“La notte si avvicina” di Loredana Lipperini (Bompiani) è un romanzo a molte voci e a diversi piani di realtà nel quale confluiscono matrici letterarie e civili, che ha un pregio tra gli altri, si prende una maggiore libertà formale. Qui è il complesso delle voci e la loro modulazione, che si impongono sulla storia (sulla trama, sulla materia narrata). E’ una scelta che sta riprendendo quota nella narrativa più consolidata in Italia ed è un buon segnale.
È un romanzo dove protagoniste sono le varie declinazioni
dell’invisibile. Paura, psicologie, memoria, virus, forze ed energie arcaiche.
coscienza. Se volessi, casualmente, giocare con la grammatica, tutti sostantivi
femminili tranne uno. E’ un romanzo di
presenze femminili come pianeti di un universo che si sta formando, quindi si
scontrano.
L’universo è un luogo concentrato e chiuso due volte, diciamo così. Un paese,
uno dei tipici paesi italiani (lo chiameremo “Il paesello”) una striscia di case
tra due montagne, un corso una piazza, il tabaccaio, due bar la posta, la
farmacia, un alimentari ecc. a qualche ora da Roma, in una valle dal nome
evocativo: Vallescura. Fondamentalmente racconta di una misteriosa malattia o “Peste”,
che si diffonde nel Paesello, durante l’estate del 2008, per la seconda volta
nella sua storia – la prima volta settanta anni prima circa. Un paese
travagliato, colpito pure in precedenza da un terremoto, vent’anni prima, nell’altro
secolo. Nel mezzo, il paese, sempre uguale a sé stesso, mentre la modernità
scorre intorno, questa forse la sua vera “malattia” che il romanzo lascia
defluire in un coro di voci e di flusso di più coscienze che si intrecciano e
scontrano, dei personaggi principali di questo luogo, deserto di inverno e
pullulante di vacanzieri in estate, spesso figli e nipoti di chi era originario
del posto.
E nel 2008 ecco all’improvviso di nuovo militari, le transenne, le tende, l’isolamento, il paese stavolta
è in quarantena e questo evento scatena energie, correnti sotterranee La Notte si avvicina (verso di una famosa ninna nanna popolare) come romanzo cerca di contenerle tutte. Questo contenere si specchia in un “contenimento” della quarantena che è anche l’occasione in cui il Paesello emerge con la sua malata immobilità atemporale. (Ha colpito la coincidenza dell’uscita con il momento storico del Coronavirus, ma la “peste” è un’allegoria letteraria da sempre,e – a parte le precisazioni dell’autrice sull’inizio della scrittura nel 2016 – è evidente leggendolo che rimanda alla vera malattia, se possiamo chiamare così, che è l’immobilità storica di una comunità)
La malattia fisica nella storia c’è (paradossalmente mi sembra anche che proprio nella sua
implausibilità mostri d’essere pretesto narrativo e fantastico). A un certo
punto la febbre il morbo e la morte colpiscono. Colpisce i bambini, risveglia
paure antiche. Gli abitanti, sobillati da una donna anziana, Saretta, una
leader e grande madre (o Matrona,
insomma una figura di arcaica tradizione mediterranea) che è anche memoria e
guida della collettività, se la prendono con chi è venuto da fuori (“come già
accaduto la prima volta” ripete Saretta) e in particolare con Maria, una giovane donna,
con talenti che si era rifugiata al Paesello, in quello che credeva un posto
tranquillo, a causa di suoi tormenti e dolori interiori, acuminati dalla
separazione dai figli, a cui è costretta dai servizi sociali dopo la denuncia
di altre donne d’essere un’alcolista, donne ben poco solidali. Ciò che si
innesca nel Paesello è un rimuginare dei rancori irrazionali, che sembra un
“It” una “cosa “, una forza che non ti aspetti, a cui assiste tra lo sgomento e
lo sdegno Chiara, che aveva fatto uno strano sogno quasi profetico e aveva
deciso di tornare, anche lei da fuori, a trovare la suocera Aurelia, presenza significativa
nel romanzo e del tutto opposta alla palude nera del paese rappresentata e
guidata da Saretta e dalla sua sodale, Annalisa un’altra compaesana. All’opposto,
come Aurelia, c’è Giulia, un’altra giovane madre del posto, diversa dall’anima
del luogo, unica a fare amicizia con Maria, un’amicizia in cui tornerà ad
emergere il disagio e la questione della maternità, uno dei sotto-temi del
libro, negli intrecci di storie Come si vede sono tutti personaggi femminili
anche quelli secondari, gli uomini sono sfondo.
