LIBRO (NON
ROMANZO) DI SICURO: TESTO
La recensione inizia da lontano, dal genere: come lo definiamo? Tutto quello che scrive un consolidato romanziere è “romanzo”? non è detto, o meglio lo è nella misura in cui si accetta che il romanziere svicoli dai canoni e dai binari del genere – che pure è larghissimo e generoso – e si collochi sul versante non main-stream, che qui io direi semplicemente sperimentale (riprendiamoci questa parola, come era giusto dirla per Edoardo Albinati (che la rivendica per sé) de "la Scuola Cattolica", un libro che tengo idealmente sul mio scaffale di senso, vicino a "La città dei vivi") versante “sperimentale” dello scrivere in prosa – e narrando.
Perché di sicuro una cosa si può dire: anche se non è certo
che scriva “un romanzo”, Lagioia qui narra, potentemente. Meglio: scrive, e
lascia che le componenti della storia attraverso la sua scrittura – fino alla
singola frase, come un inserto poetico - parlino e dicano qualcosa. È tuttavia un
libro/romanzo dove la presenza stilistica si tiene mimetizzata, Lagioia lavora
di “concertazione” e di sottrazione.
Ovviamente c’è una narrazione perché c’è una storia. Viene
dalla cronaca.
Il versante sperimentale dello scrittore
sta – certo non nuovo in sé – nel modo in cui egli adotta una storia già
accaduta e non inventa ma riscrive. Chi va dallo psicanalista fa lo stesso,
riscrive il vissuto.
La storia: nota ma riassumiamola: nella notte tra il 3 e il 4 marzo in
un appartamento della periferia est di Roma, non distante dalla via Tiburtina,
Marco Prato e Manuel Foffo, al culmine di due giorni in cui hanno consumato
senza sosta cocaina e alcol, uccidono Luca Varani, che si era presentato a casa
di Foffo per una prestazione sessuale da cui avrebbe ricavato soldi, avendo già
conosciuto Prato altre volte per lo stesso motivo. Non solo viene ucciso, ma i
due infieriscono sul corpo di Varani, ancora vivo o morente, con crudeltà e
disumanità. Foffo non lo conosce, Prato l’ha visto ma è solo un conoscente. Cosa
porta i due ad accanirsi con tanta ferocia? Forse un odio traslato, facendolo
diventare una vittima sacrificale, come si è detto e scritto all’epoca? E a che
divinità veniva immolato? Di certo la violenza dei due assassini ha radici
lontane, diverse e quasi opposte tra loro, se si segue il ritratto psicologico
che ne fa chi li incontra (Lagioia cita molta documentazione di inchieste
interrogatori perizie psichiatriche, colloqui) informali, resoconti giornalistici,
e latro materiale). Due persone così diverse e che si conoscono poco finiscono
per fondersi in una sincronicità del malvagio che ha tutte le caratteristiche della non intenzionalità, seppur assolutamente volontario (è complice il delirio tossico) . difficile muoversi dentro
il labirinto delle loro stanze della psiche.
Lagioia percorre questo caso come fosse un Castello (stavolta
è più la complessità irrisolvibile della psiche a farmi dire “kafkiano”è
anche il fatto che nessun “processo” mi sembra esaurirlo) entrando e
uscendo da varie stanze: quelle degli assassini, ma anche quella della vittima,
così come dei genitori di tutti e tre maschi giovani, soprattutto i padri degli
assassini ma anche di altri personaggi minori, gli amici,le fidanzate.
Dappertutto sembra emergere una pressione psichica e una costruzione collettiva
del nostro inconscio. In un caso così estremo Lagioia ha deciso di affrontare il
labirinto e anche il Minotauro che c’è dentro, partendo dal punto di contatto
tra la solitudine afasica degli assassini (anche in coppia Foffo e Prato sono
due solitudini estreme) e il contesto o “coro” così come lo chiama in un
capitolo centrale (ci arriviamo). E quel contatto esteso poi allo scrittore e
di conseguenza a noi che leggiamo.
