Mauro Covacich è uno scrittore che macina pensieri. La sua figura-autore, ponendo come archetipo il Baudelaire flaneur,
appartiene a quel genere che Walter Benjamin - parlando del poeta francese che
attraversava i passages parigini, distaccato e acuto al tempo stesso - definiva come uomo pagava la
moneta della malinconia, con quel suo continuo rimuginare.
Rimuginare è un modo del pensare : un bassocontinuo, minuzioso, reiterato, complesso, distaccato e al tempo stesso
imprigionato in ciò che osserva. ramificato o rizomatico (Benjamin lo definiva "barocco", ma è il barocco di Deluze per noi, "la piega infinita")
Covacich dunque è nella categoria dei rimuginatori. “Di chi è
questo cuore” come e più di altri libri precedenti, lo dimostra anche nella struttura. Il libro sfoglia situazioni, assomma una sequenza di
microracconti, legati da pensieri, associazioni, collegamenti, osservando il
mondo che si attraversa, mai convintamente partecipi, proprio come “l’uomo che
rimugina”. O forse, come l’amata (da Covacich) artista francese Sophie Calle, è l’uomo che segue sé stesso, come
non fosse lui.
Va detto che camminare – o correre come più spesso I
protagonisti di Covacich con riflesso specchiato del loro autore, un runner esperto – e insieme pensare, costruire associazioni, tante quante il
caso presenta di fronte nell’attraversamento cittadino, sono un tutt’uno. “Di chi
è questo cuore” ci offre un altro libro-performance, senza centro (perché al centro c'è l'io che parla ma che non vuole dire-io) e con una sequenza di personaggi , secondari come tutti, potremmo dire, nessuno protagonista, anche la voce che narra non è più un 'io benché sia evidentissima la posa auto-finzionale.
E' un unico tableau vivant di frammenti, o qualcosa di simile, quadri di una percezione, punti sul suo planetario interiore, che dobbiamo unire per leggere le stelle, un destino, una direzione. Tutto diventa poi flusso narrativo per accumulazioni di scatti, di riprese, di percorsi sotterranei, frammenti che con tecnica di jump cutting poi formano un testo di cui comprendi il percorso, o forse meglio dire, la figura. È una narrazione in soggettiva ed è densa di spunti di pensiero, riflessioni.
E' un unico tableau vivant di frammenti, o qualcosa di simile, quadri di una percezione, punti sul suo planetario interiore, che dobbiamo unire per leggere le stelle, un destino, una direzione. Tutto diventa poi flusso narrativo per accumulazioni di scatti, di riprese, di percorsi sotterranei, frammenti che con tecnica di jump cutting poi formano un testo di cui comprendi il percorso, o forse meglio dire, la figura. È una narrazione in soggettiva ed è densa di spunti di pensiero, riflessioni.
Innanzitutto: Il Narratore, come spesso, se non sempre,
capita nei suoi libri, ha caratteristiche che sono anche di “Mauro Covacich” autore. Si parte da una dettaglio qui, come già in libri precedenti, è l’età dei cinquanta anni, un tempo al
confine dell’esistenza, tra due grandi fasi dell’esistenza di un maschio
occidentale. Due fasi, sia quella fisica che psicologica, e più ampiamente si
può dire: esistenziale. Tutto dentro un tempo storico come il nostro di cui la
chiave si rivela proprio leggendo libri come quello di Covacich che – al pari
di altri nostri autori italiani contemporanei – sta usando una scrittura
saggistica per narrare di noi, usando il sé.
Cuore, stavolta è anche, alla lettera, l’organo del corpo, che fa da centro e confine, il dettaglio e il nucleo della storia. E' la vita che passa da una lunga fase di piena salute, all' improvvisa fase in cui balugina vicina la morte. All’io narrante, infatti, viene diagnosticato un malanno al cuore, pericoloso, i medici gli suggeriscono di non correre - che è come dire non pensare, non vivere.
