martedì 5 dicembre 2017

IL TEMPO E' IL SUO RACCONTO. Parte 7.

10.1.2

Accadde anche ad un poeta italiano ai suoi esordi, nel 1976, di porre una frattura al suo tempo, alla cultura del suo tempo: Milo De Angelis. Oggi possiamo rileggere in “Tutte le poesie” i versi di “Somiglianze”, capire meglio come l’indice che si leggeva negli attimi delle sue immagini e metafore fosse quello di un’archè, ma inteso come continua trasformazione, ad indicare  un diverso agire nella storia e tuttavia una non meno antagonista – agonistica anche, viste le metafore sportive - presenza nell’epoca. Lo fa nella percezione di un contro-tempo degli attimi millimetrici,  quando ad esempio in un testo noto (“T. S.”)  nell’improvvisa quiete che si apre nel  “disastro del respiro” di un trauma fisico, dentro un’ambulanza, “appare /  il davanzale di un piano, il tempo / che sprigiona i vivi”. E qui “ognuno di voi”  - così dice il testo in apertura, quindi agli antipodi di individualità eccezionali e percezioni e saperi esoterici – “avrà sentito” quella:

..calma sprofondata dentro il grano
Mentre la donna sul prato partorisce
Sempre più lentamente,
finché il figlio ritorna nella fecondazione
e prima ancora, nel bacio e nel chiarore
di una camera, il grande specchio,
il desiderio che nasce, il gesto”


 Ai poeti il compito di richiamare questo controtempo, il destino di essere in questo modo assolutamente contemporanei.



10.2



Anche richiamo all’origine che fa Mandel’stam nelle sue “Ottave” e nei suoi testi in generale non è sul filo di una nostalgia passatista, conservatrice: il contrasto col tempo presente non è a favore di una restaurazione del tempo passato (è questa l’accusa facile che spesso ha portato alle condanne politiche di questi poeti)  ma è per un richiamo più profondo col nostro vivere, dissolte le torri delle sorti progressive, percepito nella sua connessione con l’arcaico. Lo facciamo introdurre da un autore non sospetto di derive politiche restauratrici, Giorgio Agamben in CCEIC

“Solo chi percepisce nel più moderno e recente gli indici e le segnature dell’arcaico può esserne contemporaneo. Arcaico significa: prossimo all’arché, cioè all’origine. Ma l’origine non è situata in un passato cronologico: essa è contemporanea al divenire storico e non cessa di operare in questo, come l’embrione continua ad agire nei tessuti dell’organismo maturo e il bambino nella vita psichica dell’adulto”

Come si vede, seppur da una prospettiva filosofica, legata terminologicamente alle idee di presente, passato ecc, c’è una interessante convergenza verso le conseguenze culturali delle recenti scoperte della fisica sperimentale, che sono del resto ben presenti al filosofo veneziano.
Mandel’stam  – come ogni vero poeta – è interessato a guardare tutto da “una distanza siderale” scrive Vitale (e che tragica ironia per lui finire a guardare tutto da un freddo siderale distantissimo, la Siberia) per scorgere i “quadri slegati” della realtà – una traccia di Dante in M. – e l’arte a quel punto non si pone più il problema di imitare, ma di essere in “un rapporto sororale” in cui “la metafora ritorna metamorfosi (Non A che somiglia a B, ma A che diventa B)

Scriveva nel 1932 da poeta, l’amica fraterna di Mandel’stam, Marina Cvetaeva nel saggio  “il Poeta e il tempo”

“ Dopo aver dato tutto al suo secolo e paese (il poeta) dà ancora una  volta a tutti i secoli e a tutti i paesi. Dopo aver rivelato fino al massimo limite il suo secolo e paese, mostra illimitatamente tutto ciò che è il non-tempo e il non-luogo: il persempre” […] Non esiste arte non contemporanea […] ogni vera contemporaneità è compresenza dei tempi, incessante movimento”


La contemporaneità, tra Cvetaeva e Agamben, dunque si delinea dunque come una non coincidenza col proprio tempo e al tempo stesso la possibilità di poter leggere come contemporanea l’arte di ogni tempo. Desumendo la costruzione del paragone ancora una volta dalla scienza, dall’astrofisica in particolare, Agamben vede nell’idea di buio così come la spiegano i fisici la possibilità di spiegare la contemporaneità: così come il buio è la luce di galassie che viene verso di noi ma al tempo stesse quelle galassie muovono lontano nell’universo a una velocità tale che quella luce non ci raggiunge mai. Da qui Agamben sempre in CCELC scrive:

“…l’appuntamento che è in questione con la contemporaneità non ha luogo semplicemente nel tempo cronologico: è, nel tempo cronologico, qualcosa che urge dentro di esso e lo trasforma. E questa urgenza è l’intempestività, l’anacronismo che ci permette di afferrare il nostro tempo nella forma di un “troppo presto” che è, anche , un “troppo tardi”, di un “già” che è , anche, un “non ancora”.

Come Rovelli, ci sta dicendo che il cuore segreto del tempo è che il tempo non esiste, ma che questa non esistenza è proprio ciò che garantisce un’aderenza così forte all’accadere del contemporaneo, per certi aspetti contemporaneo a tutti i tempi, quelli che formalmente continuiamo a chiamare epoche, ma sono un non-tempo così come il buio è non-visione.


10.3

E infatti Mandel’stam nella poesia  “Il secolo


…ma è spezzata la tua schiena
mio stupendo, povero secolo
Con un sorriso insensato
come una belva un tempo flessuosa
ti volti indietro, debole e crudele,
a contemplare le tue ombre.



La poesia – nell’esempio di Mandel’stam preso come archetipo di una poesia che continua ad essere con noi, contemporanea a tutti i non-tempi che viviamo – nel suo lavoro sul linguaggio – e considerando anche le recenti scoperte delle risonanze neuronali del linguaggio poetico, metaforico che quasi sembrano confermarne certe sue mitologie – si pone come esercizio e vita della trasformazione della materia che siamo, come ritmo di una trasformazione degli eventi della realtà per cui  (attraverso la poesia) possiamo praticare e allo stesso tempo comprendere questo ritmo della trasformazione: né progresso, né assenza mistica del tempo, ma aderenza alla materia, ma non come cose – è questo lo specifico “realismo” di una poesia – ovvero il suo essere cosa che è oltre le cose, perché oltre la sua rappresentazione. E anche la fisica a suo modo è un iper-realismo che svela i limiti della realtà:

Scrive Carlo Rovelli in LODT

Si può pensare il mondo come costituito di cose. Di sostanza. Di enti. Di qualcosa che è. Che permane. Oppure pensare che il mondo sia costituito di eventi. Di accadimenti. Di processi. Di qualcosa che succede. Che non dura, che è un continuo trasformarsi. Che non permane nel tempo, La distruzione della nozione di tempo nella fisica fondamentale è il crollo della prima di queste prospettive, non della seconda. E’ la relazione dell’ubiquità dell’impermanenza, non della staticità in un tempo immobile”

Si può già immaginare anche la ricaduta sul senso della realtà che possiamo trarre dalle conclusione della scienza sul tempo, non solo: anche sul senso della storia. Così come potremmo trarlo, oggi e proprio oggi, da Mandel’stam e da Cvetaeva, per l’ennesima volta venuti a ridire con noi, contemporanei, il mondo.
E così la poesia e la letteratura capace di lavorare proprio su questo versante con gli strumenti della trasformazione formale e linguistica dell’opera, partecipa di questo senso dell’accadere e del continuo trasformarsi.

