mercoledì 28 ottobre 2015

GIANNI BERENGO GARDIN, #VENEZIA, #GRANDI NAVI @fondoambiente

FAI   Fondazione Forma per la Fotografia e Contrasto  GIANNI BERENGO GARDIN   “Venezia e le grandi navi” mostra di foto a    Venezia, Negozio Olivetti, Piazza San Marco    da giovedì 22 ottobre al 6 gennaio INTERVISTA DI MARIO DE SANTIS RADIO CAPITAL

LUIS #SEPULVEDA "Storia di un cane che insegnò ad un bambino la fedelta ...

Una favola antica come il futuro. La nuova favola di Sepulveda racconta la storia di un bambino e di un cane. Il bambino è un piccolo mapuche, fiera popolazione cilena che da sempre abita quelle terre; il cane, di razza, è il suo compagno di giochi, e il piccolo stringe con lui un intenso legame di amicizia.
In questa regione del mondo, però, sono tempi duri e uomini dal cuore di ghiaccio decidono che non è possibile che un bambino mapuche sia il proprietario di un cane così pregiato.
I due vengono separati, e il cane inizia una vita di sofferenza, fino a quando, addestrato dai suoi nuovi padroni alla caccia ai ribelli e ai fuggitivi, ritroverà il suo grande amico, diventato adulto e capace di scelte coraggiose, e gli dimostrerà ancora una volta la propria fedeltà.
Una nuova, commovente favola del grande scrittore cileno, fondata sul valore della fedeltà e della solidarietà, e sul rispetto per la terra che abitiamo e per tutti gli esseri viventi che la popolano.

sabato 24 ottobre 2015

GILDA POLICASTRO, "Cella" (Marsilio)

“Cella” è il nuovo libro di Gilda Policastro (Marsilio). Dovremmo definirlo romanzo e di fatto lo è. Anche se via via il lettore scoprirà – e fino all’ ultima pagina – anche un sub-strato di riferimenti che ne fanno forse un “romanzo alla seconda” o dispositivo narrativo, come è più facile sentir definire testi in cui è più evidente anche l’impegno di ricerca letteraria, e la filigrana metanarrativa. Il pregio di questo libro è che fonde i due piani . Ha a la compattezza di un romanzo breve, 150 pagine, e molto è dovuto alla voce della protagonista: “Cella” è un libro in cui chi racconta lo fa in prima persona, ed è una donna.
Di lei sappiamo – scoprendolo in una successione, però non lineare dal punto di vista temporale. dei vari quadri o scene che si susseguono - che ha quasi quaranta anni e vive in una casa in campagna con la figlia, ormai grande. Da l suo racconto, diviso in cinque capitoli e un finale “per ipotesi” (determinate ai fini del senso e sorprendente) apprendiamo che la sua è una storia che ha la centro il sentimento dell’abbandono, ma per specularità anche quello del senso del legame, fortissimo, tra affettività ed eros. La seguiamo nel suo ripensare agli anni della sua adolescenza e gioventù: Diventata molto giovane l’amante di un medico potente, dopo aver lasciato che si compisse il disegno che forse sua madre ha avviato per lei, mandandola a lavorare da un dentista a sedici anni e tollerando le attenzioni di lui sulla ragazza. La relazione col medico, di cui ama “l’ardore” , era anche una fuga da orizzonti ristretti, era "l'altra vita" e si incarnerà in una loro sessualità vorace e fuori dagli schemi verso cui la guidava Giovanni (“Io accettavo tutto, perché era nuovo e perché non avrei saputo come sottrarmi”) quel suo compagno medico e seduttore predatore molto più grande di lei. Gli dice "sì", forse perché è un suo “attaccamento alla bestia che vuole tornare a casa.. per paura di non trovare un altro padrone”. Il medico la spingerà nello studio – e anche nelle braccia – di un professore e nel romanzo Cella aumenterà la sua capacità critica, di autoanalisi, rimuginando saperi e discorsi sentiti fare: diventa l’altro che la osserva.
Se era stata travolta dalla dominanza psicologica e linguistica di Giovanni, ora mentre parla riconquista - come
Così come doppio legame sarà quello che instaurerà col figlio che Giovanni ha avuto dal precedente matrimonio consegnando a lui le chiavi d un accesso ad una sessualità che ancora una volta è di sottomissione, ma in realtà proprio per questa forma così assoluta, totale è di conquista. Cella diche ha amato “ per convenienza, per distrazione, per noia” come Giovanni. Da questo sentimento anche il dire “sì” al professore, sottosta a recitare le “scene” di BSDM. Lui la vorrebbe rendere consapevole che “non esiste la perversione, ma solo il desiderio”. Cella sembra intrappolata nel potere degli uomini: possesso, umiliazione, abbandono. Eppure attraverso la guida del Professore, proprio come aveva fatto Giovani cresce in lei la consapevolezza a se ne sottrarrà prendendo la parola e arrivando a classificarli, come fosse una psicoanalista lei stessa. Ed è ”Cella” un notevole romanzo psicologico, ma è pure un romanzo in cui quel che noi sappiamo della psicoanalisi non aiuta a ridurre "ad unum" questo personaggio.
le dice lo psicologo - la sua “autonomia discorsiva” ricomincia a narrare la storia a sé stessa. Nel corso del tempo sarà l’arrivo nella casa di campagna di una donna, con un passato da terrorista – e da carcerata reale – a svelare quel che di romanzesco c’è nel libro (perché Giovanni stava via per problemi con la giustizia) a creare un ulteriore doppio della voce di Cella – e doppio legame.
Cella parla dal suo rifugio o eremo o prigione in cui si è segregata da anni, dopo l’abbandono di Giovanni, e forse è prigione il suo stesso corpo così desiderato e che ora la sta abbandonando, con la maturità, le rughe, i difetti. Tutto deperisce, la malattia ne è il segno. La vita vera è nelle cose che muoiono, che finiscono, a partire dalle persone care. Da qui nasce un impotenza, una non volontà: “io mi sono abbandonata al flusso del tempo”. La morte rende tutto passivo, inutile e forse Cella sa dall’inizio istintivamente che la verità della vita è la verità della morte. LA vita di Cella sarà in crescendo di vissuto, di impotenza e di consapevolezza. Da questo sottosuolo, la donna lascia parlare la sua depressione, alla malattia affida una pulsione: raccontare a se stessa, ma questo racconto lo agisce, lo gioca (act o play) come fosse un’attrice nel suo monologo e sembra via via diventare un’entità de-soggettivizzata nel suo delirio, assorbendo nel flusso indirettamente la voce dei personaggi che le sono intorno, perché è tutto un racconto di memoria. Se “Cella” è dispositivo narrativo, la metanarrazione diventa anche la sfida. E la prigione da cui il Narratore - Cella? Gilda? Altri? – si sfila. 