. Il Minotauro è “il senso” di questo atto estremo (“perché lo
avete ucciso? E perché così crudelmente?”) e andrebbe stanato come in tanti
altri casi storici o solo di cronaca di “ferocia” (termine scontato ma anche
giusto per Lagioia che ha scelto questa parola come titolo del suo precedente
romanzo premio-strega)
La linea di fuoco su cui camminare è: come un atto umano diventa
disumano. E lo è?
Capire non è attenuare.
Non c’è nemmeno un momento un rischio giustificazione. La “Città dei vivi” tiene
sempre ben chiaro al lettore che i due hanno commesso un delitto non attenuabile
o giustificabile, nemmeno un po’. Anche
perché i due hanno confessato, e hanno detto molto. I fatti sono ricostruiti
nel libro (e con le loro parole: potentissimo e a tratti insostenibile il
capitolo “In fondo al pozzo”) e continuamente narrati: atti giudiziari e
simili, r relazioni psichiatriche, e poi all’esterno, i media (tv e stampa) la
nera distorta però a schemi di fiction. E tuttavia, la sensazione è di “afasia”
per un caso che è stato sommerso dalle parole e dalle chiacchiere e dai commenti
social.
Il romanzo stesso nasce “di fronte all’estremo” e anche immersi nel
cloud della chiacchiera. Lagioia, alla richiesta di un quotidiano, di scrivere
un reportage sul caso, rifiuta. Poi a una visione più attenta e ascoltando che “la
città” non parlava d’altro, decide di affrontare il caso, ma come scrittore,
prendendosi la libertà e il tempo.
È interessante il triplo passaggio: due assassini senza un
perché, senza parole per dire perché, intorno un intero paese una comunità che
ne parla e straparla, poi uno scrittore che – sottraendosi allo straparlare –
scrive, puntando diritto all’afasia.
CORO, NON
IO. E CROLLO.
Lagioia lavora dunque sulle molte voci, come detto:
indagini, rapporti, perizie, testimonianze dei due colpevoli, degli amici, dei
genitori, post su fb, interviste mediatiche ecc. Il capitolo in cui le mette
tutte assieme si intitola “Coro “e sta al centro del libro. La polifonia di
spiegazioni emette sentenze con conclusioni assertive ( uccidono, per alcuni “è
l’effetto del consumismo, di una cultura ormai basata esclusivamente sui soldi
e l’apparenza” per altri una questione di classe (“quei bastardi figli di papà,
stronzi radical chic si accaniscono sul ragazzo di borgata”), c’è chi dà la
colpa alle droghe e chi alla follia latente (“erano disturbati”), mentre non si
può sorvolare sulla questione dell’omosessualità repressa (Foffo si vergognava
di essere gay) o sul fatto che Prato voleva cambiare sesso, ecce cc). Se qua e
là nella lunghezza del capitolo si sente un po’ il peso delle tante voci
cumulate, penso che alla fine l’idea resti importante: il “coro” è un organismo
fondamentale di questo libro. Il coro commenta ma l’origine della violenza è anche
nel coro – è nella città dei vivi in cui la morte è di casa.
Roma è teatro e ambiente “correo”?
All’ interno del coro c’è la parte che credo sia importante:
il modo d’essere e di reagire alla situazione dei tre padri (della vittima e dei due assassini) anche per
come si manifestano in pubblico (due
parlano molto, quello di Luca e quello di Manuel, in maniera plateale, anche
oculata, eccessiva; quello di Marco parla
zero, per molto tempo e poi scrive una lettera su Fb, ma molto ambigua in cui
quasi lascia trasparire un distacco ipocrita per chi si professa cattolico
praticante e attivista della solidarietà cattolica). Le madri sono praticamente
assenti dalla scena del coro (parlano poco e niente in pubblico tutte e tre)
Una “scrittura” che costruisce la sua architettura così come
“trova” il suo materiale, la “città dei vivi “– il romanzo ma anche la realtà
che racconta - è una sorta di “Cattedrale della caduta”, costruito con
l’intenzione paradossale di “progettare un crollo”.