E Rovelli aggiunge, partendo dall’esempio del sasso, caro anche come abbiamo visto al poeta  Sereni:

“..il sasso più solido, alla luce di quello che abbiamo imparato dalla  chimica, fisica, mineralogia, geologia, psicologia, è in realtà un complesso vibrare di campi quantistici, un interagire momentaneo di forze, un processo che per un breve istante riesce a mantenersi in equilibrio simile a se stesso, prima di disgregarsi di nuovo in polvere, un capitolo effimero della storia del pianeta..una metafora per un’ontologia, una partizione del mondo che dipende dalle strutture percettive del nostro corpo, più che dall’oggetto in sé…

La poesia partecipa di questa energia del vivente che è la trasformazione, è in una ristrutturazione dell’ontologia, dentro proprio le strutture percettive. Quindi è esercizio e parte di questo infinito vibrare e noi quello Infinito a questa voce andiamo comparando e quello che ci sovviene è dunque l’eterno (?)  trasformarsi dell’impermanenza. Giacomo Leopardi, seppur avvolto in una metafora di assoluti e totalità, percepisce però il senso di impermanenza, di fragilità della natura che nella lava del vulcano – seppur fissata in pietra sasso - e ne vede la magmatica potenza di fuoco che tutto distrugge, tutto trasforma.

Ecco ci troviamo oggi di fronte alle conclusioni di teorie scientifiche della fisica sperimentale, piccoli e fragili ginestre, quasi come Leopardi, soggiogati da una natura che non solo distrugge le nostre illusioni di magnifiche sorti e progressive ma ci restituisce una forma del modo spiazzante, capace di terrorizzare  – verso la quale resta però l’impegno morale  dei resilienti: affrontare anche questa estrema relatività  dell’esistenza con dignità, bellezza, speranza in dialettica, e con la distruzione farne metafora.
Parola. – E tuttavia forse lo sgomento ci assale quando di tutto questo non riusciamo a non dare spiegazione, ma solo una metafora.

Proprio per questo, un problema che affronteranno allora i poeti. Sempre che accettino di lavorare sul versante a precipizio della conoscenza, non su quello pianeggiante della “moda” del momento. Un grande poeta come Mandel’stam era quella frattura che impedisce al tempo di comporsi, sgretola con la sua spezzatura, anche nel corpo, il muro di una storia-edificio. Oggi, alla luce della fisica, la missione dei poeti sembra rinnovarsi, nel loro lavoro sul versante non delle formule degli algoritmi, ma di quello del linguaggio che è più elementare – la funzione della poesia forse è ancora aver posto un puntello alle rovine, ma certo per impedire si ricostruisca un castello teleologico. Grazie ai poeti oggi possiamo capire meglio cosa ci svelano i fisici. Ma soprattutto cosa si annida nella materia del linguaggio.

10.4

Anche per gli scienziati della fisica c’è il problema di dover trasportare come poi nella grammatica – ma anche con  icone o altro “seme” di linguaggio che non sia il calcolo matematico  – il carico concettuale che si delinea all’orizzonte delle loro scoperte che ridefiniscono (usiamo le parole di sempre)  la “realtà” il “tempo” e devono fare i conti con il substrato già-metaforizzato, delle lingue che usano per farlo…

Scrive Rovelli

i cambiamenti non sono ordinati lungo un’unica successione ordinata: la struttura temporale del mondo è più complessa che una semplice successione di istanti. Non per questo non esiste…la distinzione tra passato, presente e futuro non è un illusione. E’ la struttura temporale del mondo ma che non è quella del presentismo..il cambiamento, l’accadere non sono un’illusione, abbiamo scoperto che non avviene seguendo un ordine globale”

Ritengo, non per mera consolazione umanistica, che paradossalmente mai la letteratura e la poesia siano state così  vicine alla partecipazione delle scoperta di un diverso ordine delle cose – o quel continuo dis-ordine che è la trasformazione chiamato un tempo : realtà.

Questo lo cominciamo a capire proprio oggi, nell’epoca in cui la letteratura sembra avviata al tramonto, se la interpretiamo dal lato del suo “mandato sociale” (Guido Mazzoni) che non è la semplice analisi della presenza sociale della letteratura, ma come questa abbia preso forma e presenza nell’evoluzione interiore della maggioranza di una società. I singoli che appartengono alle comunità massificate di oggi, non delegano più alla letteratura e tanto meno alla poesia  una  conoscenza che prima aveva come centrali queste discipline. Poi ci sono opere bellissime e importantissime, ma la forza di incidenza degli scrittori e degli artisti si è indebolita. Resta ad alcuni grandi della canzone, ma anche in quel caso in modo blando.
Sempre più debole, ora che si allarga la platea del pubblico, anche dei lettori, ma i leggenti non sono tutti lettori, questa è la differenza col passato.

La società globale non ha più necessità di conoscere, si affida sempre più a persuasori e algoritmi della tecnologia dell’informazione, attraverso questi rimesta nel già-noto, consuma e si accontenta di generare come proprio intrattenimento emotivo masochistico le proprie fake-verità che rinnovano in chi le fruisce paure che ha già, come quando ci si diverte con le giostre estreme. E’ un pubblico che non fruisce sapere ma consuma frasi fatte allusive “di qualcosa” – ma non accetta più che ci sia la mediazione di chi ha sapere e competenza. E dato che tuttavia questo pubblico ha un potere – datogli dalla democrazia e dal marketing –  i gusti di questo pubblico globale, i suoi orientamenti e i suoi saperi dettano legge. Posso sono essere modificati con abile persuasione, ma la letteratura è dei persuasi, ma non dei retori persuasori, tanto meno occulti.

Sono queste, oggi, alcune delle ombre che stanno avvolgendo il nostro presente storico. Essere contemporanei attraverso la poesia non è solo un esercizio funambolico e interiore di un singolo io che, percependo il buio del presente, ne afferra la luce tremolante, instabile. Essere contemporanei significa scheggiare, frantumare da dentro il tempo e così facendo trasformarlo, mettendolo in relazione con gli altri tempi, leggendo in modo inedito la storia, che ci chiama ad un’impossibile risposta, se non nel gesto di sfidarla e mutarla nel concreto. L’invisibile luce che è questo buio di ombre del presente storico in cui siamo immersi proietta anche la sua ombra sul passato – verso un’origine sempre.qui – e proprio questo smottamento aiuti a rispondere alle tenebre dell’ora presente. E’ sempre un compito politico, per quanto non sembri, anzi proprio perché appare “impolitico”.

10.4. 1

Così la poesia, come la fisica sperimentale,  si accontenta di lavorare sottoterra, nel sottosuolo,  alla lettera e in metafora, come i fisici del Cern o come le Talpe di Kafka, a sperimentare negli acceleratori di realtà le particelle e le sillabe, sperando di poter scorgere i “quadri slegati” della realtà come scrive Mandels’tam – e quando questo accade sperare che da quel sapere si generi altro sapere, non solo si sfrutti come un potere – economico, nel caso della fisica. E che un testo poetico rivoluzioni la nostra materia psichica lo confermano anche gli studi di psicologia cognitivista sulla percezione di un testo poetico e sull’effetto sulla mente.