Cuore, stavolta è anche, alla lettera, l’organo del corpo, che fa da centro e confine, il dettaglio e il nucleo della storia. E' la vita che passa da una lunga fase di piena salute, all' improvvisa fase in cui balugina vicina la morte. All’io narrante, infatti, viene diagnosticato un malanno al cuore, pericoloso, i medici gli suggeriscono di non correre - che è come dire non pensare, non vivere.
Passa un confine, Covacich/Narratore, con questa diagnosi: quello del corpo e delle sue possibilità, uno degli elementi chiave dei suoi libri, allegoria anche delle possibilità di percepire, capire la complessità intorno a noi.
Da qui, nasce poi tutta la catena di rezioni/ osservazioni,
digressioni che fanno il libro.
Accenniamone alcune: innanzitutto, di conseguenza, l’osservazione rispecchiata e sgomenta, di vedere attorno l’esercito dei “thanathlon”, come li chiama con geniale crasi la compagna Susanna, I 50-60enni impegnati nei parchi a fare attività, nelle discipline del triathlon per allontanare l’ombra di thanatos. COme, appunto chi scrive.
Poi c'è la memoria, il secolo vissuto - il mezzo secolo, che impegna in un confronto col presente di chi è ancora in vita e quel secolo rappresenta (il canto di una generazione è proprio come l'ha chiamata dapoeta Aldo Nove un "addio mio novecento"). Ecco allora la madre, che resta legata alla sua distante Trieste – ma che anche con un salto, come tutti s’è fatta vicinissima a tutti, con Facebook (le pagine a lei dedicate sono piene di affettusa ironia, nel ripensare come irriconoscibile ormai quel 900, insieme al'irriconoscibile suo stesso romanzo familiare - per dirla con Freud - e la mitologia che aveva fissato le figure dei suoi genitori, guardando la madre farsi di nuovo “ragazza” e chattare con amici e vecchie compagne di scuola, persa in un presente che dissolve, dissipa – e forse è un bene – ogni seduzione delle origini, ma al tempo stesso dissipa in una sospensione storica e psicologica anche il figlio di lei, il Narratore).
Accenniamone alcune: innanzitutto, di conseguenza, l’osservazione rispecchiata e sgomenta, di vedere attorno l’esercito dei “thanathlon”, come li chiama con geniale crasi la compagna Susanna, I 50-60enni impegnati nei parchi a fare attività, nelle discipline del triathlon per allontanare l’ombra di thanatos. COme, appunto chi scrive.
Poi c'è la memoria, il secolo vissuto - il mezzo secolo, che impegna in un confronto col presente di chi è ancora in vita e quel secolo rappresenta (il canto di una generazione è proprio come l'ha chiamata dapoeta Aldo Nove un "addio mio novecento"). Ecco allora la madre, che resta legata alla sua distante Trieste – ma che anche con un salto, come tutti s’è fatta vicinissima a tutti, con Facebook (le pagine a lei dedicate sono piene di affettusa ironia, nel ripensare come irriconoscibile ormai quel 900, insieme al'irriconoscibile suo stesso romanzo familiare - per dirla con Freud - e la mitologia che aveva fissato le figure dei suoi genitori, guardando la madre farsi di nuovo “ragazza” e chattare con amici e vecchie compagne di scuola, persa in un presente che dissolve, dissipa – e forse è un bene – ogni seduzione delle origini, ma al tempo stesso dissipa in una sospensione storica e psicologica anche il figlio di lei, il Narratore).
Ma non è solo guardare
all’indietro.
Ecco che un incarico che un quotidiano dà a Covacich ( scrivere un pezzo sulla morte, forse per suicidio, forse per sfida , forse per negligenza, di un adolescente in gita ) lo riporta segretamente a misurarsi con un fantasma di futuro che per lui non c’è stato. Quello dei figli ( e qui il Narratore proietta anche una ombra di mancata generazione, con quel ragazzo forse caduto per cercare di superare un limite, una sfida, come incosciamente protestando verso un futuro che non è più, per lui come per tutti, futuro che era nel 900 promessa, ora col XXI secolo, si fa solo paura).
