venerdì 24 marzo 2017

TERESA CIABATTI "La più amata" - Mondadori

Di tutti i Misteri d’Italia, quello che certamente ha più condizionato la distorta crescita sociale del nostro paese amorale e anormale è certamente l’ottusa resistenza del collante famigliare. Di questo già ne hanno scritto storici e sociologi, ma è nelle opere di racconto che possiamo vederne verità incarnata. Ultimo tra queste, il romanzo di Teresa Ciabatti “la più amata” /Mondadori, che aveva la possibilità interessante ma abbastanza occasione mancata,  proprio di mettere in connessione la storia personale della propria famiglia con quei misteri.

 Teresa Ciabatti in quella “infinita conversazione” della patrie lettere che sta diventando l’open space dei social network ci già scherzato/detto seriamente che il suo libro "non intendeva risolver il mistero della P2"  – Licio Gelli fu amico di Lorenzo Ciabatti, padre della protagonista/scrittrice (?).
 Non potendo fare altrimenti, visto che le vicende sono vere, o almeno così dichiarato con quel neo-patto narrativo che sta avvolgendo nella sua interessante novità da un paio di decenni soprattutto il romanzo latino-europeo: LA SOSPENSIONE DELLA FINZIONE.

Al lettore del libro di Teresa Ciabatti viene chiesto di credere che tutto ciò che si racconta è vero, e che la più amata, la protagonista e narratrice della storia, si chiama Teresa Ciabatti come l’autrice-  e come tutti.
“La più amata” è dunque lei, la figlia, termine ultimo di una vicenda di buddenbrook grossetani e che a mio avviso ha una chiave interessante proprio se letta in quella prospettiva (esagero) alla Lucarelli.
Nessuno si senta escluso, tanto meno Teresa Ciabatti.

Il romanzo di Teresa Ciabatti si muove seguendo le orme della storia di Teresa Ciabatti, fin prima della sua nascita – e fin prima della narrazione, con una dedica che comunque la pensiate, fa di questo romanzo un ‘elegia amorosa e (apparentemente) colpevole “a mio padre” – del resto amore e colpa – e sensi di colpa – sono anime gemelle –

Alla fine infatti c'è anche la ricostruzione di tutti i fallimenti sentimentali con gli uomini di Teresa Ciabatti raccontati da Teresa Ciabatti (vedi elenco di nomi propri  che come 12 tacche fanno prefigurare i prossimi 12 romanzi d’amore che Teresa Ciabatti scriverà ma sotto falso nome, per arrotondare nel caso non dovesse vincere  il premio Strega come sembra sia in realtà già scritto – Lo Strega,  uno dei tanti misteri d’Italia su cui nessuno si azzarda a scrivere un romanzo di autofinzione, meglio scrivere un romanzo in cui si confessa che la mamma uccideva i gattini, piuttostoche.

 Tornando ai natali della più amata, la vicenda narrata e un po’ romanzata forse, si svolge tra due case e due polarità, due linee narrative e due parti che formano il romanzo, che emergono in fasi diverse anche se in qualche modo scorrono parallele. LA prima linea, più sullo sfondo fino a tre quarti del libro, è quella materna di Francesca Fabiani, legata alla dei Parioli acquistata dalla nonna di Teresa Ciabatti e rimasta lì sospesa per molto tempo e poi riutilizzata quando la famiglia si sfalderà per il divorzio. La seconda linea che è quella paterna, il piccolo regno dei Ciabatti, famiglia che si arricchisce in quel di Grosseto con l’estensione del domino sulle case che culminano nella costruzione post matrimonio tra il potente primario di provincia Lorenzo e la fascinosa e cittadina giovane dottoressa Francesca, della grande villa di Orbetello che domina il mare ed è pari per bellezza e potenza a quella degli Agnelli poco distante.

Perché però secondome di questo libro la cosa interessante è concentrarsi sui misteri d’Italia? Perché per quelli la parte integrante è proprio la vicenda narrata da questo romanzo che per questo dovrebbe avere un incipit così: “Sono la più colpevole, come tutti”.

E’ interessante poi l’architettura autofiction: a questo punto non è solo una posizione dello scrittore, morale e finzionale insieme, ma sta diventando un meta-genere, per cui si costruisce come un puzzle con parti del romanzo stesso. CIabatti imita Siti, inevitabilmente, anche non intenzionalemente.

 Qui mi piace sottolineare per esempio come la figura mitologia del Dott. Lorenzo Ciabatti si costruisca sulle bugie, o meglio sulla versione “romanzata “del suo soggiorno professionale negli Stati Uniti. E questo mistero-ciabatti ci impiegherà decenni ad essere svelato completamente – come tante altre magagne paterne – in parallelo con quelle storiche – e solo “Resistere non serve a niente” di Walter Siti (che però dialoga con l'autrice spesso di recente) ha fuso autofiction e storia recente, quella economica.
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(PARENTESI SULL'AUTOFICTION)

