sabato 27 maggio 2023

Tracy Letts, la famiglia è una terra desolata (non solo quella americana).

 

foto @Luigi De Palma



 La famiglia Weston si ritrova a casa, in Oklahoma, terra magnifica selvaggia e dura, nella contea di origine in occasione del funerale del suo patriarca. Inizia da qui quella che diverrà una intensa e incessante battaglia di odii e risentimenti, dolori e segreti combattuta nel campo instabile di una casa da tutti il resto dei componenti (madre, figlie, zii, fidanzati, mariti, nipoti). E’  “Agosto ad Osage County” del drammaturgo e attore americano Tracy Letts, nuova produzione del Tetro Stabile di Torino-Teatro Nazionale con la regia di Filippo Dini e che ha debuttato al Teatro Carignano dove resterà fino al 4 giugno. Il patriarca, in realtà assai riluttante, assente e alcolizzato, è il poeta Beverly (Fabrizio Contri). Perno del dramma, Beverly appare solo nella prima scena, come prologo, mentre parla con una giovane nativo-discendente, Joanna (Valentina Spaletta Tavella ) che sta assumendo come governante per prendersi cura della moglie malata. Beverly in realtà ha un piano: andarsene, morendo in mare, suicida. Da qui si innesca la spirale drammatica, un carillon di crudeltà che mostra le rovine della famiglia Weston che  – contrariamente T.S. Eliot poeta amato da Beverly che era stato poeta a sua volta, prima di decadere nell’alcol e nella sua trista vita da docente di provincia  - non è più possibile puntellare.

 Scomparso il maschio, sono le femmine a dispiegare egoismi, durezze, segreti, a volte saputi da alcuni e non detti. Una guerra di rancori incrociati, a partire da quella tra la vedova Violet (Giuliana De Sio), arcigna e fragile, malata,  impasticcata di psicofarmaci che alterna depressione strascicata e violenza cinica verso tutti, e la figlia maggiore, Barbara (Manuela Mandracchia), combattiva ma pur ella con un fondo di rabbia verso quei genitori disastrosi e ingombranti. Le altre sorelle avevano già gettato le armi: Karen (Valeria Angelozzi) andandosene in Florida e Ivy (Stefania Medri) soccombente, ma con un suo segreto che esploderà alla fine, rimasta ad accudire i genitori, ma che rinfaccerà alle altre due una verità chiave di questo testo: i legami di sangue non esistono (anche se a lei toccherà una via d’uscita paradossale da quei legami).

Le donne di questo vaudeville di rivelazioni delle  miserie avvelenate di questo gruppo di  parenti 
 serpenti,
 hanno scelto a loro volta uomini passivi, intimiditi o loschi : la sorella di Violet, Mattie Fae (Orietta Notari) col marito Charlie (Adrea Di Casa) e il figlio succube, Charlie Piccolo  (Edoardo Sorgente);  Barbara con Bill (interpretato dallo stesso Filippo Dini), con cui forma una coppia estinta e disgregata, perché l’egoista Bill ha un’amante giovane, di pochi anni più grande della loro figlia Jean (Caterina Tieghi). Karen con il laido fidanzato erotomane Steve (Fulvio Pepe) che proverà ad abusare della figlia di Barbara.
Quello di Letts è una affilata, amara ma inevitabilmente divertente critica al patriarcato fatta attraverso una feroce satira oltre che della famiglia, anche del matriarcato, che ne fa le veci e ne è specchio, perché anche esso potere. È evidente, oltre che in Violet, in sua sorella Mattie Fae, irruenta e malmostosa e che sembra vivere per vessare e soffocare marito e figlio. Le due sorelle incarnano una generazione che va verso la vecchiaia e che ha sofferto per tirare su una famiglia in un posto orrendo, ma che pretende asservimento, non amore.
Da qui il rancore per chi hanno generato, aggrovigliato da segreti e ipocrisie, da violenze subite o agite. Le  tre giovani sorelle Weston (a differenza delle cechoviane) più che disilluse, sono certo vittime di questa oppressione, ma anche complici della ferocia sotterranea familiare (che esploderà nel pranzo dopo il funerale).

Per questo, se il testo (scritto nel 2007, che vinse il Pulitzer, poi trasformato in film nel 2013) ha certamente a modello il dramma borghese novecentesco da Cechov o ibsen a Tennessee Williams o Shepard e (specie nella vivacità e gestualità tutta mediterranea data da Dini e dal suo cast, l’accentuazione grottesca e comica da ta da Dini) anche ai drammi di Eduardo. Tutti molto bravi gli attori e lasciando scatenare gli attori (tutti molto bravi, con una menzione speciale per De Sio, Mandracchia e Notari, davvero notevoli e trascinanti, in un testo che certo sembra scritto proprio per esaltare la bravura degli attori).