Ecco che un incarico che un quotidiano dà a Covacich ( scrivere un pezzo sulla morte, forse per suicidio, forse per sfida , forse per negligenza, di un adolescente in gita ) lo riporta segretamente a misurarsi con un fantasma di futuro che per lui non c’è stato. Quello dei figli ( e qui il Narratore proietta anche una ombra di mancata generazione, con quel ragazzo forse caduto per cercare di superare un limite, una sfida, come incosciamente protestando verso un futuro che non è più, per lui come per tutti, futuro che era nel 900 promessa, ora col XXI secolo, si fa solo paura).
Anche I luoghi contano, e stavolta - rispetto al precedente libro dedicato alal sua città di confine Trieste - qui è ancora Roma.
E' la città che conosciamo tutti, anche dalal cronaca. La vita del Narratore, della sua compagna, dei suoi amici, molti legati agli ambienti culturali della capitale, come anche delle persone, tra cui zingari e clochard che abitano una Roma raccontata con estremo e preciso realismo, che fanno di Covacich, con Pincio, Albinati, e Pecoraro tra I miei negli scrittori (ci metterei anche Walter Siti, un maestro per tutti) che sanno usare la Capitale non solo come sfondo ma come vero e proprio personaggio.
(e Covacich fa interessanti notazioni metaletterarie e sociologiche assieme: sono sempre presenti persone ai semafori, ma sono invecchiati anche I lavavetri, la loro memoria letteraria dice “polacchi” - Albinati del 1989 – mentre adesso ci sono truppe organizzate di rom, in una Roma statica e mutevole al tempo stesso).
E' la città che conosciamo tutti, anche dalal cronaca. La vita del Narratore, della sua compagna, dei suoi amici, molti legati agli ambienti culturali della capitale, come anche delle persone, tra cui zingari e clochard che abitano una Roma raccontata con estremo e preciso realismo, che fanno di Covacich, con Pincio, Albinati, e Pecoraro tra I miei negli scrittori (ci metterei anche Walter Siti, un maestro per tutti) che sanno usare la Capitale non solo come sfondo ma come vero e proprio personaggio.
(e Covacich fa interessanti notazioni metaletterarie e sociologiche assieme: sono sempre presenti persone ai semafori, ma sono invecchiati anche I lavavetri, la loro memoria letteraria dice “polacchi” - Albinati del 1989 – mentre adesso ci sono truppe organizzate di rom, in una Roma statica e mutevole al tempo stesso).
Cuore è la parola del titolo, usurata come la città, come usurato è l’organo del Narratore. E tuttavia
continua ad indicare pezzi di vita che non lasciano indifferenti.
Cuore è anche l’elemento chiave una relazione amorosa, che Covacich continua a raccontare, da “Prima di sparire”, sempre esplicitando le ambiguità di una coppia alle prese con il post-amore. La comparsa in casa, nel romanzo (che vira anche verso il fantastico gogoliano) di una figura misteriosa e notturna, un uomo grasso, volgare nei modi, ma acuto e disvelatore di ipocrisie, forse un parto delle sue deviazioni oniriche, delle sue ansie, forse presenza di un demone, di un fantasma erotico, benché vissuto come reale, lo costringe a un’ulteriore operazione di verità nel confronto spudorato con questo doppio.
oltre al passaggio del confine biologico, coi dissesti di un corpo non più giovanile, questo è un libroche amo anche percé generazionale ( così lo vivo, non posso che mettermi in gioco anche scrivendone, per coerenza) .
Dal libro, vorrei fare un ponte e parlare anche di noi.
Generazione di chi, nato negli anni 60, ha avuto la fortuna di godere maggior benessere e salute, libertà, e al tempo stesso di provare per la prima volta uno sgomento inedito, per molte incognite future, provarlo ora, che il futuro è andato, provarlo a cinquanta anni, al termine del “forever young” in cui eravamo immersi dagli anni 80.
