sabato 22 febbraio 2020

LAURA IMAI MESSINA "Quel che affidiamo al vento" (Piemme)



Ne “Il Linguaggio e la morte” Giorgio Agamben rileva che nella tradizione della filosofia occidentale l’uomo appare come il mortale e, insieme, come il parlante. “Egli è l’animale che ha la ‘facoltà’ del linguaggio (…) e l’animale che ha la ‘facoltà’ della morte”. Il linguaggio è la materia, la morte è l’obiettivo di chi scrive. Del resto, un altro autore tangente, Blanchot scriveva “Lo scrivere si riferisce all’assenza di opera, ma s’investe nell’opera sotto forma di libro”. Questo è un assunto generale, lo si può applicare anche al romanzo di Laura Imai Messina, “Quel che affidiamo al vento”, che si può definire un romanzo che parla della morte, mettendo in scena una modalità di conversazione con il mondo dei morti, degli assenti. Ergo, in qualche modo ci parla anche di libri, di storie che per essere fermate, fissate in opposizione alla loro impermanenza, diventano scrittura.                                                                                                                                                                                                 Credo che anche una chiave del meritato successo che sta avendo questo romanzo sia dovuto anche al fatto di aver toccato corde psicologiche collettive dovute all’evoluzione della nostra cultura in rapporto alla morte e in generale in rapporto con gli assenti (tutti quelli che in qualche modo sono distanti) tenendo conto però che anche un romanzo è un esercizio dell’assenza.
                                                                                                                                                                                                                                                                       La storia di “Quel che affidiamo al vento” ruota intorno a un luogo reale, una cabina telefonica, che si trova in Giappone, nella città di Otsuchi sull’Oceano Pacifico. C’è dentro un telefono di quelli vecchio stile, con la ruota dei numeri, ma non c’è cavo. Cabina e telefono erano stati creati come un altarino privato dal signor Sasaki Itaru, nel 2010 dopo la morte di suo cugino, per poter parlare ancora con lui, un rito domestico di intimità coi morti che si riallaccia alla tradizione orientale ancora forte. Con il disastro dello tsunami che nel 2011 ha travolto la costa nordorientale del Giappone, quel giardino è diventato meta di pellegrinaggio per tanti, prima le persone della costa vicina, colpite dal disastro, poi da tutto il Giappone, poi da tutto il mondo.
 Arrivavano nel giardino, entravano nella cabina e paravano nella cornetta, per continuare il dialogo  Il signor Sasaki aveva avuto un’intuizione giusta: alzare un telefono, significava dare forma esteriore e quotidiana, familiare, al vuoto. Perché il dolore ha la forma delle cose intorno a noi. Come nei lutti, è il cappello lasciato sulla porta, o gli abiti nell’armadio. Oppure i guanti indossati per lavare I piatti fino al giorno prima. A volte aprendo un barattolo di crema, trovare ancora l’impronta del suo dito passato da chi non c’è più.

 Il dito che passa sulla crema crea un segno, una traccia. È l’archetipo della scrittura.  Teniamo reliquie e ricordi. Sono la grammatica del nostro discorso amoroso con i morti. Dare voce all’assenza, esattamente come fa il vento invisibile e presente nel romanzo.  Parlare con i morti è scrivere i dialoghi di una storia che continua. È per questo che in qualche modo, finisce per essere un romanzo sulle storie, se non un metaromanzo.
con chi ci è stato sottratto troppo presto, o con violenza, o con l’imprevisto. Non c’è nessuno, ma è l’assenza che vibra o soffia il vuoto, diventa spazio di una paradossale risonanza melodiosa della mutezza.
A Bell Guardia, il proprietario accoglie tutti. Perché il signor Sasaki sa per primo quanto sia importante continuare il dialogo è un rito giapponese, ma appartiene tutte le religioni, nella nostra, mediterranea, alcune forme come l’esperienza napoletana delle capuzzelle addirittura arrivano ad adottare morti “anonimi” - Butsodan, gli altarini casalinghi dei morti nel buddismo o sepolcri foscoliani sono forme diverse della stessa esigenza. (nel libro i tanti rituali delle mote culture, sono riassunti in un libro per bambini che Yui compra a Hana)
Telefonare è gesto quotidiano, ma anche la cabina ha senso, perché nel mondo digitale, essa è già di per sé un piccolo tempio del tempo perduto, delle cose che non ci sono più, perché I telefoni stessi sono stati dismessi.  
2. Tornando al libro, nel giardino di Bell Guardia, luogo reale della finzione narrativa, si incontrano I due protagonisti, Yui e Takeshi. Entrambi arrivano da Tokyo. Lei è una conduttrice radiofonica che ha perso la madre e la figlia nello tsunami del 2011. Lui è un medico di Tokyo che vive insieme alla madre e alla figlioletta, Hana, muta da giorno in cui la mamma è scomparsa per una malattia. Dal dolore per il vuoto e grazie alle parole affidate al vento – sebbene Yui non vada a Bell Gardia per parlare, quanto per respirare l’atmosfera della rinascita, provata dagli altri esattamente come si fa essa stessa tramite delle storie altrui al telefono in trasmissione – i due proveranno a riallacciare I fili con la vita. Non sarà facile, non è mai così lineare e meno ancora nella cultura giapponese, restituire la cultura di ciò che è così intimo e misterioso. I morti, tuttavia, hanno una funzione: ci parlano, permettendo a noi di parlare loro. E così si parla, assieme, della vita. Non c’è nulla di deprimente in questo, perché se parliamo con I morti, allora vuol dire che noi non vogliamo morire, ma vorremmo far vivi loro.