Nel caso della letteratura, ci cambia l’ordine di percezione della realtà – e ora che l’ordine della percezione è cambiato con la scienza è compito della poesia forzare quella vecchia grammatica che si è formata in un dalla nostra esperienza limitata, prima che ci accorgessimo della sua imprecisione nel cogliere la ricca struttura del mondo. Era una scienza di umanisti e dell’osservazione. Oggi matematica e tecnologia scoprono il mondo, oltre le parole. Oltre il visibile. Sta a chi scrive partecipare della stessa battaglia degli scienziati

Rovelli:

“combattiamo per adattare il nostro linguaggio e la nostra intuizione a una scoperta nuova: il fatto che “passato” e “futuro” non hanno un significato universale, hanno un significato che cambia fra qui e lì. Nient’altro”


11.0 ( o 0.0, di nuovo)

E dunque riassumendo: Nel racconto di un mistero italiano, perso nelle finzioni della storia politica del nostro paese e nel tempo, nel labirintico diario newyorkese di un romanzo “chiamato” a venire,  come il mondo, nonostante il suo autore forse morirà e  forse sarà padre, nella confessione di un filosofo che allo specchio si domanda “che fine farà il mio studio ?” Nella poesia del più grande antipoeta italiano, nella fioca stella mai morta della poesia,  che sopravvive con la sua luce al tragico spegnimento fisico del suo autore nel ghiaccio siderale dell’oblio, nel prisma di un palco che ospita la resa dei conti tra attori e persone sul campo di una memoria reale, nel cumulo di oggetti traccia di un tempo che non esiste, se non nella memoria, stanno i tentativi che abbiamo incontrato casualmente da poco, di narrare un tempo che cambia “il tempo” – sta, o viene, o verrà,  in ogni caso il senso di questa stessa parola, e di tutte le nostre storie. Anche quelle che dovranno accadere.












IL TEMPO E' IL SUO RACCONTO. parte 6

10.0

Come già aveva scritto lo stesso Rovelli, il tempo è ciò che siamo, sono i processi cognitivi definiscono con la memoria un nostro interno spazio identitario. Vi coesistono in una tensione di polarità i fatti del nostro accadere . Un movimento di tensione psichico che diventa condivisibile – una  tensione rinviante (come dalla definizione in  “Mente e Bellezza, di Ugo Morelli/ prefaz Carlo Gallese) che costituisce una delle condizioni in cui lavora la nostra mente. E che  trova nella parola letteraria uno spazio di ritorno, un campo di fluttuazione – esperimenti cognitivi ala mano, anche
.. Questa tensione è l’estensione del senso del possibile e del tempo vissuto anche esso come riserva del possibile, una compenetrazione che accade anche in noi – le cose essendo del resto non in sé, ma  “accadere”. Allora uno dei campi con più tensione è lo spazio della poesia (Pensiamo al poeta-scienziato Lucrezio, indagatore degli aspetti costitutivi della realtà e aspetti costitutivi del tempo e dello spazio, gli atomi, duemila anni prima che la scienza li dimostrasse…).


10.0. 1

La luce di alcune stelle ci arriva quando esse sono già morte. Eppure la loro luce è qui, risplende nel buio, mi guida. Lo spaziotempo che attraversano è così diverso dalle nostre misure da poter permettere questa compresenza di morto e vivo: oppure a volte la loro luce cambia, ma quella che vediamo qui è ancora una luce che non è più. Sono queste le stelle variabili : ancora una volta la scienza e la poesia si sono incontrate in questo caso nel libro che da esse prende il titolo (“Stella variabile”) l’ultimo di Vittorio Sereni
Il libro ha una nota editoriale sui tempi di pubblicazione – quando si dice il caso - voluta dall’autore, che gioca sullo spostamento del tempo e sulla retrodatazione . Il suo tempa comunque è proprio quello della memoria come compresenza di segni della Storia assente,  che è solo sbriciolamento di fatti e fantasmi, immagini e innesti psichici. Il libro-poema è ciò che resta di un discorso andato in frantumi, perché impossibile formularlo.  Un discorso impossibile in cui non si può che adottare una grammatica diversa in questo caso della compresenza – sogno e veglia, morti e vivi. Una grammatica che riscatti le macerie partendo da esse. Che sia connessione di tempi lontani.
 Come quando il poeta vede a Berlino, statuaria e inaccessibile nella sua bellezza, la testa di Nefertiti, quella donna, quel volto, parla nel suo sorride,  da una distanza di tremila anni e ha il sorriso oggi, per noi. A lei scrive una lettera Sereni, come fosse una amata di un tempo remoto della sua vita:
Vorrei tutta al più aspettarmi di veder lampeggiare dalla penombra in cui vive il suo sorriso già abbastanza imprendibile ..così da abolire per un attimo, ma proprio solo per un attimo i troppi anni che ci dividono”.
Ai poeti il compito di precipitare i millenni nell’attimo, l’infinito e l’opaco, nella Storia. Come sempre in Sereni, è proprio la convocazione nella memoria dei propri fantasmi, come qui sono il fantasma di Vittorini o altri, dal passato, amici, amori -   oppure scrive una poesia per la figlia che crescerà – a costituire attraverso la poesia quella dimensione interiore della nostra identità che è il tempo. Io sono , dice tutta la poesia (anche la negativa e sperimentalista da una posizione o dissoluzione di un Io) e dicendolo, pone nella forma del nominale già il dispiegamento di un essere tempo. Io sono il tempo – o non sono, ma nel tempo. Sereni fa di più: mette in discussione l’io (“quello lirico e quello antilirico della “soggettività” che sé che si guarda scrivere) facendo della propria poesia uno spazio in vuoi vivere e scrivere si rinviano, dentro una coscienza che comprende anche il proprio annichilimento.
Scrive della poesia Vittorio Sereni

“…una fascia intermedia, una zona di riporto, un paese immateriale abitato da fantasmi” 

in cui figure non passate in giudicato, tornano da un passato impronosticabile e da un futuro che non si è realizzato (“i cento futuri del passato”) ma tali da aver generato forme di vita .
L’inglese ha un bel termine per descrivere quella fascia intermedia – qui non si avvalora l’esistenza dei fantasmi – per noi sono memoriali – ma il termine è bello, e Clint Eastwood  l’ha usato per un bel film: hereafter, è l’oltre delle anime morte non ancora nell’aldilà. Il Quidopo, in questa crasi di luogo e spazio, il loro dopo oltre è in realtà qui. La poesia continuamente fa riferimento all’Altro come a questo oltrequi – anche la fondazione dell’antipoesia lirica di Io è un altro, stabiliva ancora una relazione di passaggio metamorfosi. Nell’ “è” c’è la tensione di rinvio da IO all’alterità. E tutta la poesia di Sereni vive in questo prendere forma di non-esistenza. In Stella Variabile tempo è questa confusione di passato e presente, vivi e morti in cui neppure la sua zona hereafter tuttavia trattiene, anzi nel raccogliere sfalda, nel farsi attraversare si fa perdita.
la poesia non è un’apoteosi, un fine e nemmeno uno strumento, ma un campo di forze, un luogo d’assedio assoluto, dove ogni punto, ogni verso, chiama a sé parole distanti millimetri o universi, secoli o istanti e li riunisce nell’attimo del loro culminare. Sereni agisce in un “tempo pietrificato in spazio / di mutismo” avverte gli amici su come “i tempi da quanto/ tempo stanno dandoci torto?” Leopardianamente, tempi di progresso in cui ci siamo avviati in un tempo di pace post storico, immaginando che pure un prato fiorito possa essere segno di un futuro – e invece Natura non è garanzia di fronte al tragico dell’esistere, il tragico che sempre l’umano manifesta, nella Storia:

da “Stella  variabile”.. Sererni
purchè si avesse una storia comunque
 -E intanto Monaco di prima mattina sui giornali
Ah meno male: c’era stato un accordo –
Purchè si avesse una storia squisita tra le svastiche
Sotto la pioggia un settembre
Oggi si è – e comunque si è male
Parte del male tu stesso tornino o no sole e prato coperti