Alla fine del sangue resta solo polvere. O cenere, e non di pentimento. Il mescolamento del comico al tragico del drama soffocante, lo sposta sulla riva mediterranea del dramma, ma la presenza di Joanna, silenziosa, erede di quelle tribù native a cui la terra è stata strappata con violenza carica il dramma in un interno di un sostrato antropologico e storico. Se a famiglia è una terra desolata e violenta, lo è la storia tutta, che forza gli uomini in quello “scandalo” di sopraffazioni in cui la casa e la famiglia non sono un rifugio, ma un labirinto in cui sta il fantasma dell’amore, come un minotauro ambivalente. Le mura della casa nella scenografia di Gregorio Zurla sono mobili, ma via via si fanno imbuto dove finisce tutto il groviglio psicologico la cui radice è un’ombra ontologica: ogni legame è un dispositivo di potere. Una visone radicale, non so quanto con spiraglio di indulgenza, come Dini afferma nelle note di regia. Per Tess non si salverebbero forse neppure le nuove famiglie, “Arcobaleno” o “Queer” che siano.  Ogni famiglia infelice, sembra dirci, è infelice perché famiglia.

Rambert, il teatro è un amore che viene provato

 

La Clôture de l'amour non si chiude mai. Non si recinta mai l’amore che è un infinito intrattenimento verbale e se ne sta come su un palco, dentro la recita verissima di un discorso amoroso che è la sola cosa dell’amore che abbiamo.

foto @Masiar Pasquali

Pascal Rambert,
regista francese di lunga carriera e molti premi, ripropone una variazione dei suoi temi e dei suoi stilemi di scrittura e regia anche in “Prima” il nuovo lavoro che ha debuttato in prima assoluta al Piccolo Teatro di Milano in scena fino al 28 maggio. La scrittura del drammaturgo francese è  arabesco di parole a fronte di scene spesso scarne, con attori statici in una distanza di monologhi contrapposti. di attori  stati, nella distanza come in un quadro o un fotogramma sospeso. C’è un fondo di Eros che agisce incontrollato, ma come negazione dell’ “amore”, sua impossibilità continua,  nei lavori di Pascal Rambert, come era per l’appunto nello spettacolo del 2011, (Chiusura/fine dell’amore) suo grande successo internazionale, pluripremiato, prodotto in Italia da Ert Emilia Romagna sotto la direzione di Claudio Longhi  con Anna Della Rosa e Luca Lazzareschi.
 Ora Longhi, spostatosi a dirigere il Piccolo Teatro di di Milano, ha chiamato a sé Rambert come artista associato e il teatro milanese produce (  con Structure production e Compagnia Lombardi-Tiezzi) “Prima”, capitolo di apertura di una trilogia pensata per tre stagioni, per raccontare quello che accade in scena e nella vita “Prima”, “Durante” e “Dopo” (sono anche i tre titoli)  la messa in scena di uno spettacolo.

“Quando inizio a scrivere un nuovo testo –
spiega Rambert nelle note – ancora prima della stesura ha
luogo la scelta degli interpreti” e la scelta è stata orientata da stima o familiarità: Anna Della Rosa, che ha già interpretato sue piéce, Anna Bonaiuto, , Marco Foschi, Leda Kreider, Sandro Lombardi. Ogni attore in scena (ma va detto subito, tutto in Rambert poroso nella dialettica scena-vita) è un personaggio col proprio nome proprio: Sandro, regista e interprete di uno spettacolo su “La battaglia di San Romano” di Paolo Uccello che dirige Marco, Anna, Anna, Leda. I quali intrecciano -  come già in altri lavori – vita e palco e ancora una volta (Répétition è del resto titolo/parola chiave per Rambert) si dà vita allo schema dei monologhi in successione (Qui dichiarazione o respingimenti dell’amore) che accentuano – proprio come la tecnica compositiva di Paolo Uccello per il trittico della battaglia – la forma evolutiva di questo nuovo dramma che fa anche molto ridere, non verso un punto di fuga (prospettiva unica) ma a sta sospeso in più punti di fuga (perspectiva naturalis). Nel segno dell’amore come significato impossibile, le fughe (come musicali)  si basano allora sull’esecuzione di una variazione il cui modulo centrale è il sintagma “io-ti-amo” o “io-non-amo”.  

I cinque sono spinti dal desiderio, ma l’altro sempre si sottrae: “Prima” è una sequenza di dissimetrie erotiche. L’amore impossibile di Anna, attrice matura ( che inzia a sentire la paura della morte, dell’uscita di scena del vivere) per il giovane aitante Marco, a sua volta diviso tra la compagna, Anna e una passione per Leda, che a sua volta rifiuta l’amore di Marco, il quale rifiuta quello di Sandro, convinto che tra lui e Marco ci sia amore. L’amore è una storia di fantasmi (come il teatro). Tutto questo accade mentre provano la pièce su Paolo Uccello. Ma accade anche perché provano. L’amore si prova. Infatti, è una recita. Rambert però non è un concettoso del meta-teatrale, è più un capriccioso deus ex machina di una fluidità, portando attori e attrici (personaggi(personagge)  a smarrire il confine tra privato e pubblico. In piccoli frammenti in cui gli attori si decidono a provare realmente La Battaglia ( con stilizzate macchine di lance e armature, che ogni tanto compaiono, portate via poi da due paggetti) la loro recitazione è meccanica (fanno memoria). Però ciò che fa esplodere il desiderio e soprattutto gelosie, sono però gli “atti” in scena i corpi, le singole battute (il modo con cui Marco dice “cavallo lanciato” che eccita Anna). che sono tuttavia la seduzione infinita del teatro, ma anche la sua impalpabilità e l’impossibilità di poterne fare una Clôture, un accerchiamento su un palco.