In 174 pagine , in modo lineare ma sottilmente magmatico, Cella procede verso le ragioni della sua condizione: perché sono così? Perché mi ha abbandonato? Cosa desidero? E lo fa riandando con la memoria ai dettagli ( con la figlia che le dice che potrebbe “scrivere romanzi” perché “passa le ore “a rimuginare su particolari insignificanti” così come – altra spia – anche Elena, la figlia, è per la madre un personaggio “da romanzo” ) E’ una Bovary abbandonata da Flaubert, che riesce ad avere i pensieri di Flaubert senza aver mai letto nessuno dei suoi romanzi, senza scriverli. Come se la conoscenza le fosse passata attraverso il sesso con lo scrittore che avrebbe potuto scriverlo, il romanzo su di lei. Cella lo sa. La materia del romanzo è in lei, ma la scrittura? Come diventa tutto ciò “scrittura”?
Noi leggiamo e via via si comprende che Cella il romanzo che si potrebbe scrivere su di lei, lo sa già, perché lo ha vissuto, certo, ma anche perché “lo pensa”. E’ capace di prendere la parola. Ma di scrivere? In ogni caso la memoria, questa sorta di diario a ritroso, va via verso se stesso, va verso una “ricostruzione” della voce di cella con sé stessa, della storia di Giovanni che Dario ed Elena vorrebbero scrivere in un libro, storicizzare, capire. Cella invece racconta, assorbe, ma si sottrae ad ogni possibile interpretazione. È la sua unica chance di avere un’autonomia discorsiva, poter tornare alla fine a dire “io”. E lo fa con una strategia di tipo orientale, suggerita da un libro regalatole da Giovanni e lasciato a metà : aspettare, un quarto d’ora in più. Il meccanismo però resta incalcolabile e imprevedibile. Escono di scena tutti alla fine. Compresa Cella, con due pagine fulminanti ,scritte da chi nel romanzo parla. L’autore? Il narratore? Cella? Chi?

mercoledì 14 ottobre 2015

GILDA POLICASTRO " Cella" (Marsilio)

Arriva terzo   –dopo “Il farmaco”  e  “ Sotto” -  il nuovo romanzo di Gilda Policastro,  “Cella”  (Marsilio) a chiudere un trittico della sottomissione, della reclusione, della dipendenza, dell’anti-cura. Della non-libertà.
Va detto subito, è un romanzo di una certa complessità, che tuttavia più felicemente degli altri due riesce a tenere in tensione stilistica i tanti riferimenti anche critici che vengono anche esplicitamente tematizzati nel corpo del testo.
"Cella"
Una donna ripercorre dall' autoreclusione di depressa in cui vive, la sua storia: ha quasi  quarant’anni, ancora bella, ragazza per certi standard di oggi, in realtà lei teme con orrore l'invecchiamento, il deperimento, la morte, La fine della vita per come l'ha vissuta, in una tensione erotica e di crescita, presto interrotta.
Ha una figlia all’università e rivede i primi giorni in cui si muoveva nel mondo, bellissima adolescente di provincia figlia di una famiglia che all ’improvviso s’era ritrovata in ristrettezze.  Segretaria da un dentista, diventa per la sua bellezza oggetto di desiderio morboso del professionista e alle cui avances non si oppone – né la madre si oppone ai regali sempre più costosi di lui,  mai chiedendosi da dove venissero. Distante il padre.  E’ attraverso il lavoro che conosce Giovanni medico stimato,  e dongivanni, attivo in  politica che ne fa preda della sua notoria bulimia sessuale  e anche a questo ardore lei si adatta, perché aspira ad un’altra vita. Dopo qualche tempo di spregiudicatezza sessuale, viaggi, bella  vita, la ragazza rimane incinta di Elena e qui finisce il suo ruolo di amante. Giovanni se ne va, l’abbandona, ovviamente per l'ennesima "altra" e  la donna viene relegata con al figlia piccola in casa, anche se non le farà mancare nulla - e  sparisce, perché ha dei guai con la giustizia. . LA donna  entra in depressione,  forse era da sempre latente come latente un’ombra o una ferita. 