Opposto a questo essere noi nel male, comunque, da esistenti, Sereni ci conduce invece dentro un teatro della memoria che è “tutto il possibile” come il mare, anche se nessuno verrà più realmente – eppure verranno sulla riva di questo mare, le ombre, i morti, gli attesi, e da opposte rive rimanderanno a noi i suoni, i segni, gli sguardi della distanza, barbagli, e saranno come “Luce di stelle spente che nel raggiungerci ci infuoca” .



10.1


Curiosamente, ma non troppo viste le  sue letture scientifiche, Vittorio Sereni fa in Stella variabile lo stesso esempio di Carlo Rovelli

Sereni:

Un sasso, ci spiegano,
non è così semplice come pare.
Tanto meno un fiore.
L’uno dirama in sé una cattedrale.
L’altro un paradiso in terra.
 Svetta su entrambi un Himalaya
di vite in movimento.


E Rovelli 36 anni dopo


“un sasso è in realtà un complesso vibrare di campi quantistici, un interagire momentaneo di forze”. 

Del resto è la scienza che sta lavorando da un secolo sui quanti, ma colpisce il caso della stessa metafora, , della proliferazione di elementi, che siano le nostre vite brulicanti o i quanti, colti nel momento del loro  interagire..  Come scrive nella conclusione del poemetto di  SV, Un posto di vacanza, proprio la consapevolezza scientifica sembra dare al poeta una conferma: che la nostra vita non scorre così lineare e progressiva di una soggetto trionfante e costruttore ma che emerge

il disegno profondo
nel punto dove si fa più palese
– non una storia mia o di altri
 non un amore nemmeno una poesia
ma un progetto
sempre in divenire sempre
«in fieri» di cui essere parte
per una volta senza umiltà né orgogli
sapendo di non sapere.
 Sul rovescio dell’estate.
Nei giorni di sole di un dicembre.

Se non fosse così tardi.

Tutta questa dissoluzione in frantumi di una storia non va rimpianta, ma va cercato un altro disegno profondo, un altro progetto. C’è sempre vita, e altre dimensioni, e possibilità. E’ la teleologia di un tempo che tuttavia non ha più un ordine di telos, anzi in cui ci si libera di tutte le metafore del telos . In cui anche lo stesso soggetto che ricorda, condivide il suo rammemorare ma lo offre (“amalo”) anche se  vuole però essere cancellato come se la memoria fosse quell’organismo de-soggettivizzato, collettivo, di tutti, del passato come del futuro. Come scrive – lo abbiamo citato già -  oggi il poeta Ben Lerner nel suo singolare romanzo NMAV

Ma mi chiedo se non sia il caso di considerarle brutte forme della collettività che possano servire come prefigurazione delle sue possibilità: la prosodia e la grammatica come materiali con cui costruiamo un mondo sociale, un modo di organizzare il significato e il tempo che non appartiene a nessuno in particolare ma scorre nelle vene di tutti noi.”


La forma di coscienza del singolo  che si mette in gioco – cambiando la propria grammatica interiore e rischiando anche l’isolamento o come oggi l’indifferenza ( Mandels’tam aveva Stalin, noi il silenzio dei non fruitori  – o il suo contrario l’entropia di comunicazione e segni - non so quale delle due esperienze  totalitarie è peggiore per la poesia)  e quando questo singolo finisce per essere un poeta – diventa linguaggio, esperienza di linguaggio. Parole, scritte. Esperienza, somma dell’esperienza. E così nella Storia e nel Tuttiigiorni, ci misuriamo a cambiare il nostro tempo uscendo dal tempo, costruendo un “posto di vacanza” un campo di tensione come la foce del Magra che raduna segni, pensieri, voci, memori, tracce di Storia e natura, tutto assieme.

Un giorno a più livelli, d’alta marea
– o nella sola sfera del celeste.
Un giorno concavo che è prima di esistere
sul rovescio dell’estate la chiave dell’estate


il giorno concavo che è prima dell’esistere come la vacanza simbolicamente è fuori, sul confine – e non è un caso che il libro si chiuda con una poesia in cui l’Io poetico di Sereni usa il dato autobiografico del compleanno a luglio per un’apparizione  di un altro spaziotempo concavo, che è fuori dal tempo dal calendario (di campionato) che è un luogo vuoto ma che nella coscienza del poeta, tifoso, risuona di voci, memorie e promesse future: lo stadio, spazio cavo di un altrotempo


Il gran catino vuoto
a specchio del tempo sperperato e pare
che proprio lì venga a morire un anno
e non si sa che altro un altro anno prepari
passiamola questa soglia una volta di più
sol che regga a quei marosi di città il tuo cuore
e un’ardesia propaghi il colore dell’estate.


Ancora una volta il passaggio è dal tempo naturale ad una ricerca di altrotempo (come esiste l’altrove, pensiamo ad un oltretempo) con  l’intensità della luce d’estate che,  quasi come un esplosione meridiana, abolisce le ombre dal reale, abolisce il divenire, si fa  tempo fuori dal tempo, quello misurato del calendario. .Quello che realmente esiste, superando le raffigurazioni metaforiche, è tuttavia la coesione di diverse tensioni in movimento  della coscienza del poeta. Che inventa un diverso tempo sospeso per questo momento che promette, promette storia e infinito.

10.1. 1


Sereni, poeta del ritardo nella Storia da cui vedere un balenare di futuro senza averne il senso granitica delle ideologie. Poeta anche della prigionia – il suo senso del ritardo, divenuto poi tema poetica, nasceva dalla lunga permanenza, benché non drammatica, nei campi di prigionai americani, ben oltre la fine della guerra).  

una poesia delle ombre e della memoria, altrettanto e forse più tragicamente lo è quella un altro poeta, Osip  Mandel’stam chiamato, lui malgrado, forse ad incarnare anche nella sua biografia questa dimensione di un diverso vivere il tempo fuori dal tempo…… i suoi testi, insomma la sua poesia,  hanno cominciato a brillare quando la stella della persona fisica ,  annullata dalla prigionia,  era già morta per ordine di Stalin, in un gulag della Siberia , nel 1938. In quel momento la poesia di Mandels’stam era ridotta a fiammella fioca, non esisteva, se non per quei pochi amici che lo leggevano e custodivano in segreto. E’ solo dopo che la sua poesia è riuscita a vincere il tempo e la morte, la sparizione, l’annullamento, a superare le barriere spaziali e temporali grazie anche al coraggio della sua prima sodale la moglie Nadzedna Mandel’stam che con lui aveva condiviso questa tragica avventura dentro il tempo, sfidando il tempo – ciò che è passato e sepolto nel nulla , scomparso per sempre, questo sperano i dittatori… e invece, abolendo il tempo, la poesia di Madel’stam ci parla ancora oggi, dentro un presente continuo.