C’è sempre un retro, un altrove, una porta che si apre e che da su ciò che palco non è, ma dai camerini,  attraverso l’interfono che resta acceso – strumento per gli attori per capire quando entrare in scena – che invece vengono ascoltati e rubati i discorsi amorosi, le dichiarazioni i tentativi di conquista o i respingimenti. L’amore non esiste, esiste soltanto la sua continua battaglia. Passano gli anni e ora Rambert intreccia all’Eros anche la prospettiva della morte (“Chi si ricorda gli attori morti” dice Anna, “Dov’è il mio futuro” dice Sandro a cui sono affidati due assoli, l’ultimo dei quali si chiude sulla rievocazione primaria, l’amore per la madre il cui fantasma Sandro evoca guardando un posto in galleria (con un ribaltamento delle luci tra penombra del palco e tagli di luce sulla poltrona). Proprio questo monologhi è l’apice di un una recitazione e di una senso del teatro che sembra stare in equilibrio tra l’ironia, la selva lussureggiante della lingua  in un tessuto magniloquente  che però dà il suo meglio quando è in francese, fatto da suoi attori. Amore o teatro che sia, esistono solo nell’esecuzione di quel discorso, di quella recita.

 L’amore come il teatro è quando il suo discorso tiene la presenza, sebbene distanza, anche nella banalità delle parole che lo dicono, (così come per gli attori che sono “avvelenati dal testo” noi siamo colonizzati dal linguaggio). L’impressione è che a Rambert interessi sempre più il discorso filosofico che non il teatro. Anzi, si prende il rischio di ridicolizzarlo, sebbene poi “funzioni” ma sia anche una trappola.  Anche  questo “Prima” subisce gli stessi equivoci (o forse Rambert in qualche modo sadicamente li sfrutta accentuandoli) e dunque c’è ironia in certi toni eccessivi, in certa recitazione enfatica  o un po’ querula, addirittura melodrammatica? C’è sadismo amoroso nel portare questa serie di ripetizioni a due ore? Rambert che non può che ripetersi, lascia l’ambivalenza della sua porosità tra la genialità e la banalità, come una dichiarazione d’amore per Cechov.

MDS

Il teatro Romeo Castellucci e Chiara Guidi tra icona e voce

 

foto @Luca Del Pia
 I lavori di Chiara Guidi e di Romeo Castellucci si sono incontrati a   Milano, nei primi giorni di maggio. La loro storia ha una radice   comune, personale e artistica iniziata oltre quaranta anni fa con la   fondazione di una delle realtà più importanti del teatro non solo   italiano, ma europeo: la Socìetas Raffaello Sanzio ( insieme ai   rispettivi fratelli, Claudia Castellucci e Paolo Guidi). Esaurita   l’esperienza del gruppo, la storia artistica di Romeo e Chiara, dai   primi anni Dieci del Duemila ha delineato percorsi separati,   rielaborando quella eredità (e una produzione comune col nome “Societas”). Castellucci  verso un teatro di visione e pensiero, che predilige il suono del silenzio, o una personale iconologia, Guidi concentrata su una ricerca tra i due cardini della sua poetica, la voce e l’infanzia.
 Due degli ultimi loro approdi di ricerca sono i due spettacoli paralleli   a Milano: per Castellucci l’installazione performativa “Senza titolo”   a  chiusura del Festival FOG della Triennale di Milano (produzione  
Societas e Triennale Milano, di cui il regista è Grand Invité ), mentre per Chiara Guidi alla Sala Melato del Piccolo Teatro,  l’ “Edipo Re di Sofocle. Esercizio di memoria per 4 voci femminili” (prod. Societas).

 Senza Titolo” è un’ulteriore tappa tra i lavori degli ultimi anni in cui Castellucci, dall’iniziale  poetica dell’iconoclastia e del “testo che smarrisce sé stesso” della Soicetas è approdato alla creazione di una personale iconostasi (le ultime: “Domani”, che sarà alla prossima Biennale Teato 2023 e poi “L”). Il regista da sempre crea performance tra arte e teatro, portando la scena fuori di sé. “Senza titolo” visto nel Salone d’onore della Triennale, prosegue nella creazione di scene essenziali: qui uno spazio enorme e vuoto, rivestito di gesso bianco, al  centro una barra dorata tenuta da sue corde, come  un’altalena. Una figura femminile (nelle persone di diverse performer ch si alternavano) con i capelli bagnati, piegava il corpo in avanti e i lunghi capelli colpivano a frusta la barra, collegata a un dispositivo sonoro, producendo echi elettronici e sfumature di campane.