Ripercorrendo le carte, in tutti i “tarocchi al passato” dei
fascicoli dei giudici Lagioia usa le capacità di sintesi dello scrittore e pur attenendosi
ai fatti, è come se cercasse di divinare l’origine del gesto.
Sembra ed è un omicidio casuale, dicevamo. Eppure, forse nessun omicidio può esserlo. La
sorgente della violenza, forse nel vortice di rabbia nato dalle “incomprensioni
che stringono i padri e i figli e che portano certi figli a ritenere di essere
stati offesi” scrive Lagioia, tanto da covare poi un desiderio di “vendetta
assurda”? Soprattutto nella storia di Foffo appare plausibile, ma anche quella
di Prato era altrettanto irrisolta.
La origine non casuale, può anche essere generata per paradossa dal Caso, ma
qui fuori da cosmogonie, siamo nella cruda Roma che ha tracimato il suo
tradizionale materialismo in un senso del vivere causale e approssimativo, ingenuo ma superficiale, fino al cinismo, di due individui che sembrano vivere bene dentro
il contesto della nuova cultura romana, generata da trent’anni di mutazione antropologica, politica e culturale, diventando anche il cuore del problema per il resto del paese (ladrona), che ha fatto scattare un orgoglio
identitario ma vuoto.
Questa “identità gonfiata ma vuota” a me sembra possa essere
stato il cuore generativo di gesto senza cuore di Foffo e Prato.
(Mi rendo conto che facilmente un lettore, cercando il senso
del “romanzo” quando il libro che legge romanzo non è ma storia vera, un
docu-roman come è la Città dei vivi, ebbene il lettore scivoli facilmente nel
ruolo antipatico del “giudice”).
Roma, dunque. Ci ho scritto un post separato sotto (se interessa, linka qui) solo per
parlare di Roma (insieme a Albinati, metto sullo scaffale con questo di Lagioia, anche "lo stradone di Pecoraro, Pasolini è sullo scaffale sopra e ascolta queste storie della città)
Ma per ora vorrei dire solo di questa socializzazione facile, ma che resta in
superficie perché è legata alla storia
dei due che uccidono, questi due neo-romolo&remo che sembrano voler
s-fondare qualcosa in questa loro alleanza nera fraterna, omo-identitaria, due
quasi-estranei che mettono in atto una complicità così intensa, tanto da far
scattare il colpo di fulmine omicida tra loro, quando capiscono e si dicono di
fatto “uccidiamo una persona”; al tempo stesso sono due che si conoscono da
poco, si sono visti due o tre volte. Sta dentro l’apparente socialità da calore
umano che la città ispira ma che tradisce sempre, questa storia. Quando uno dei
due uccide un altro quasi-estraneo e quasi-per-caso, con uno che, parole sue,
“non è proprio un amico” – lo dice Foffo di Prato ai Carabinieri - ma solo “uno
che ho conosciuto a capodanno”. Questa labilità di legami basta però ad unirsi e
per uccidere?
La bella apertura su Roma, la scena del piccione morto al Colosseo,
questo sorvolare alla larga la città da sopra nella sua bellezza che nasconde
particolari feroci, corrisponde poi alla fine alla storia-senhal dell’olandese,
che riparte e dall’aereo rivede questa città, bellissima verso cui si sente l’amore
di Lagioia che però non può non vedere quando la percorre rasoterra.
A leggerlo attentamente a
partire dal titolo – il libro è un epos d’amore per la città, nonostante il suo
tradimento. (Io, che sono romano d’origine, la amo meno o non la amo più).