Il romanzo di Teresa Ciabatti è nel solco ormai di un genere -e guarda caso il più importante scrittore dell'autofiction italiana ora se ne è sottratto. la cosa però interessante di questo "dispositivo-narrativo" è  il fatto di non essere un oggetto letterario, ma una sorta di operazione alla Sophie Calle involontaria, attraverso il continuo rimpallo della "verità autobiografica" - che è cosa ben diversa dell'autofictione - che Teresa Ciabatti ha praticato con Facebook (dove invece aveva prima del romanzo creato un suo personaggio "persona cattiva"). Una volta pubblicato un libro di auto-fiction sarebbe stato meglio stare nel vago come spesso ha fatto Siti, invece l'errore - o forse l gioco interessante, come una performance artistica diffusa, una "body-self-literature" - è stato parlare moltissimo di sé e della propria biografia, pubblicare le foto dell'infanzia felice di Teresa Ciabatti persona, non personaggio, ma poi parlando di suo padre è arrivato a definirlo in radio  il "personaggio-mio padre " in realtà stava propri parlando del Lorenzo Ciabatti extratesto. Ora forse è vero che questa sottile distinzione del "testuale" sia roba antica e inutile, di noi fessi che abbiamo studiato Greimas, Barthes, ecc i maledetti francesi.Ma lo specifico letterario e lo specifico testuale devono continuare a essere il presupposto per un giudizio sui libri, che sono l'oggetto del nostro giudizio - anche il giudizio psicologico e storico passa per come il testo è fatto. Ora però il testo è continuamente sollecitato - il suo autore, dall'esposizione narcisista o finzionale su Facebook - non tutti, ma molti - tanto da non poterlo non considerare ormai parte integrande di una "soglia" del testo coe come il mare mangia le spiagge, mangia sempre più il testo, così come la presenza promozionale dell'autore, mette i ombra il valore del testo in sé.
Ma questi son discorsi lunghi, ma hanno un peso nel giudizio di un libro, in questo caso incompiuto, un po' mancato
e a mia avviso è un progetto che viene da lontano basta vedere questo post del 2014 di Ciabatti sul Corriere.it



(FINE PARENTESI)

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 Naturalmente il cuore del libro "La più amata"  è amoroso, è la costruzione e decostruzione della famiglia in quattro atti e capitoli: “Il prescelto”  in cui Lorenzo Ciabatti è narrato nella sua ascesa professionale, famigliare e umana, “la più amata” la gloria e la nascita di Teresa, regina di questo regno di favola, “La reietta” in cui la crepa famigliare si apre a partire da oscuri movimenti di denaro, attraverso il divorzio e la fuga Roma di Francesca e il conseguente strappo dall’infanzia di Teresa e poi “i sopravvissuti” – solo i due figli, dei Ciabatti e nessun altro a chiudere una storia che anche qui a voler essere simbolici in due anni dall’1988 al 1990 precipita come la Storia intorno – muri e mura, città e case, mondi.
Narrando Teresa, il cuore del libro è nel cuore e nell’amore (della figlia verso questo padre) mito poi smontato in modo drammatico e progressivo – senza però distruggere realmente la figura del padre. Perché l’amore è uno specchio che noi costruiamo con l’immagine dell’altro nell’atto di amarci. Tutto ciò che chiamiamo amore è soltanto questa rifrazione ottica monodirezionale.

La più amata è in questo incipit del paragrafo 4 “Io sono la regina, mi rimiro nello specchio”. Ora lo specchio si è rotto e ventisei anni dopo la morte Teresa decide di scoprire chi fosse il padre. L’amore è lo specchio, le storie d’amore sono storie di colpe. L’Italia, invece - a cui papà Lorenzo ha dato il suo contributo rovinoso facendpo il barone, usando il bene publico ocme privato e fiancheggiando stragisti e golpisti - l'Italia,  ancora presa a rimirarsi nel suo specchio,  non ha mai voluto scoprire tutte le colpe dei suoi padri, per questo noi non abbiamo un romanzo storico, ma solo “i promessi sposi” o “la cognizione del dolore” che tuttavia dicono tutto della nostra a-storicità, come per l’oggi che siamo fa Teresa Ciabatti col suo libro aggiungendo i tasselli della sua storia personale. E’ il perdono che ci impedisce il romanzo storico.
E anche questo è alla fine un romanzo del perdono.

Il grande del clinico del grande primario dell'ospedale di Orbetello che è amico di Licio Gelli amico del della gente che compie il golpe Borghese e si colloca in quella area di destra che è stata responsabile di numerosi disastri, anche dell'avvelenamento storico di questo paese bloccato, catturato, dentro questa rete invisibile Nel racconto di questa distorsione narcisistica di Teresa sta il cuore del familismo italiano.

Il racconto di Teresa Ciabatti procede con la variegata, veloce e polifonica ricchezza e velocità che ha il racconto picaro delle commedie all’italiana – non nego sia anche leggero e divertente, agrodolce. E’ ricco di dettagli, colorito, comico, melò, inquietante, borghese – è un romanzo quadrifonico: Padre, Madre, Teresa piccola, Teresa grande – Ciabatti narratrice sa variare continuamente dentro queste voci fino a portarci dentro il mood se non il punto di vista di tutti e quattro.

  LA storia prosegue, Ciabatti si fa primario, Francesca lo sposa nasce Teresa e un fratello del tutto in ombra, tanto è devastante l’io di Teresa, che non si accorge dei segreti e delle bugie presa dall’amore di sé stessa che si regge sul presupposto d’essere la più amata.
l'infanzia felice è in realtà il profluvio del consumismo, l'amore è una relazione transizionale e poi feticista.

 arriva il profluvio di “Barbie, pupazzi, bambole, vestiti” Poi scarpe, il telefono-gatto e gioielli. Di fronte allo specchio cresce la finzione dello sguardo di Teresa: cicciottella, si immagina ballerina- meno meritevole, solo l’intervento amoroso di papà le permetterà di avere la parte migliore al saggio di scuola perché il Professore è intervenuto –e lei lo sa, sa benissimo di non meritare il posto che tuttavia si prende e lo pretende per privilegio di potere non per meriti artistici e da colpevole ne gode.
 