foto @Luca del Pia

Lo spettatore accede alla performance per circa venti minuti , ma essa va avanti, per ore, con il gesto ripetuto, cadenzato, illimitato. Castellucci punta così alla spoliazione concettuale per lo spettatore invitato a uno svuotamento mentale. Siamo anche solo per un breve tratto dentro un puro gesto che non rappresenta, ma superando linguaggio e immagine, ambisce ad essere icona senza eikenai, ovvero senza l’apparire. E’ da sempre lì, fuori dal tempo, ma immerso in un’ombra  (sebben tutto sia luminoso e senza chiaroscuri) di nostalgia. Flash mentali (per chi ha potuto vederle, di madri che si lavavano i capelli in un catino: un’arcaicità dispersa). Gesto muto, non semantizzatile, ma non tutto è silenzio: è il suono a evocare il precipizio in un rito senza divinità e prima ancora ad un puro movimento assoluto,  di spighe di grano piegate dal vento senza necessità, le quali, come le performer,  continueranno ad oscillare anche senza spettatori, rivolgendosi a nessuno. L’azione si ripete, impenetrabile geroglifico del corpo, al di là di ogni logica di significante/significato.
Come un emblema, sventola, ma non sembra avere più necessità d’essere visto (rispetto anche alla stessa performance “Domani” del 2021). Castellucci radicalizza fino all’estremo: i corpi sudati, la frusta dei capelli: figura sospesa nel suo essere puro passo davanti a noi, significato senza insegne, dentro una risonanza. Forse “una preghiera”  se sapessimo cosa sia ( Castellucci lo chiede nelle note ad un “tu”, come in certe poesie). Oppure una domanda ma come un muro destinato al silenzio, alla a-significanza, qualcosa che non sappiamo nemmeno di non sapere. Il gesto del giunco ripetuto è l’andatura infinita dell’immobile, in un mondo iper-semiotico, verbosità socio-globalizzata, la prosodia del silenzio di Castellucci è un colpo di frusta.

 foto @Eva Castellucci

Poco distante dalla triennale, come un chiasmo, Chiara Guidi incrociava in opposizione al silenzio, la ricerca sul versante della sonorità “tra infanzia e voce” e pur partendo da un testo, classico, in qualche modo anche la sua ricerca continua a tracciare, in continuità con la Societas (di cui ha ereditato anche il nome della compagnia) il suo percorso fuori dal linguaggio. Tra il 4 e 7 maggio, dopo aver presentato un Edipo adatto anche a spettatori bambini, Guidi ha proposto il suo quartetto per voce unica, riallestendo – dopo il debutto di qualche anno va – la nuova versione di “ Edipo Re di Sofocle. Esercizio di memoria per 4 voci femminili”. L’eroe di Sofocle si vanta di risolvere enigmi, ma precipita nella cecità di chi non ha saputo ascoltare.
Edipo è immerso da Sofocle nelle voci, fin dall’inizio, anzi dai fiati degli appestati. Egli non vede nella sua memoria di aver ucciso Laio, ma ascolta la verità da Tiresia e dal pastore di Corinto. Il mistero degli enigmi non era fuori di lui, era lui stesso. E’ qui che si collocala scelta di Guidi di non rappresentare ma lasciare alla voce, prima ancora del racconto. Se con la voce di chi racconta i bambini – scrive Chiara guidi nelle note - vedono ciò che non c’è” anche lo spettatore incontra Edipo,  perché sul palco spoglio, con due scale di lato, immerso nel nero e solo qualche iniziale luminosa (la “E” su tutte) non c’è nessuna rappresentazione. Solo le quattro voci (oltre Guidi, anche Angela Burico, Anna Laura Penna, Chiara Savoia, davvero tutte straordinarie nel tessere una tela vocale sul telaio sonoro creato anche qui da Scott Gibbons) che scolpiscono la partitura di musicalità dei lemmi, dei toni, sospiri ,fiati, in cui le pause creano senso, si riempiono di echi. La domanda di Edipo ( e ancora di più pone la domanda: qual è la mia origine. Intorno a lui come a noi, lo sciame di frasi estratte da Sofocle. E’ dentro quella nube di voci, svuotate della necessità tragica (e della sua rappresentazione) che si compie  un’esperienza edipica per lo spettatore, ritrovare un ‘origine nell’infanzia, ma non come punto mitico, bensì nella prassi corporea del racconto, nel fiato che si fa porta-voce di un testo, ma prima ancora trama sonora svincolata dalla fabula.
Figure sonore, di sonorizzare elementi olfattivi, di alimentare le scie fantasmatiche che alonano i personaggi attraverso precisi tic della fonazione, e di riscrivere dunque la vicenda in una sequenza vocale ritmico-simbolica. Portando la parola dell’affabulazione al punto di pre-testo per creare una condizione in cui è nel gemito di Edipo, nella ridda di fantasmi sonori che affronta la sua origine non originaria. E’ re di Sofocle, è pupo di voce, emerge dall’invisibile della scena contenitore di afflati, che sottraggono mito, lo rendono presente nel suo non essere visibile, nessun personaggio e acting, ma una condensa di radice emotiva di ognuno di noi ad essere ciechi. Non sapere la ferita da cui siamo nati, questo conta più dell’uccisione di Laio, della colpa incestuosa, della cecità tragica, ma non è nel terreno del sapere, del linguaggio della rivelazione del verbale-copione, della narrazione poliziesca, la partitura cesellata, mangiata soffiata sibilata come orlata, tutto crea il punto di risonanza, la caduta dell’onda dei significati per approdare cieco e anche muto di significati al reale di cui possiede solo l’urto fonico. Certo si seguono tracce, si disegno linee della drammaturgia di Sofocle, fino a creare una strana figura il rimbombo di una colpa più che il giudizio. Ciò che c’è sa sapere non è visto, ma neppure è detto. La parola compone lo strato materiale di una domanda che da sempre sta prima della parola e ne costituisce nel suono, nel vagito una sua falsa origine.
La domanda di Edipo (qual è la mia origine?) non punta dunque a risolvere l’intreccio, ma ci depone coi nostri miti bambini nella prassi corporea del racconto vocale, nel fiato vocale che si fa porta-voce di un testo. Si crea una condensa di radice emotiva per noi spettatori ciechi, a ritrovare con Edipo non un sapere (io chi sono), ma una strana figura, o un rimbombo di colpa incolpevole, una ferita senza giudizio.