Serena Vitale, cura e introduce un libro in cui sono raccolte le Ottave del poeta russo, in un libretto che – il caso vuole -  Adelphi pubblica contemporaneamente a quello de “L’Ordine del tempo” di Rovelli (Kairos? azione furbetta di un dyubbuk, l’omino gobbo che tormentava Walter Benjamin e che sta nascosto nei meccanismi della realtà? )
Introducendo “Quasi leggera morte” Serena Vitale  ci avverte che “Mandel’stam non amava il caso prepositivo, quello dello stato in luogo, lo infastidiva “la buddhistica quiete ginnasiale del caso nominativo - è la sintassi a confonderci “ – scrive il poeta citato da Vitale   che aggiunge “bisogna sostituire tutti i nominativi con dativi che indichino una direzione.
Questa è la legge della materia poetica, mutabile e sempre mutante, che vive solo nello slancio esecutivo” (corsivo mio)

lo si diceva per i libri sopra analizzati di narrativa, lo ripetiamo a maggior ragione per la poesia:  la propria materia è la lingua e la sintassi, per questo non c’è miglior alleato di una scienza impegnata nella stessa rimessa in discussione di leggi della materia tout court. Già il poeta russo aveva saputo opporre al determinismo assoluto e schematico dei canoni del socialismo sovietico e della sua para-filosofia, un ‘idea di trasformazione biologica desunta dai neo-lamarckiani,  che tuttavia non è soggetta a normative né a selezione, ma tutta la natura , anche le sue parti più deboli concorrono ad una mutazione incessante.

Il cuore segreto del tempo è sempre stato nel suo fluire, la sua metafora era la sua grammatica profonda che ruota intorno all’intreccio tra un passato misteriosamente vivo nella memoria e un futuro che ci brucia già, non ancora accaduto. Invece la fisica del XX secolo – scrive Rovelli -  si è scontrata questo cuore e  con la questione del tempo,  ma per molto tempo le nuove scoperte hanno fatto fatica ad affermarsi..  laddove i poeti avevano già segni di intuire.. La scienza ha bisogno a volta di un’ illuminazione metaforica per sbloccarsi.

Scrive Rovelli commentando il cuore metaforico del tempo espresso da Rilke ( “l’eterna corrente /  trascina sempre con sé tutte le epoche”) scrive:

la differenza tra passato e futuro – fra causa e effetto, tra memoria e speranza, fra rimorso e intenzione – nelle leggi elementari che descrivono il mondo non c’è”

Insomma, non c’è un pria e un dopo, non è il cuore materico del reale. E’ solo una metafora, vuota. Non vuol dire nulla. Se non altro a partire  da questo dobbiamo guardare ad altre metafore con cui interpretare il mondo.


Si dirà: sono astrattezze teoriche, elucubrazioni ma di nessuna portata concreta. Di nessuna conseguenza concreta nella nostra vita. Forse, perché in effetti la nostra vita è soggetta ad una strana ipnosi, catalessi.

E tuttavia, come scrive in un altro saggio Giorgio Agamben (“Che cos’è il contemporaneo?”) “appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo, colui che non coincide esattamente con esso”. Con Mandel’stam dunque possiamo dire che non è solo una spezzatura nell’epoca-belva che spezzò poi le vertebre al singolo, alla sua dimensione di tempo parallelo interiore. Sappiamo che il tempo è questo, un ‘infinita dimensione di non-tempi e non per questo essere qui e anche non ora, un esserci non necessariamente qui. Questo ispira il lavoro del poeta sul tempo.

Se pensiamo allora al poeta sotto il giogo di Stalin, sotto la retorica pomposa dell’unione Sovietica – e di conseguenza di tutti i partiti comunisti del mondo in quell’epoca, anni 30, in cui si voleva imporre – e in parte si impose incerti ambienti culturali oltre che in Russia - un credo ideologico che leggeva la storia come una sere di cause ed effetti concatenati e con una logica – fuori della quale eri un reietto.
ma non fu solo opposizione politica, esistenziale. Fu anche forma di conoscenza. Per questo Mandel’stam non fu solo un martire, la sua poesia non fu solo biografia, ma visione, attraverso un’intuizione di una diversa entità di ciò che chiamiamo passato, futuro, presente. Da qui la fiducia, senza una filosofia della Storia alternativa, ma puntando il suo calamo sullo snodo – realmente epocale – del senso del tempo……

Mandel’stam, nelle Ottave:
 
Da aghiformi calici appestati
Beviamo l’ossessione delle cause,
con uncini tocchiamo grandezze
infime, quasi leggera morte

 E di fronte al groviglio delle asticelle
Il bambino resta in silenzio –
Dorme, l’universo, nella culla
Della piccola eternità

Perché un poeta lotta contro  “l’ossessione della cause” ? non ha niente di meglio che fare speculazione? Per Mandel’stam tuttavia proprio la questione del “tempo” e del suo “ordine” (sovietizzato, come si vede il tempo è storicizzabile) è fondamentale:   “in una società – scrive Serena Vitale introducendo le Ottave del poeta russo nell’edizione Adelphi  - che celebra il radioso domani dell’umanità e tutto immola all’altare del futuro, Mandel’stam si trasporta nel passato, indietro verso un tempo senza data in cui l’eternità è ancora ‘ piccola’. . Indietro in uno spazio primigenio dove senza alberi mulinano già le foglie e i minerali, bambini troppo vivaci, ruzzano scalmanati mentre si aggregano per formare la crosta terrestre, dove il sussurro è già poesia, il vuoto contiene già la forma” .
Così Serena Vitale, aderendo in maniera formidabile al nucleo profondo della poesia di M. che tuttavia non è un nucleo statico, ma è appunto questa tensione-metamorfosi che ci sposta fuori dal tempo, se tempo deve essere quello rigido del potere che come Charlot in Tempi moderni vuole incastrare i singoli dentro i suoi meccanismi. Il tempo è totalitario – e non a caso sia i regimi comunisti con la retorica dell’avvenire radioso, sia quelli capitalisti, con la loro organizzazione in celle di progresso, basano sul tempo organizzato, definito e in prospettiva il loro impianto totalizzante.


La non-coincidenza col suo tempo del poeta non nasce solo dal contrasto politico ed esistenziale, storico, con il potere del suo paese. E’ anche la sfida a smontare il presente di una progressione verso un destino supremo disegnato dall’ideologia. E’ il contemporaneo che sfida il presente, mostrando l’illusione di disegnare un ordine del tempo, rivelando ad esempio una presenta attiva del passato che non muore, che fin dall’origine, dalla culla dell’universo ai tempi storici, agisce a annullare quell’ordine, a riproporlo solo come esperienza psichica e personale. Ovvero ciò che il potere totalitario, sia esso di un regime stalinista, sia esso quello più vicino a noi del potere dell’algoritmo che ingabbia i nostri desideri, non tollera.


venerdì 1 dicembre 2017

IL TEMPO E' IL SUO RACCONTO ( Parte 5 )

riprendo due passi dal post precedente

 scrive Agamben : ” una pagina dei taccuini di Chiaromonte contiene una straordinaria meditazione su che cosa rimane di una vita. Non che cosa abbiamo o non abbiamo avuto è per lui il problema essenziale – la domanda vera è, piuttosto : “che cosa rimane?”, “che cosa rimane del seguito di giorni e di anni vissuto come si poteva, e cioè secondo una necessità di cui neppure ora riusciamo a decifrare la legge, ma insieme come capitava, e cioè a caso? La risposta è che rimane, se rimane, ‘ quello che si è, quello che si era
Si è. Si era. Quando? Non c’è tempo, accade, è accaduto. E’, qui e non solo ora. Per noi alla fine  scrive sempre Chiaromonte citato da Agamben -  “rimane l’amore, se lo si è provato, l’entusiasmo per le azioni nobili, per le tracce di nobiltà e di pregio che si incontrano nelle scorie di una vita”  e dunque  “rimane quello che era, quello che merita di continuare e durare, ciò che sta”.