Dove comincia la devastazione morale di questo paese? Questo acme narcisistico della bambina, la coxe stridula che sembra sentire sono parte della commedia  che Ciabatti Teresa sa narrare, ci sono racconti e pagine gustose in questo resoconto che non arriva ad essere romanzo ( i capitoli della crescita difficoltosa di un’adolescente col padre ingombrante e un “crescendo di divieti” ecc)

. Mentre la sua adolescenza brucia per l’autoritarismo di un padre fascista per indole oltre che per ideologia, la madre di Teresa viene messa a dormire per una cura della depressione – anche lei da amata si è ritrovata divorata, da un marito tirchio, prepotente, oscuro, arrogante. Che un giorno, mentre sono a bordo piscina viene sequestrato. E’ il picco di opacità di una vita che si stava svelando diversa da come sembrava all’inizio, mentre tutto precipita: affari, potere, salute del Professore Padre-Padrone e relazione sentimentale. Ci sono  pagine anche belle,  lucide di una luce artificiale come il sole creato negli interni dei quadri di David Hockney (retrospettiva alla tate Modern ora, da vedere) è la luce di un ring, quello della guerra fredda tra padre e madre. Infarti, personaggi oscuri, miliardi investi, fallimenti, divorzi. Dramma borghese. Fuga da Roma, altra vita. L’infanzia dorata di Teresa svenduta per un miliardo nel 1988, la vita a seguire di Teresa squarciata da un’assenza – del padre? Della casa? – irreparabile. E quella svendita con dentro tutto il Tesoro di famiglia – e personale di Teresa giocattoli, vestiti, diari, foto, tutto – ora appartiene  a qualcuno nell’ombra forse a De Michelis o Forlani. Che magari l’hanno comprata coi soldi delle maxi-tangenti che stavano scroccando a mezza Italia, col sistema politico a cui assicurò potere garantito proprio l’amico Gelli, la P2 e Gladio, del Golpe Borghese dello zio musone, Dante Ciabatti. Altro che il Villone di Gonzalo Pirobutirro. Questa villa parla per tutti. La madre tenterà in tutti i modi di investigare, si affiderà al notissimo investigatore privato Tom Ponzi, repubblichino fascista e colluso con gli scandali Montedison, che ovviamente non arriverà a scopre nulla sul camerata Lorenzo.

 Misteri d’Italia. La Guerra fredda nel mondo finisce, ma nel 1989 quella di Lorenzo e Francesca è al climax. E anche il disagio di Teresa, adolescente sempre viziata e ora anche ferita – “un agitarsi di forze scomposte e disperate” a cui Ciabatti dà corpo in una prosa che oscilla come un elettrocardiogramma impazzito. Ne ha viste troppe. L'isteria della bambina che ancora alberga dentro Teresa grande è la parte migliore.

Poi il padre muore, nel 1990.
Cosa ci sia oltre il 90 è solo il breve capitolo autoritratto dei sopravvissuti, lei e il gemello Gianni, personaggio abortito dalla debordante presenza di Teresa (un non persoanaggio che abbiamo scoperto dalle interviste non ha voluto esserci).. E solo ora che vede, capisce la Dissipatio di  L.C. i misteri, le falsità. Non li amava, li ha presi: la madre, poi i figli, emblemi di un potere, non di un amore perché li ha distrutti ben oltre ogni cattiveria – e ora le carte della madre morta lo rivelano. Un patrimonio, un matrimonio, un museo delle cose perdute. Di misteri cono sciolti. “Chi era veramente mio padre?”

A che serve un romanzo? Più che l’analisi a sopravvivere l dolore senza emettere sentenze – cosa devi fare fino in fondo con l’analisi. Lorenzo Ciabatti è colpevole, ma tutto poi resta incompiuto, come Teresa da adulta. Tutto svelto nell’ implacabile capitolo finale, A che serve un romanzo inchiodato alla sola voce bambina? Riscrivere, il romanzo di fa metaromanzo fino agli ultimi momenti della stesura. Inchiodata all’infanzia come l’Italia inchiodata a Piazza Fontana. A che serve un romanzo? a vedere certo Che nello specchio ora Teresa vede sé stessa e forse finalmente qualcosa di più sa del suo più Amato, temuto, ma mai odiato. A cui dedicarlo.

 A che serve un romanzo, A niente, o a gestire il dolore di una verità che non si afferra, ma è lì, davanti a noi,  come la gallina bianca.
 A che serve un romanzo? a raccontare di colpe, ma  non a emettere sentenze. Certo però a squarciare le cose oscure. LE colpe, ecco.
Ma qui nemmeno le colpe ci sono. Già forse si potrebbe dire che in questo libro alla fine  manca l'analisi del romanzo famigliare -  e un serio confronto con questo personaggio da parte della narratrice (letterariamente è come se tutto fosse in abbozzo, tranne la piccola Teresa

 - se poi nella vita Teresa abbia fatto analisi e perdonato suo padre no mi interessa, qui per il materiale che c'era poteva esserci un corpo a corpo più feroce, sublime, complesso - proprio ANCHE per le trame storiche - che non c'è stato, non è stato approfondito, non è stato sviluppato.

Come per tutta la storia d’Italia, di cui come affermato in molte archiviazioni, ricostruzioni storiche, giornalistiche, ora possediamo la verità dei fatti, ma non una verità giudiziaria, Sappiamo chi sono i colpevoli, ma non sappiamo come dirlo. Questo mancato dire, secondo me si riversa nell'incompiutezza alla fine di questo libro, di questa mancata occasione di scrivere un grande romanzo.