domenica 7 maggio 2023

Usare come lente un fondo di bottiglia: Anne Carson e "Vetro, Ironia e Dio" (Crocetti)

 

Mi fa uno strano effetto leggere oggi, meritoriamente pubblicato da Poesia Crocetti Editore nel 2023, questo “Vetro, Ironia e Dio” apparso negli Stati Uniti nel 1995.

C’è una qualche ragione per cui i libri di Anne Carson vengono pubblicati oggi in Italia ? (a parte due o tre titoli nei primi anni duemila, per Bompiani e Donzelli) e grazie soprattutto a Utopia Editore -  magari ci torno alla fine.

 Anne Carson avvia questo libro partendo da uno dei dolori che più sono comuni, la fine di una relazione, vissuta nella forma che si riconnette alla matrice prioritaria di ogni psiche: l’abbandono, lo strappo, la manque che ci getta nel mondo. E che innesca un teatro della ripetizione di quella ferita nel tentativo di abolirla. Così  la poesia di Carson nella scelta delle immagini e degli accostamenti, nel montaggio offre un’arma potente al disarmo, le parole che possono smontarlo. Lo scrive ad esempio così: 

Tutto quello che so dell’amore e delle sue necessità
l’ho imparato nel momento
in cui mi sono ritrovata 

a offrire il mio piccolo fondoschiena rosso come un babbuino
a un uomo che aveva smesso di amarmi. 

Questo versi si infilano come uno stiletto nella carne. Sono contenuti nel lungo poema – essay che apre Glass, Irony and God,  intitolato “Il saggio di vetro” (il libro è poi  diviso in quattro parti: “La verità su Dio”, “La caduta di Roma: una guida di viaggio”, “Il Libro di Isaia”, “Il genere del suono” -  Questo “Saggio sul vetro , insieme alla “Caduta di Roma” sono i miei preferiti).  

The Glass Essay intreccia il dolore dell’Io per la fine di una storia d’amore con la perdita imminente del rapporto con la madre – e ancor più col padre perso in una malattia degenerativa -  e su tutto, il modo in cui racconta di sé, in “Cime tempestose”  Emily Brontë  – ma anche le note su lei della sorella Charlotte.  

Forse come certi bambini Anne Carson passa il mondo attraverso un fondo di bottiglia , anzi guarda il mondo da quel fondo, la parte meno trasparente, più deformante,  del nostro vivere nella bolla  “come se fossimo tutti immersi in una atmosfera di vetro”. Poema del  1995, ma ci parla anche degli schermi illuminato con cui tocchiamo il mondo, oggi.

LA lotta con il fantasma e silenzi della madre, la pietà ironica verso la beatitudine di oblio in cui vive il padre. Anne Carson descrive, analizza, raccoglie quello stato esploso della psiche di terremoto delle distanze, riempite col grande vuoto delle brughiere e con le citazioni, gli esempi della letteratura. Domina un sentimento di pietà e rabbia insieme, di tenerezza verso l’amore, nonostante tutto e ironia, appunto, ma quella più infantile e irriverente che quella seduttiva.  

La cosa più importante per questo libro è però la tecnica di composizione, anzi la sua filosofia della composizione, per dirla con Poe. Si mescola arguzia e lirismo, schegge narrative dentro improvvise virate saggistiche, tanto che per le i fu coniata la formula di Lyric Essay. Il montaggio è tuttavia reso fluido dalla tessitura dei rimandi concettuali, in un blank verse irregolare senza rime, ma con una certa dose di omofonie.   Quello che conta sono anche le cose da dire, anzi il rischio a volte nei libri di Carson è che ci sia come un sovraccarico di nozioni irrelate, che può far pensare a un esibizionismo, un po’ estetizzante (vita come arte). Ma non è così a partire dal fatto che c’è il contrario dell’Estetismo, è piuttosto il Disadorno a prevalere. Condito di ironia del ridicolo.

Diciamo che le schegge saggistiche sono un modo per rendere meglio la complessità dell’esistente – e questa mi apre la novità più importante che dagli anni ’90 Carson anticipa e porta anche noi a maturare un’idea chiave: che il verso, le poesie non bastino più e che per fare poesia si deve “eccedere” dalla forma poetica.  Accade anche nel romanzo, nel postmoderno e oltre (Carson è contemporanea all’esplosione anni 90 del postmodernismo iniziato da alcuni geni come Pynchon vent’anni prima almeno).