Il tempo è quel che rimane. Quel che rimane non è un sintagma che esprime passato, del resto resto si rimane per dopo, e si sta.

(...)
E’ interessante  che che Carlo Rovelli che ci ha guidato presentandoci il lavoro matematico e torico sperimentale di cui si occupa,  in qualche modo “fuori dal tempo” nel senso però di “fuori dalla concezione di temporalità” che abbiamo, e dopo aver scritto un libro in cui si presentano le ultime ricerche che la fisica quantistica sta effettuando sul tempo che dimostrano come il tempo non esista, scriva ad un certo punto ( Rovelli  in LODT  ……. )

  C’è un terzo ingrediente che fonda la nostra identità e probabilmente è quello essenziale, quello per il quale questa discussione delicata compare in un libro sul tempo: la memoria (..) .il nostro presente pullula di tracce del nostro passato. Noi siamo le storie per noi stessi. Racconti. Io on sono questa istantanea massa di carne sdraiata sul divano che batte la lettera “a”..sono i miei pensieri pieni di tracce della frase che sto scrivendo, sono mia madre e mio padre, sono i miei viaggi adolescenziali, sono tutte le tracce degli attimi di me, sono quello che un istante fa ha battuto sul computer la parola “memoria”. ..Io sono questo lungo romanzo che è la mia vita. “
E poi aggiunge un concetto importante per lo scienza di fisica nucleare che decostruisce la nostra nozione di tempo “
 “E’ la memoria che salda i processi sparpagliati nel tempo di cui siamo costituiti…il tempo è la forma con cui noi esseri il cui cervello è fatto essenzialmente di memoria e previsione, interagiamo con il mondo, è la sorgente della nostra identità e del nostro dolore. ..il tempo è dolore.”

Occorre, sembra dirci Carlo Rovelli,  d’ora in poi convivere con una dissoluzione della temporalità, del suo ordine e forma, proiettandola se non nel quotidiano pratico, almeno nel senso interiore,  come lo hanno sempre pensato storici, scrittori e filosofi. Il tempo che “non esiste” , ma che è frutto di una mutazione, di un’ agglomerato di “eventi” che “accadono”  in uno spazio di trasformazione della materia. (“Non esiste il tempo esiste solo lo spazio”, una delle frasi choc del libro di Rovelli, se vogliamo).

e dunque la quinta parte del saggio



 dall'Autoritratto (cit) di Agamben:


“…Essere a casa nel non ritrovarsi. La sola cosa sicura è che non sappiamo più dove veramente siamo…sentiamo di essere in un punto, quel dove – ma non sappiamo situarlo più situarlo nello spazio e nel tempo. Tutti i luoghi che abbiamo abitato, tutti i momenti che abbiamo vissuto ci assediano, ci chiedono di entrare – da dove? Dove è dovunque e in nessun luogo. Diventare intimamente stranieri a sé stessi, senza più patria né matria.”  (p. 9)

6.3


Né luogo né tempo. Non c’è il tempo, ma c’è la durata . Il sottile sentimento di una “durata” che viene espresso in  “Canto  alla durata” il poema di Peter Handke , non a caso pubblicato nel 1986 e che oggi viene riproposto da Einaudi, un poemetto che richiama la memoria di alcuni luoghi che determinano in noi attraverso la memoria un particolare senso della durata, del durare potremmo dire, con un termine tedesco Dauer, ovvero quello stato di coscienza in cui l’insieme dei ricordi collocati in un punto preciso, per quanto minimo, e la successione di fatti,  si trasformano in senso del vissuto, in intuizione del vivere, che va inteso non n una declinazione elegiaca e malinconica, quanto in una bruciante e contemporanea “ora del vero sentire”
Handke CAD:







“Restando fedele
a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante
impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni
 sentirò poi forse
del tutto inatteso
il brivido della durata”


. che non vuole più essere nostalgia, né presente tenuto in vita artificialmente. Stanno, tutti i luoghi, tutte le persone, tutti i momenti, stanno, ma non stanno in nessun luogo che possa avere un’origine geometrico, una classificazione numerica, un prima e un dopo. Stanno, tuttavia, in una cloud, la pagina che le narra, dimenticando i tempi verbali: come diceva Chiaromonte “sta”, è quasi un non tempo è un affermazione solo spaziale.



6.4


Se oggi non avessimo Rovelli a portarci verso questa realtà del tempo, con una decisa concretezza della teoria matematica e delle affermazioni da  scienziato dei suoi,  si potrebbe dire che un’affermazione come quella delle righe sopra era solo letteratura d’effetto e di suggestione. Oggi corrisponde ad una categoria della mutazione anche dentro la storia – che resta certo misurabile in anni, per tenere in ordine il discorso del tempo -  capace di cambiare il nostro modo di vedere, sentire nel profondo : se con orologi e manuali di storia teniamo il tepo in sequnza nel suo discoro storiografico è la leteratura a guidarci dentro una realtà del tempo e del suo disordine, portandoci poi a concepire anche una  forma diversa di questa Storia.

 Insomma la fisica ridefinisce la teleologia, attraverso la letteratura, punto d’appoggio dell’etica.

7.0

Nei giorni in cui finivo questi libri, vedevo sia una mostra che uno spettacolo teatrale che ancora una volta, incredibilmente, fondevano assieme temi e forme del tempo e della memoria e creavano una tensione esplosiva, laddove il tempo, inteso come un fluire inafferrabile come lo intendiamo e lo abbiamo sempre inteso,  rappresenta di fatto  il sosia dell’oblio.


La mostra è di Christian Boltanski a Bologna “Anime. Di luogo in luogo.”. Interessante che un artista del tempo e della memoria àncori il suo sguardo retrospettivo esattamente a quel conglomerato di luoghi e nomi, ombre e visioni come era nel testo di Giorgio Agamben ANS. 




Nell’opera di Boltanski all’ “impermanenza” (un concetto che trae dall’amata cultura giapponese)  del tempo e delle sue tracce, si contrappone un’accumulazione di oggetti perduti, vestiti svuotati e gettate come in un deposito, fotografie-ombre, sfocate. Sono le tracce di una dipartita, in un viaggio, sono il “qui” del dopo futuro (“Dopo” è una delle mostre antologizzate, a partire dall’”Après” della morte) in cui il tempo della vita riguardando indietro i tempi dell’esistenza, ne legge la  memoria, che però è un recupero sempre completamente impossibile, dunque un fallimento ma continuamente tentato: e la memoria tuttavia,  se da un lato rivela il suo fallimento, mette in luce un dissolversi ben più radicale: proprio quello del tempo, inteso come progetto e come deposito – archivio ordinato – nel tempo liquido di Boltanski, anzi più gassoso, il tempo tendo ad assomigliare a quella molteplicità compresente che abbiamo incontrato anche ne il tempo-che-non-esiste di Rovelli e della fisica quantistica così come in quello dei narratori , una sorta dislocazione continua dentro la memoria-luogo.