3.  Una delle fragilità maggiori che viviamo oggi è l’abbandono, il distacco il silenzio, L’impossibilità di parlare con qualcuno. Non solo per I chiusi nelle monadi delle solitudini metropolitane. E non solo, ovviamente per la morte, certo, ma oggi soprattutto per il mondo iper-connesso che viviamo, la improvvisa e innaturale interruzione di questa connessione con qualcuno crea un dolore che ci sembra innaturale, non abituati più alle distanze, all’aleatorio. 

Ci viene meno la vita, nell’assenza, quel che accade “dopo”. Anche Yui e Takeshi, ad un certo punto passano dal loro dialogo verticale con i propri scomparsi, al racconto orizzontale delle storie dei vivi, di colore che hanno incontrato nel giardino. LE due dimensioni si sovrappongono, l’aldilà e l’aldiqua.

Allo stesso modo e certo più radicale, anche la morte è innanzitutto una interruzione di una storia. Di chi è legato a noi in tutte e due le dimensioni noi vorremmo sapere cosa sia accaduto a loro “dopo”. La morte non mette la parola fine, la morte è solo un’osmosi tra due modi diversi di essere presenti.    La morte cerca di scrivere una storia dopo la parola fine, e in questa storia ci sono I vivi, che sono nel “dopo”.  (1)


L'interruzione della comunicazione nell’amore è un trauma, questo è ciò dove arriva il romanzo di Laura Imai Messina anche oltre lo specifico della morte, che ne è cuore narrativo. Non a caso, rappresentato dal mutismo di Hana, la bambina.
E a proposito di voce, è significativo, ad esempio, che le parole dette da Yui o Takeshi, in cabina non le troviamo mai “nel corpo” narrativo, ma se accade qualche volta, sempre in un “a parte”, nelle pagine di intermezzo in cui Imai Messina mette anche altre note, libri letti, citati, elenchi di cose. Come a dire: la parte più intima NELLA STORIA non la posso mettere. Non è giusto il melodramma, non è rispettoso. Pesa su chi ci è vicino, e in qualche modo pesa anche sui morti.  Ed è come se in quelle pagine degli intermezzi si fosse trovata la giusta parentesi e una traccia mediterranea di un diverso rapporto con l’intimità del dolore.

“Quel che affidiamo al vento” è tuttavia un libro principalmente sulla morte fisica, lo strappo dell’assenza per evento violento, innaturale, e Laura Imai Messina ha il pregio di restituirci, attraverso il Giappone, ciò che nella nostra cultura abbiamo progressivamente perso. Già nel 1977 Philippe Aries ci aveva avvertito con il suo “L’uomo davanti alla morte” di come storicamente la società occidentale avesse espulso l’esperienza della familiarità con il morente o il morto, dalla nostra vita. Mondate della morte – come della malattia, a questo è in qualche modo più giusto, tutti I fenomeni di prolungamento della gioventù, o della trasformazione in “giovanile” della vecchiaia”, sono il riflesso di questa espulsione della morte. Questa sempre più è l’epoca in cui (come dice un personaggio nel libro di Imai Messina, su cui torno tra poco) “nessun muore”. È l’esperienza della società contemporanea sottolineata anche da Yuval Noah Harari nel suo recente libro “Homo Deus”: la costante affermazione del diritto alla vita e alla felicità, ha trasformato la morte non in una presenza dentro un disegno generale dell’esistere, ma in un cattivo funzionamento tecnico del corpo, che è possibile manutenere, modificare, puntando in teoria all’immortalità. Nessuno lo esplicita, dice Harari, ma ad esempio Google ha creato (per volontà di Larry Page) “Calico”,  un fondo e una company di ricerca proprio con la missione di “sconfiggere la morte” (e Sergei Brin che presentandola  dice “So che sono stato individuato per morire, ma ora come ora non ho in progetto di morire”).