Del romanzo sono io lettore singolo, il tradito, che metto avanti una cosa che mi pare significativa, non tutti saranno d'accordo: che la città sia
diventata una discarica di sentimenti “del tempo che fu” (bonarietà ironia, simpatia) divenuti immondizia, piegati
da un cinismo e indifferenza diffusa, esibita e fatta anche oggetto di “mitologia”
cinematografica ( si, sono tra quelli che pensano che Gomorra o Suburra o
Romanzo Criminale siano intrattenimento solo in certe fasce socio-culturali, in
altre sia diventata “immaginario” di
riferimento per gang o per gruppi di persone che si immaginano “gang” come
negli Usa, ma che alla fine ne sono
ancora una volta la copia grottesca, senza scostarsi tanto dal Nando Moriconi
di un “Americano a Roma”)
Roma è la città in cui in ogni caso - e torniamo al libro - poco prima
della serata aperitivo “A(h)però” organizzata in un locale proprio da Marco Prato con
i suoi soci, si viene a sapere dell’omicidio in cui era coinvolto Prato come assassino, e si
decide con sovrana indifferenza e cinismo di farla lo stesso: “la situazione
era incredibile” dirà una testimonianza del “Coro”: “Tutti a bere spritz e a parlare
dell’omicidio”. Una serata riuscitissima.
Roma è questo, tutti immersi nell’incredibile ma a dire
“incredibile” guardandosi attorno. I cittadini sono diventati turisti del proprio
sfacelo, cercando di metterlo in cinema, svoltando qualcosa facendo le
comparse, come sempre. L’impero cartonato e da t.-shirt. Cinecittà II, una
città immensamente centro commerciale di sé stessa. Disposta a tutto, e in
qualche caso anche a uccidere pur di immaginarsi potenza che non si è.
(È la mia città, diventata la città di marziani che dicono ah marzia’ vaffanculo).
“Fanno gli splendidi in gay street ma poi a Natale vanno al paesello e dicono
ai genitori che hanno la fidanzata. Qui tutti odiano tutti e prima ancora sé
stessi” dice un'altra voce dal “Coro”. Di questo odio per sé stessi (e dunque anche
il mio per Roma?) di questo odio per le origini di impotenti, di cartonati di
una virilità farlocca, è fatta la vicenda dell’omicidio. (è la mia sentenza).
LA VIOLENZA
HA (DIRITTO DI) PAROLA?
E sempre per stare nell’incredibile o se si vuole
nell’assurdo (anche letterario) quando l’avvocato di Foffo, trovato dal solerte
padre per attenuare le conseguenze (io credo che in questo atteggiamento del
tipo vabbè, che sarà mai, adesso risolviamo, del padre, stia il “Graal”
del senso di questa morte assurda) che
cerca di capire come impostare la difesa chiede cosa è successo, arriva la
solita risposta di alleggerimento e qui è: “un macello” dice Manuel, che però a
Roma è un modo di dire metaforico valido anche per confusione euforica (siamo
andati in discoteca e abbiamo fatto un macello). È questo quel che dice -
usando parole attenuanti dello slang. Invece il caso vuole che stavolta “macello”
corrisponda alla lettera al massacro, alla mattanza, sul corpo di Luca
Varani.
E quando l’avvocato chiede “chi è la persona che avete
ucciso” Manuel risponde “non lo so” e quando l’avvocato chiede anche “allora
perché” la risposta è: “Non lo so. I motivi potrebbero esser tutti e nessuno”
(Samuel Beckett fu accoltellato nel 1938 a Parigi da un
uomo in strada, di notte. Un’aggressione di uno sconosciuto. Per molti fu una
sorta di scintilla dell’assurdo dei testi che poi scrisse. L’uomo era già noto alla
polizia, tale Prudent, e Beckett lo volle incontrare (ecco, anche con
l’Avversario l’incontro con l’assassino) e quando lo scrittore irlandese gli
chiese perché lo aveva accoltellato, quello lo guarda con stupore e
rassegnazione e confessa “non lo so”: il ‘900 del sentimento negativo dell’esistenza,
nasce qui).