(per inciso, se faccio paralleli, uno dei migliori romanzi italiani degli ultimi anni resta "Se consideri le colpe" di Bajani e come quello di GIorgio Falco, "La gemella H - o oggi il libro di Siti, "Bruciare tutto" questo appare molto fragile, seppure avrà il suo pubblico ed è giusto che l'abbia, non tutti riescono a leggere un libro difficile come quello di Siti, ed è giusto creare due canali di valore per i romanzi, un canale letterario, l'altro canale di lettura diffusa dove non è necessario avere una complessità letteraria per libro che intratterranno i lettori senza essere pugni allo stomaco)





giovedì 23 marzo 2017

GIANLUCA D'ANDREA Transito all'ombra" Marcos y Marcos


“Transito all'ombra “di Gianluca D’Andrea è un libro di ricerca, senza essere sperimentalista. Definire non serva a classificare definitivamente, ma a misurare la trasformazione che un testo compie nel panorama della letteratura presente. Allora possiamo azzardare nel dire che questa raccolta va ad occupare uno spazio di sollecitazione psichica che un tempo aveva l’elegia, perché si colloca su un versante decisamente memoriale. Tuttavia l’elaborazione formale insegue anche una riflessione sul linguaggio e il tempo “in atto” – dando conto del suo titolo, cercando una costruzione “isotropica” della sintassi e delle scelte strutturali.  Tutto il libro, costruito in più sezioni (“LA STORIA, I RICORDI”; “DITTICO”;  “IMMAGINI, RICORDI” “ERA NEL RACCONTO”; ZONE RECINTATE”: “ALTRO DITTICO”; NOTTURNI”) segnate già nei titoli da questo intento di attraversamento memoriale del trentennio di storia italiana recente, ma con un accento che resta al fondo lirico, nel senso che il suo grumo percettivo è sempre di un singolo “io”, quello dissolto, disseminato del tardo novecentesco, per niente centrale e forte, che si definisce anche nel suo stesso rammemorare. Quasi travolto da questo fiume, dalla materia di realtà che – come il presente caotico – diviene per quell’io una selva oscura collettiva di cui alla fine, nell’ombra, tutti noi pure siamo della medesima sostanza (da subito accenni ad un Guerra, all’Ucraina, ai nonni non conosciuti: “questi li chiamo ricordi” scrive D’Andrea nella prima poesia “c’era giocare che era già ricordo/e poi il futuro che si immaginava. / Tuttora vivo il brivido che vaga, /ma nel solo passato che conosco”).
Da questo presente fragile e opaco, muove la trasfigurazione degli eventi che hanno luogo proprio nella dialettica delle apparenze memoriali e testuali, di un’esistenza singola che si colloca come in coincidenza dell’autore nel paesaggio storico italiano tra la fine degli anni 70 e l’oggi. Una storia che procede per compressione e choc di accumulazioni di sineddoche, immagini spezzate e affastellate. Lirica del dopo-la lirica, come nella definizione dell’antologia di poesia italiana fatta da Enrico Testa.
La scelta metrica è libera con prevalenza d irregolarità, anche di endecasillabi nella prima sezione, e in generale una distensione ampia, narrativa, del verso, che ha in Fabio Pusterla – non a casa direttore della collana in cui esce per Marcos y Marcos il libro – il punto di riferimento post-Sereni per molti poeti delle generazioni recenti. Il risultato che ne consegue, molto riuscito e compatto nelle prime tre delle sette sezioni del libro, è una sorta di inseguimento della profezia del tempo futuro, contenuta in germinazioni, nei flash remoti del passato. La memoria è non un semplice museo o magazzino, ma un dispositivo del conoscere il senso stesso della storia e del presente. La storia è dentro una fuga e “neanche il tempo di sostare/al penultimo/ giorno di catastrofe, rinvengo/ e mi trovo nella sala d’aspetto/ di una scuola elementare”. Dentro questo risveglio l’io annaspa nel groviglio di immagini del passato e percezioni del presente, dove ogni singolo frammento del passato è lo scintillare di un impensabile non-ancora.  Si comprende meglio dunque la citazione di Mandel’štam posto a principio dell’intera raccolta: “Non è di me che voglio parlare: voglio piuttosto seguire l’epoca, il rumore e il germogliare del tempo. La mia memoria è nemica di tutto ciò che è personale. Se fosse per me, mi limiterei a storcere il naso pensando al passato” – in realtà D’Andrea sta nell’ attraversamento storico e rimugina non tanto NEL passato, ma la materia del passato, il ricordo è ciò che proprio nel testo poetico, nella sua ricostruzione interrogante, intende l’accaduto sotto il segno della possibilità – che seppure cieca, è sempre possibilità di redenzione.