Dunque, la poesia non basta. Lasciamo “le poesie” ai cantori pop.

 

DUE COSE SUL PERCHE' PROPRIO OGGI ANNE CARSON, VENTI, TRENT'ANNI DOPO

 La poesia oggi non può che passare per una decostruzione e forse anche ricostruzione che usa moltissimo la prosa. Anne Carson lo fa offrendo un esempio inimitabile di Bizzarria, profondità, squarci biografici e dotti, l’on the road con la biblioteca. “Andare a trovare  mia madre è come iniziare un pezzo di Beckett”.

Carson fa un mélange senza attriti di Confessionale e Sperimentale, dice il curatore Patrizio Ceccagnoli e mi pare un’ottima definizione, oltretutto valida anche per autrici come Antonella Anedda  o Gilda Policastro.

C’è una differenza tra la storia dell’avanguardia e della sperimentazione del 900: in quel secolo dominava una riformulazione del Soggetto che andò verso un’abolizione delle vecchie forme e concezioni della soggettività, né ideale né romantica, né costruttivista, ideologica. L’esistenzialismo disidratò al grado zero ogni risposta al mondo, col rischio di sfiorare il nichilismo.

Al contrario, viviamo anni di evoluzione del ripiegamento sul Sé seguito all’esplosione collettivista della cultura – in realtà il resto della massa, quella che non andava a fare il 68 né i festival, né le biennali, era fatta dall’uomo medio privato e il benessere degli anni ’80 porto il sistema totalitario della libertà a carezzare i milioni di individui come fossero Jeune Fille da preparare per il ballo. Decenni di commercializzazione dell’identità come gadget e come vestito hanno contribuito a creare un desiderio di “canto libero” del sé, anzi meglio – con l’avvento dei social – del singolo. Da qui la profusione di auto finzione i racconti del dolore di sé, delle malattie, degli strazi o delle lotte per affermarsi e non essere lasciati nell’angolo. La cultura dell’Inclusione, delle molteplici identità sessuali, post coloniali, marginali,  porta con sé una super-fetazione del confessionale. (E’ Foucault il grande mallevadore, i mandante occulto e inconsapevole dei generi neo-confessional dell’arte). 

Anne Carson ci offre uno straordinario modello Sperimentale per uscirne senza essere banali dal parlare di sé, anzi con la preziosità di una riflessione mobile, cubista del soggetto con sé stesso, ma non ripiegato perché la chiamata in soccorso dei grandi autori, classici o moderni, serve a Carson e a noi per rimodellare l’io-minimo di nuovo su un’idea generale di umanità, possibilmente superando il rischio del passo che potrebbe essere successivo al  Confessional:   il Narcisismo.

E la preferisco alla poesia di Lousie Gluck, troppo professorale. Carson non lo è mai, né professorale, né narcisa. 
  Possiamo chiudere con il giudizio che ne diede  Charles Simic, anche lui poeta del montaggio, dell’assemblaggio: “Anne Carson è una poetessa non convenzionale, spesso difficile… Ciò che per la maggior parte degli altri scrittori sarebbe una tensione irrisolvibile tra diversi generi letterari è diventata per lei un’occasione per esprimersi in modo del tutto originale. Questo fatto rende la lettura dei suoi libri un’esperienza sia entusiasmante che sconcertante”.

Godiamoci questa primavera del nostro sconcerto.

 Postilla personale

Ho letto Carson nel 2010 quando uscì il suo “Antropologia dell’acqua” (Donzelli)  un libro che mi suggerì l’idea di una fluidità, e che che mi portò poi a mettere l’acqua nel titolo del libro di poesie che sarebbe uscito con Crocetti nel 2012 ( che invece per me era nato in anni di viaggi via terra, tra Europa e Medio Oriente, in mezzo alla polvere ma pure attraversando il Mediterraneo,  e così misi insieme la polvere e l’acqua .

A condensare tutto fu poi un’artista colombiana che vidi alla Biennale Arte l’anno prima che presentava la sua opera come una serie di piccoli quadri in cui raccoglieva la polvere e tutti i piccoli residui di una serata passata con amici, catalogandole come un ricordo della esperienza maggiore, attraverso l’infimo del residuo.

Ultima suggestione: mentre giravo per Venezia, vidi qualcuno, affacciato sulla porta di una casa su un canale minore, buttare quel che avevano spazzato in casa nell’acqua. Lo stesso gesto dell’artista colombiana, ma con esito diverso, dispersivo. Quei residui rimanevano sull’acqua, per un po’.

venerdì 5 maggio 2023

il "Triptych" delle meraviglie: la danza scomposta di Peeping Tom alla Triennale Teatro per FOG

 

Sono a Milano alla Triennale oggi e domani per il festival FOG e il 9 a Cremona al Ponchielli, ma  se vi capita in futuro non perdetevi uno spettacolo del gruppo  Peeping Tom . Sono già venuti e toneranno.

Lo spettacolo in scena a Milano è Diptych (a volte gira anche nella versine Trittico/ Triptych).