Qui inizia il vero romanzo di Policastro, da quando questa donna si rintana nella  sua voce, accogliendole tutte: i ricordi, le parole scambiate, gli incontri,il sapere dei gli uomini (medico, Professore, Psicologo) i libri che lor0 le danno e che restano a metà, le parole ascoltate,  i dialoghi con la figlia .  LE parole di uno psicologo e Professore che tuttavia la guida in una dimensione del sesso e del desiderio di sottomissione, estrema appartenenza, ossessività ancora più intensa.
Col tempo  la casa diventa una sfera di straniamento tra madre e figlia, nella scena compare Dario, fratellastro di Elena, che Giovanni ha avuto precedentemente. “cella” è il soprannome che le danno, perché la donna non esce mai. LA grande casa  viene in parte  usata per affitti di vacanza. Sarà l’arrivo inaspettato di una donna, per un breve soggiorno e che si rivelerà una terrorista, che agiva agli inizi degli anni 80, quando Cella e Giovanni si erano appena conosciuti a  rivelare attraverso un diario che lascia volutamente nella  casa, perché il medico aveva guai giudiziari. La depressone continua, la storia va verso una ricomposizione, ma non verso una cura, non verso una redenzione .Va verso un finale che rivela una narratrice raffinata che sa giocare con tutti i registri retorici della l narrazione, portando all’acuto la dimensione di naturalismo psicologico ma al tempo stesso architettando il suo disvelamento come teatro di un linguaggio, lasciando spiazzato il lettore, come un complice di inautentico.

"Cella" è il libro, cella è la stessa scrittura mai agita tuttavia dalla donna ,che solo  pensa e parla (con sé? A chi?). Rimugina. Cella  è nel suo eremo, prigione, corpo -    il suo stesso corpo così desiderato -  e racconta di sé, agisce la sua depressione.  La mette in gioco (act o play)  come fosse un’attrice nel suo monologo un’entità de-soggettivizzata nel suo delirio. Le premesse del personaggio ci dicono che è una ragazza che non ha studiato, che ha solo in dote il suo corpo, il duo desiderio di un’altra vita, che  sente un’energia erotica primaria e animale che è anche una spinta a progredire.   Del medico ama  subito  “l’ardore” ,  la loro sessualità vorace e fuori dagli schemi verso cui la guidava Giovanni: “Io accettavo tutto, perché era nuovo e perché non avrei saputo come sottrarmi” . Cella dice il  “sì sacro” di Nietzsche, di una adesione al mondo, rigettando la finzione della libertà e del volere.   Cella si abbandona a lui e al suo stesso desiderio vorace di sesso, perché non vuole a sua volta essere abbandonata . E’  un suo “attaccamento alla bestia che vuole tornare a casa.. per paura di non trovare un altro padrone”.  Il medico la spingerà nello studio – e anche nelle braccia – di un professore che oltre a coinvolgerà in altre pratiche sessuali estreme,  le trasmette dei codici di interpretazione, e Cella - oscilla continuamente tra sapere e non volere.

Quel che succede in un romanzo in cui non succede nulla , è il pensiero.  E poi l'abbandono dello stesso  pensiero.  E’ l’accadere di una coscienza che si forma, inglobando le voci di chi sta intorno, partendo da un vuoto ma non diventando un “soggetto” bensi   lasciando l'indeterminatezza, lasciando un'apertura senza centro, una polimorfa. 
 E’ forse del resto questa la  forma di una nostra medesima coscienza, immersa in un fluxus di discorsi dietro i quali raramente riusciamo a cattura  senso e punti fermi.

per certi aspetti la storia sembra  essere mossa passivamente da un centro: Cella ed Elena aspettano il ritorno  del Padre-uomo. Cella cerca un rispecchiamento nella psicoanalisi. poi, unico colpo di scena romanzesco , la terrorista - che  in cella ci è stata davvero  -   lascia un diario scritto a specchio di quello che Cella non scriverà mai (forse). Ma comunque   
Cella pensa e parla,  conquista la sua “autonomia discorsiva” come le dice lo psicologo   – anche se sparsi dettagli lasceranno indizi di un  dispositivo narrativo  e di meta-narrazione   (  la figlia che le dice che  potrebbe “scrivere romanzi” perché “passa le ore “a rimuginare su  particolari insignificanti” e d ecco la  spia  dell’essere lei  pure Elena, la figlia, un personaggio   “da romanzo).   
Policastro tuttavia non lascia mai libero il lettore, lo disorienta, rende Cella donna
 sempre più consapevole, ma al tempo stesso introduce il sospetto che qualcosa non torna.     Di fatto, per certi  aspetti, “Cella”  fino alla  terzultima  pagina sembra porterebbe   i lettori  ad  abbandonarsi  al romanzo monologante di identificazione psicologica naturalista.  Al sottosuolo. All’800..  Ma non è come sembra. Del resto neppure il romanzo dell’800 era come sembrava.