  Tutta la scienza medica nonché i desideri degli uomini punta a espellere la morte di conseguenza anche il mondo dei morti,  che sta di là dal trapasso.
La morte non è più un mistero metafisico che istituisce un confine dentro uno spazio sacro, che dà valore all’esistenza, non è parte di un disegno superiore in cui vita e morte stanno assieme in una circolarità complementare. La  morte in un’epoca tutta “al di qua” è l’accidente
Nel romanzo di Imai Messina compare questo elemento quando uno dei frequentatori del giardino annuncia di voler scrivere un libro , che appunto ha come titolo “Nessuno muore più”, nato dall’esperienza a della morte del figlio adolescente in una bravata ripresa col telefonino e quel padre era arrabbiato perché i ragazzi non pensavano più alla morte come una possibilità sempre dietro l’angolo, qualcuno rimprovera anche a videogame e cartoon animati di dare sempre l’idea che non si muoia mai anche se Will Coyote cade nel canyon o anche se muori nel game over poi ricominci la sequenza. Non si tratta di fare del moralismo, ma di riassumere la morte dentro il nostro vivere quotidiano. Da questo punto di vista un sottotesto del romanzo Di Imai Messina – a differenza di quello che di fatto fanno molte altre narrazioni più superficialmente sentimentali – non è affatto consolatorio, ma riafferma proprio la necessità di ritrovare una familiarità con la morte, che resta presente e continuamente davanti a noi.

 Alla morte si collega anche un’altra modifica dell’immaginario, della coscienza sociale contemporanea occidentale, ed è la distanza, l’abbandono. Ad esempio, il distacco in vita di chi non ci parla, di chi non ci ama, di chi ci “cancella” come recitava quel titolo di film. E forse sarà perché sono sensibile al mondo della radio, ma colgo come centrale in “Quel che affidiamo al vento” anche la VOCE più che il vento. LA voce innanzitutto perché di quel che ci portiamo dentro come grumo dalla scomparsa dell’altro, dobbiamo “fare voce”. Yui che parla alla radio al pubblico invisibile, non è capace ancora di farlo dalla cabina. Hana che no non parla più. Dare voce è fondamentale anche per disporre in linguaggio questa presenza/assenza dell’altro.

 Scrivere l’assenza, la sfida più difficile.
Contrariamente ad altri libri che affrontano un sentimento di dolore, Laura Imai Messina lo fa in un modo calibrato, frase dopo frase, come dicevamo, non è mai prevedibile. Senza imbarcarci in dimostrazioni che sarebbero complesse, sull’estetica giapponese, mi sento di poter dire  (chi ha familiarità con letture di letteratura giapponese può verificarlo) che Laura Imai Messina ha  fatto esperienza di autori di quella  cultura, e il lettore ritroverà la traccia nella tenuta stilistica apparentemente semplice di Imai Messina la qualità di quella letteratura.
 Inoltre, si sente anche che Laura è una lettrice di poesia, dalle scelte lessicali, dalla sintassi  Morte e dolore sono affrontarti dai Imai Messina con I fili sottili con cui tratteggia I gesti e I pensieri dei suoi personaggi. Una calibratissima alternanza di non detti, alle parole e ai pensieri. La rituale e trattenuta fisicità, ma pure la tensione forte lasciar intuire (disponendo con attenzione I picchi di pathos, gli arresti, le efficacissime chiuse).
Insomma, ogni essere e ogni cosa, ogni passaggio della vita – la morte, l’innamoramento, I rapporti con la figlia, I baci, il lavoro - in questo romanzo sono tenuti da una loro seconda vita segreta, che agisce in una trasparenza impalpabile. Il mondo non va solo preso, bisogna anche aspettarlo. Restituire, rispondere alla vita con accoglimento, apparentemente senza agire. Nel ricucire anche solo un nostro strappo interiore, uno privato, è come se noi riparassimo, ricucissimo continuamente, il mondo intero. Quello di qua e quello di là.