Peeping Tom è una compagnia belga di teatro-danza fondata da Gabriela Carrizo e Franck Chartier Io ho visto  alla Bienna Teatro lo scorso anno proprio  “Triptych”, rielaborazione di tre distinti e brevi lavori ( The Missing Door, The Lost Room, The Hidden Floor ), creati tra il 2013 e il 2017.

LA cosa spettacola di Peeping Tom è una composizione tra pittura surrealista e fumetto, che prende corpo e forma e deforma, anzi “ri-forma” come fossero materia fluida,  così tanto i movimenti e icorpida dare un “effetto lisergico” alla storia. Idealmente la situazione dell’azione scenica è su di una nave traballante come la danza e l’equilibri che sembra sempre perdersi e far crollare gli otto strepitosi ballerini




Gli ambienti invece cambiano (e avviene  a scena aperta anch esso spettacolo) e sono pieni di oggetti: lampade, tavoli, letti, sedie e poltrone. Il loro mutare, anche questa una “performance” ma dei tecnici, è a vista. E’ lo spettatore che deve ricomporre questa storia “cubista” tanto quanto i corpi sembrano sperimentare le deformazioni di Francis Bacon. Così questo irruento surrealismo si trasforma in un folle iper realismo. Non c’è “espressione”, significato traslato di un linguaggio dei corpi, tanto è anomalo. Il significante dei corpi e degli spazi e delle combinazioni di gesti e oggetti è tutto insieme esso stesso il significato e Diptych/Triptych lascia una scia enigmatica e seducente, di domande, compresa una sul futuro di un pianeta “Titanic”  ma -complice l’ambivalenza dell’arte – non c’è messaggio, anzi forse se c’è è la bellezza di fantasticare mentre la nave affonda (o va?)

foto @Maarten Vanden Abeele

giovedì 4 maggio 2023

"Lazarus" da David Bowie a Manuel Agnelli: l'opera-rock e una possibile nuova via del teatro

 Ho visto “Lazarus” di David Bowie nella versione diretta da Walter Malosti (che lo ha fortemente voluto  nel cartellone come direttore artistico di ERT e anche tradotto) con Manuel Agnelli e Casadilego come protagonisti principali, visto all’Arena del Sole di Bologna (foto nel post di Fabio Lovino).

 A me è piaciuto, anche partendo da qualche suo limite (inevitabile) è un connubio teatro-rock che può dare i suoi frutti, perché porta un’opera che mescola i generi (rock, recitazione, danza, videoarte) in una dimensione puramente teatrale, che  non è un “musical” come lo intendono gli italiani (tendenzialmente  melodico-romanticheggiante) . 

Ultimo disco “concept” di David Bowie e poi ultimo suo lavoro fatto insieme al drammaturgo Edna Walsh, terminato poco prima di morire nel 2016.  Il cantante aveva ripreso il personaggio che aveva interpretato nel ’76 nel film di Nicolas Roegg e tratto dal romanzo “L’uomo che cadde sulla terra”  di Walter Tevis. “Lazarus” sarà ancora in scena  per alcune settimane, fino al 14 maggio al Teatro di Napoli, dal 18 maggio al LAc di Lugano, dal 23 a Milano al Piccolo, dal 6 Giugno al Carignano di Torino) 

Uno Spettacolo con due cantanti famosi, attori, danzatori, sette musicisti, un apparato tecnologico importante, questo spiga una produzione di più soggetti  ERT - Emilia Romagna Teatro Fondazione   Teatro Stabile Torino   Teatro di Napoli  LAC - Lugano Arte Cultura  Teatro Argentina - Teatro di Roma 

Dunque è sempre Thomas Jerome Newton, l’extraterrestre caduto, che è rimasto sulla terra, nomade ormai malinconico, chiuso in un suo castello mentale e materiale, rievoca il passato attraverso la TV, capta visioni del futuro generate dalla sua mente e adesso,  a fine vita, beve solo gin e vorrebbe tornarsene in cielo, qualsiasi cosa questo voglia dire.

Ad interpretarlo un grande Manuel Agnelli, perfetto perché (dato che la musica è la gran parte dell’opera) non imita, ma “esegue” Bowie, lo fa suo conservandone lo spirito,  e  cantandolo con lo stile di Agnelli, portando il Duca Bianco sui toni di un rock più energico e in qualche modo profondo, dark,  ma a volte rallentando, approfondendolo, come la bellissima “Heroes”, lenta e commovente. 

 Complici anche le musiche  magistralmente riarrangiate, con progetto sonoro di GUP Alcaro e un gruppo di musicisti davvero bravi (citiamoli :  Laura Agnusdei, Ramon Moro  – loro super bravi, le  tessiture di sax e tromba sono un arabesco che disegna la dimensione visionaria e accorata, con incursioni jazz,  - Jacopo Battaglia, Ramon Moro, Amedeo Perri, Giacomo ‘Rost’ Rossetti, Stefano Pilia, Paolo Spaccamonti che hanno tenuto dentro un arco richiamava anche toni alla Joy Division e  Morphine )   


Notevole anche le interpretazioni musicali di Casadilego,  che ha il ruolo di una sorta di Ariel, una creatura mentale, ma anche fantasma, una fata o qualcosa del genere che dovrà aiutare Newton nel suo sogno di dipartita dalla terra. Tra le  altre canzoni, la vincitrice di Xfactor interpreta una versione di “Life on Mars” da brividi.  Sia la giovanissima cantante e polistrumentista,   che Manuel Agnelli sono alla loro prima prova come attori nella parti recitate. Dunque partendo da questo iniziale limite, va detto che il risultato lo portano a casa.