Del romanzo tre elementi mi paiono importanti:
1 - come viene trattato il “Tempo”
I tempi – il passato arcaico, la prima peste di quasi un secolo
fa, il terremoto, ecc. fanno mescolare nel flusso verbale i tempi, scanditi e
mescolati dai titoli dei capitoli: da “Giorno tre” a Giorno 212” passando per
“Meno 4470 giorni” o “Meno cinque giorni”. Si resta anche un po’ disorientati,
ma è la forma, come si diceva, la struttura del libro, la composizione. Come
nella musica, spostare i toni dalla prevedibile concatenazione armonica crea
senso, lo ha creato nel 900. Questa decisione di mescolare le carte temporali
ci porta a cogliere leggendo le continuità dentro le differenze e nel dettaglio
del momento. Secolo e minuto si sovrappongono, memoria e cronaca – e sotto la
memoria, strati rimossi senza nome o di ascendenza addirittura mitologica. E
naturalmente i vivi e i morti, in questo paese all’ora del suo crepuscolo
epocale. Il libro chiede un lettore al tempo stesso attento, capace di
accogliere densità e un pulviscolo di riferimenti, ma pure capace di
abbandonarsi al flusso e alla mescolanza, dentro il tempo narrativo (dice la
voce narrante a un certo punto: “se ci limitiamo a sequenziare il tempo, ordinandolo
come in un calendario, non lo comprenderemo” p.60).
Il senso del racconto su più piani è contenere l’incombere della
Storia – e del “collettivo” - sulle singole vite. Era un impianto che c’era già
nel precedente romanzo, dove però il sottofondo della Storia erano le trame
oscure dell’Anti-stato degli apparati collusi con i terroristi dell’Italia
degli anni di piombo. Più che gotico o distopico, mi sembra venga fuori un
interessante ossimoro, un “Romanzo storico atemporale” in cui si riconoscono
lacerti di cronache, lo spirito dei tempi, gli eventi storici, politici,
economici, tecnologici, le mode, abitudini, canzoni, il pulviscolo dei
dettagli.
2 – la provincia italiana
La sotto-Storia nel Paesello, viene più da forze che si
richiamano a longtemp ancestrali, a una certa mentalità arcaica e
contadina o semplicemente “paesana” che sopravvive (o meglio sotto-vive)
partecipa però di un suo imbarbarimento, una distorsione che ha effetti di cattiveria
sociale, di disgregazione delle comunità. Questo asfissiante Microcosmo del
900, il Paesello - sotto la regia nera di Saretta diventa un teatro totalizzante
e concentrazionario, in cui l’immobilità ancestrale viene anche toccata dall’oggi, che so, Facebook, o la Tv (molto più questa) dal
moderno, ma alla fine non più di tanto. A suo modo Lipperini dispiega una trama
che si tiene dentro una dinamica di epos la cui cornice riassunta in due parole
sarebbe sempre lo scontro tra Bene e Male, ma – diversamente dai romanzi di
genere – la questione non è chi vincerà, ma cosa siamo, chi siamo. Il magma.