Nell’epoca del dissolvimento telologico e in assenza di teologia, si procede sovraccarichi di stimoli, immagini, figure, percezioni. Difficile però distinguere cosa è “evento” come lo chiama ad un certo punto il poeta, cosa è un fatto, anche un dettaglio, inserito in una dinamica di relazione individuale e collettiva con il mondo, da questo punto di vista la poesia di D’Andrea si colloca in quel versante in cui si ambisce a diventare evento di evento, fino a far baluginare una precisa idea epistemologica sulla facoltà stessa di percezione che accanto a fulminanti considerazioni, dense di concetti, solo talvolta forse un po’ troppo concettuali,  prova ancora a fare poesia in cui l’accadere stesso dei versi è anche  strumento e luogo per la memoria. Non senza un sottofondo etico, nelle intenzioni, pensandola sempre come puntello alle rovine.
  Nelle accelerazioni del tempo presente l’occhio dell’io insegue la curva ottica in cui si rifrangono visioni altre, prospetti di futuro, ma prima che quel futuro accadesse quando ancora erano in ombra nel passato.  L’alone ha accenti elegiaci o malinconici, quasi da classico proustiano (“gli odori”) con la presenza naturale, del Sud delle origini, con le sue contraddizioni storiche di un” libeccio” sentito tra i “rifiuti” in una passeggiata verso il mare, un’accumulazione che è “fine di un’epoca” ma annuncia anche la fine tout court della possibilità, dopo quel momento, di poter formulare un concetto di epoca (“la tv degli anni ottanta tentò/ di rubarci la memoria”).
“Transito all’ombra “però va letto anche come epica minima ma civile, nel contrappunto alle appercezioni con cui D’Andrea rilegge la traiettoria del tempo storico italiano, immobile nell’essere transito, soffocato da cumulo senza sviluppo, come appare il magma di macerie mentali che l’Io-poeta cerca di contenere nel procedere dei versi come procede la crescita di una coscienza “tra le altre notizie, Maradona, il doping/ lo sport si sfascia, il tanto amato/ “. L’attualità del panorama storico italiano immobile, inchiodato, depresso anche nei suoi miti immaginari, incapaci di produrre più mito vero, icone (“un tocco immateriale in tutto il corpo/ fatto immagine senza consapevolezza”) paesaggio di fantasmi e carneficine, nel marasma di residui.  Dove la ricerca di un lampo di apertura utopica avviene solo se dentro uno sguardo memoriale.
Se ci è stato cancellato “con velocità ogni appiglio” per capire il nostro percorso di vita, distanziando in un limbo di benessere le generazioni che sono venute insieme a questo azzeramento di memoria, ecco che il patrimonio del passato pur nelle macerie confuse di un ricordo, illumina la sterminio del reale e ci restituisce un’illusione vitale, che l’esistenza proceda, si trasformi.
. Ecco quindi nel testo una costellazione di moment e ricordi, attimi sospesi dell’infanzia, quando la sensazione del déjà-vu di allora era invece energia di trasformazione, il desiderio che qualcosa accadesse. Il senso di “smarrimento” che invece l’io registra oggi col suo accumulo di ricordi altrimenti inerti è il transito confuso di chi è come il rifugiato in un presente che non è patria, abbandonata per sempre quella da cui proviene. LA patria è l’epoca, potersi collocare col pensiero in un’epoca, non semplicemente in una spiaggia colma di relitti.
Questo riguarda un movimento percettivo continuo, tra Sogno e visione come quando l’io si osserva mentre passeggia con la figlia e la moglie in un parco: ciò che nel momento in cui accade è anche la percezione di un 'irripetibilità” come pure accadeva “nei videogiochi a dodici anni/” quando l’io non faceva che “rispegnere lo schermo” vivendo il senso di un vuoto della fine. Cosa siamo ci è dato dal sentire, ma senza presunzione di centralità soggettiva: l’epoca si compone, la speranza dell’io che si fa da parte è che “qualcuno/colga da un altro spiraglio il quadro/che il tempo senza tempo si ricordi/ in molti modi” ma “anche “senza la mia stessa speranza. Sottrazione dell’io ma desiderio di una coscienza diffusa.
Ma cosa fa di un dettaglio un’esperienza? Non solo condensa di attimi, ma visione?  Nel tempo dell’inesperienza che viviamo, è possibile il “cambio di prospettiva” che vada oltre “alcuni atti innocui di eroismo” che erano solo “conati”? Qui dentro il tempo della “spinta individualistica” che arriva da lontano, l’io è “frullato” nelle sue stimolazioni senza senso. Da “venti trent’anni fa” – continua nel suo meditare-rammemorante l’io, c’è stato un massiccio assorbimento verso “il passaggio di millennio” di tentate cose, piccoli eventi come pure sono le “esplosioni nere” dei “grattacieli”. Non s’è dato pensiero di una storia: “da allora/niente/una scomparsa, idee allusive”. Con cripto-citazione di Zanzotto, gli unici pronostici che riusciamo a fare sono quelli del “meteo” accampati come siamo “per alcuni giorni tra le macerie”. Se c’è un ‘utopia, ovvero “altre dimensioni”, non lo sappiamo. Siamo come dei migranti in fuga, in attesa ai margini, in una sosta del transito.
E’ un poeta consapevole e riflessivo Gianluca D’Andrea, la sua poesia funziona nel già-dato del procedimento linguistico del suo dispositivo, ma forse per istinto pedagogico il poeta poi ribadisce chiaro, traslando – e forse rallentandola un po’ – la lirica verso soste da poemetto civile come quando precisa “Finì la storia, iperbole quarantennale/ di generazioni, micromode, subculture”.
Tutto lo sguardo volto indietro, cerca il confine critico verso una verità latente di questa non-appartenenza di accampati. Che siano i ritorni in Sicilia o il lavoro in Lombardia a Treviglio, in questa dimensiona a-nostalgica, di uno spazio sfinito dall’incessante immobilità d’essere sempre “che è lo stesso/sempre un altro”. Qui, in questa terra desolata e nostrana, il brusio in cui si accumula il “dopoguerra fisso” con il fluxus televisivo di decenni immersi in programmi e tribune elettorali, gare sportive, cosce di ragazze, la scuola, il disgelo, Tarantino, la marjuana, la fine millennio e in mezzo da Ustica alle Twin Towers, tutti solo in attesa “della prossima catastrofe mediatica”
Fino ad arrivare a un tempo presente in cui tutto questo accumularsi viene colto (con uno dei riferimenti che pure ci sono sparsi, a volte un po’ criptici) nel presente dei i “cancelli” e delle “mele” (ovvero Gates e Apple) e lo “schermo nero” della virtualità di connessi è unico terreno d’esperienza.  Ecco la falsa illusione con cui si ripresenta il mondo che ci appare un micro-mondo in cui alla fine globalmente viviamo, stretti in una costellazione planetaria “di borghi fantasma” una dissolta magmatica provincia totale, appesa ai “tablet” e ristretta dentro programmi televisivi – e “il resto del mondo è il niente”.

