sabato 27 maggio 2023

Il teatro Romeo Castellucci e Chiara Guidi tra icona e voce

 

foto @Luca Del Pia
 I lavori di Chiara Guidi e di Romeo Castellucci si sono incontrati a   Milano, nei primi giorni di maggio. La loro storia ha una radice   comune, personale e artistica iniziata oltre quaranta anni fa con la   fondazione di una delle realtà più importanti del teatro non solo   italiano, ma europeo: la Socìetas Raffaello Sanzio ( insieme ai   rispettivi fratelli, Claudia Castellucci e Paolo Guidi). Esaurita   l’esperienza del gruppo, la storia artistica di Romeo e Chiara, dai   primi anni Dieci del Duemila ha delineato percorsi separati,   rielaborando quella eredità (e una produzione comune col nome “Societas”). Castellucci  verso un teatro di visione e pensiero, che predilige il suono del silenzio, o una personale iconologia, Guidi concentrata su una ricerca tra i due cardini della sua poetica, la voce e l’infanzia.
 Due degli ultimi loro approdi di ricerca sono i due spettacoli paralleli   a Milano: per Castellucci l’installazione performativa “Senza titolo”   a  chiusura del Festival FOG della Triennale di Milano (produzione  
Societas e Triennale Milano, di cui il regista è Grand Invité ), mentre per Chiara Guidi alla Sala Melato del Piccolo Teatro,  l’ “Edipo Re di Sofocle. Esercizio di memoria per 4 voci femminili” (prod. Societas).

 Senza Titolo” è un’ulteriore tappa tra i lavori degli ultimi anni in cui Castellucci, dall’iniziale  poetica dell’iconoclastia e del “testo che smarrisce sé stesso” della Soicetas è approdato alla creazione di una personale iconostasi (le ultime: “Domani”, che sarà alla prossima Biennale Teato 2023 e poi “L”). Il regista da sempre crea performance tra arte e teatro, portando la scena fuori di sé. “Senza titolo” visto nel Salone d’onore della Triennale, prosegue nella creazione di scene essenziali: qui uno spazio enorme e vuoto, rivestito di gesso bianco, al  centro una barra dorata tenuta da sue corde, come  un’altalena. Una figura femminile (nelle persone di diverse performer ch si alternavano) con i capelli bagnati, piegava il corpo in avanti e i lunghi capelli colpivano a frusta la barra, collegata a un dispositivo sonoro, producendo echi elettronici e sfumature di campane.

foto @Luca del Pia

Lo spettatore accede alla performance per circa venti minuti , ma essa va avanti, per ore, con il gesto ripetuto, cadenzato, illimitato. Castellucci punta così alla spoliazione concettuale per lo spettatore invitato a uno svuotamento mentale. Siamo anche solo per un breve tratto dentro un puro gesto che non rappresenta, ma superando linguaggio e immagine, ambisce ad essere icona senza eikenai, ovvero senza l’apparire. E’ da sempre lì, fuori dal tempo, ma immerso in un’ombra  (sebben tutto sia luminoso e senza chiaroscuri) di nostalgia. Flash mentali (per chi ha potuto vederle, di madri che si lavavano i capelli in un catino: un’arcaicità dispersa). Gesto muto, non semantizzatile, ma non tutto è silenzio: è il suono a evocare il precipizio in un rito senza divinità e prima ancora ad un puro movimento assoluto,  di spighe di grano piegate dal vento senza necessità, le quali, come le performer,  continueranno ad oscillare anche senza spettatori, rivolgendosi a nessuno. L’azione si ripete, impenetrabile geroglifico del corpo, al di là di ogni logica di significante/significato.
Come un emblema, sventola, ma non sembra avere più necessità d’essere visto (rispetto anche alla stessa performance “Domani” del 2021). Castellucci radicalizza fino all’estremo: i corpi sudati, la frusta dei capelli: figura sospesa nel suo essere puro passo davanti a noi, significato senza insegne, dentro una risonanza. Forse “una preghiera”  se sapessimo cosa sia ( Castellucci lo chiede nelle note ad un “tu”, come in certe poesie). Oppure una domanda ma come un muro destinato al silenzio, alla a-significanza, qualcosa che non sappiamo nemmeno di non sapere. Il gesto del giunco ripetuto è l’andatura infinita dell’immobile, in un mondo iper-semiotico, verbosità socio-globalizzata, la prosodia del silenzio di Castellucci è un colpo di frusta.