7.1


Le ombre, le tracce, slittano si confondono, confondo i mille piani della memoria, si ripropongono in tempi diversi ad interrogarci, ricomponendo il non componibile:  – come il cumulo di macerie che sembra comporsi IN UN areo Dc9 e non un cumulo di attriti che cadono dall’esplosione DI UN  Dc9 – così come nelle strade di Bologna tornano dei volti che già sono comparsi, in un tempo passato, i volti degli scomparsi durante i rastrellamenti del 1945 che i parenti lasciavano per sapere se qualcuno li aveva visti. 

Oggi quei volti, tornano ad essere affissi, nella  città, per volere di Boltanski, con foto giganti, negli spazi preposti alla cartellonistica pubblicitaria,  nella loro anonima, incomprensibile  – per i bolognesi  di oggi – enigmaticità, ma soprattutto con  una sovrapposizione e una confusione del tempo storico dentro il tempo della memoria: oltre ad essere una significativa citazione, ma cosa tornano a chiedere quegli occhi ora sconosciuti agli altri occhi che li incroceranno? Di essere nel presente, di essere ricordati? Di essere vivi nel solo fatto che vengono guardati? Chiedendoci, tutti noi passanti, chi siete

Quegli occhi e volti di Boltanski che ci guardano nelle mostre, noi non sappiamo chi siano, ma sappiamo che sono unici, e l’unicità di ognuno che vuole tornare indietro dallo smarrimento e dall’oblio, vuole tornare nel tempo, ma non nel LORO tempo ma nel NOSTRO – ma così anche il oro tempo è anche insieme, contemporaneamente il nostro. Ecco allora che il perdurare della traccia, anche quella strappata all’impermanenza e all’opaco, diventa il compito dell’artista: non quello di trasmettere una memoria necessariamente dai contorni precisi – ma a dispetto della sfida all’opaco, quanto è esatta e precisa la ricostruzione documentale di B.  -  ma  soprattutto  quella di salvare dall’affogamento, anime morte, tracce migranti di una memoria in fuga dall’inferno…., l'ombra, la foto, il vestito, che Boltanski accumula nelle sue installazioni,  fissata un'impronta senza nome, immortala una presenza in forma di immagine, stabilisce una durata.



7.1.1


“Oro” è, nella mostra, un’installazione fatta a montagna dorata. La doratura, avvicinandosi, si scopre sia quella delle coperte termiche che tante volte vediamo nelle dirette tv dei disastri, nei terremoti, per riparare i salvati dal freddo – e ora più spesso le vediamo avvolgere i migranti tratti in salvo dalle barche che affondano nel mar mediterraneo. La promessa dell’oro, emblema dell’Occidente,  li avvolge, ma è un oro di bologna, è un falso oro, eppure li salva, restituisce loro la vita. Questa massa di corpi dorati come santi nelle icone orientale, ci guarda con occhi senza nome a rispondere “futuro” alla stessa domanda che abbiamo fatto ai visi dei morti fucilati dai partigiani a Bologna: “chi siete?”


7.1.2



Scrivevo prima di una mia idea suggestiva, di una particolare “storicità italiana” della revisione di idea del Tempo Storico: ecco, forse non è un caso che un artista internazionale come  Boltanski abbia lavorato molto,  oltre che con il suo trauma personale e storico legato alla Shoah, anche con la città di Bologna, divenuta simbolo suo malgrado emblema di una storia assurda e  – un po’ come si diceva l’oro di Bologna – del cuore nero di un teatro storico italiano di misteri, finzioni, sangue, morte. E che trama di pensieri  è quella che attraverso Boltanski ci riporta a Bologna come Oro Falso e Cuore Nero di una storia interrotta del nostro paese, come fu cuore nero della vita interrotta di Graziella Di Palo che proprio ad uno di quei fatti che coinvolsero la città di Bologna ha legato la sua vita e la sua scomparsa ?
.  E come Boltanski fa, mescolando il personale autobiografico, il singolare biologico anonimo delle vittime, e la storia collettiva, anche noi possiamo collocarci in questo doppio binario e leggere sul nostro corpo memoriale sia in quale modo la Storia è andata avanti (se leggendo LADS ci identifichiamo con Dora ) sia anche in modo opposto la storia è rimasta monca, amputata (identifichiamoci con Graziella) – 

un po’ come altre  generazioni trovano il loro simbolo di una storia di interruzione conflittuale: la mia generazione e certamente quella immediatamente dopo di me, come quella dello scrittore Giuseppe [ma1] Genna, trovò un emblema di tutto ciò in Alfredino Rampi, sul cui povero corpicino intrappolato finirono tutti morti di stragi omicidi sparizioni attentati di un più che decennio passato (1969-1981) precipitati nel pozzo artesiano di una storia collettiva uscita dai radar della coscienza civile. (il nostro presente politico, precipitato misteriosamente al grado zero della dignità,  lo testimonia)

8.0



Siamo tornati alla durata, a ciò che resta, al tempo che compie la sua rivoluzione saturnina, al suo canto, che ritrova negli anelli paralleli di una narrazione distopica e stratiforme, il suo diverso ordine, il suo non-ordine. La storia, come scriveva  Chiaromonte, “sta” se la narri, se continui a narrarla, rimane e sta.
C’è uno spettacolo teatrale che ho poi visto a Maggio a Milano, dopo queste letture e che forse – dando concretezza anche ai corpi di un intreccio narrativo della memoria su un palco e in video – sembra anch’esso allinearsi su un ‘idea di un tempo personale e storico che canta la sua durata solco dopo solco. 


E’ “Timeloss” dell’iraniano Amir Reza Koohestani. Timeloss è, in inglese, la crasi tra tempo e perdita. Ed ‘ uno spettacolo sul tempo perduto che tuttavia non è mai perso realmente, continua a incalzarci e a vivere e a generare –  diviso tra questa vitalità e l’essere immobilità tronca: uno spettacolo basato su una vicenda privata, che però è una potente allegoria di un paese (l’Iran)  e di una storia, bloccata nell’immobilismo del potere religioso medioevale che lo stritola ..Allegoria e tuttavia “exit strategy”.

“Timeloss” racconta, mette in scena una doppia storia in due tempi diversi, ma in fondo nello stesso tempo senza tempo: sul limitare dell’anno 2000,  all’età di 22 anni, , Koohestani nato a Shiraz nel 1978, uno dei figli della rivoluzione kohmeinista,  vive la fine di una storia d’amore. Da questo dolore e perdita nasce uno spettacolo “Dance on the glasses” che debutta nel 2001 e diventa un successo mondiale. A dodici anni di distanza, nel 2013, Koohestani scrive un nuovo spettacolo e riscrive quella storia e la ripensa al tempo stesso.