Se nelle sezioni centrali del libro anche attraverso luoghi della biografia (Treviglio, Zigonia, emblemi di un abortito sviluppo storico italiano) si vira proprio verso una dimensione solo memoriale, risultando meno d’impatto rispetto alla prima parte, nella sezione finale, con sette brevi “Notturni” si chiude il libro su uno sguardo che si fa interno, verso il buio, sguardo che si posa sulla “bambina addormentata”. Dentro quel buio, che ha lasciato fuori il “formicolio” che come il brusio dei testi precedenti, arriva il rumore bianco del mondo, nel passo chopiniano di queste ultime poesie: si accetta il fantasma, la sua forza immaginifica ma anche l’inevitabile distanza che è ogni forma di percezione e sentimento - anche verso cose e persone più care. E’ questa irriducibile distanza a consegnare l’Io ad un buio in cui “essere nessuno, avvertire/ e scorgere me nella notte” e di fatto a riconsegnarsi al medesimo “nucleo sprofondato” che il poeta avverte in sé, pure in questo caldo momento protetto Anche qui è la stessa sostanza della Storia e dell’esperienza tra memoria e percezione con cui si è misurato là fuori, anche qui manifesta in una forma – immagine, forse mai totalmente esperienza. Illusione verso un dove, certo, ma pure consapevolezza lucida (e tragica) che tutto è irriducibile distanza di questa immagine della realtà e dunque innanzitutto “è sapere la violenza/ e contaminare e inviare a niente”

giovedì 9 marzo 2017

"LA VEGETARIANA" DI HAN KANG - BELLO, MA "I WOULD PREFER NOT TO"

Ho letto il primo dei romanzi consigliati dagli amici:  “La vegetariana”  DI Han kanG  @adelphiedizioni  che ha vinto Man Booker International Prize  nel  2016
Dire mi è piaciuto sarebbe sbagliato - la categoria del “piacere” (lasciando stare Barthes)   non è solo per la gradevolezza, la categoria del piacere è anche quando troviamo una chiave di interpretazione probalematica, ma di trasformazione per noi stessi.
“La vegetariana” mostra invece un ‘assenza di quella  chiave. E’ un romanzo disperato. Molto più di quanto possa esserlo Kafka o Ionesco o Beckett, opere che Esercitano questa possibilità di rappresentare un “altrove” rispetto all’esistente e di esprimere con mondo una sorta di rappresentazione della bttaglia. La  riduzione a zero del senso dell’esperienza e dell’esistere,che c’è in queste opere estreme del 900 europeo mettono in discussione il soggetto dall’interno. Qui manca del tutto questo appiglio. E in questo senso è disperante e respingente. Può essere un suo fascino, come speso la fluttuazione  nel “vuoto” che percepiano nelle culture orientali ha affascinato noi europei - come HEidegger -  ma al tempo stesso mi sembra la rappresentazione di un’insufficienza (non esercito nessuna superiorità, ma rivendico tuttavia un’apprtennza) - socioculturale generale, che spesso arriva dalla Corea del sud, e in generale oserei dire dalle letterature orientali più che del libro in sé. Cerco di spiegarmi.


La storia scrittada Han Kang , divisa in tre parti, racconta innanzitutto di una donna, Yeong-hye,  sposata ad un uomo mediocre - che tra l’alto  in apertura fa in prima persona un suo raggelante ritratto dei motivi per cui l’ha sposata, con una sfilza di ragioni denigratorie e di svilimento che già sembrano il preludio ad una violenza, che sarà diffusa in tutto il libro ai danni di questa donna,   della stessa protagonista,  che è la vegeariana: infatti decide all’improvviso di non  mangiare più carne né di vederne.
«Perché?» le domandano tutti,   perché “Ho fatto un sogno” risponde lei , ma nulla più. E in una scena terribile, in un pranzo di famiglia,  il padre di lei, dopo averla pressata in nome dell’onore, e di una ragionevolezza dispotica, la abusa cercando di infilarle con la forza un pezzo di carne in bocca, causandone però  lo scoppio d’ira tale che segnerà poi  la deriva di tutta la storia…E, Yeong-hye  si chiude poi in un silenzio che durerà fino alla fine, e questo silenzio sarà la chiave di tutte le scelte dei vari personaggi del libro e anche dell’autrice.
LA vegetariana è  diviso in tre parti,  la storia procede ,ma con diversi punti di vista, mai della vegetariana, Yeong-hye, solo gli altri:  nella seconda sezione il marito della sorella In-Hye, che è un video-artista, comincia a scovare in sé un  desiderio ossessivo della cognata vegetariana, ormai divorziata e che ha scelto di vivere in un suo mondo  separato, di negazione ( che ricorda quasi il preferirei di no di BArtleby)  e decide di coinvolgerla in un video in cui è ritratta nuda ma dipinta di fiori. La donna accetta, il marito sarà però travolto dal suo desiderio ossessivo che sfocia in una passione erotico-mistica e nella terza parte, a narrare è la sorella, ormai distrutta dalle conseguenze di questa storia e che ripensa al rapporto con Yeon-hye ormai internata in una clinica psichiatrica. In-Hye cerca di accettare quella che crede una follia della più grande , si affacciano ricordi di un’atmosfera violenta in famiglia, la assiste ora  in una clinica, dove  è creduta banalmente solo una che rifiuta di dire e mangiare, , ma anche qui nulla più e non c’è traccia di una seria cura psicologica, che non sia il contenimento e la sedazione e nutrizione forzata - ancora una volta l’istituzione è totale e coercitivo-concentrazionario: dalla  famiglia alla clinica, solo  repressione, violenza, tortura…


Alla fine manca la reale motivazione della vegetariana  di questa scelta e la stessa autrice la fa sua nelle interviste : dice “non amo i romanzi che spiegano tutto”. Il senso di questo spazio vuoto  è  fondamentale - dice -  “ affinché il lettore resti libero di tracciare il “suo” personale volto della protagonista” .
Sarà, tuttavia  pur affascianto da una storia scritta con una precisione affilata, ne sono attratto e al tempo stesso vorrei respingere questo punto di vista.
Perché? perché quello che è merge è un vuoto complice. O comunque per noi occidentali inaccettabile.  poi piego perché.
LA scrittrice si fa complice di un vuoto colossale che sta al centro della società coreana, come di altre società di capitalismo avanzato orientale. E’quello che chiamerei - senza paura di sembrare scorretto -  un limite socio-culturale - che spiego in nota  sotto  [1 ***]   e che non mi fa dire che questo sia un bel libro, ma al massimo un libro-documento, un libro interessante ma che  non svolge la stessa azione nichilista che avevano nel 900 le letterature dell’assurdo, superando il limite accettabile di quel che penso sia il senso della letteratura: ovvero dare l’assalto a quella “manque” anche svelandola - una manque che in Lacan tuttavia è dentro una precisa battaglia di linguaggio, qui invece è sì raccontato il vuoto di senso, ma rivendicando da Han Kang il vuoto di senso stesso come valore - anche se a t tutto vantaggio di quello che nel linguaggio strutturalista viene chiamato il “narratario”. Il dramma di  Yeong-hye è che la rinuncia alla carne - e che appare agli occhi di chi narra (chi narra?) una forza

