calco dell’ “Io so” di Pasolini, in cui il colpevole, a differenza di quelli muti e ignoti di una qualche oligarchia, invisibile, di Pasolini, qui parla in prima persona e dice “io sono”, oltre che “io so”,  ammette le responsabilità, che Parise fa pronunciare al suo narratore alla soglia degli anni ’80,  una frase che prelude all’individualismo e al privato che marcò quel decennio (pur non riducibile tutto a quello) e che Pasolini aveva profetizzato quando ripeteva il concetto di omologazione.

E' come se in Tarabbia si dispegasse la paralbola di un fascismo maschilista e fallocentrico, dagli anni 70, attraverso una cultura sociale del consumismo praticata nei decenni a seguire, 80 e 90, è approdata dopo un estensione del dominio del berlusconismo (altro fallocentrico autocrate) e poi al  populismo (a grande dominanza maschile adulta, boomer - Grillo - con un passaggio poi alla destra più radicale. E' in Tarabbia che mi sembra venir fuori il legame che univa i due scrittori degli anni 60 e 70. non a caso dopo la morte di Pasolini, la distanza tra i due è cancellata da Parise, in una adesione e prosecuzione quasi ossessiva,  delle medesime battaglie culturali, come è ben dimostrato in un saggio recente di Gianluigi Simonetti.[8] 

Insomma Possiamo dire che forse Tarabbia lavora, intenzionalmente o meno, da scrittore ripercorrendo la drammaturgia di Parise ma immergendola nel presente  una ripresa di una discussione che non è mai morta perché – come possiamo toccare con mano intorno a noi – è viva e attualissima, non tanto e non solo per il “mistero” sull’omicidio di Pasolini [9] ma perché non c’è ancora chiarezza su dove affondi questo desiderio di violenza che è una forma del desiderio.

Nel romanzo di Tarabbia la storia, dopo un inizio più rallentato per preparare tutti gli incontri e il meccanismo della narrazione,  deflagra scoprendo il magma della violenza organizzata che sta dietro Marcello e va più spedita quando il personaggio-Tarabbia decide di seguire Marcello, di capire cosa sia il Continente Bianco, l’organizzazione neofascista che porta questo nome di cui Marcello è capo, e di partecipare alle loro azioni. Tarabbia non è solo l’autore che ha firmato il contratto con Bollati Boringhieri per il romanzo che leggiamo, ma in qualche modo viene incaricato dallo stesso Marcello di essere autore della storia del Continente bianco, scrivere la storia dell’associazione clandestina, di storicizzarla seguendone le gesta.


Qui però avviene un salto, interessante quasi teatrale, nel sovrapporre i piani (la modalità di sequenza lineare della scrittura non è agile come un palco con i corpi e tempi in compresenza)   Così nella pagina, Tarabbia mette una figura di autore-specchio che non si limita a osservare, ma diventa parte della materia che racconta.



Una cosa che non aveva fatto Parise col dottor Filippo, mentre invece fu proprio Pasolini ad intuire la necessità di un martirio autofinzionale, poiché aveva progettato cercato con Petrolio una diversa forma-romanzo, di cui quello che leggiamo è ancora uno scartafaccio in fieri, come sottolinea sempre Walter Siti ma che certo implicava così tanto il sé-autore come estremo sacrificio simbolico,  che lo scrittore friulano aveva progettato di inserire le foto del suo corpo nudo scattate da Dino Pedriali nella torre di Chia, alla fine del romanzo, con un passaggio di mezzi (scrittura-immagine) e un salto bio-politico: non il “Narratore né l’Alias Pasolini-nome-scritto, ma lui, proprio lui, esibito nel corpo biografico  dello scrittore ( per tutte queste considerazioni rimando alla nuova edizione di Petrolio e all’introduzione di Walter Siti.[10]

Tarabbia  non ha messo nessuna foto di sé nel testo, si è limitato ai riferimenti espliciti biografici. Poi ha creato una drammaturgia del sacrificio di sé come autore, processato da Marcello.  Da pagina 198 , quando Marcello e Tarabbia-personaggio si incontrano, apprendiamo che l'autore, o meglio il Tarabbia-personaggio che è  scrittore, ha consegnato a Marcello il manoscritto che “sta scrivendo”  e che secondo Tarabbia-personaggio il leader del Continente Bianco “non ha letto fino in fondo”. Dunque,  il romanzo che noi stiamo leggendo fino a quel punto è quel manoscritto che  è consegnato a Marcello.

In quel manoscritto, che noi pure abbiamo letto era contenuta, in un capitolo iniziale,  una sorta di abbozzo di un altro romanzo, non scritto, legato alle vicende di una ragazza, Anna, che “è una storia che non dovrebbe stare nemmeno in questo libro” – scrive Tarabbia personaggio - una giovane moldava, emigrata in Italia e che Tarabbia-personaggio (ma forse anche l’autore reale?) conosce, si interessa della sua vita e delle sue difficoltà, la segue per poterne scrivere addirittura nella natia Soroca, regione che non solo è al confine con l’Ucraina (con un mise en abyme cronachistico) ma è anche la città in ci è ambientato un altro romanzo scomodo e potremmo definire di sangue, ovvero Kaputt di Curzio Malaparte. La storia di questa ragazza, in balia delle sue vicende di emigrazione e di un fidanzato violento di cui è vittima, resta sospesa nel libro-manoscritto, quello che abbiamo letto anche noi fino a pagina 198.
Da questa pagina in poi cosa leggiamo? Potremmo dire  qualcosa di scritto diverso dalla pseudo-narrazione del Continente Bianco, che abbiamo letto finora, con Marcello, nostro lettore fratello, nostro sembiante come lettore (ricordiamo che la modernità letteraria si apre con la dedica di Baudelaire a  Hypocrite lecteur, — mon semblable, – mon frère! ).

Marcello dopo aver letto pretende di sapere come va a finire la storia di Anna, lo pretende perché vuole assecondare un suo senso di giustizia che forse – anche senza essere fascisti – sta dietro tanti lettori che pretendono un finale accomodante, una riparazione etica dalla narrazione. A questo servono i libri secondo Marcello, a costruire un destino di redenzione.

Il giovane fascista rimprovera all’autore che egli, come scrittore, non è nella posizione di ergersi a giudice. Ma se da un lato questo è vero per la scelta ambigua di Tarabbia-personaggio di essere “embedded” del gruppo fascista, sporcandosi le mani nella violenza per raccontarla,  è interessante l’altro rimprovero che fa Marcello, nel nome di una visione etica sia della letteratura che del suo fascismo: ”Tutti pensano che quello in cui noi crediamo dia intriso di odio e violenza e ci sono non lo nego – spiega – ma non c’è solo distruzione, c’è  amore (…) il fascismo è una forma di amore (..) perché traccia confini, dice di un’appartenenza a una comunità, costruisce un nido e vi accoglie tutti coloro che si somigliano”.  La premessa, espressa poco prima, salda poi lo scrivere e il manoscritto di Tarabbia-personaggio al suo fascismo: “Io voglio salvare tutti (…) anche questa tua Anna avrei salvato” dice Marcello. E invece cosa fa lo scrittore senza una visione etica, secondo Marcello? Quello che Tarabbia ha fatto in questo libro, come nei precedenti, così come lo sentenzia il fascista: “ Ogni volta che scrivi una storia, un uomo uccide la donna che ama”.