Cuore è anche l’elemento chiave una relazione amorosa, che Covacich continua a raccontare, da “Prima di sparire”, sempre esplicitando le ambiguità di una coppia alle prese con il post-amore. La comparsa in casa, nel romanzo (che vira anche verso il fantastico gogoliano) di una figura misteriosa e notturna, un uomo grasso, volgare nei modi, ma acuto e disvelatore di ipocrisie, forse un parto delle sue deviazioni oniriche, delle sue ansie, forse presenza di un demone, di un fantasma erotico, benché vissuto come reale, lo costringe a un’ulteriore operazione di verità nel confronto spudorato con questo doppio.
oltre al passaggio del confine biologico, coi dissesti di un corpo non più giovanile, questo è un libroche amo anche percé generazionale ( così lo vivo, non posso che mettermi in gioco anche scrivendone, per coerenza) .
Dal libro, vorrei fare un ponte e parlare anche di noi.
Generazione di chi, nato negli anni 60, ha avuto la fortuna di godere maggior benessere e salute, libertà, e al tempo stesso di provare per la prima volta uno sgomento inedito, per molte incognite future, provarlo ora, che il futuro è andato, provarlo a cinquanta anni, al termine del “forever young” in cui eravamo immersi dagli anni 80.
La vita di questi ex giovani è fatta di “un vuoto nauseante”
scrive a un certo punto Covacich. Può capitare che forse si colmino di illusioni,
serotonina o dopamina, a guardare il futuro, e con amore, se - come all’amico
Sergio – accade l’avventura di fare un figlio, proprio su quella soglia di
confine dei cinquanta.
È un “vuoto” nauseante, che tuttavia nel libro Covacich nutre di un ‘empatia
malinconica e astratta verso una ragazza “giovane”, sentendone l’angoscia: ma non è reale, come pure qua e là compaiono presenze femminili in una rigida impossibilità di seduzione. La "ragazza" è Anne Frank. Rivela così il Narratore, è la giovane, come la cameriera o la studentessa, che dalle pagine del suo diario, rivela il suo entusiasmo per
la vita, vissuto senza paura del futuro. Non come noi oggi, malati dal fatto
che abbiamo avuto un grande futuro, ora dietro le spalle, che ha pure coinciso
con la “fine della storia”. Più del “no future” dei Punk del 77, questo è un
futuro mancato, a cui non torneremo.
Anne di cui il Narratore sente leggere
il diario alla radio, nella trasmissione curata da Susanna, Anne la figlia
mancata. Quella storia si proietta sul futuro che dopo lei e senza lei c’è
stato, quello che Anne non ha vissuto. È ora il nostro presente. Ma è ’ un
presente che dura da trent’anni.
Uno sgomento, che
proviamo, per questo, e che dura dal post 89, che s’è rinnovato nel 2001, che è
arrivato con la crisi economica di metà anni zero, che si profila all’orizzonte
con cambiamenti climatici e migrazioni. È anche l’incognita interiore e
privata, biologica e psicologica, che fa sì che questa generazione arrivi ai
cinquanta non solo in questo preciso momento storico di incertezza, ma anche al
punto massimo di incertezza della sua vita personale.
L'io di Covacich si dispiega in mille rivoli di pensiero,
tra amici, amore, occasioni di festival, interviste, incontri occasionali,
memorie familiari, ma anche la spesa al supermercato, visite mediche, rapporti
con I condomini. Quel che è sottotraccia, è che si trovi al punto massimo di
distanza, tra un 900 in disparizione e un XXI secolo di cui interessa
soprattutto allontanare l’unico futuro certo: l’invecchiamento, poi la morte.
In mezzo però c’è la no-mans-land del presente, qui c’è
l’umanità metropolitana, maschile e femminile, né giovane né vecchia, ma
destinata ad invecchiare, in modo inedito, per questi ex baby-boomer I più,
“senza figli,” (Covacich lo aveva già sintetizzato molto bene in due racconti,
anche essi di presa diretta della vita, contenuti in La Sposa e in altri libri
ancora precedenti.). Vita centratissima, per noi baby boomers che è slittata “dall’egocentrismo infantile
all’egoismo adulto” scrive Covacich.