"Cella" è romanzo,  150 pagine o poco più,   lineari e magmatiche al tempo stesso. La voce come la mente procede, si evolve:  questa donna che non ha mai finito un libro in vita sua,  assorbe il linguaggio analitico degli uomini che la circondano.  Loro vogliono scoparsela, lei ne usurpa la voce. Le voci.   Così anche il confronto con la figlia, quello con Dario che  finisce per essere suo Ippolito e lei Fedra, riproducendo il sesso che faceva col padre, tutto  è mettere in opera i saperi: Cella è affamata, ha una tenace volontà di sapere di sé.   E’ una Bovary abbandonata da Flaubert, che riesce ad avere i pensieri di Flaubert senza aver mai letto nessuno dei suoi romanzi, senza scriverli. Come se la conoscenza le fosse passata attraverso il sesso con lo scrittore che avrebbe potuto scriverlo, il romanzo su di lei. Cella lo sa. Per una sorta di inveramento vaginale.  Cella il romanzo che si potrebbe scrivere su si le, lo sa già e lo pensa . il corpo della sua scrittura è lei medesima. 

In che modo corpo, scrittura e desiderio stanno assieme: è uno dei triangoli più instabili del 900, della letteratura, della filosofia e della critica di un secolo che ancora si riverbera su noi. Cella - e forse  Policastro - tentano una mossa del cavallo.    “Cella” opera sul versante dello svuotamento e del riempimento di parole quel che in apparenza tutta una controcultura filosofica  poneva come primario: il corpo.   Se il corpo è così importante, allora Cella lo sa già da prima di Lacan, deleuze, barthes –  tutti uomini.   

Lo sa già a partire  da questa brutalità che mette in scena.    Questo potrebbe spiegare questa qualità enigmatica dell’abbandono di Cella al suo destino sessuale fino a dire “avrei potuto fare la puttana”. In realtà è l’abbandono al sapere ultimo, anche esso sapere diretto:  “io mi sono abbandonata al flusso del tempo”. La morte rende tutto passivo, inutile – la libertà della non volontà sta in questo nodo oscuro. l verità della vita (l'eros ne è su componente centrale)   è la verità della morte.   Quindi abbandona il mondo che già ti ha abbandonato, gettandoti in esso con la nascita.  (Gilda Policastro è interprete di Leopardi)

 LA vita di Cella sarà in crescendo di vissuto, di impotenza e di consapevolezza . Lo farà attraverso  Giovanni che scala la politica e lo farà attraverso il professore che le professore che come Giovanni ma in modo più brutale la ingaggia in “scene” di BSDM, rendendola consapevole che “non esiste la perversione, ma solo il desiderio”. Cella è intrappolata nel potere degli uomini: possesso, umiliazione, abbandono. Eppure lo usa, perchè quel potere la rimette a contatto con ciò ciò che sta prima di un linguaggio o fuori da esso, il corpo appunto. Il corpo che già sa. Il si, l'abbandono, il consegnarsi volontariamente senza volere è un modo di disinnescare il potere. 


Attraverso la guida del Professore, proprio come aveva fatto Giovani cresce in lei una forma di parole per dire sè stessa: ma serve a qualcosa? non c'è    senza riscatto, qui sta la forza, il punto di tensione del romanzo: Cella da Bovary si trasforma in Belaqua che sa che stando fermi  "è sedendo e riposando che l’anima diventa saggia". 
Anche il sesso è un modo di stare fermi, cosi come la malattia, stesi. O la depressione, l’accidia. Come in una comunicazione con ciò che tragicamente siamo, da sempre.
Il corpo interpreta il nulla.  Nelle pratiche BDSM Cella trova il contatto col suo sé, la sua forma o meglio: la forma rappresentata di un'appartenenza che altrimenti non è data, esistendo ne siamo stati gettavi via. "quando non ero legata non avevo forma". Ma una forma che non ha mai voluto, oltre che non ha mai avuto. Cella sta ferma qui.

 Invece i figli , distante  il  padre (la citazione di Milo De Angelis , dice uno dei punti centrali del libro, la distanza è un potere)  continuano a fare la cosa più sbagliata: inseguirlo.  Inseguire una somiglianza, inseguire un compimento, una teleologia, un 'eredità, una redenzione, un futuro.


 Chiave di volta  è la parola ricostruzione.  Cella ricostruisce la sua cella originaria. Da una lato pensa e mastica linguaggio, letteratura, psicologia, filosofia. Prende la parola. Sta già ricostruendo la vicenda, come le propone di fare anche Dario, con un libro (spia meta)  che si sente defraudato da questo padre  che non lo considera e   che vorrebbe scrivere un romanzo per ricomporre ad unità quel che lo ognuno segregato nella sua monade ha vissuto solo parzialmente. In realtà Cella, ovvero:  la sua voce nel romanzo di Policastro,  lo ha fatto fino a questo punto. Poi in qualche modo si abbandona , questo linguaggio viene abbandonato,  perché non porta nulla , non porta ad una soluzione,  ad una cura.  Svuotato, dunque abbandonato. Lo ha  già fatto con la sua vita Cella, da un lato. Lo farà il narratore dall'altro, nelle ultime due pagine.   