“nessun essere umano è all’altezza delle tragedie che lo
colpiscono” scrive ad incipit di capitolo Lagioia. La famigerata banalità
del male ci riguarda, sia per quelle persone come noi che hanno ordinato e praticato
lo sterminio, sia per l’atto gratuito come a volte un omicidio, teorizzato e
praticato da Jarry a Parigi, cento anni fa (erano gli anni Dieci anche lì) che
può compiere ognuno di noi. Capire chi sono questi uomini come noi, serve a
cercare di elaborare il senso di una cosa che nessuno di noi pensa di poter
fare, ma pure per ceti aspetti potrebbe ritrovarsi a fare senza un perché.
Ma se questi due assassini sono così “afasici” (“non lo so” perché
ho ucciso) ha senso che parlino? Che lo scrittore costruisca il caso anche
sulle loro testimonianze? Su ciò che avevano da dire loro - mentre la vittima
era morta e muta?
Qualche settimana fa Michela Murgia ha lamentato il fatto
che Franca Leosini avesse intervistato per la Tv Luca Varani (singolare
omonimia), l’uomo condannato per aver gettato l’acido sul volto di Lucia Annibali,
sfregiandola per sempre. L’intervista è stata cancellata dalla Rai, la Murgia
nel commentare l’intervista fatta e decisa dal programma scrive: “Ad eccezione
del tribunale, nella narrazione di nessun altro reato si lascia al criminale la
possibilità di esporre il suo punto di vista pubblicamente.” Ad eccezione
del tribunale, dice Murgia, assertiva come sempre: e che ne è degli
assassini nei libri? Di storici o scrittori? Non so perché Murgia non abbia
citato la letteratura, eppure è scrittrice, e sa bene che gli assassini sono
parte fondante della narrazione collettiva in cui “il reato” è centrale (dalla
tragedia in poi mi verrebbe da dire).
Infatti i criminali parlano da sempre, prima nei libri e a teatro ora in Tv: è
pieno il mondo di interviste ai colpevoli e ai condannati, in Italia abbiamo le
memorabili interviste di Zavoli e Biagi a mafiosi o terroristi e non solo. I
colpevoli vanno sui giornali, vanno in tv, e scrivono libri, dopo esserne stati
per secoli solo i protagonisti, scritti da altri, negli ultimi anni sempre più
con quella non-fiction letteraria nata con Capote, passata per Carrere e di
recente per esempio praticata anche da Siti con “La natura è innocente”. (dall’altro
lato è sorta giustamente una cultura che rivendica diritto di raccontare dal
punto divista delle vittime, fino al punto che “il discorso della vittima” è divenuto
qualcosa di diverso, forse un “discorso forte” tanto da muovere Daniele Giglioli
a scrivere uno dei saggi fondamentali del nostro tempo: “Critica della vittima”.
Qui sarebbe un lungo discorso)
Lagioia, in “La città dei vivi” citando i verbali degli
interrogatori, dà molto spazio agli assassini. Se ne viene invasi. È quello il
“fatto”, l’omicidio, e le sue ragioni sono dette in quelle delle parole, la
vittima non ha voce. E per dare spazio alla materia del “fatto” e del suo
contesto, fondamentalmente fa anche arretrare molto l’io-narratore, quasi
sempre e in molte parti lascia addirittura a una sorta di “ça parle” delle
voci, dei documenti, delle interviste, lavorando più su assemblaggio, limatura,
al massimo sceneggiatura di frasi scritte altrove, ma di fatto in mote parti
del libro fa “mancare” la letteratura.