Dall’altro una vita di dissipazione di sé, di slittamento continuo,
sempre in attesa di un altrove: ci curiamo I denti, mettiamo l’apparecchio a
quaranta anni suonati per cosa? Per un incontro d’amore futuro? Per non
perderci un’eventuale possibilità, che guarda caso è sempre e solo erotica?
Magari solo di una sera? Una biopolitica del rimorchio resta ancora da
scrivere.
MA abbiamo idea di dove siamo? E di dove saremo? Una
generazione di uomini che ha troppe nostalgie di ciò che non ha mai avuto e
nostalgie di ciò che non potrà avere benché, non sappia nemmeno cosa potrebbe
essere. Per ora la certezza è che si tratti soprattutto della prima, la
nostalgia che prova Francesco l’amico del Narratore, che va al funerale di uno
zio e osserva il pianto della zia, la donna con cui ha condiviso per cinquanta anni la
sua vita. Anche se finalmente oggi la incontriamo, come forse il Narratore con
Susanna, certo non si vivrà cento anni (ma ce lo auguriamo tutti).
“La vita non è mai
qui, non è mai ora” racconta osservando tutte le persone “sole solette” in
palestra fare attività chini sugli schermi. “lontana nello spazio e nel tempo
dal punto in cui si trova a respirare, è una vita vissuta sempre altrove, una
pratica la cui espletazione avverrà laggiù, alla fine dell’allenamento, o del viaggio
o della giornata, oppure, il che è lo stesso, sta già avvenendo in ogni
momento, costantemente, nell’universo parallelo della rete. Questa generazione che è straniera e residente, accasata e senzatetto.
È in questa
dislocazione, di noi, qui, fortunati in occidente ma anche noi moralmente “displaced people” proprio come I rifugiati, ma spostati,
dislocati, traslocati, per troppo benessere e al tempo stesso (pensando ai
tanti expat che vivono all’estero) per troppa incertezza. E in fuga non da una
guerra, ma da una soffocante vita in tempo di pace, come l’ha chiamata
Pecoraro in un suo romanzo. Sempre a rischio di perderci di perdere il lavoro,
di non avere più una famiglia, un partner, di finire “border line” – border,
confine, sconfinare nell’invisibile.
Non è un caso che uno dei personaggi chiave del libro sia "Arcimboldo": così il narratore chiama un clochard dedito a chiedere elemosina
davanti al supermercato dove fa la spesa, con il suo tetrapak di vino.
Arcimboldo è un altro sembiante del sé, NArratore.
Entrambi rimandano, fanno slittare, dislocare, la ragione vera della loro vita, chi cercando di allargare il senso dentro il pharmakon della parola letteraria, chi invece cerca di chiudere ogni canale con la coscienza, riempiendoli di vino. Sono due rimuginatori e - scrive Covacich spiegando il desiderio di stordimento di chi non ha identità e luogo – trovarsi a “ rimuginare tutti I minuti di un’ora per tutte le ore del giorno per tutti I giorni della settimana. Può essere peggio che ammalarsi con le proprie mani, un sorso dopo l’altro”.
Entrambi rimandano, fanno slittare, dislocare, la ragione vera della loro vita, chi cercando di allargare il senso dentro il pharmakon della parola letteraria, chi invece cerca di chiudere ogni canale con la coscienza, riempiendoli di vino. Sono due rimuginatori e - scrive Covacich spiegando il desiderio di stordimento di chi non ha identità e luogo – trovarsi a “ rimuginare tutti I minuti di un’ora per tutte le ore del giorno per tutti I giorni della settimana. Può essere peggio che ammalarsi con le proprie mani, un sorso dopo l’altro”.
E sono questi uomini albero alla fine la figura che compare
da tutti I puntini. Uomini che stanno per una loro fedeltà, non vegetativa,
attaccati alla vita, per il semplice fatto di viverla. Come le erbette o I
topinambur di Zanzotto. Come gli alberi di Richard Powers. Noi li tagliamo,
perché li pensiamo muti. Oggi sappiamo dalla scienza che essi comunicano tra
loro, con elementi invisibili ai nostri occhi. Dunque, tutto ruota attorno al
termine “parlare “( . Scrive Gosh, commentando Powers e le scoperte sugli alberi:
“In quanto mancanti di questo attributo (parlare) si può dire che gli alberi
siano muti. Ma dato che a noi manca la capacità di comunicare nel modo in cui
lo fanno gli alberi, non si potrebbe dire che per un albero siamo noi umani a
essere muti?”)