Lazarus non può essere giudicato strettamente come la gran parte degli spettacoli teatrali  – come detto,  la recitazione non è centrale - né il pezzo forte - lo stesso testo, per quanto ci sia Walsh, forse risente di una volontà della star di scriverlo in quel modo, che è però un po’ fragile, a volte sconnesso dal punto di vista drammaturgico, nei dialoghi, ecc. 

Nemmeno può essere giudicato come un musical o un concerto, non è  un live-cover tipo “Manuel Agnelli meets Bowie” perché la sfida è farlo stare dentro una dimensione teatrale sebbene rompa molti schemi dei canoni teatrali (ma avvalendosi di tutta la ricchezza scenica di ricerca).

 Si può definire un’opera rock, o teatro totale,  ha il sapore di lavori come “Tommy” di The Who o “The Wall” dei Pink Floyd, ma qui né cinema, né megapalchi,  anzi scrivendolo Bowie con Edna Walsh pensavano proprio al teatro dove, per dirla tradizionalmente, si fa “la prosa”. Un’ opera-rock poco praticata  in Italia (il musical anglosassone, visti gli esempi che facevamo dagli anni 70 ha più familiarità con il genere, sebbene l’Italia possa vantare la prima opera-rock a teatro, al Piper di Roma nel 1970 con Tito Schipa jr.). Per noi, il musical è fondamentalmente figlio dell’operetta e della rivista in chiave pop-canzonetta.

 I fan della musica tuttavia non resteranno delusi, anzi, il lato musicale è fondamentale e il risultato davvero notevole ( Malosti ha scelto di lasciare ad Agnelli anche la possibilità di cantare col microfono, asta compresa, perché questo gli restituisce sul palco identità, familiarità e la gestualità sua propria).

 Anzi, in certi momenti in cui, per esigenze di copione, Agnelli canta sdraiato, mette in mostra tutte le sue doti vocali davvero eccellenti,  cosa nota,  per chi ha seguito al sua storia con gli Afterhours.

 “Lazarus” va visto dunque come un esperimento tra due mondi artistici, musica rock e dramma, con  la danza, le arti visive. Il mélange onirico pensato da Bowie prende corpo  nelle invenzioni fantasiose e hi-tech  tra metaverso-e sci-fi ( buone le scene di   Nicolas Bovey, soprattutto la piattaforma-vinile rotante che dà movimento ad una storia altrimenti statica e tutta mentale, scena che avrebbe meritato palchi più grandi, insieme alle realizzazioni molto belle di  fantasmagorie digitali di Luca Brinchi e Daniele Spanò).

Da segnalare anche l’apporto danza della bravissima performer Manuela Lucenti (meno convincente, tuttavia, quando recita, ma forse qui per la scelta di sovraccaricare anche di un tensione nervosa corporale alla Mejerchol'd i suoi dialoghi)  e che dà prova anche di grande vocalità, interpretando “Change”.

Per quanto imperfetto, il testo di Bowie offre spunti,  parla di temi importanti, che spesso Bowie ha trattato ( con  propensione all’immaginario stellare o interplanetario ) lui stesso artista totale che si è misurato con varie arti.  La scrittura di Lazarus è semplice, guarda magari forse  a certo cinema o meglio ancora alle atmosfere del fumetto d’arte (viene in mente per affinità siderali, il mitico “Eternauta”  di  Oesterheld e Solano López per dire) o un mondo  fantasy (ho sentito in radio una lettura di Lazarus fatta da Casadilego che aveva una prospettiva da ventenne che io non ho, molto interessante)

  Forse, e forse per fare un paragone, “Lazarus” nel mondo teatrale può essere una presenza “extraterrestre” analogamente  come lo fu, qualche anno fa,  la “Graphic Novel” nel mondo della narrativa (ricordiamo  l’irruzione di Zerocalcare, considerato nel mondo editoriale italiano  – tanto per stare sempre in tema -  in un primo tempo l’alieno, il fenomeno).

Per questo pur va sicuramente guardato il lato positivo:  Lazarus – oltre che il godimento di grande musica e ottime interpretazioni – per il mondo-teatro si può considerare come un apripista, per incrementare questo tipo di progetti, senza che tolgano spazio all’humus del teatro, al suo bacino di artisti, compagnia e opere teatrali. Magari ripensando alla progettualità di finanziamento-sponsorizzazione, mescolando fondi privati e pubblici, senza snaturare il compito dei teatri di variare nei cartelloni (sarebbe facile e certo attrattivo, mettere in scena ter mesi di seguito una rock star, ma cambierebbe la natura del teatro) specie per le istituzioni nazionali, senza intaccare i bilanci, già penalizzati da tagli. E forse, ultima nota, può essere un’idea anche per il mondo del rock pensare ad un modo diverso di performare, che non sia solo gli stage di palazzetti et similia, una terza vi tra l’esibizione unplugged nei teatri e la gig-show tradizionale.

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