 Tutto il procedimento di Policastro, nello smontare la compattezza “ottocentesca” della  voce potente del personaggio  Cella  e della sua depressione e angoscia bianca, che provenite  dal sottosuolo,  ma poi con un novecentesco, di incastri temporali cubisti,  che si sommano alle  sovrapposizioni di codici interpretativi, di metareferenzialità al quadrato, divengono di fatto prima  ricostruzione, poi abbandono.  Dario ed Elena escono di scena sbattendo la porta, inseguire ricostruire, la loro ossessione.  Ma cosa, perché fare letteratura su una cosa che non è più afferrabile? Invece resta Cella, ad accettare, assecondare l'esistente, ciò che è., abbandonarsi ad esso. LA chiave di volta si gioca qui: abbandonare le cose del mondo come fa Cella, per aprirsi ad un mistero  oppure in questo abbandono vediamo l’accettare  di essere un  ‘esistenza  singolare e abbandonata  da ogni idea  di unicità, che sarà sempre illusoria, come  un fantasma è il padre, che sarà sempre confinato nella sua distanza. Abbandonarsi , restare esposto al mondo  alla sua  pluralità  divenire tale del singolo assoluto:  è questa dunque la libertà?  Non volerla ?

mercoledì 16 settembre 2015

"SCIAMI"





    
 SCIAMI
Mario De Santis
               
    
   


LA NOTTE FUORI

                                                   ( a margine di: Christian Boltanski,
                                                               “Les abbonès du telèphone, 2000, installazione)



E’ nel muro di calce viva la telecamera che sgrana
volti e luci in cui rifletto e vivo, in cui sconfino:
è un panorama bianco di feste all’improvviso,
 di bar, di frenesia con la città d ‘estate
che si circonda di incendi periferici.
Le conseguenze mai capite di una vita
che si allontana, Come una fuga senza inseguitori,
sta nella pace dei ritratti  conservati negli archivi
di controllo: malcerti nello sguardo,
e senza febbre, pallidi,
lì durano per essere dimenticati e solo lì
noi siamo in quello che rimane.
Ed è’ su questo muro Illuminato che mi fermo,
stretto dal suo calore postumo, la sera.
Divento anch’io di fumo e d’ ombra moltiplicata,
un taglio di fotogrammi. Tutte queste vene scollegate,
come un museo di elenchi telefonici, la folla unita
in una mappa casuale 
che non trattiene un solo nome: 
i sogni pure sono lasciati al vago ormai
e se ascolto il mio, so che è l’assurdo mormorìo
che viene dal fondo della via, 
dalla porta appena schiusa 
dell ’uscita d’emergenza.











LA NOTTE DENTRO




                                                         ( a margine di : Steve Mc Queen *Western Deep (2002), video)



Per questa notte le notizie non ci sono.
Restano le serrature, le camere blindate,
l’orizzonte che si cancella con la luce.
volano via le automobili attraverso sciami
di uomini che non parlano nel buio;
lasciano sonno, carezze, incanto,
tamburi e una malìa:
precipita nel giorno la verticale di un sogno,
calare nel profondo con i minatori di Tautona
nel teatro di luce incenerita
e tutte le distanze appaiono ridicole, violate.
Sento la paranoia dei cani da ispezione
rompere la pelle alla città, farne l’ assedio
Oro nel cielo al rovescio
dove c’è spazio soltanto per i corpi;
e nel soprassalto senza fuga dell’arrivo in basso,
tutto si dimentica, scavare è tempo che frana nel cristallo
fino all’ora in cui dall’alto ci chiamano di nuovo
a fine turno: tornare indietro uscire che è già notte
la nostra luce è solo quella divorata
nell’ora d’ombra che non mi tiene sveglio
che più di tutte adoro.








SARAJEVO, SECOLO



    per Adriano Sofri  e Erri De Luca, testimoni                                        12 Ottobre 1992 -2012







1.

Per oggi aloni di ammazzati, rimasti ognuno
con la distanza scritta dentro gli occhi
disegnano misero l’oriente delle foreste nude
e i solchi ovunque in aria, a terra tra le fosse, terra
ormai superflua vista in cielo, solo sfondo tra le mani
dei colonnelli d’aeronautica; oggi soltanto piove fuoco
per oggi l’urto di pressione provocherà maltempo,
mentre la terra si ritrae
costretta nel mirino. di là c’è la fontana
ma il pericolo sarà la grandine di piombo, il fumo delle case.
C’è un uomo con la tanica e solo la sua corsa.
il bollettino è incerto, povero Bernacca,
ecco le tue correnti dei Balcani, nel gelo che si nega
sull’Europa, mio caro colonnello.
domani che sarà?
La febbre che si scioglie via dal corpo,
scossa di piuma soffiata, sciame di gocce immobili, 
domani che sarà domani, occhio di belva, che sarà,
questa mia vita che sarà? Nella provvista d’acqua
si annuncia solo un passo, mille formiche pazze
e solo una promessa di bersaglio, che sarà .








2.


Come nulla si vede guardando nei tombini
aperti, così cade la vista verso il vuoto,
fuori-campo; sulla cartina Sarajevo è già l’oriente
muto, ma l’emergenza ha invece un suono,
del mondo-shock e inciso obliquo ha tutto
il farfallìo di piccoli bracieri, la fede in nulla
che sia lontano dalla strada e a questo brivido
si arrende; e nella piazza vuota al cielo
lo sguardo asciutto, lontano dai suoi liquidi, dal corpo,
dalle geminazioni e già-marcite
provviste quotidiane, il tempo è solo orario
e va da un’alba all’altra, uguale.
Guardo luci a intervalli e penso al viaggio
quello migliore, quello di sola andata
ma dalla fontana stavolta si ritorna.


