Il gioco di specchi si fa ustionante, Tarabbia autore reale ha scritto quelle storie e qui firma la dedica di questo come dei precedenti a moglie e figli, in particolare alla nuova nata Caterina “chissà che idea si farà del Continente bianco quando e se lo leggerà”. Interessante come prefiguri anche una Caterina lettrice di un romanzo in cui Tarabbia esplicita il suo alter ego come intriso di una contaminazione con quel mix di violenza maschile e fascista che fino ad ora aveva solo scritto da esterno.

Per Marcello la letteratura deve salvare le vite. Tarabbia autore (sia personaggio che reale) tenta di sfuggire a questa forma di  “controllo” autoritario mascherato da “cura” e parvenza etica (anche Marcello a suo modo  è un lettore buonista)  che il fascista esprime e lo fa sottraendosi all’onnipotenza dello scrittore, ritirandosi per lasciare la scena alla realtà così come essa è, anche nella sua durezza (e come Tarabbia ha fatto con notevole capacità nei libri precedenti) proprio lasciando al proprio destino le storie delle persone incontrate e raccontate.

È uno snodo di compresenza, un teatro di convivenza tra una finzione che riduce il suo spazio e la realtà che prende il sopravvento,  che forse non chiede di essere risolto, ma tenuto aperto da Tarabbia-personaggio che scrive di questa scelta di non proteggere nel destino scritto le persone di cui racconta, non cambiandone per finzione il destino, così come fa con il personaggio-Silvia che gli appare in sogno e chiede appunto un altro finale. Proprio la riscrittura esatta e non cambiata del finale di Parise fa poi del testo di Tarabbia un evento di realtà in cui non si può cambiare ciò che è fatto (e anche il testo di Parise è un fatto).

Tarabbia (per un momento ricomponendo i suoi frammenti) espone le sue idee  in questa sorta di appendice delle ultime 40 pagine del libro: “Perché se si protegge qualcuno di cui si vuole scrivere, si altera il mondo, lo si piega alle proprie voglie e perfino al proprio senso di giustizia. E un mondo piegato a tutto questo è un mondo giusto, senza scandalo né orrore. Ma non è un mondo che può entrare in un libro”. Ricorda in qualche modo la scelta di realtà fatta dal regista teatrale Milo Rau, che non a caso come Tarabbia ha sempre portato “in scena” qualcosa che veniva lasciato fuori dalle possibilità onnipotenti dell’autore (mentre invece è Marcello con i suo delirio di cura amore e controllo fascista a esprimere un senso di “onnipotenza” che spaventa anche il suo braccio destro “l’uomo che chiamano Werner” e che sbeffeggerà Tarabbia-personaggio che in un impulso di eticità voleva fare qualcosa per Silvia ma lo rimprovera: “Sarà morta da ventiquattro ore, imbecille – inutile che fai finta di preoccuparti, lo sapevi come sarebbe andata a finire.. adesso vuoi correre denunciare…per fare cosa? Il salvatore di vite morte? Dopotutto hai il tuo finale, non farla troppo lunga”.)

Del resto, anche nella cura e nella relazione, così come nell’amore (lo rivendica Marcello) ci sono delle forme di controllo. Lo esercita anche il dottor P. che si smaschera che si confessa a Tarabbia paziente, sapendo che è scrittore . Chi controlla psicologicamente chi? Forse il dottor P. alla fine è il deus che muove tutta la narrazione e l’azione, che spinge Tarabbia -personaggio a aderire al Continente Bianco così come spingeva la moglie nelle braccia di Marcello.

Ribaltando il setting psicoanalitico che è un teatro con le sue regole di “quarta parete” ha la possibilità di avere un potere, controllare quello che accade e si dirà, con quel mettersi a nudo (che a volte è degli scrittori di autofiction) e che tende a far funzionare le cose secondo il proprio gusto.
Il dottor P. è scrittore-burattinaio, emblematico esempio di scrittore che vuole – come il suo paziente – avere una storia anche violenta da raccontare. Tarabbia-personaggio partecipa o assiste e decide di partecipare a pestaggi e farne una storia. Quella storia sarà sotto il suo controllo, quindi è un tentativo di assorbire la realtà dentro il racconto per poterla controllare. Lo fa Tarabbia, lo fa il dottor P. raccontandola a lui.
 Una realtà che appunto lo scrittore ama. E come tutti gli amori, sono forme di controllo, di dominazione e di fascismo. Qui mi sembra convergano i nodi, tra un’operazione metaletteraria e un resoconto di sentimenti di destra che attraversano la nostra società e che si affermano come identitarismo, come amore per la comunità.

A sconvolgere le intenzioni è “la faccenda trita del destino” che qui Tarabbia sembra recuperare nella necessità di scavare più possibile in ciò che è dato , ovvero sia il dato fattuale, sia ciò che si dà nell’evoluzione degli eventi.  Posizione non riva di ambiguità, se ci si limita a registrare quello che accade agli altri e ci si mette nella posizione di chi, per quanto tenti di eclissarsi dalla narrazione, è l'autore che scrive, è presentissimo e presentissimo al suo gesto di scrittura.

Nell’ ultimo capitolo, Tarabbia personaggio dice che ha pensato e ripensato molte volte come scrivere questo capitolo terminale per descrivere gli eventi tragici che in qualche modo aveva già annunciato (del resto noi li sappiamo, poi ché era scritti non nel destino ma nel libro di Parise).
Il narratore inquieto avrebbe desiderato che tutto questo non accadesse, che è un esplicito trucco ambivalente, finzionale,  letterario, aggiungendo che questa storia l’ha cercata, l'ha desiderata, inseguita dentro e fuori della letteratura, che se da un lato è un'affermazione che noi leggiamo dentro la letteratura, è proprio l’affermazione al rimando ad una letteratura di fatti, rimando a considerare ciò che “accade” senza il filtro letterario, proprio ne momento in cui Tarabbia sembra averlo fatto alla massima potenza riutilizzando la materia narrativa di Parise. Non c’è l’ammissione di una realtà che non esiste, ma il contrario: un ribadire che esiste ed è prioritario un fuori dalla letteratura anche se viene detto nelle pagine stampate. Anche se il cerchio si chiude ancora sull’Eros esso è presente come forza reale che distrugge anche l'azione di controllo della storia preteso da Marcello. Ubu s'innamora di Silvia e questo rende impossibile poter dar vita all'azione secondo come era stata programmata e quindi è  l'eros che impazzisce, fa impazzire e sabota tutti i possibili anche i piani politici. “il tuo dottore te l’aveva detto fin dall’inizio” dice Werner a Tarabbia-personaggio. Cosa era prevedibile? L’imprevedibilità della forza del vivente, l'Eros come agente di realtà che fa saltare tutte le rivoluzioni, la forza politica della biologia, il motore delle storie.