(1)       un off topic: “Dopo” è il titolo di una bellissima mostra di qualche anno fa di Christian Boltanski, l’artista francese non a caso deve moto a certi concetti orientali,, tanto che in Giappone in un’isola inaccessibile per contratto con il governo son conservati I battiti del cuore suo e di tutti quelli che hanno visitato alcune sue mostri e questi battiti saranno conservati per sempre, molto dopo la morte di Boltanski e delle stesse persone registrate con il loro battito)
                 Lo stesso fa Sophie Calle con la madre nella mostra “La mer” in cui ha raccolto tanti                          ricordi        della madre, filmato le sue ultime 24 ore fino allo spirare, e poi come gesto di                   utopia del disastro ha sepolto le collane di sua madre sotto il ghiaccio nell’artico: quando                   un giorno I ghiacci si scioglieranno – è il sogno di Calle – le collane torneranno in mare                     verso casa, verso la Francia dal nord.

E noi siamo invece alle prese con il presente continuo dei social. Se il lutto o la partenza, o la distanza sono separazioni o perdite a cui la cultura ci ha abituato, restituendoci però una capacità psichica ci elaborarla con la nostalgia le canzoni e altre rielaborazioni (forse tornerà, ma del resto è lontano, pensiamo a Ulisse e Penelope, in un bel testo che li ripropone moderni, “Itaca per sempre” un romanzo del 1997 di Luigi Malerba, in cui i due sono travolti dalla distanza, che è divenuta pe loro un non riconoscersi più, una incomunicabilità.




sabato 1 febbraio 2020

"MISERICORDIA" nuovo spettacolo di Emma Dante


Emma dante una e bina. La storia della regista siciliana scorre lungo le due rive classiche del 900 e si  ritrovano anche nell’ultimo lavoro in scena la Piccolo Teatro di Milano, “Misericordia”. Nel corso dei trent’anni di attività e molti lavori le due parti si sono forse più distinte diacronicamente attorno ai due poli del Linguaggio e del Corpo. Una storia così lunga ovviamente è molto di più di questa semplificazione, ma mi sembra che anche “Misericordia” confermi qualcosa di già osservato nell’ultima fase tra “Sorelle Macaluso” (2014, più vicino alla riva Linguaggio) sia in “Bestia di scena” (2017,  nettamente tutto affidato al corpo degli attori-performer).

In “Misericordia” tre donne intorno al cor sono disposte, sul fondo di una scena,  sedute su quelle seggiolette pieghevoli di legno,  anni 70, mentre sferruzzano a maglia e parlano fittissimo in dialetto, tanto che il ticchettio dei ferri pare telegrafare quel che la secchezza della pronuncia ( fa quasi in accordo, portata al solo gramelot di un sud universale, di cui si percepisce la strutturazione fonetica, ma non le parole ). Il dialetto è ancora più liofilizzato o ricreato come un codice segreto di pure lallazioni, un filò di dicerie, di male parole che due delle donne si scambiano tra loro a danno della terza. Davanti a loro sta un ragazzino, un cuore puro, e ha un nome significativo,  Arturo ( qui la Morante, e altrove altri riferimenti, forse fin troppi senhal culturali ). Arturo è  un adolescente che ha nel corpo I segni di un’infanzia bloccata, consegnata a mutismo e disabilità e che e segue le tre donne Anna, Nuzza e Bettina , la sua prossimità è il suo apprendimento, tutto  gestuale.
Non è loro figlio, ma lo hanno preso in carico le tre matrone/matrigne, fate di una fiaba del sottosuolo meridionale. Il pupo, quasi proprio come quelli dei teatri ( per come si muove – in sequenze di gesti che via via lo assomiglieranno a un Totò o a un Pinocchio, somiglianza poi esplicitata dall’emergere della musica di Fabio Carpi  dallo sceneggiato di Comencini) sta davanti a loro, vive di vita propria e imitativa, mentre le tre donne rivelano una conflittualità di convivenza difficile, a cui s’è aggiunto questo povero cristo di ragazzino. La madre  è morta per le violenze del padre, un uomo che la frequentava la notte, quando – come la altre tre – faceva la prostituta. Quell’uomo, un falegname, pestando anche il figlio gli ha tolto la parola.