Questo, come è stato detto – e giustamente da molti – è stata
una scelta di coerenza etica, di rispetto, un tentativo riuscito di grande
rispetto, vicinanza, senza farne estetismo della violenza. Come ci sia riuscito
è nel calibrare tutte le parole, qui sta la sua forza letteraria, più che sulla
letteratura in sé (anzi rispetto al bello stile stavolta Lagioia è aderente
a una volontà di chiarezza, con una prosa asciutta, netta. Ma la scelta delle
parole, l’organizzazione del discorso è sia di chiarificazione che di domande
sospese, non c’è “il tribunale di Lagioia” ad emettere la sentenza (semmai lo
facciamo noi lettori). Allo scrittore va riconosciuto tra gli altri questo
merito: siamo investiti, attraverso queste parole, da una serie di fatti ma
anche da una presa di posizione etica. Una posizione empatica quella di
Lagioia, salvare l’umano dove l’umano non c’è (siamo sempre nei territori del
Calvino ovvero della limpidezza) e dunque tenacemente etica.
Quanto a Murgia vs Leosini: la tv e la cronaca nera sono un
surrogato popolare di Dostoevskij o Carrere o Capote. Semmai compito di veri
scrittori, non polemisti di superficie, come ha fatto Lagioia è partire proprio
da quella “vox populi” dall’immenso commentarium sul “fatto” e risalire la
corrente avversa, fare il contropelo della cronaca, come suggeriva di fare con
la Storia, Walter Benjamin.
ETICA PRIMA
DELL’ESTETICA
Forse proprio per questo la questione etica extra testuale
mi sembra importante tanto quanto il testo che – va ribadito è avvincente
incalzante, scritto bene. Ma è una letteratura che ha il coraggio di spogliarsi,
denudarsi e uscire da sé. Mostrando a un certo punto prepotentemente anche il
“sé”.
Lagioia dà spazio, infatti, oltre che agli assassini, in un capitolo in cui
improvvisamente diventa protagonista ad alcuni episodi borderline, diciamo
così, della depénse della sua vita giovanile (trovarsi di fronte alla
possibilità di prostituirsi, o lanciare una bottiglia in strada in piana rabbia
adolescenziale, col rischio di passare da una bravata all’omicidio per un
niente) ed è così che mette il sé di
fronte all’altro e crea una tensione dell’etica.
Il “mi riguarda” sta innanzitutto nel guardarsi allo specchio. Che Lagioia fa e
Foffo e Prato invece no.
E in questo guardarsi allo specchio o non guardarsi cosa c’è in comune secondo
me? La questione maschile, questione epocale, politica, di vita.
l’autore è un maschio, assassini vittima sono maschi, un
omicidio che nasce dentro una lacerazione del maschile su tutti i fronti:
genitoriale, dell’amicizia, della riuscita sociale, dell’identità e dei fantasmi
della propria sessualità, di genere. Il Machismo e la sua recrudescenza
violenta degli omicidi contro le donne nascono da questa crisi.
Questo è l’omicidio di una situazione in cui il machismo
riguarda anche chi apparentemente è in pace con il proprio orientamento
omosessuale come Marco Prato, perché anche in una scelta risolta invece alligna
una irresolutezza, anche verso il maschile, e verso il proprio orientamento,
perché la differenza nell’accettazione resta (la lettera del padre di marco su
Facebook fa intuire qualcosa e il suo suicidio in carcere è la stella nera di questo firmamento di argilla)
Perché è nella proiezione che il padre fa del
figlio, immaginandolo come argilla sotto le sue mani, e in cui il figlio viene
plasmato crescendo e di come questa
statua che il padre tenta di plasmare venga poi infranta, come è stato ancor
più duramente per la storia di Manuel Foffo, ecco, di questo ci parla anche questo
omicidio, di quella violenza, assorbita nell’essere plasmati, esplode anche quando viene infanta, ci si
specchia. Se c’è stato un rito sacrificale nell’omicidio è stato l’omicidio del
Maschio.