 



[1] Quali fossero i rapporti tra i tempi di Pasolini degli ultimi anni e di come Parise lo abbia prima sentito come un rivale (ma non a caso insistendo sugli stessi temi) e poi dopo la morte lo abbia riaccolto come un fratello di cui continuare la missione, si può vedere il saggio "Pasolini" di Gianluigi Simonetti in nella rivista "Riga", num 36 monografico dedicato a Parise (Marcos y Marcos, 2016) in cui è ben chiarito sia il rapporto tra i due scrittori, il tallonamento di Parise sui temi di Pasolini e la decisone implicita di proseguirli e tenerli vivi, farli letteralmente propri, dopo dopo la morte del amico-rivale.

[2] Rimando a Mattia Ferraresi, Solitudine, Einaudi 2020 o a uno spettacolo de Lacasadargilla/regia Lisa Ferlazzo Natoli “Ministero della solitudine”, ne scrivo qui https://www.repubblica.it/spettacoli/teatro-danza/2022/10/13/news/ministero_della_solitudine-369805887/

[3] Cfr. Francesca Rigotti, Era del singolo, Einaudi 2020

[4] D. Eribon, Ritorno a Reims, Bompiani, 2017 ; E. Louis, Chi ha ucciso mio padre, Bompiani 2019, Bompiani, entrambi i tesi messi in scena da Thomas Osthermeier con una efficace versione teatrale che potrebbe adattarsi anche al libro di Tarabbia

[5] Il campo dei santi, di Jean Raspail, Esodo di Dj Stalingrad, La superficie di Eliane di Luigi Malerba ecc.

[6] Vedi sempre G. Simonetti, Riga, cit. e Marco Belpoliti che in “Settanta” ha scritto che  “dopo la tragica morte di Pasolini, Parise sul ‘Corriere’ sembra fare propri i temi e le questioni del suo ‘avversario’. […] È come se perdendo il suo ‘antagonista’ – a tratti detestato, a tratti amato, ma sempre ammirato – Parise avesse assunto su di sé anche la sua parte”).

[7] “Eccoli, erano loro, i giustizieri della notte, quelli che avevano assassinato Pasolini, quelli che avevano stuprato le ragazze del Circeo, quelli che avevano bruciato un somalo dormiente su un letto di cartoni, “per scherzo”. Intravedevo le loro facce, anche nella velocità della corsa. Parevano facce americane, alcune bionde e butterate, altre nere dai capelli ricci, di arabi americanizzati. Erano, nella loro anonima e meccanica criminalità, le facce di Roma”. L’odore del sangue, pag..

[8]  anche qui rimando a Gianluigi Simonetti “Pasolini” Riga, dedicato a  Parise, 

[9] Vedi il recente pronunciamento della commissione stragi sulla morte di PPP, a testimonianza di un capitolo aperto e mai chiuso della storia italiana e al di là della (quasi) moda di infilare il martirologio di PPP in ogni cosa, resta indubbiamente un ferita aperta.

[10] Pasolini, Petrolio, Rizzoli, 2022 e  sia l'introduzione di Walter Siti  che il suo "Quindici riprese", Rizzoli, 2022

domenica 23 ottobre 2022

DIARIO DI UNO SPETTATORE DI TEATRO (Note su ultimi spettacoli visti)

 Metto qui di seguito alcuni brevi accenni a spettacoli visti al Festival VIE di ERT Emilia Romagna Teatri, in vari luoghi,   Roma Europa festival e Short Theatre, questi ultimi due a Roma 


Al Festival Vie ( https://2022.viefestival.com/ ) di Emilia Romagna Teatro Fondazione una qualità di spettacoli tendenzialmente molto alta, alcuni saranno in tournée, ad iniziare da Il Ministero della solitudine del Lacasadargilla, una danza di parole in cui si compone la nostra disconnessa e iperconnessa vita che è molto più solitaria e a rischio isolamento di quanto immaginiamo (ne ho scritto su Repubblica.it, https://www.repubblica.it/spettacoli/teatro-danza/2022/10/13/news/ministero_della_solitudine-369805887/  per chi fosse abbonato) una vera e propria indagine sullo stato psichico di un’epoca fatta di singolarità che si misura con la dimensione globale e planetaria, molto oltre la comunità dei dintorni, di invito al narcisismo, di autorappresentazione digitale come prevalente istanza di socialità, con il risultato che fuori da quella bolla si aprono baratri, nevrosi, precipizi, tanto che addirittura i servizi sanitari e sociali degli stati se ne sono preoccupati, perché la solitudine diventa di massa (a Prato teatro Metastasio dal 3 al 6 novembre https://www.metastasio.it/it/eventi/cartellone/cartellone-22-23/il-ministero-della-solitudine.1086 )


Ancora Vie Festival, Ho visto “Il Capitale” di Kepler 452, che è molto più di uno spettacolo, è la presenza viva del mondo del lavoro che si racconta e si confronta con chi il teatro lo fa e lo vede, a suo modo è un resoconto e una resa dei conti, in cui domina come domanda non “che fare” di Lenin, ma il “come state” (come stiamo) davvero noi, che pensiamo di non essere sfruttati. Costruito come un diario del lavoro (dei teatranti e degli operai) lo mette in scena, ma ha dalal sua la forza della verità, l’attitudine etica, senza retorica, lo sguardo curioso, il corpo e le persone degli operai che sono testimonianza. Non ci sono ancora repliche ma speriamo di si, controllate su https://kepler452.it/

Lo spettacolo di punta è stato certamente “ Imagine” del regista polacco  Krystian Lupa, considerato un maestro del teatro europeo. Uno spettacolo-evento della durata di sei ore, malgrado alcune cadute di tono, anche fruibili, anche perché resa dei conti con sé stesso e con le utopie giovanili. Come per altri autori giovani negli anni 70 nei paesi del socialismo reale,  la malinconia assume forme sdoppiate: dopo la gioventù passata sotto un sistema totalitario a immaginare la libertà, dopo l’89 quel che si è trovato è stato un sistema-totale in cui certo la libertà aveva il prezzo del consumo e del modello capitalista senza più alternative. E’ forse questo che pesa sul personaggio chiave, alter ego dell’autore, ex guru di un gruppo hippie e sognatore (simile a quello fondato negli anni 70 dallo stesso Lupa ) che chiama i suoi ex amici ad una resa dei conti, a un “grande freddo filosofico” e di autocoscienza che approderà dopo labirintiche discussioni, a una exit-strategy di comunità dell’utopia tra  sesso libero e trip lisergici, il doppio fondo dell’individualismo. Si può ancora immaginare come nella canzone di Lennon, cuore messianico e nostalgico dello spettacolo,  un mondo senza frontiere, religioni, nazioni e che viva in pace? Nello spettacolo, ancora in lavorazione durante l’ultimo anno si è necessariamente innestata la guerra in Ucraina. Così, nel secondo atto gli stessi attori nei panni di profughi che attraversano un confine, riprendono il discorso da un’altra prospettiva. Lo spettacolo, va detto si gioca su registri diversi: iper verbale, visionario, sacrale, con il regista seduto dietro la regia, che interviene in voce con sue glosse, quasi a sottolineare uno sdoppiamento del protagonista, reso visibile dai due attori che lo incarnano, specie nella parte verso la fine, ormai una sorta di deserto evangelico/o scena azzerata, da finale di ogni partita possibile, in un crescendo visionario e allegorico, evocando dittature e disastro ambientale. Qua e là, le apparizioni in video di Lennon e dei Beatles sono delle vere e proprie coltellate emotive, il contrappeso all’interrogazione incessante, quasi Dostoevskiana, resa però viva e fluida dalla bravura degli attori, dalle invenzioni pittorico-fotografiche della scena e di alcune soluzioni tecniche. Per gli spettatori, immersi e dispersi in questo vasto vuoto che è il XXI secolo, sogno e realtà contano più del bene e del male. Uno spettacolo teso e tormentato, con alcune discontinuità inevitabili. Come nei grandi affreschi d’epoca.