MILANO, SECOLO




1.

Quasi a quest’ora tutti i giorni
il sogno di Milano si fa smalto
atroce ed isolato. Qui l’acqua era la forma
del futuro annunciato e irripetibile;
e ancora, tuttavia, c’è un salto più assoluto
nei vuoti formati tra file di piccioni
inermi e neri: tra loro spettri degli assenti
ad armare quadrilateri, fortezze in polvere
dissoluzioni ostili. E la piazza così muore perfetta
piena ed invisibile, col sangue a trattenere un nome.
Tra lo squilibrio del coma e il grembo nasce adorazione
per chi non sarà mai. Resta quest’ora presente,
un sentenza che somma le pozze della pioggia
a gemme d’ansia. Qui prende forma la patria
che ha solo presente e non sarà
che questo vago orientamento. Da qui, nessuno
dopo noi, da qui la nostra corsa salta l’ ombra,
si chiude ogni immediata lievità.
la storia diventa in un istante dubbio
e qui si vedono di noi
quei volti di vertigine, aperti all’ aria opaca
che non avranno somiglianze.





2.


La distanza tra me e una coppia di cinesi
è la minima innocenza che adesso chiede il mondo.
Loro che hanno fame di abitare
io invece mi perdo nella sosta, la pausa della noia.
Loro chiudono in corpo un amore senza accordi
ma con passi di precisione studiano le mappe
invece io sono immondo e illusionista
dimentico dell’afasia, dei giorni che mi aspetto;
loro al telefono cercando un posto dove stare;
ed io, che sarò quello che perdo il mio, sto via dalla mia vista.


                                                                                                  ( Milano, piazza Gramsci )







3.


Faccio la somma dei tuoi volti
che ho visto e che saranno;
immagino la crudeltà delle tue rughe
il punto viola che si scolla come un’ombra
da me. Prima di entrare con il treno
nell’acqua che cade su Milano,
dentro la pianura il sole era terribile
piatto e disposto alla sua morte
perfetta per una luce che viene da terra.
Non conoscevo ancora il tuo respiro
nella notte, così nell’ acqua
piovana sta musica che invade
il peso del mio corpo che cede nel tuo odore.
Voglio che il cielo resti la divisione
tra noi infinita, mentre cammino oltre Bovisa,
fermo all’angolo di un muro qui dove sono cade
quel niente che ritorna, passi segreti
quelli che mi riportano da te,
un vago oriente: per sempre tutto mi dividerà
da tutto, adesso,
perché nel momento che ho saputo
ho smesso di sapere.















                                       parte di un libro in uscita per "Ladolfi Editore"
                                                     autunno 2015

                                            già pubblicato per le edizioni d'arte 
                                               di Tiziana Cera Rosco
                                                  cuoreinverso          
                                                    settimo titolo     
                                       finito di stampare nella sera del 22 gennaio 2014
                                                       
                                                  

giovedì 30 luglio 2015

GENERAZIONE. un titolo, un'idea, un'ossessione. un viaggio a piedi. un nonno. un secolo.

Domani  parto per il Carso, con zaino e niente altro, a piedi. 
Sulle tracce di mio nonno Mariano di cui ho trovato il foglio matricolare della sua ri-chiamata alle armi nel 1915. Fu subito spedito il 24 maggio sul Monte Nero poi sulle Dolomiti, alle Pale di San Martino. Poi ho scoperto che il nonno così mite poi, ma forse anche un po' reso tale da quell'esperienza, era in realtà nel 1917 caporale nel 215 fanteria, della Brigata Tevere, che mi risulta essere era un reparto di Arditi. Chi l'avrebbe detto. Chissà com'era. cerco di immaginarmelo, io che l'ho visto sempre solo anziano, col bastone - aveva 24 anni nel '15, era analfabeta.
Lo vedo attraverso il ricordo di una foto che non so più dove sia, che vedevo da bambino, col baffo che ha sempre portato, in tiro in divisa e la croce di Vittorio Veneto. Almeno uno in famiglia che la Storia l'ha fatta c'è.
Vado verso il "Dosso Faiti" in Slovenia, dove nell'ottobre del 1917 fu combattuta una sanguinosa battaglia per conquistare una sorta di "collina del disonore" all'italiana. Morirono migliaia di soldati per conquistare un dosso di 400 metri, a metà ottobre. Mio nonno fu fatto prigioniero il 7 ottobre.
il 24 ottobre gli austriaci sfondarono poco sopra, a nord, a Kobarid, che noi conosciamo come Caporetto.
Nonno Mariano fu liberato il 4 novembre 1918. Rimandato ai reparti, in una condizione che so - non per racconto diretto, purtroppo, immagino solo la sua sofferenza e il suo groppo, nel dirle, ma da letture di libri sull'argomento - pessime e con l'onta della prigionia avvelenata da quel bastardo del Generale Cadorna, che fu un totale incapace al Comando Supremo delle Forze Italiane ma diede la colpa ai soldati. Solita storia italiana.