 foto @Eva Castellucci

Poco distante dalla triennale, come un chiasmo, Chiara Guidi incrociava in opposizione al silenzio, la ricerca sul versante della sonorità “tra infanzia e voce” e pur partendo da un testo, classico, in qualche modo anche la sua ricerca continua a tracciare, in continuità con la Societas (di cui ha ereditato anche il nome della compagnia) il suo percorso fuori dal linguaggio. Tra il 4 e 7 maggio, dopo aver presentato un Edipo adatto anche a spettatori bambini, Guidi ha proposto il suo quartetto per voce unica, riallestendo – dopo il debutto di qualche anno va – la nuova versione di “ Edipo Re di Sofocle. Esercizio di memoria per 4 voci femminili”. L’eroe di Sofocle si vanta di risolvere enigmi, ma precipita nella cecità di chi non ha saputo ascoltare.
Edipo è immerso da Sofocle nelle voci, fin dall’inizio, anzi dai fiati degli appestati. Egli non vede nella sua memoria di aver ucciso Laio, ma ascolta la verità da Tiresia e dal pastore di Corinto. Il mistero degli enigmi non era fuori di lui, era lui stesso. E’ qui che si collocala scelta di Guidi di non rappresentare ma lasciare alla voce, prima ancora del racconto. Se con la voce di chi racconta i bambini – scrive Chiara guidi nelle note - vedono ciò che non c’è” anche lo spettatore incontra Edipo,  perché sul palco spoglio, con due scale di lato, immerso nel nero e solo qualche iniziale luminosa (la “E” su tutte) non c’è nessuna rappresentazione. Solo le quattro voci (oltre Guidi, anche Angela Burico, Anna Laura Penna, Chiara Savoia, davvero tutte straordinarie nel tessere una tela vocale sul telaio sonoro creato anche qui da Scott Gibbons) che scolpiscono la partitura di musicalità dei lemmi, dei toni, sospiri ,fiati, in cui le pause creano senso, si riempiono di echi. La domanda di Edipo ( e ancora di più pone la domanda: qual è la mia origine. Intorno a lui come a noi, lo sciame di frasi estratte da Sofocle. E’ dentro quella nube di voci, svuotate della necessità tragica (e della sua rappresentazione) che si compie  un’esperienza edipica per lo spettatore, ritrovare un ‘origine nell’infanzia, ma non come punto mitico, bensì nella prassi corporea del racconto, nel fiato che si fa porta-voce di un testo, ma prima ancora trama sonora svincolata dalla fabula.
Figure sonore, di sonorizzare elementi olfattivi, di alimentare le scie fantasmatiche che alonano i personaggi attraverso precisi tic della fonazione, e di riscrivere dunque la vicenda in una sequenza vocale ritmico-simbolica. Portando la parola dell’affabulazione al punto di pre-testo per creare una condizione in cui è nel gemito di Edipo, nella ridda di fantasmi sonori che affronta la sua origine non originaria. E’ re di Sofocle, è pupo di voce, emerge dall’invisibile della scena contenitore di afflati, che sottraggono mito, lo rendono presente nel suo non essere visibile, nessun personaggio e acting, ma una condensa di radice emotiva di ognuno di noi ad essere ciechi. Non sapere la ferita da cui siamo nati, questo conta più dell’uccisione di Laio, della colpa incestuosa, della cecità tragica, ma non è nel terreno del sapere, del linguaggio della rivelazione del verbale-copione, della narrazione poliziesca, la partitura cesellata, mangiata soffiata sibilata come orlata, tutto crea il punto di risonanza, la caduta dell’onda dei significati per approdare cieco e anche muto di significati al reale di cui possiede solo l’urto fonico. Certo si seguono tracce, si disegno linee della drammaturgia di Sofocle, fino a creare una strana figura il rimbombo di una colpa più che il giudizio. Ciò che c’è sa sapere non è visto, ma neppure è detto. La parola compone lo strato materiale di una domanda che da sempre sta prima della parola e ne costituisce nel suono, nel vagito una sua falsa origine.
La domanda di Edipo (qual è la mia origine?) non punta dunque a risolvere l’intreccio, ma ci depone coi nostri miti bambini nella prassi corporea del racconto vocale, nel fiato vocale che si fa porta-voce di un testo. Si crea una condensa di radice emotiva per noi spettatori ciechi, a ritrovare con Edipo non un sapere (io chi sono), ma una strana figura, o un rimbombo di colpa incolpevole, una ferita senza giudizio.

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