Sempre Vie,  fascinoso, elegante, con originalità stilista è “Karnival” di Michela Lucenti e Balletto Civile. Opera potente, tra danza e teatro, forme di condensazione poli-artistiche (danza, letteratura, canzone) che portano in una dimensione che ha sapore di fantastico, dentro un luogo chiuso come un grande albergo, i cui corpi, soggetti indefinibili, colpe, desideri, pensieri non lineari, che costruiscono attorno a fallimenti, un “fanta-giallo” in cui il corpo non è il reato. Da vedere tra il 2 e il 14 dicembre  quattro date in scena a Udine, Modena, Torino, Cesena. https://www.teatro.it/spettacoli/karnival-michela-lucenti 


Vero gioiello di Vie Festival,  “Forma sonata” di Daniele Spanò che è un’opera (teatro-performance-installazione) che definirei perfetta, tesa e senza alcuna sbavatura nel mettere assieme canto antico, musica elettronica, movimenti sul palco della soprano Arianna Lanci, visual art digitale, reportage, recupero di arte classica. Dal Giorgione al turismo di massa a Venezia per l’acqua alta, la catastrofe climatica può essere fraintesa nel suo aspetto estetizzante, così come i capricci del meteo apparivano frutto di volontà divine in epoca  classica. Il filo conduttore è il passaggio dai fulmini del cielo alla natura imbrigliata, sfruttata spettacolarizzata, ma all’orizzonte una minaccia bel più terribile delle “tempeste” d’arte. (non ci sono date ancora https://www.danielespano.com/

altro spettacolo atteso,  Halepas della regista greca Argyro Chioti, che punta ad essere un’opera post-pop contemporanea, una  tragedia musicale dedicata a Yanoulis Halepas, scultore greco del XIX secolo, figura mistica, segnato dalla malattia mentale, che ha poi trovato riscatto. Uno spettacolo che tuttavia è deludente, nonostante la scenografia affascinante, gli attori molto bravi, ma nel complesso forse troppo verboso e al  tempo stesso poco lineare, le musiche di Jan Van Angelopoulos non mi hanno convinto, anzi molto più semplicemente non hanno coinvolto, appesantivano ulteriormente una drammaturgia già complessa.

  Da vedere sicuramente invece  Gli anni, di Marco D’Agostin, già strepitoso autore e interprete dell’assolo “Best regards”, qui solo in veste di autore coreografo, in un’opera tra Ernaux e Max Pezzali. D’Agostin  lascia il palco a quella che di fatto è la sua  coautrice, Marta Ciappina, qui come danzatrice che mescola le altissime doti performative, alle espressività di un interprete di una trama sottile tutta basata sui ricordi che la vedono inevitabilmente protagonista (come la danza può fare autofiction). Meno direttamente narrata, ma qui in un crescendo sofisticato di accumulazione di segni e figure del corpo, unitamente a flash di ricordi con evocazione di stralci sonori (che compaiono più nella lontananza evocativa, ma di fatto si balla sul frusciò del vinile) con Ciappina che lancia razzi di racconto e semina oggetti-indizi. Tutto poi da questa aleatorietà tesa, tenuta dalla forza di un neverending del moto,  si ricomporrà in un crescendo in cui la narrazione si farà non solo più esplicita, commovente e coinvolgente nel dialogo tra io-performer/noi spettatori, ma espliciterà anche come quelle figure di coreografia hanno inteso rappresentare un racconto. 5-6 Novembre a Reggio Emilia (ma vi suggerisco anche Best Regards qui date https://www.marcodagostin.it/agenda/

 

A Milano, Al Piccolo Teatro ho visto "hamlet" di Latella spettacolo potente, con una nuova traduzione, una regia con essenziali punti di forza e scenografia ad alto tasso simbolico, protagonista la bravissima Federica Rosellini, ne ho scritto qui su Huffington (https://www.huffingtonpost.it/blog/2022/10/13/news/lhamlet_di_latella_piu_lotta_che_dubbio-10392073/
 è in scena fino al 31 ottobre al Piccolo, vi consiglio di vederlo se riuscite,  se altre date, da controllare  sulla pagina delle produzioni, non ce ne sono per ora https://www.piccoloteatro.org/it/pages/in-tournee

A Roma al Romaeuropa Festival ( https://romaeuropa.net/ ) ho visto invece l'altro atteso spettacolo dell'autunno dei festival,  Grief & Beauty di Milo Rau. Col suo metodo di scomposizione narrativa e drammaturgica, il pluripremiato e grande regista svizzero prosegue nella sua strada di realismo, sfidando “l’impossibile” della famosa definizione di Lacan di fronte all’Origine del mondo. Partendo da un apparente meta-teatralità (sono gli attori che in scena parlano sia del loro lavoro della loro esperienza, sia di come questa – con il dolore, i lutti, le separazioni, gli strappi della vita) di metta in relazione con la vicenda di Johanna, un’anziana donna che malata cronica ha scelto con lucidità la fine della su vita con l’Eutanasia. Non solo, Johanna, parte anche essa della comunità di persone che lavorano attorno al Teatro di Gent di cui Rau è direttore,  ha accettato di farsi riprendere proprio nel momento del passaggio dalla vita alla  morte, con intorno le persone care. Parallelamente, nei vari capitoli in cui è diviso lo spettacolo, gli stessi attori che hanno raccontato di sé, mettevano in scena le ultime ore di un uomo che si sottopone alla stessa procedura, per poi terminare con un capitolo in cui il tempo mostra le sue risorse non-lineari, una geometria del passato che guarda al futuro commovente.  Parte del progetto sulla rappresentabilità del reale, Grief & Beauty è più intimo, silenzioso, impalpabile, rispetto ad altri progetti, ma si confronta con il momento più solitario dell’esistenza umana, nella sfida nuova, ovvero rompere l’argine delle nostre monadi e condividerlo con fraternità. Non ci sono altre date italiane per ora. Sarà da Gennaio a Parigi, per chi parla francese e dovesse capitare lì https://www.ntgent.be/nl/programma?onTour=1&month=january-2023 )