A causa di questo, dovette stare sotto le armi ancora fino al 1919, nonostante la guerra fosse finita. Era in una caserma di Roma. ma nel 1919 essere a Roma era come essere in un altro paese. Poi era analfabeta appunto e per tutti quattro anni me lo immagino senza poter comunicare o far sapere in nessun modo a casa di come stesse e se fosse vivo o no.. Provo ad immaginare , ma è inimmaginabile per noi che siamo "sempre connessi"..
Fu mandato in congedo definitivo il 16 agosto 1919. Al paesello suo, Rocca di Mezzo, che è quello dove è sepolto, insieme ai miei, quella mattina del 16 agosto le campane suonavano perché era la festa del patrono di San Rocco.
Chissà se nonno è arrivato in tempo per mettersi a tavola. Dal giorno dopo lo ri-aspettavano i campi, e una ragazza agli occhi celesti di dieci anni più giovane, Antonia - e una storia di generazione, che ancora dura nella mia.
buona estate.
Torno su Facebook anche io il 16 agosto, giusto in tempo per San Rocco.



giovedì 7 maggio 2015

Per questo senza vivere, tutto parla
come i fogli di montaggio dei mobili
con dei vaghi disegni perentori: perché inutili i nomi
secchi, che esistono solo nell’ arredo, fanno le capsule comuni
del riconoscersi, ma senza mai vedere come è uno nell’altra.

Come è improbabile, mia amica, il congedo
in questo svegliarsi in un giorno e averlo già vissuto:
si moltiplica il formicolio delle mani appena invadiamo
i viali al mattino, come le braccia sollevate in un bus
tutti quelli che hanno in silenzio lo stesso
divano, il lavello, l’armadio, non lo chiamano più
per quel nome, c’è il panico delle cose comuni.

Era il fulmine a dare l’enigma,  ora è il calore che combacia
la mano che si aggrappa vicina alla mia mano
la vita che sta tra il capo chino e il vapore che siamo.
Come fare un lavoro, come scrivere addio:
nessun atto è più urgente se tutto è solo immediato
e si ripetono solo le attese disperate: chi è muto
chi ha perso le chiavi o un paese e sta fermo come una farfalla
sull’epidemia di carezze illuminate.

Chi ha affogato dolore sbarcando nel suo vuoto.
Loro in ombre come noi, sono lo sbuffo cupo
dalle grate vicine al marciapiede, dalle crepe, nei volti,
un sottofondo.
Noi non lasciamo più orme, qui c’è il catrame appena messo,
ma da dove parlano quelle  è un tumulto, una tosse di veleni:
vanno a grappoli dal Sahara al carbonio,
a condividere assenti e presenti,
una mattina di malesseri, il disgusto, il sale  nei cappotti
 dove c'è vomito, e dire no, e non e non voltarsi, e nessuno
essere soli, toccare davvero. Abbiamo un giorno da riempire,
come le ragazze dell’amore, minacce e desideri.

Lo dimentichiamo,  amica mia,
non vedi che è solo fluorescenza come me, come te,  non ci  vedi
scomposti e ricomposti  in una replica a sera, nei ritorni dal lavoro?
Siedi ora sul divano e guardi l’alone dei led
Senti questo giorno sognato come l’ultimo, come incerto
             materiale di una veglia, corollario, testamento, e credi finirà?



lunedì 30 marzo 2015

SCIAMI








    
 SCIAMI
Mario De Santis
               
    
   


LA NOTTE FUORI

                                                   ( a margine di: Christian Boltanski,
                                                               “Les abbonès du telèphone, 2000, installazione)



E’ nel muro di calce viva la telecamera che sgrana
volti e luci in cui rifletto e vivo, in cui sconfino:
è un panorama bianco di feste all’improvviso,
 di bar, di frenesia con la città d ‘estate
che si circonda di incendi periferici.
Le conseguenze mai capite di una vita
che si allontana, Come una fuga senza inseguitori,
sta nella pace dei ritratti  conservati negli archivi
di controllo: malcerti nello sguardo,
e senza febbre, pallidi,
lì durano per essere dimenticati e solo lì
noi siamo in quello che rimane.
Ed è’ su questo muro Illuminato che mi fermo,
stretto dal suo calore postumo, la sera.
Divento anch’io di fumo e d’ ombra moltiplicata,
un taglio di fotogrammi. Tutte queste vene scollegate,
come un museo di elenchi telefonici, la folla unita
in una mappa casuale 
che non trattiene un solo nome: 
i sogni pure sono lasciati al vago ormai
e se ascolto il mio, so che è l’assurdo mormorìo
che viene dal fondo della via, 
dalla porta appena schiusa 
dell ’uscita d’emergenza.











LA NOTTE DENTRO




                                                         ( a margine di : Steve Mc Queen *Western Deep (2002), video)



Per questa notte le notizie non ci sono.
Restano le serrature, le camere blindate,
l’orizzonte che si cancella con la luce.
volano via le automobili attraverso sciami
di uomini che non parlano nel buio;
lasciano sonno, carezze, incanto,
tamburi e una malìa:
precipita nel giorno la verticale di un sogno,
calare nel profondo con i minatori di Tautona
nel teatro di luce incenerita
e tutte le distanze appaiono ridicole, violate.
Sento la paranoia dei cani da ispezione
rompere la pelle alla città, farne l’ assedio
Oro nel cielo al rovescio
dove c’è spazio soltanto per i corpi;
e nel soprassalto senza fuga dell’arrivo in basso,
tutto si dimentica, scavare è tempo che frana nel cristallo
fino all’ora in cui dall’alto ci chiamano di nuovo
a fine turno: tornare indietro uscire che è già notte
la nostra luce è solo quella divorata
nell’ora d’ombra che non mi tiene sveglio
che più di tutte adoro.