Così questi esseri muti, uomini-albero, che ogni giorno
incrociamo per via. Essi sono persi e noi li osserviamo, il loro anonimato è il
nostro, pensiamo. E chi ci dice che invece non ci osservino, che come alberi
non siano in relazione empatica con noi. Essi stanno piantati nella loro
fissità del “senza fissa dimora” infatti stanno sempre nello stesso posto) essi
entrano in relazione con noi, in modo diretto e muto, prelinguistico (o ultra-linguistico)
con capacità diverse di linguaggio. Osservandoli ogni giorno, Covacich entra in
relazione con loro. Lui non lo sa ancora, ma anche loro lo stanno osservando.
Essi vivono la loro paradossale condizione di uomini-albero, essi sono fedeli
alla loro fissità urbana, poiché sono sradicati.
Eccoli, il
Biciclettaio, profugo iraniano precipitato lungo il Tevere trent’anni fa. O il
Pastore, la Signora. Come le specie viventi (scrive ancora Gosh citando Ana Tsing
da “The Mushroom at the End of the World) “sembra sempre di più che le specie
non si evolvano singolarmente ma in stretta intimità con altri organismi”
Insomma, l’evoluzione è “relazione”.
Sembra incredibile. È anche il concetto con cui Rovelli
cerca di far capire che non c’è un punto di scaturigine della materia, il più
piccolo dei piccoli elementi subatomici. No, ad un certo punto quel che si nota
è un trittico di elementi di per sé invisibili ai microscopi atomici, ma che
rivelano una energia di tensione che è “la materia” che dunque non è materiale,
dura per quanto infinitamente piccolo, ma essa è, solo nella sua tensione
energetica dispari.
lo stesso è qui, dentro la Roma narrata da Covacich, in
questo coesistere nel medesimo spazio di quartiere il Narratore, gli abitanti,
Susanna, gli amici, I clochard, uomini-albero che oggi popolano una città, allo
stesso modo come tanti altri fanno lo stesso in megalopoli indiane, o africane
o Sudamericane, ma anche le capitali europee: popolo dei senza fissa dimora,
displaced people, richiedenti asilo senza asilo, clandestini.
La figura finale sarà la rivelazione che come gli alberi,
anche gli umani, guidati da umani-albero, possono trovare nascoste relazioni,
saldature e empatie, segrete comunità. Umani che pur non parlandosi, si
parlano, un “ca parle” diffuso, e soprattutto si vedono. Il rimuginatore
osserva l’Altro, suo sembiante fratello, rimuginare solo. E anziché scrivere
tweet d’odio, attende che il silenzio si interrompa.
E quando il silenzio si interrompe, in questo rimbalzo muto, è troppo tardi, perché la vita possa fermarsi in un’amicizia, perché si si sta di nuovo spostando altrove. L’altro avrà il suo vero nome, non Arcimboldo, e sarà amato, e questo era il destina nascosto nelle stelle, e sarà lontano, sarà mancante come noi, sarà non più colui che abbiamo visto senza conoscere, ma d’ora in poi sarà memoria, “par coeur” dicono I francesi, memoria di questo cuore strano, ritrovato.
E quando il silenzio si interrompe, in questo rimbalzo muto, è troppo tardi, perché la vita possa fermarsi in un’amicizia, perché si si sta di nuovo spostando altrove. L’altro avrà il suo vero nome, non Arcimboldo, e sarà amato, e questo era il destina nascosto nelle stelle, e sarà lontano, sarà mancante come noi, sarà non più colui che abbiamo visto senza conoscere, ma d’ora in poi sarà memoria, “par coeur” dicono I francesi, memoria di questo cuore strano, ritrovato.