Questo mondo ctonio e sessuale delle donna, madri e poi puttane, si svela in una danza di corpi messi an udo, in una sensualità spudorata, nuda vita che tuttavia genera in osmosi l’imitazione di Arturo, che ama la musica, e sempre più anziché parlare accenna a danzare, prima in movenze elettriche, meccaniche poi sempre più virtuosistiche, vertiginose. Dall danza nuda dei corpi sessuali delle  tre divinità, nasce questo “afrodito” masculo, picciottiddu, e la sua  nascita si compie nella vestizione, nell’auto-vestizione, un miracoloso fare da sé accolto dalla gioia delle tre madri. Pinocchio ora non è più informe e legnoso, è bambino, ma è dunque pronto per essere abbandonato di nuovo. “Misericordia racconta la fragilità delle donne, la loro disperata e sconfinata solitudine” scrive  Emma Dante. Non so cosa significhi questa frase, certo sono esseri umani e le tre non sono sante, non sono madri, hanno sentimenti perché no, di compassione ma pure di paura e  indifferenza insieme.
Così, autotassandosi,  spediscono Arturo  in un orfanotrofio, le tre dee, sorta di “sisife”, ed è come se accettassero la caduta, per cui ogni sforzo è vano, e la solitudine è destino di tutti.


La Misericordia , allora, ecco cos’è, cosa era: non ragione né sentimento, ma pura prossimità del corpo. Il mito trasmette fuori dal linguaggio uno sforzo, ma la storia non sa  gestire questa spinta, il passaggio dalla  favola al mondo è per strappi, nonostante il compimento in linguaggio e cura si sé: non è un caso che l’ultima parola d’addio del ragazzo, che è anche la sua prima parola in assoluto, sarà “mamma”. La famiglia è nominata e con essa  il baratro, abbandono, strappo, una nuova violenza. La Famiglia, vera o adottiva, è cornucopia negativa, è caverna vaginale da cui si viene gettati, si, ma più che nel mondo, nell’inferno che questo mondo è, senza poter distinguere più quel che inferno non è. La solitudine è l’unico metro del mondo. Per metà questo spettacolo si ricollega alla “riva del Linguaggio” , della generazione familiare, il magma carnale che Emma Dante aveva esplorato nelle trilogia, in Cani di Bancata ecc. e  che ha ripreso in “Sorelle Macaluso”, il suo più bello tra I recenti.

Meno convincente, quasi esercizio di stile, era stato “Bestie di scena”, rivendendo sul palco una performance che sembrava ripresa da certe sequenze performative tra body art e living theatre anni 70. IN parte anche questo “Misericordia “ è deludente, perché I 50 minuti di spettacolo se ne vanno tra la creazione della premessa della fabula (le donne ,la  storia narrata del ragazzo, con le bravissime  tre attrici della sua storica compagnia Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco, Leonarda Saffi (ed ecco le radici della prima riva, l’espressionismo il corpo la storia delle radici del sud ecc) e poi  il resto sta tutto nella performance corporale di questa nascita,  del ragazzo a sé stesso. Una prova di Simone Zambelli va detto strepitosa che strappa giustamente applausi scena aperta per la immensa bravura . Ma paradossalmente rivela come Emma Dante ora sembri interessata troppo in questa ricerca coreografica, a dirigere corpi. Credo non sia un caso – oltre che il giusto riconoscimento per un’importante personalità del teatro - che molte delle sue energie si siano dirette in questi anni sull’Opera Lirica. Tuttavia proprio per questo Emma Dante  rischiava – e il rischio non è evitato per certi aspetti proprio in questo “Misericordia” – di essere diventata “Maniera di Sé stessa”.

Una maniera che fa sì che il  pubblico colpo milanese o europeo di una pièce come questa finisca per fruirla come un “orientalismo” sospeso, astratto in un’idea esotica di Sud che coinvolge anche tutte le operazioni di questo genere con le arti del Sud del Mondo. Proprio nel momento in cui per altri aspetti c’è bisogno di un punto e di un pugno critico. Era accaduto per il potente e bellissimo Cani di bancata. E’ comprensibile che ogni artista abbia il problema di rinnovarsi e al tempo stesso riaffermarsi, con un segno riconoscibile. In questa incertezza Emma Dante si è mostrata diversificando anche i mezzi espressivi – dal romanzo al film, alla regia d’opera appunto, insieme al teatro -  mostrando passi falsi e passi compiuti, negli ultimi anni, o mezzi passi come questo “Misericordia”

Foto @ Masiar Pasquali

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...