La sfida vinta al labirinto di Minotauro è solo per il mito,
è la favola. Qui vince Minotauro, che se vogliamo per certi aspetti è anche una
vittima (nato così per volere e capricci di padri, destinato dal padre al labirinto,
fatto uccidere dalla sorellastra per giunta, amante del suo omicida). Luca
Varani finisce nell’appartamento-labirinto. Tutto qui parla di un labirinto.
La verità della cronaca è che quel labirinto è il piano urbanistico
della nostra esistenza di vivi, in cui tutti possiamo imboccare il vicolo cieco
dell’orrore. Benché certo, nella storia come si diceva sopra non scompaia e la differenza
tra bene e male è sempre al d i qua, nel mondo dei vivi.
Nonostante Foffo e Prato siano certo figli del nostro tempo
con mitologie più superficiali, i due non sono persone inaridite da manie di
superficialità, si, sono giovani amano le cose piacevoli ma fanno anche altro.
Manuel è discontinuo, ma almeno in apparenza legge molto anche se ha
smesso di studiare, vorrebbe fare marketing ma il padre (come un dio greco)
decide il suo destino, lo spinge ad altri studi anche utili per le attività di
ristoratore (per questo si porterà dietro la rabbia per le pressioni di un
padre molto presente e pressante - una frustrazione che maturerà in rancore e
poi in odio).
Un odio diverso per Marco Prato, verso il padre: era
diventato apprezzato PR di eventi, ben noto nella comunità gay, con un padre
cattolico ma progressista che in apparenza ha accettato l’omosessualità
del figlio. ma di fatto viveva una separatezza da lui.
Ho messo in corsivo
“apparenza” perché qui non è la cultura consumista e superficiale ad aver
colpito (anche ma non solo) ma forse la labilità di un sentire dell’apparenza
in famiglia, la rescissione di legami con sé stessi, che hanno i due assassini.
Questa labilità può aver inciso sul sentimento di identità dei due, messa in
discussione, mai definita mai accettata fino in fondo, ma pure mai negata, fino
al punto di trascinare i due in un rancore che è anche una rivendicazione di
qualcosa che manca, amplificato dalla paranoia della coca. L’identità primaria
coinvolta in questa storia è come dicevo, l’identità maschile.
Lagioia, nel narrare
alcuni episodi di sé, tali che gli hanno fatto sentire l’energia dell’empatia
con la storia, sta parlando proprio di quello: dell’evoluzione dell’identità
maschile, del cosa diventare, dopo l’adolescenza, del pericolo di fallire a
Roma con le proprie scelte e decisione di colpire in questo fallimento
dell’autorealizzazione di sé, il maschio, mettendo un annuncio per
accompagnatori disponendosi alla prostituzione maschile, anche se mai
realizzata, a differenza della vittima, Luca.
La frattura e la rabbia verso il padre (è quella rottura del
patto il Tradimento che ferisce il puer, l’atto più più importante per James
Hillman e anche chi si libera del padre tradisce il patto) sono ciò che lega gli
episodi citati della giovinezza di Lagioia, in questa radice di male Lagioia
scava, non per dire che il “male” è tutto uguale, o semplicemente che tutti
potremmo essere malvagi, a rischio di sembrare la premessa per affermare che
nessuno in fondo lo è.
Il male naturale è in tutti possibile, lo scavo in
noi è più difficile e fa la differenza. E poi lo scavo nell’altro e l’andare
incontro all’altro, al colpevole, all’omicida e non fuggirlo, ciò non significa
sollevarlo dalle sue responsabilità.