Ho visto Au Bord, di Claudine Galea, un testo che parte da una riflessione/ossessione per una foto del 2004 con le  torture e gli abusi subiti dai prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib. Una in particolare la foto della soldatessa che tiene al guinzaglio uno dei prigionieri. L’intenzione è sfidare l’indignazione per confessare quanto quella immagine possa in realtà essere molto più attraente di quel che crediamo. Solo che il risultato è un succedersi piuttosto monotono e scontato di pensieri sul fascino del carnefice, sul fascino che può esercitare su noi il male o anche la seduzione di un/una carnefice. Una riflessione che in Francia si fa dal surrealismo, da Artaud, da Bataille in poi fino a Baudrillard, il testo non dà nulla di nuovo – certo magari può parlare a pubblici che non hanno attraversato quegli autori. La regia di Valentino Villa alla fine preferisce una strada del Non-vedere (nel paradosso su uno spettacolo che vorrebbe anche toccare la criticità della spettacolarizzazione mediatica del male, del terrore) finendo per rifugiarsi solo in belle scene e mutazioni di luci, anche se un po' statiche, così come la scelta, anche motivata bene, alla sottrazione a "non-essere l’autrice" in una forma quasi estraniante, porta un' attrice con un bel percorso, molto premiata  e brava come Monica Piseddu ad un flusso recitativo che pesa per astrazione, e una certa monotonia.



Sempre a Romaeuropa, spettacolo OK BOOMER di Babilonia Teatri, su un testo di un autore che ha vinto il “Premio Tondelli 2021”, Nicolò Sordo. Tutto ruota attorno all’ossessione giovanile, adolescenziale,  per le scarpe sneakers costose della Nike, diventate simbolo oltre il brand. Protagonista un ragazzo, figlio di un padre separato, indigente, comunista e fieramente anticonsumista, a cui però il figlio riesce a strappare i 150 euro per le Jordan Air. Quando andrà il sabato pomeriggio al centro commerciale deciderà di rubarle anziché comprarle (perché così fanno tutti). Quello che emergerà, oltre questo conflitto padre-figlio sulle scarpe costose,  con un po’ di salti narrativi, qualche grottesca o comica deformazione, ma molto divertente, è una vicenda che si rivela a sorpresa, uno sfruttamento che sta non solo “dietro” la produzione delle scarpe,  lontano da noi, ma anche vicino, secondo l’invenzione di Sordo, perché si scopre per caso che nel  sottosuolo del centro commerciale ci sono immigrati rinchiusi e sfruttati.  La messa inscena dopo un primo monologo affidato allo stesso Nicolò Sordo come attore, vede tutti i personaggi  – il figlio, il padre, Veronica, i commessi, la vigilanza - impersonati in un dialogare fitto tra Sordo e l’altro attore in scena  Filippo Quezel, col risultato che la bravura dei due attori tiene, anche laddove il testo vira al già noto e qualche volta in ovvio. Obiettivo finale: il nostro feticismo dei beni, la vera roccaforte del Capitalismo del XXI secolo, che impedisce ogni salvezza e alternativa, come viene fuori alla fine dello spettacolo in cui si ride molto, ma con un buon feedback di retropensieri e paradossi che ci interrogano.  

 


A settembre avevo visto alcuni spettacoli al Short Festival a Roma, in particolare segnalo Manifesto Transpofagico di Renata Carvalho, un 'epopea di conoscenza del mondo dei "travestì" brasiliani e L’etang di Giselle Vienne, speccaolo su un tragio disperato bisogno di amore di un adolescente, che si trasforma in crudeltà o nichilismo - da una piece di Walser.
Due spettacoli belli, ne ho scritto qui, sono due spettacoli diversi, entrambi interessanti ne ho scritto qui su Minima & Moralia (https://www.minimaetmoralia.it/wp/teatro/short-theatre-la-performance-come-corpo-che-ispira-e-cospira/ )



Per vederli, Gisele Vienne solo in Francia per ora qui le date https://www.g-v.fr/en/agenda/ per Renata Cavalho non ho trovato nuove date,  rimando alla sua pagina artista https://www.facebook.com/renatacarvalhoteatro/


lunedì 15 agosto 2022

LA FRECCIA (NERA) DEL TEMPO 1970-2050

 


1970, VIOLENZA ILLUSTRATA

 

Dallo sceneggiato io non avevo capito granché della trama. Come immagino sempre i ragazzini, avevo capito l’essenziale, anche brutale: che c’era un giovane simpatico e di bel aspetto che aveva subìto un’ingiustizia e c’era uno, più adulto tipo zio o qualcosa simile (Arnoldo Foà) che era buono e lo aiutava contro i cattivi, che tiravano “le frecce nere” appunto,  e uccidevano i buoni. Ricordo soprattutto Arnoldo Foà, la faccia larga e terragna dei nostri padri. 

Il giovane a un certo punto si lega in questa ricerca di giustizia con un altro biondino, ma in realtà era una biondina, Loretta Goggi. La fluidità di genere non c’era ancora, ma c’era la memoria della tradizione elisabettiana del teatro sì (il mascheramento femmina maschio è comunque un classico teatrale). Ho vaga memoria qui, ma un certo turbamento, comunque, su me seienne lo fece.

Altre cose che ricordo aver capito: che l’ingiustizia è una brutta cosa.

 Tornado un momento al cofanetto di mio cugino: questa cosa dell’ingiustizia l’avrei capita molto meglio dall’unico libro dei tre che lessi e mi folgorò, e che fu il primo libro letto in assoluto: Oliver Twist di Dickens. Ovvero:  Come diventare comunisti a sei anni. Lui Orfano rispecchiava in fondo la mia condizione, perché si stava per compiere un balzo “antropologico” (parallelo a quello che temeva Pasolini per i suoi ragazzi) ovvero i miei genitori mi sarebbe apparsi sempre più distanti, alieni

Freud dice che è un sentimento dell’orfanità tipico di quell’età. Non so, di fatto si stava aprendo uno iato forte.


L’altra cosa che lo sceneggiato Freccia nera radicava era che per vendicare l’ingiustizia si può uccidere (lo pensavo come lo pensa un bambino, certo, ma pur sempre quella è la parola:  “uccidere”) 
Ora questo concetto dell’occhio per occhio, benché universale e arcaico - era contemplato dalla Bibbia ma vietato poi dal Vangelo, per dire – ritornava nella mitologia televisiva popolare e cadeva in un anno particolare: il 1970. Si apriva un decennio e di morti ammazzati e noi boomer bambini ne avremmo “visti” parecchi (in realtà solo in tv, la stessa Tv dello sceneggiato, intensamente e quotidianamente).

 Morti che furono uno schiaffo psicologico, epocale, su una fascia di ragazzini poco calcolato, a mio avviso, dalla psicologia collettiva, un trauma diffuso, che durò oltretutto dall’infanzia alla gioventù, per noi (una parabola che avrebbe avuto ultimi fuochi nel 1993/94, addirittura).

Anno dopo anno, morti ammazzati sia in città (a Roma, erano introno, erano sotto casa dove sparava una frangia della banda della Magliana) che in tv, persone, ragazzi, spesso. A volte a decine sui treni, nelle piazze. Anno dopo anno, ogni settimana.