Grazie al teatro, anzi,  la rivive, rimettendola in scena, affidandola a persone vive. E qui un’ulteriore intersio concettuale: l’autore la sovrappone temporalmente ad una nuova vicenda: quella della storia dei  due attori dell’oggi,  e che sono sulla scena di  Timeloss. E che storia è? Di due persone che si amavano nel 2001, quando erano attori e mentre interpretavano proprio Dancing in the glasses – ma che ora si sono lasciati…Koohestani tenta un intreccio di tempi anche spericolato,  tra realtà e finzione: infatti se la storia d’amore  dell’autore (scritta in Dancing)  era stata “rappresentata” da due attori che interpretavano il ruolo dell’autore e della sua ex protagonista, ora in scena per Timeloss ci sono di nuovo e REALMENTE i due attori di quella performance – e all’epoca nel 2001 erano fidanzati –  ma che ora interpretano loro stessi. Con un congegno meccanismo drammaturgico avvincente: l’autore Amir Koohestani  immagina in Timeloss infatti che egli stesso, autore id Dancing, chiami proprio quei due attori del 2001 (questi qui, invecchiati del 2017) a doppiare un DVD con la registrazione dello spettacolo del 2001 che aveva l’audio disturbato. Così se nel 2001 gli attori interpretavano mentre erano fidanzati  “Amir” e la “sua ex” , ora in scena, anche loro separati,  mentre doppiano loro stessi, pronunciano delle parole  – nelle pause di lavoro di doppiaggio  – da coppia separata (come era la coppia che da fidanzati avevano interpretato nel 2001).  E non solo, spesso non c’è discontinuità : mentre pronunciano le parole dello spettacolo del 2001 i due attori si ritrovano a mettere LE LORO  parole di lite e divisione che vanno a sovrapporsi a quelle DEI DUE PERSONAGGI della storia vissuta e poi scritta da Koohestani  -  così come tecnicamente la vertigine realtà/finzione è aumentata dal fatto che dietro i due attori inscena oggi, scorrono le VERE immagini e l’audio reale – a cui vanno a sovrapporsi spesso in sinc – dello spettacolo Dance on glasses, che fu effettivamente  ripreso nel 2001 per un DVD. E’ complicato, ma tutto si tiene e il tempo non sappiamo più che sequanz abbia, ma è qui, sta sul palco, sta nella storia..

8.1


Ho voluto raccontare questa operazione di auto-finzione teatrale perché anche questa mostra non solo la sovrapposizione di strisce temporali di una vicenda – che nella fusione letteraria stanno tutte assieme – ma anche la sua declinazione formale, drammaturgica perché se c’è un tentativo di vivere con un senso del tempo diverso, non più lineare, non più progressivo, non più ordinato, e di  rappresentarlo – anzi quasi viverlo non può fare a meno della sua narrazione – questo non può passare per una ricerca di complessità formale, che non è solo, in questo caso, formalistica.


9.0


Cercando di osservare con uno sguardo generale  questa serie di ipotesi – non un conclusione, ma solo uno degli angoli di una costellazione che continua a galleggiare  – possiamo dire che la fisica ci sta rivelando qualcosa che già, come accaduto in passato, la letteratura pare intuire, ovvero che il tempo,  come le nostre storie – dunque le identità, le verità, è come una collezione di strutture che fanno saltare ogni metafora – dello scorrere ecc ma pure le altre metafore della perdita, del venire: tutto è in una compresenza, compresenza di possibilità, compreso il passato. Anche perché le cose stesse – ed è questa la scoperta correlata a quella del tempo – non esistono in sé ma si si danno proprio in quel campo di tensione di eventi della materia che non ha neppure un centro originario dell’infinitamente piccolo, ma la materia stessa esiste in un campo di tensione di elementi e solo la loro reciprocità energetica genera la materia che non è che questo  suo non essere definibile in una “ultimità”.
Scrive Rovelli
“nella grammatica elementare del mondo non ci sono né spazio né tempo: solo processi che trasformano quantità fisiche le une nelle altre, di cui possiamo calcolare probabilità e relazioni.
Se ne facessimo – e dovremmo farlo – un paradigma anche morale e un disegno teleologico, bé alla luce di ciò forse si smonta l’idea di utopia, la sua metafora teleologica fondata su una direzione verso il futuro,  ma ad esempio verrebbe meno anche la metafora – e il concetto chiave epocale -  di “ fine della storia” – quel concetto benché filosofico sarebbe messo radicalmente in discussione dalle conclusioni della scienza. Non è questione di supremazia di una modalità della conoscenza, ma di aggiornamento delle metafore fondative della nostra cultura, come è sempre accaduto.

Tant’è che è stata forse la filosofia ad anticipare l’idea di un tempo smontato: con il passato non determinato e  il futuro non aperto e a venire. Semmai, dimensioni varie parallele, che creano un campo di trasformazione nella compresenza e quel campo siamo noi, che il tempo è in noi: più ci rivolgiamo a noi stessi per capire, più siamo tempo, siamo quella che Rovelli chiama
“labile struttura del mondo, ciò che ha la caratteristica di dare origine a ciò che siamo: essere fatti di tempo. A farci essere, a regalarci il dono prezioso della nostra esistenza, a permetterci di creare quell’illusione fugace di permanenza che è la radice del nostro fluire.”



9.1


Il fluire è la nostra illusione. Metafora fondativa da sempre, fino a che oggi la scienza ci dice: Noi non scorriamo in un tempo, non ci porta il destino: è la  continua trasformazione a farci essere, a far  essere noi e chi è passato, noi e chi verrà. Cos’ siamo spinti a superare anche questi tempi verbali. LA lentezza della forma della narrazione, la sua complessità che – come nella trama di “Timeloss” di Kooehstani  - pare rendere il tempo in una slow-motion, come nei quadri-video digitali di Bill Viola L’annullamento dell’idea di tempo, nel bene e nel male,  con le sue maglie imprigionanti (è stato il destino) o con la fiducia in una redenzione (dell’utopia). LA scienza studia la materia e il tempo: le sue conseguenze? Tentare di cambiare la visione diciò che accade riconsiderare la nostra responsabilità di relazione nell’agire.
 L’opera (arte letteratura poesia teatro) abbatte questo muro, tra il mondo delle cose e la coscienza interiore e la scena/il dramma/il romanzo rappresentato sono proprio questo non-luogo dell’accadere, che è il tempo come non lo avevamo mai immaginato e che potrebbe avere ripercussioni morali.

( nella misura in cui però la classe intellettuale riuscirà a mantenere il suo ruolo di mediazione con l’opinione pubblica – tutto questo scritto si regge su un concetto: che Carlo Rovelli è autorevole e che la sua ricerca è fondata e riconosciuta dalla comunità scientifica –  ovviamente se in questo mondo dell’isteria social da protagonismo chiunque può dire ai suoi centomila follower che  sono cose astratte e inuitili,  ovviamente tutto decade, ma non solo questo futile scritto, ma proprio tutto tutto.)
L’opera d’arte e di finzione, immaginativa, quella forma poetica di movimento dei tempi, quella evoluzione creatrice è proprio l’organizzazione di una “molteplicità condivisa” che porta ad avvicinare la forma dell’immaginazione, il funzionamento relazione della cognizione celebrale e le scoperte della materia nel loro non-ordine non-più temporale….

Rovelli:

“il tempo è la forma con cui noi esseri, il cui cervello è fatto essenzialmente di memoria e previsione, interagiamo con il mondo è la sorgente della nostra identità”.








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