L’identità collettiva viene evocata da una minuta cronistoria di dettagli, un realismo
nella descrizione che ci porta nella profonda provincia italiana. Certo anche
un richiamo a un mondo “gotico” della letteratura secondo la lezione dei
romanzi dell’America profonda, frequentato come lettrice e divulgatrice da
Lipperini, ma reinterpretato in chiave italiana. Nel Paesello io continuo a
vederci l’evoluzione all’oggi di Fontamara, Eboli, Racalmuto, Malo, ecc. E’ un
brulicare di dettagli che ‘alla Bruegel’
affrescano un’ anima mundi (ecco il Paesello che “basta a sé stesso, mangia salsicce
di fegato e pappardelle” dove “quel che conta sono le lunghe giornate al bar” e
quando è freddo “si guarda Striscia la notizia” di pag. 75 ma pure i
villeggianti, con i bambini che “nessun genitore invitava a essere gentili”
portando l’aria incattivita delle città, delle città italiane con l’origine
tanto evocata dagli identitari che non funzionava: insomma “il paese non legava
più” (p.102). Ormai il paesello, annota Chiara che pure con la suocera Aurelia
sono parte di esso, ma da cui si sentono messe al margine (nel romanzo anche fisicamente)
è “un serpente arrotolato su sé stesso pronto a colpire” (206) forse tenuto
insieme solo dall’odio verso l’altro. Direi che questo è l’elemento che mi ha
più impressionato favorevolmente:” la "pancia del paese” di cui tanto si
parla è nei paeselli. Lipperini (a questo servono i romanzi) narrando ci porta
dentro un paese (paese-Italia, Paesello-Italia) per restituirci con il passo
lento della prosa (e non le facili sintesi giornalistiche) la sua anima fragile,
come lo è il territorio italiano, realtà e metafora al tempo stesso, piegato socialmente
e culturalmente da “lunghi anni che abbiamo definito di pace e che pacifici non
sono stati” scrive ancora la voce narrante e ci siamo scoperti “impreparati” –
come adesso con la pandemia, in cui di nuovo ci dobbiamo misurare con una guerra
sanitaria, di tenuta collettiva (il gregge) e le poche indignazioni nulla
possono difronte alla disgregazione sociale. L’unico linguaggio comune è quello
della paura, che sembra circolare come un contagio inarrestabile. Se “la peste
è il sospetto” come pensa Chiara, allora questo è un romanzo sul presente
italiano, alle prese con un dissesto che è prima della pandemia. Non è il Coronavirus
a farci prendere le distanze con sospetto dall’Altro.
Chiara, in cerca di segni e corrispondenze, annota sul suo
taccuino come quel 2008 in cui la peste si sarebbe manifestata era cominciato
con un’ondata di violenza, tra suicidi poco chiari, femminicidi, fratricidi,
una violenza ripetuta che proietta lunghe
ombre sempre su quelle valli oscure , impaurite, pronte a prendere il
coltello da cucina per un nonnulla, che annega il vuoto del proprio contesto in
TV, magari specchiandosi nella palude italiana che si spalanca dalle storie di
Chi l’ha visto. In questo paesaggio di cronaca nera televisiva – più che nelle
pale d’altare del rinascimento – questo paese potrebbe vedere il suo vero volto,
non negli sfondi azzurrini delle pale d’altare coi suoi colli dolci e i piccoli
borghi. La faglia di disgregazione viene da origini complesse, che sia lo
sfiancamento delle crisi economiche italiane, che sia la distruzione del
paesaggio stesso, lo snaturamento delle identità che provoca una reazione
contraria: di spirito identitario, tuttavia artificiale, come fa Saretta che
inneggia a prima noi del paesello, ma lei stessa è nata lì per caso
figlia di persone riportate a forza settanta anni prima, dopo la prima
distruzione ad opera della prima “ondata” di malattia. Dentro questo paesaggio devastato
e vile per dirla con Genna (qualcosa si condivide con lo scrittore
milanese) passa la trama con i suoi risvolti oscuri o magici a cui fa da
contraltare la presenza di Chiara, nome omen, anche di luce, lucidità.
3 – la voce narrante
A proposito di Chiara e della “voce narrante” come l’ho
chiamata, torniamo ancora alla forma che
dà senso, come scrivevo sOpra. Oltre alla composizione, l’asse orizzontale
della organizzazione o combinazione di storia e capitoli, c’è l’asse verticale del
tessuto selettivo della scelta linguistica, dell’andamento dei periodi, della
sintassi, In questo senso, mi sono ritrovato (magari non ho ben capito) immerso
in una “voce narrante”, abbandonandomi alla tecnica scelta di ascendenza
‘flusso di coscienza’ novecentesco, del i monologo interiore che è ricorrente
in vari personaggi, le anime della vicenda (anche quelli secondari come
Gabriella Annalisa, Aurelia, Carmen, Veronica). A parte il fatto che ho pensato
più che al maestro Joyce, direttamente non solo a Molly Bloom, ma anche a Nora
Bernacle la sua compagna, al versante femminile di da cui è originata la
tecnica, mi ha interrogato questo essere forza di voce che passava da un
personaggio all’altro, ognuno con le sue differenze, ma la “voce” restava la
stessa.
non so se mi spiego, ma come all’opera: due personaggi diversi, ma sono
entrambi soprano e la musica è quella – ecco l’effetto allora era omogeneo. Ho
pensato cosa potesse significare questo elemento formale: Saretta e Chiara
dicono cose opposte, ma la loro voce mi arriva della medesima “grana” direbbe
Barthes. Vuol dire che le forse antagoniste che rappresentano sono parte di una
medesima entità? E Quale?