                        “il suo corpo giaceva li abbandnato senza opporre resistenza, eppure corazzato dal potere                       della sua stessa rinuncia “ …



questa rinuncia (esaltazione della vittima, come nei rapporti sadomaso)  è l’ unica possibilità trovata, come dire, quasi come un suo personale rimedio naturale e  improvvisato di reagire ad un sogno. Di fronte a quel sogno la protagonista vegetariana non ha una risposta, una spiegazione, non ha la  non ha un patrimonio di coscienza individuale  per  interpretare quel sogno.  
      “dentro d lei accadevano cose  terribili, inimmaginabili per chiunque altro”



Neppure la scrittrice L’unica cosa che sa fare è un gesto di sottrazione di rinuncia - forse fa parte anche di una etica del sacrificio che era nella Corea è stata ereditata dalla Giappone  - ma non emerge né da lei, né dalla sorella ma neppure dai dottori, una  possibilità di elaborazione: ino alla fine nella clinica psichiatrica i dttori lamentano la loro impotenza imputando  Yeong-hye della colpa di non aver detto nulla del perché, mentre dovrebbe essere compito dl clinico scoprirlo…
 Il fascino perverso di questa storia certo per noi è vedere l’ assenza totale dell’ io nelle persone che pure sono persone reali, che  provano qualcosa,  si dibattono disperatamente nelle loro fatiche di sopravvicere al sistema e alle diffcoiltà della vita -  questa è una costante della cultura letteraria della sud-corea dal dopoguerra, lo spiego sotto [2 ****] 

 Tutte le risposte, dalle inquietudini di ogni singolo personaggio, la vegetariana , sua sorella, il marito videoartista, che realizza opere d'arte senza sapere neanche  bene come e perché, alla fine la sola risposta che danno è il silenzio..la sospensione…


                            “era qualcosa di completamente diverso dalla malinconia che pure tormentava suo marito, eppure sotto certi aspetti tutti e due la sconcertavano allo stesso modo. Entrambi sprofondavano sempre più nel silenzio”

il silenzio è il sintomo della follia, curato con la riduzione a mutismo di questa alterazione del flusso ordinato del sistema-società-famiglia che avviene nell’ospedale psichiatrico dove alla fine l’unica soluzione (colpa di sua sorella che non ci ha detto perché è diventata vegetariana” dicono i medici)  sarà nutrirla con violenza col sondino un po’ come aveva fatto il padre a tavola... E  così come anche IN-Hye  che vede non sa giudicare il marito, i suoi turbamenti e suoi video né i comportamenti della sorella, la sua risposta  così come anche gli altri che partecipano al pranzo  - tuttavia complice del sistema e non capace di disgregarlo - è il silenzio:  il non sapere che cosa dire e non dire nulla,  il non sapere che cosa siano le turbolenze interiori e ignorarle, incapaci di una risposta alternativa allo schema dato.
e anche la sorella alla fine quasi  incolpa la povera vegetariana Yeong-hye:
                 “non aveva saputo perdonarle di essersi involta da sola al di là di una confine che ei non era mai riuscita a varcare, non aveva saputo perdonare quella meravigliosa irresponsabilità che aveva permesso a Yeong-hye di liberarsi dalle costrizioni sociali lasciandola  indietro, ancora prigioniera. E prima che Yeong-Hye spezzasse quelle sbarre, lei non sapeva nemmeno che esistessero.”

Sembra arrivare anche una consapevolezza (“Avrei potuto impedire che quelle cose inimmaginabili penetrassero così a fondo dentro di lei”?... ma continua non esser detto quali da parte  della narratrice - e ancora ….“di colpo fu assalita dalla sensazione di non aver mai vissuto”)  ma questa consapevolezza di inappartenenza, di spettralità al limite della dissociazione (le sembra una serie tv) non bastano :
      “il dolore era come un buco che la inghiottiva, una fonte di paura intensa eppure al tempo stesso, una strana, silenziosa pace”

il dolore non diventa mai rivolta, ma solo un pozzo di pace. No, questo romanzo non lascia un’idea felice, mi lascia un senso di passività che non metterà mai la libertà come valore  al primo posto. Capisco possa sembrare un’interpretazione “morale” del romanzo, ma in ogni caso la morale e l’estetica sono sovrapposte nell’esercizio  della “facoltà del giudizio” come già riconosceva Kant che asserisce come le condizioni di possibilità del nostro poterci dire cosa siamo e perché, affiora da una sintesi a priori che deriva dalla confluenza di facoltà razionali e da percezioni sensibili dell’arte, delle varie opere d’arte.

E poi La pace di cui parla la narratrice alla fine è la miglior complice della pace sociale con cui il Potere in continua a privare gli individui (di quel paese, come in varie forme in Cina, in Giappone e altri stati dell’oriente a capitalismo avanzato)  del nutrimento essenziale per la vita e per la società  stessa: la libertà individuale.