SARAJEVO, SECOLO



    per Adriano Sofri  e Erri De Luca, testimoni                                        12 Ottobre 1992 -2012







1.

Per oggi aloni di ammazzati, rimasti ognuno
con la distanza scritta dentro gli occhi
disegnano misero l’oriente delle foreste nude
e i solchi ovunque in aria, a terra tra le fosse, terra
ormai superflua vista in cielo, solo sfondo tra le mani
dei colonnelli d’aeronautica; oggi soltanto piove fuoco
per oggi l’urto di pressione provocherà maltempo,
mentre la terra si ritrae
costretta nel mirino. di là c’è la fontana
ma il pericolo sarà la grandine di piombo, il fumo delle case.
C’è un uomo con la tanica e solo la sua corsa.
il bollettino è incerto, povero Bernacca,
ecco le tue correnti dei Balcani, nel gelo che si nega
sull’Europa, mio caro colonnello.
domani che sarà?
La febbre che si scioglie via dal corpo,
scossa di piuma soffiata, sciame di gocce immobili, 
domani che sarà domani, occhio di belva, che sarà,
questa mia vita che sarà? Nella provvista d’acqua
si annuncia solo un passo, mille formiche pazze
e solo una promessa di bersaglio, che sarà .








2.


Come nulla si vede guardando nei tombini
aperti, così cade la vista verso il vuoto,
fuori-campo; sulla cartina Sarajevo è già l’oriente
muto, ma l’emergenza ha invece un suono,
del mondo-shock e inciso obliquo ha tutto
il farfallìo di piccoli bracieri, la fede in nulla
che sia lontano dalla strada e a questo brivido
si arrende; e nella piazza vuota al cielo
lo sguardo asciutto, lontano dai suoi liquidi, dal corpo,
dalle geminazioni e già-marcite
provviste quotidiane, il tempo è solo orario
e va da un’alba all’altra, uguale.
Guardo luci a intervalli e penso al viaggio
quello migliore, quello di sola andata
ma dalla fontana stavolta si ritorna.


















MILANO, SECOLO




1.

Quasi a quest’ora tutti i giorni
il sogno di Milano si fa smalto
atroce ed isolato. Qui l’acqua era la forma
del futuro annunciato e irripetibile;
e ancora, tuttavia, c’è un salto più assoluto
nei vuoti formati tra file di piccioni
inermi e neri: tra loro spettri degli assenti
ad armare quadrilateri, fortezze in polvere
dissoluzioni ostili. E la piazza così muore perfetta
piena ed invisibile, col sangue a trattenere un nome.
Tra lo squilibrio del coma e il grembo nasce adorazione
per chi non sarà mai. Resta quest’ora presente,
un sentenza che somma le pozze della pioggia
a gemme d’ansia. Qui prende forma la patria
che ha solo presente e non sarà
che questo vago orientamento. Da qui, nessuno
dopo noi, da qui la nostra corsa salta l’ ombra,
si chiude ogni immediata lievità.
la storia diventa in un istante dubbio
e qui si vedono di noi
quei volti di vertigine, aperti all’ aria opaca
che non avranno somiglianze.





2.


La distanza tra me e una coppia di cinesi
è la minima innocenza che adesso chiede il mondo.
Loro che hanno fame di abitare
io invece mi perdo nella sosta, la pausa della noia.
Loro chiudono in corpo un amore senza accordi
ma con passi di precisione studiano le mappe
invece io sono immondo e illusionista
dimentico dell’afasia, dei giorni che mi aspetto;
loro al telefono cercando un posto dove stare;
ed io, che sarò quello che perdo il mio, sto via dalla mia vista.


                                                                                                  ( Milano, piazza Gramsci )







3.


Faccio la somma dei tuoi volti
che ho visto e che saranno;
immagino la crudeltà delle tue rughe
il punto viola che si scolla come un’ombra
da me. Prima di entrare con il treno
nell’acqua che cade su Milano,
dentro la pianura il sole era terribile
piatto e disposto alla sua morte
perfetta per una luce che viene da terra.
Non conoscevo ancora il tuo respiro
nella notte, così nell’ acqua
piovana sta musica che invade
il peso del mio corpo che cede nel tuo odore.
Voglio che il cielo resti la divisione
tra noi infinita, mentre cammino oltre Bovisa,
fermo all’angolo di un muro qui dove sono cade
quel niente che ritorna, passi segreti
quelli che mi riportano da te,
un vago oriente: per sempre tutto mi dividerà
da tutto, adesso,
perché nel momento che ho saputo
ho smesso di sapere.





















                                            già pubblicato per le edizioni d'arte 
                                         di Tiziana Cera Rosco
                                                  cuoreinverso          
                                             settimo titolo     
                 finito di stampare nella sera del 22 gennaio 2014
                                                       
                                                  

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