Saretta con la sua tangenza irrazionale che sarà sempre più
esplicitata, Chiara con i suoi sogni premonitori che l’hanno spianta a tornare
appartengono a una medesima radice in questa storia in cui non ci sono uomini?
Di sicuro, partecipano a uno sguardo diverso, una contro narrazione delle cose
stesse, osservare la Storia dal suo lato rimosso . Tutto il 900 ha praticato l’emergere
del rimosso, da Artaud fino alla comunità hippy col fascino dell’India e degli
sciamani, il surrealismo lo ha fatto con l’inconscio, la storia del diverso e
del marginale o l’Altro, il Lontano, con Levi Strauss o la follia, con Foucault.
È con questo background che credo vada letto lo scontro tra le due donne
protagoniste nel libro, Chiara e Saretta.
Con una serie di marchingegni narratologici di ascendenza “romanzo
di genere” si arriva al faccia a faccia con la centro la vittima sacrificale,
Maria. Ma come – dentro il tesato – sarà chi erediterà questa storia del
Paesello nella fiction di “La notte si avvicina”, a dover incastrare i vari “tasselli”,
lo stesso spetta al lettore.
Aggiungo una nota: a proposito dell’unica voce del flusso
tra le diverse voci femminili, e della questione del “genere” , del femminile e
del femminismo, il romanzo non ha solo un ritratto ‘senza sconti’ dell’Italia
dei piccoli borghi dove dietro l’italianità da pro-loco e turismo c’è poi la grettezza
di un mondo incattivito e imbastardito che è più simile alla suburra infinita
dell’infinita periferia metropolitana che è l’Italia, ma mette in scena
dinamiche interne al mondo femminile niente affatto scontate (la figura di Virginia, nella sua responsabilità nel
far togliere i fili a Maria) e la si
potrebbe leggere ora a specchio della vicenda della maestra di Torino.
Dall’altro lato anche Chiara non è del tutto limpida e lei stessa si autocritica,
sente che “nessuno è innocente” e “in
questo labirinto di orchi” c’è sempre una colpa: anche per lei: la sua è quella
di essere convinta di essere “giusta” ma di limitarsi a una testimonianza: “guardare,
commuoverti, rimpiangere”.
Il romanzo arriverà
poi con i suoi incastri a consegnarci uno svolgimento, drammatico, il dispositivo
di narrazione lascia deflagrare ciò che era rimasto in sottofondo, compresa la magia
nera, per dirla con un titolo precedente di Lipperini, ma quello che conta
è ciò che si è attraversato e come. Ciò che il libro ha lascia. E ciò che il
libro ha lasciato a me (ma ogni lettore è un reagente singolare) come contro
narrazione alla risoluzione della trama è uno stato di allarme, di inquietudine
e insoddisfazione, innanzitutto verso il presente che ci circonda. In una
recensione ho letto nell’occhiello una chiave in corsivo “Gotico” ma ci
starebbe bene anche “Storico” – per me è un romanzo storico, posso aggiungere
Jung alla sociologia, ma sempre storico è.
Quel che mi ha lasciato, chiuso il libro – ed avendo io una
certa frequentazione di paeselli e di suburre di provincia – è
un’immagine/idea: che il groviglio del nostro mondo italiano, di serpenti, è
duro da districare, e che, più in generale, nell’esistenza il male non si capisce
fino in fondo; e che la vita è sì, bella, ma anche qui non lo
si capisce mentre si vive ( come dice Aurelia).
. Quindi un gran casino. Non c’è consolazione (meglio così)
ma bisogna continuare a fare.
Fosse anche le pizze e insegnare come si fa a chi è più
giovane. Poi mischiare le carte e giocare la prossima mano.
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