NOTE 


          [1***] limite socio-culturale?


per inquadrare questa affermazione, relativa al libro di  Han Kang - scrittrice, figlia di scrittore e sorella di scrittore, ossessionata dalla scrittura fino al punto di avere i polsi danneggiati per il troppo uso del pc, tanto che “la vegetariana” è stato scritto a mano - per capire meglio il libro - e ciò che al libro manca, pur nel suo essere un bel libro, interessante da leggere - ne introduco un altro.  E’ quello di Franco La Cecla, Elogio dell’Occidente. il titolo sembrerà scorretto o una deriva “alla Fallaci” dell’antropologo siciliano. In realtà La Cecla sottolina che la cultura occidentale per quanto oggi possiamo averla relativizzata o messa  in discussione ha  sicuramente un grande merito,  qualcosa di cui anche andare orgogliosi : è vero, c’è  l'Occidente del libersimo feroice ipercapitalista l'Occidente delle crociate e l'Occidente degli imperi e l'Occidente del nazismo, ma l’occidente è stale perché ha prodotto una cultura che a sua volta ha prodotto la possibilità di mettersi in discussione e di interpretarsi. lo sintetizzo: il percorso che va da Cogito ergo sum di Cartesi a Cogito: “ergo sum” di Lacan, una cultura che ha prodotto l'habeas corpus, la rivoluzione francese,  la dichiarazione dei diritti dell'uomo . Insomma ha prodotto l'autocritica la messa in discussione di sé, creando  un'idea di soggetto individuale  che si evidenzia nello stabilire i limiti come le condizioni di possibilità per cui un Soggetto possa dirsi tale - ma anche destituirsi.  Nella sua esperienza totalizzante l'Occidente la cultura occidentale anche nella sovversione capitalista avanzata liberista prende a schiacciare le coscienze individuali è però vero che c'è un problema con la cultura coreana contemporanea con la cultura giapponese contemporanea come con quella cinese e c'è un problema che in queste culture si è passati rapidamente da regni distampo medioevale a  società capitaliste  forgiate a  dimensione tecnocratica di grandi performance collettiva che si basava sullo stesso sistema socio-familiare del passato, tutto volto al sacrificio individuale.
Tutto ciò ha prodotto tanta ricchezza ma al tempo stesso questa cultura non aveva gli strumenti per il poter garantire dentro quella dimensione di sviluppo e l'autonomia individuale, di cura dell’individuo (Foucault) e di libertà individuale.  infatti non l'ha prodotta,  non sono società libere, se lo sono solo formalmente, sono soffocanti nei loro verticismi strutturati da clan che invadono con violenza sia la dimensione lavorativa che quella personale.
 Va condiderato anche che la Corea ha attraversato sofferenze inaudite: prima l’invasione cinese con ua feroce repreione e una guerra di liberazione che produsse milioni di morti e in cui si arrivò a cacelare ogni traccia di cultura locale compresa la lingua, - il poeta Ko Un né dà una bellissima testimonianza - poi dopo la liberazione le cose non andarono meglio:   tra il 1960 e il 1993 (anno dell’elezione del primo presidente non militare )  la Corea del Sud ha di fatto attraversato periodi di dittatura - con feroci repressioni politiche e un uso della violenza e della tortura capillare e diffuso, centinaia di migliaia  di persone tra prigionierio, torturati e morti - ne parla Tiziano Terzani nel volume “Asia”. Se poi si guardano le storie “comuni” di registi come Park Chan-wook o Kim-Ki-Duk si trova traccia di una violenza sommersa e quotidiana inaudita, la ma è l’eredita di un’aura di violenza che era diffusa in tutto il paese per anni e anni..

Il passaggio significativo è proprio al cura forata che le fanno in ospedale psichiatrico: contenimento e violenza, nutrimento forzato col sondino. Non emerge nessuna consapevolezza di una cultura psicoanalitica del disagio e di reinserimento del disagiato, accolto nella sua differnza - o mangi o stai rinchiuso.
In “lette da uno sconosciuto” il film del cinese Zhāng Yìmóu,   accade la stessa cosa: è la storia di una donna che perde il senno, la memoria e la capacità di riconoscere le persone e le cose introno a sé a seguito del trauma della prigionia del marito durante la rivoluzione culturale. Cessata al prigionia il marito torna a casa ma appunto per la moglie è uno sconosciuto: quando l’uomo si rivolge ad uno psichiatra quelo non può far altro - anche nella cina comunista e isolazionista - che citare articoli stranieri, articoli europei come a sottolineare che non c'è una spiegazione psichiatrica se non  quella elaborata dall'Europa, altrimenti per la cultura cinese - analogamente ad altre - la devianza è solo follia da elimiare o al masso da rinchiudere.
 la scelta vegetariana viene considerata un male, una stranezza folle, un peccato e dall'altro comunque questa colpa questo problema psichico di fatto un non  ha nessuna spiegazione. Così nel romanzo anche l’autrice, complice, non ne darà. Sembra un gioco letterario  che lascia il vuoto al lettore, ma a me mette ulteriore senso di sconfitta per la negazione dell’io e della persona umana che manifesta quelal deviznza, quella diversità.

[2****] romanzi coreani dal dopoguerra

 La maggior parte della narrativa della Corea del Sud, dopo la guerra, aveva come soggetto la lotta portata avanti dalla gente comune per cercare di superare le pene e le sofferenze di tutti i giorni. Le opere di Hwang Sun-won “I Discendenti di Caino” dove il tema centrale è la crisi nazionale e “Pukkando” di An Su-kil, che narra la migrazione di alcuni coreani verso la Manciuria, sono quelle più rappresentative.
“I Discendenti di Caino” di Hwang Sun-won, “La Terra” di Pak Kyongni, “Crogiuolo” e “Mia sorella Bongsoon” di Gong Ji-young  in aprticoalre T Park Kyung-ni è una scrittrice che con il suo romanzo che ha avuto vasta eco  "Toji" (La Terra) e molte altre opere messo in risalto il tema della  dignità umana, considerata come la cosa più nobile in ognuno di noi e quindi degna di protezione.  




"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...