Da ragazzini, in quel 1970 senza filtri e senza spiegazioni, sentivamo la voce della tv, si “rivendicava” una giustizia (o vendetta come la freccia nera!)
però si spargeva tra noi (e gli adulti, i padri e le madri) il “terrore”.

La sinfonia di morte aveva avuto il preludio il 12 dicembre 1969, come sanno tutti (i boomer se lo portano marchiato sottopelle, è rimasto secondo me uno strano rapporto con la morte pubblica e quella privata.  Quella notte nera di quei morti, gente come noi, signori adulti come i genitori, ci ricopriva con angoscia). Dopo il ricordo dell’ammaraggio sulla Luna, il secondo ricordo forte – insieme all’ombelico di Raffa ella Carrà a Canzonissima 69 – è la faccia di Bruno Vespa, la voce affannata, il bianco e nero della devastazione della Banca.

 L’immaginario grazie alla tv scavava. Oggi le neuroscienze confermano purtroppo l’allarme di forte influenza sull’apparato neuro-emotivo di impulsi di realtà rafforzati da schermo. L’immaginario nella sollecitazione neuronale produce conseguenze, non in senso deterministico, ma statisticamente un ‘abitudine, un’esposizione a schermi televisiva o digitale effettivamente produce reazioni.

Per me (per noi?) di fronte a tutta quella morte si faceva strada qualcosa che tematizzo solo ora: il  “gioco del mondo” non era affatto una roba da ragazzi della via Paal (era il terzo libro del cofanetto, pure quello non letto – lo lessi anni dopo, universitario) ma l’attività nel mondo ti raggiunge nel privato e ti uccide.

 E tu pure puoi uccidere. (lo ebbe chiaro in mente Vincenzo Cerami nel 1976, col borghese piccolo piccolo” capolavoro).
Venivano in mente reazioni di morte, una contagiosa partecipazione, sebben passiva, di reazione,  alla violenza.
 

Come il giovane di bell’ aspetto dello sceneggiato era stato offeso dall’ingiustizia d’essersi visto strappare la condizione di vita sua, e il di lui padre, dai cattivi delle frecce nere, così noi percepivano che intorno c’erano questa storia di vendette: cattivi che quella condizione nostra ce la volevano togliere, bande segrete della freccia nera, e per farlo poteva uccidere persone vere intorno a noi, anche i genitori, in specie “i padri”. (adotterò una linea maschile non perché sia solo maschile, ma perché era così che la assorbivamo noi maschi: il mondo era cosa di maschi, almeno dalle parti di quei contadini inurbati come i miei). 

Al tempo stesso la vendetta arcaica, le ragioni di una giustizia, veniva pure da certe mitologie che sentivamo intorno e come i bambini oggi assorbono tutto, assorbivamo anche noi, solo che non venivamo interpellati .

Erano i tempi della rivoluzione comunista proclamata ovunque sui muri e dei miti guerriglieri dei Che Guevara ecc. ma pure tutto si mescolava e dunque mi pare d’essere stato (azzardo anche il plurale: essere stati, noi) preso da uno strano senso, duplice, luttuoso e sanguinario: un terrore della morte, perché ci potevano togliere i padri e il poco che avevamo (e il molto che desideravamo ) e al tempo stesso l’idea della facilità dell’uccidere, dunque anche un desiderio di ammazzare per riparare a quella ingiustizia i cattivi. Ammazzare era un verbo anche dei giochi, delle carte, era comune. (zero filtraggio correct del linguaggio).  

1970  VIOLENZA EREDITATA  

La morte veniva oltre ai ragazzini da un lontano coagulo psichico,  per tutto il secolo dei nonni e dei padri: dalla Prima guerra mondiale dal fascismo (che ne fece mito della bella morte ) dalla guerra d’Africa degli zii più anziani o la seconda guerra vissuta nelle infanzie o adolescenze dei genitori, poi la resistenza studiata scuola e nelle cerimonie  e poi le rivoluzioni e le guerre assorbite dalla tv e da quel che c’era intorno  (Vietnam e Medio Oriente su tutte). Il 900 è stato un secolo violento come altri, ma che quella violenza l’ha rappresentata, illustrata, moltiplicata.

Anche senza sapere nulla eravamo esposti a un turbinio di tv e di morte. Il bianco e nero faceva il resto. Il mondo lontano era quello cupo e sgranato, anche se la vita per fortuna intorno era un quotidiano di colori. Invece sia il  passato (le foto i filmati) e il presente (il telegiornale o i giornali di carta) erano tutti in bianco e nero, più grigio nero che bianco. Cupezza storica. Anni di piombo, pallottole e tipografie. 
 

Era come se avessimo un doppio registro percettivo. Il mondo bianco e nero (la freccia!) era violento. Il quotidiano, colorato.  Crescere maschi - e qui torno e attualizzo al boomer - significava assorbire un ‘eredità di comportamenti patriarcali, si direbbe oggi, ma più ancora – in quel lasso di tempo – un vociare continuo di morte e violenza che sarebbe continuato anni. 

Come maschi che tra le varie palestre che ci saremmo dovuti sobbarcare, stava pure la responsabilità del ruolo guida  (ribadisco, era tutto sbagliato ma noi non lo sapevamo e trangugiavamo) e anche “sentire le notizie” metteva ancora nell’orbita dei padri e dei nonni: ai maschi toccava lavorare e combattere, del resto il servizio di leva era attivo e  così era stato da sempre e ancora non sapevamo che non sarebbe stato così - la guerra mondiale era finita solo 25 anni prima n quel 1970 in cui di guerre nel mondo ce n’era parecchie. Io ho fatto poi il militare (pure ufficiale) nel 1989 e sebbene  tutto venisse giù, io ero  a difendere il confine Italia-Jugoslavia. 

Dunque, bisogna prepararsi alla violenza. Oltretutto intorno per dimostrare d’essere uomo c’era un ulteriore corollario di costume,  di violenza o abuso o prepotenza da bulli di strada (a Pietralata, tiburtino III) roba  “patriarcale” e in quell’ epoca per molti la “vita violenta” introno era un fatto, non un titolo di romanzo. Una  cultura diffusa e interclassista - e la storia del Circeo è emblematica, così come raccontata da Albinati, ne “La scuola cattolica”.  

In quel mio, o nostro, 1970 si aggiungevano quindi i “terroristi” o quelli che fanno la rivoluzione, i guerriglieri (un po’ western più che politica ) e il panorama si complicava (chi erano i guerriglieri “giusti” e quelli sbagliati ? ) restando ben ancorato a questa chiara via maschile ben netta: la violenza la morte. Era – lo rivedo a ritroso, ma lo era -  ingombrante, presente, pesante, quotidiano.  