Questo libro in cui
come abbiamo detto è tanto poco presente “il narratore”, guardandolo dalla sua
‘soglia’ tra dentro e fuori il testo, è un libro in cui l’opposizione netta è
tra chi si è preso il carico di sé, di uno scavo di sé e anche delle tragedie
altrui e chi non lo ha fatto. Se il Narratore è poco presente, l’Io ingombrante
che non piace alla poesia della neo-avanguardia, ma che è parte della vita, soppesandolo
per quel “fuori-dal-testo” (visto che la storia stessa non è invenzione nata sulla
pagina ma è esistita ‘fuori’) non può non far agire la differenza. Nicola
Lagioia intellettuale, scrittore, persona è presente e non a caso parte del
testo è il suo essere accompagnato da una discussione a cui Lagioia ha preso
parte con la stessa passione. Il suo sforzo di scrittura, empatia e
comprensione tanto più si sottrare letterariamente dal testo, tanto più resta
presente poi leggendo. Tanto più la scrittura “ca parle”, tanto più è
frutto di “Nicola Lagioia” che ha molto fatto, molto faticato. Non solo per
comporre poi il testo, da cui sottrarrà l’ingombro dell’Io-narratore, ma lui, Nicola,
non si era sottratto al richiamo del “fatto” e il suo sforzo, il suo jihad, è nella
lotta con la materia del pretesto che lo porterà a scrivere. Dalla
soglia, il lettore non può che guardare dentro il testo-labirinto-appartamento,
dentro il ‘tremendo’, al tempo stesso guarda verso fuori, verso il Lagioia e le
sue intenzioni etiche. Walter Siti avvertirebbe con bonaria ironia, ma per far
pensare ancora di più, che forse anche in quel ‘fuori’ c’è ancora autofiction.
Chissà. La vita è sogno, certo.
“Ciò a cui siamo scampati è molto spesso ciò che non abbiamo
avuto il tempo di capire e quando dopo anni quella cosa si ripresenta in una
veste nuova è di solito per farsi interrogare come non eravamo riusciti a fare
allora”. Lagioia ha condiviso con noi questa illuminazione profana del caso Foffo-Prato-Varani.
(C’è nella vita di ognuno di noi una
stagione, che può trasformarsi in una privata saison en enfer e quella
stagione è la giovinezza).
Lagioia raccontando fa dunque una sorta di meta-letteratura attraverso un
rispecchiamento psicologico, riflette sul suo impegno di raccontare ma – qui
sta la particolare qualità del libro – con un dentro/fuori il testo e propone
(oltre la scrittura ma certo attraverso di essa) un impegno di prossimità che è
appartenuto alla persone nella decisione (PRIMA del testo) di occuparsene: questo
perché – come il delitto del Circeo in “Scuola Cattolica” di Albinati,
altro libro che mi viene in mente per
associazione - la cosa ci riguarda. Tutti. E specialmente: Tutti, Plurale
maschile.
Direi che sta qui anche la particolare importanza politica del libro,
del testo (continuo ad aggirare la parola “romanzo”) se c’è una letteratura
impegnata, essa è nel costruire un esempio di eticità.
Ripercorriamo come salmoni il tracimare di una “ tragedia del maschile” come termine per
identificare un “ci riguarda” del libro (che è anche una storia interclassista,
di tre figli e le classi di appartenenza
hanno un posto importante, benché non si possa leggere come odio di classe ,
bensì sul piano di quel che per il maschile è il terreno in cui si misura la
sua virilità: la riuscita sociale – e questo dipende tutto dalla disponibilità
di “cash” (altro mito dell’immaginario Trapper, tutto maschile, maschilissimo,
di questi anni) la riuscita nel lavoro, la riuscita di sé, che è il piano su
cui si misura la riuscita del figlio maschio del padre, e quando questa statua non è la propria, quando nello
staccarsi di percepisce che non se ne ha tuttavia una propria, è il momento in
cui il vuoto prende il sopravvento e diventa furia omicida (di solito verso le donne, stavolta verso la statua del “maschio”
attivo su cui accanirsi fino alla morte. )
la città dei vivi, così bella dall’aereo, come per il piccone della
biglietteria del Colosseo, vista da vicino, è anche una città di cadaveri e
tombe.