1970 CHI MI AMA MI SEGUA: EROS A CONSUMO  

Faceva da contrappeso in quel 1970 la pace, che durava e in cui eravamo cresciuti. La guerra “fredda” era sempre evocata con tutto il resto. Nel frattempo però si allargava il benessere e il desiderio  delle cose materiali, che aumentava aumentando la disponibilità, per quanto povero all’epoca come tutti (anche lì: non sapevamo che stavamo accumulando altro tipo di morte: proprio nel 1970 si riunisce il Club di Roma che per primo avverte della minaccia globale dell’inquinamento e del consumismo di pace. Ma questo non lo sapevamo e l’abbiamo capito troppo tardi).

C’era l’elemento alternativo della presenza femminile. Ma più che le madri, per noi erano le “donne altre” sempre più presenti (e pure desiderabili in una roba te nuova mitologia sessuale proibita e presentissima sempre nello stesso luogo dell’assorbimento collettivo, delle sex-symbol)  Era  sempre roba da maschi.

Se pur maschilista, scorreva nel cervello se non altro una corrente alternata rispetto a quella della morte (era quella di Eros appreso però da noi generazione boomer in modo selvaggio e apocrifo, nessuno ci ha detto nulla abbiamo fatto tutto da soli – anche in senso manuale). 
 

L’eros entrava in noi leggero e luminoso, di colpo, non annunciato, da un’immagine nel corpo, prima di tutto, senza linguaggio. Quando poi crescendo ci saremmo ritrovati ad entrare nel “ruolo” di maschio anche in quel campo ci saremmo portato tutto il carico di nero. Ha fatto danni una generale e diffusa autarchia sentimentale e sessuale maschile (ma pure femminile)  che la generazione “boomer” effettivamente si porta ancora dietro (in questo caso concordo molti di noi questo nero ce lo portiamo, c’è chi sta provando a spurgarlo solo ora ). Ma eravamo come orfani. A casa tutto da soli, di nascosto.  

1970 DIRITTI VS VIOLENZA  

Tonando a prima della pubertà, a quel 1970, diviso tra il bianco e nero e i colori della vita, c’’era ovviamente la pace  occidentale, certo del consumo come ho detto, ma pure del progresso e dello sviluppo. Non c’era bisogno sempre di sparare per avere diritti. Questa è una cosa che è arrivata come consapevolezza dopo, alla fine del decennio.

Non parlerò della Legge sul Divorzio votata nell’ottobre 1970. Di fatto di grande valore, ma più lenta nel penetrare nel quotidiano.
C’erano anche cose concrete che miglioravano la vita, da subito, ne cito una tra tutte simbolica:  noi ragazzini del 1970, esattamente quell’anno,  siamo stati i primi della storia  – almeno da quando c’erano le grandi masse lavoratrici organizzate delle industri e delle costruzioni (mio padre era muratore a Roma) nelle città, da due secoli – dicevo, noi figli bambini quell’anno per la prima volta quei padri  li vedemmo un po’ di più, perché per la prima volta poterono restare a casa anche il sabato.
In Italia erano stati firmati i contratti collettivi tra il 1969 e 1970, anno in cui fu votata anche la legge giugni ovvero lo Statuto dei lavoratori.
 

Non c’era solo violenza, dunque, ma anche diritti, leggi.
Qualcosa però ritorna, un reflusso psichico e negativo. 
 

2022 IL RITORNO DEL RIMOSSO

Oggi io sono fortunato per il lavoro, ma in questi anni ho condiviso e condivido il destino generazionale con persone care, con amici e conoscenti, proprio molti tra quelli ragazzini all’alba dello Statuto dei lavoratori che i diritti li stanno perdendo ( e vedono molti loro figli non averne proprio in partenza). 

Di questo declino e di come corroda dentro,  ci si accorge solo ora che emergono i populismi che tra i boomer raccolgono consensi. In un mondo occidentale che in media è migliorato, non tutto regge alla media e molte disuguaglianze sono ferite, sono “quelli della freccia nera” che ritorna e vince.

Il lavoro è una questione non solo materiale. Troppo la sinistra l’ha identificata come questione salariale. È anche una questione identitaria. Nello sbilanciamento di genere certo.  Ma va detto così, brutale: Il lavoro era maschile.
 La realizzazione per come l’avevamo ereditata e che per noi maschi era anche una tradizione dell’identità.  Essere maschi, volenti o nolenti, significava lavorare: maschi padri di famiglia. Un destino  a cui non ci siamo mai ribellati (mentre il femminismo trascino le donne a mettere in discussione i “ruoli” della tradizione). Del resto, perché ribellarsi se comandavamo noi?

Avremmo dovuto farlo, così come c’è stata una sacrosanta battaglia femminista che ha messo assieme materialismo e identità, psicologia ed economia.
Oggi come maschi la paghiamo, non abbiamo retto l’urto del “ruolo” decaduto.

Ora per molti boomer come me, pochi forse arrivano le strettoie delle contraddizioni. Solo a pochi viene in mente che l’idea che il ruolo maschile fosse una condanna. Al tempo stesso. È tardi,  anche per me costa fatica scrollare di dosso un senso di frustrazione. Figuriamoci per chi aveva “aderito”, convinto. Reagisce con rabbia perché ricorda con rabbia. Ricorda con rabbia che un c’era un sogno.  

C’è di nuovo un senso di “ingiustizia” che si è introdotto, dopo che avevamo visto gli effetti della giustizia (sociale) e sta dilagando, ed è lì che nasce, questa rabbia.

In qualche modo è un pozzo depressivo che ci arriva non solo alla soglia dell’età anziana che non vogliamo come tutti (e tutte) accettare, ma pure in quella fase in cui l’eros, la corrente alternativa e luminosa,  è calante, debole, ci sfugge (dalla potenza alla desiderabilità dei corpi ) la corrente alternata della vita della biologia che contro-bilanciava la morte fin da quel 1970 che ho preso come anno simbolo.   A questo si somma la delusione, la stanchezza, la frustrazione, alimenta una rabbia distruttiva, violenta, e di nuovo: soprattutto maschile.  

Quella parabola di buona vita,  cominciata da “baby”,  ora che siamo solo boomer la vediamo precipitare. Per molti, maschi soprattutto, non resta che attaccarsi in qualche modo inconsciamente, ad un’idea nostalgica. Non di rado poi distruttiva e rancorosa, recuperando in modo velenoso un sentimento che circolava per noi intorno all’infanzia, immersi in quel senso di morte.  

La dico semplificata: ad un mondo che ci espelle dopo averci illuso col sogno (ma anche con la realtà di molte riforme e progressi. Benché spesso monchi) reagiamo male. Reagiamo resuscitando in noi non un senso della giustizia, ma della vendetta. 

Abbiamo perso quel privilegio che avevano avuto per primi : essere i primi a sfuggire al destino dei padri e nonni e bisnonni e così così via: di  essere nei campi a zappare. L’illusione perduta brucia di più. Non eravamo più come i contadini dei romanzi di Levi o Iovine che leggevamo al liceo e che somigliavano ai nostri nonni.  

Adesso a noi, a cui per primi ci era stato consegnato “un sogno”  (ricchezza studio benessere case salute e pure andare sulla luna) ci tocca, nel giro di un’inezia, perdere tanto a volte tutto.
 E prima di morire. Dunque, una seconda chance non L avremo.
Nasce una reazione che è spesso violenta nel privato, di resistenza, di rabbia. Cinismo. 
 

Non lo giustifico, lo spiego. A chi è più giovane non è ben chiaro. La battaglia contro i boomer (ben vengano conflitti generazionali, ma conflitti veri non a parole) viene trattato come un normale conflitto di avvicendamento. Lo è in certe fasce sociali dove si è abituati a questo avvicendamento. Noi no, la maggior parte dei boomer non è la minoranza di giornalisti che ne parla. Lo dico da giornalista  che fa parte della maggioranza di quelli scampati al destino della zappa.  

La gran parte dei giornalisti cita a sproposito  “i sessantottini “ che però furono una esigua minoranza sociale. La maggioranza allora come oggi (siamo sempre il paese con meno laureati d’occidente) sono “boomer “ che non è nato nelle case con “La Terrazza” (Scola) per dirla in sintesi.  

C’è un altro sentimento più diffuso e comune di persone normali che si sono viste consegnare nelle mani “baby” un sogno di futuro. E non c’entra la politica, anche se per chi poi ha partecipato a esperienze politiche la frustrazione è ulteriore. Era un sogno delle cose.

Era un sogno di certezze, soprattutto. Di stare bene. Di avere anche chissà che (madri che sognavano figli dottori ecc. )  Poi non si è tradotto sempre in risultati. La maggioranza ha fatto le sue vite, migliori degli avi, ma Vite normali, lavoro, famiglia, divertimento, serenità, benessere. Era già molto rispetto a quella vita millenaria sempre uguale di stenti di povertà di malattia e sottomissione che era fare il contadino come i loro (i nostri, i miei) genitori. Lo dico con l’esempio personale che altre volte ho raccontato e sta nella foto profilo: Io faccio il giornalista, mio nonno era bracciante analfabeta. Sulla pelle di due generazioni è passata un ‘accelerazione che ha trascinato psichismi, ma non ha sviluppato un ‘etica nuova, una cultura come fu per la lenta marcia della borghesia, che ci ha messo tre secoli e più  (ritiro fuori un po’ di lezioni del Villari).

A troppi tra i “mediatori” (in declino) come lo sono intellettuali, giornalisti, politici, sfugge il senso di una realtà che magari in teoria conoscono. Il senso rabbioso dell’ essere boomer (maschio)  che specie se vissuto a margini di destini e pratiche lavorative, nelle vaste suburre, magari in qualche modo di un ceto medio popolare, nei gusti nei consumi, più che nei redditi (conta l’immateriale tanto quanto il salario) e non è che non voglia ora “mollare il posto”: perché “un posto” non ce l’ha più. E un senso. (come nella canzone di Vasco Rossi).
Era una normalità di progressione, quel posto ma si va oltre l’avvicendamento lavorativo. E c’entra anche una certa pretesa di essere “mansplaining” che diventa “boomspalining” (spero questo lungo post non lo sia) e un ostentare “i miei tempi” migliori dei vostri ecc. Ecco, i nostri tempi non erano affatto migliori abbiamo assorbito un sacco di violenza e di morte, mentre certo facevamo progressi materiali e sognavamo. Ci siamo intossicati, come del resto lo smog che abbiamo respirato, dato che nessuno ascoltò il CluBn di Roma 1970). 
 

2050 IL FUTURO RIMOSSO

Vedendo poi oggi come trema, come sembra fragile la condizione di tanti, come le crisi generali rischiano ogni due o tre anni dal 2001 di farti perdere tutto o gran parte, la cosa si aggrava. Perduto il normale e pure il sogno. Ce n’è di che sbattere la testa. O dare le testate. È questa corrente nera che alimenta i populismi, i rancori, le rabbie, gli egoismi, guidata da una scia maschile un po’ allo sbando dal punto di vista esistenziale. Che nella voglia di rimettersi nei facili schemi di giustizia, si aggrega a bande che lo illudono di riportare la storia a quella semplicità immaginaria della freccia nera e del 1970.
Che nel vivere la propria identità sessuale il ruolo del maschile non fa che tornare indietro e (come tutti e tutte) illudersi di fermare il tempo, indossando maschere di un carnevale in cui finiamo per perdere anche il barlume di quella luce di speranza (e ragione) che ci venne consegnata, senza però la capacità di elaborare quel nuovo, divenire un “ ceto” .

Non sapevamo ciò che eravamo, non borghesi, non più contadini, eravamo una massa indistinta che ora non è niente e non ha fatto a tempo ad essere qualcosa,  e  soffia su tutte le lampade, e prepara il buio di quando – come scrisse Eugenio Montale nel 1939 – “spenta ogni lampada/ la sardana si farà infernale”.
Solo che ora “l’ombroso Lucifero” che un tempo era tale e scendeva “su una prora del Tamigi, dello Hudson, della Senna” non è uno, ma sono (siamo) in tanti, siamo tutti, sono io “come tutti” che scuoto “l’ali di bitume” di tutto il nero (e il bianco e nero) accumulato. Indossiamo gilet di plastica, mandiamo tutti a fanculo, assaltiamo palazzi e capitali. 
 

E non c’è più niente, neppure un amuleto o una cipria (o forse sì in qualche breve interspazio di amicizia privata, di amorosa corrispondenza fragile e intermittente) che possa “reggere all’urto dei monsoni”.

In quel breve interspazio ci sarà pure un “filo della memoria” che ci scalda in certi momenti. Quel che abbiamo certa, come boomer ( per  nostre colpe ma per lo più per le ragioni o colpe di “destini generali” che misero in moto una Storia troppo veloce e ora ci sbatte fuori ) è che una volta consumata la nostra morte, rotolate le nostre teste o deposte in pace nelle bare, resta a chi ci avrà sbattuto fuori e fatto il funerale  la sfida più difficile : ridare equilibrio, senso (giustizia?) al senso di sconfitta che ha bruciato noi, ma riguarda tutti.
noi lo lasciamo come colpevole dannazione nell’aver fatto poco e nulla (io stesso alla fine di quei settanta in cui entravo a fare la politica ero minoranza e poi dagli anni 80 e 90 sono stato sopraffatto dal Riflusso che molti miei  coetanei hanno accolto applaudendo.
non so se volete considerare i nati nei primi anni 70 come Boomer, cari ragazzi e ragazze, ma considerate che i nati tra il 1970 e il 1975 - oggi tra i 47 e 52 anni e che avevano 20-25 anni nel 1994, hanno votato al 75 % per Berlusconi per la Destra.
Se dovete proprio cercare un nemico storico dell'immobilismo che oggi ci soffoca, cercatelo anche dopo la fascia dei nati negli anni '60 (nel 1975 il 75% dei ragazzi votò PCI). 

 Resta l’eredità del Club di Roma inascoltato e a seguire di tutti i forum mondiali sociali e dell’ambiente.  È finita male, per noi. Ci verrebbe da dire sempre con Montale : “una storia non dura che nella cenere / e persistenza è solo l’estinzione”.

 Chi ribalterà il senso di questa storia?

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