mercoledì 24 febbraio 2016

ALESSANDRO BERTANTE "GLI ULTIMI RAGAZZI DEL SECOLO" (GIUNTI)

Di questo libro, che parla ad una generazione che è anche la mia, nato nel 1964,  mi vengono in mente parecchie cose. Recensirlo è anche il modo di fare i conti con un certo pensiero tra malinconia e memoria combattiva che questo secolo ci ha lasciato tra le mani. Mi prendo un po' di spazio.
il romanzo si snoda fondamentalemnte  tra la milano degli ani 70 e soprattutto 80 nel racconto della formazione di un ragazzo di quel tempo, e un viaggio nel 1996, durante una vacanza di Bertante e un suo amico in Croazia, al mare, pacificati, verso Sarajevo, città simbolo del secolo delle guerre e della fine secolo.

Una costruzione di quadro e istantanee, un senso memoriale e postmoderno insieme del narrare.
Partiamo da un dettaglio, ma significativo. C’è un esercizio che fa Alessandro Bertante, protagonista e narratore in prima persona del romanzo scritto da Alessandro Bertante (“Gli ultimi ragazzi del secolo”, Giunti) nelle prime pagine del libro:  dare il senso di un’epoca nominando le cose, gli oggetti che l’hanno caratterizzata. E’ qualcosa che spessi si fa, come la fece Fabio Fazio in Tv per gli anni 70, oppure come spesso si vedono circolare su facebook certe liste di oggetti che servono a cementare un’appartenenza. Il motivo è dichiarato “non esiste nulla di più inaffidabile della memoria”. Le cose tuttavia non sono esattamente tali e proprio questo esercizio di nostalgia degli oggetti nato in quel decennio “paradossale” segnala altro, che chi è cresciuto negli 80, nato nel 1969 come Bertante, nella sua maturazione identitaria di adolescente gli oggetti, le cose smettono di essere, conteranno solo i loro nomi.

Quel decennio fu l’esplosione dei brand,  delle marche. Delle Griffe, ovvero secondi nomi che spesso si sovrapponevano se non sostituivano all’oggetto, ne era no il simulacro. Un nome, ma solo quello contava, non l’oggetto che denotava ( Non si indossava  il “piumino d’oca” ma il “moncler”) . Allo stesso tempo il filosofo noto per il “Trattato di semiotica “ del 1975 nel giro di pochi anni compie una svolta clamorosa: dà respiro ad un romanzo, in cui mette in scena romanzesca certe idee,ma forse  era di fatto una deposizione delle armi della filosofia del linguaggio, a favore della  “narrazione”  – quel “Nome della rosa” di Umberto Eco che ci ha appena salutato, congedandosi da quel mondo postmoderno che aveva in parte contribuito ad inaugurare e a decodificare, e nel contempo essendo attore principale ( mi viene in mete che una delle attività più richieste ai pubblicitari oggi dai grandi marchi, dai brand è “creare appunto uno storytelling del nome, del marchio, la sua intepretazione narrativa).

La mutazione antropologica che vive Alessandro Bertante  è quella di chi è cresciuto nella Milano degli anni 70, vissuti nel riflesso  di genitori prima militanti politici e poi piccoli borghesi, è poi approdato in un’università post-politica, come post-storico era il suo stesso mondo – avere vent’anni nel 1989 e non permettere a nessuno di dire che era la più bella epoca storica per avere vent’anni – e ha più di tutto partecipato come “corpo sociale” alla trasformazione biopolitica di un esistenza metropolitana di progressiva desertificazione delle identità, ma che pure era il culmine di un progresso per le stesse masse finalmente con diritti e opportunità, partecipando alla ricchezza collettiva  “Gli anni ottanta rappresentano l’ultima vera espressione identitaria dell’Occidente pacificato e vittorioso, l’orgogliosa rivendicazione di un primato politico e culturale”. La storia che aveva impiegato tre secoli per arrivare al punto di massima ricchezza possibile per la maggior parte delle persone  possibili con il massimo del progresso tecnologico e scientifico possibile, tutto in Occidente. Dentro questo enorme progresso collettivo però i singoli ragazzi che ci crescevano dentro, stavano incazzati come pochi, forse poi nel modO più imbruttito possibile, perché sapevano senza averne coscienza di essere proprio gli ultimi.

“Ci hanno raccontato una storia senza lieto fine, perché il lieto fine saremmo dovuti essere noi, i loro figli” Non è rimasto niente di cui essere fieri” scrive ad un certo punto, 

Per questo la risposta fu individualista, dal punto di vista politico e culturale,  ma sottotraccia fu un’estrema solitudine  (un “aristocratico della solitudine” l’adolescente Bertante che attraversa la città di notte) , e in chi stava fuori dal gran ballo dell’egotismo anni 80, pur stando a due passi, in periferia, l’individuslismo significava affrontare la vita “a muso duro / un guerriero senza patria e senza spada / con un piede nel passato / e lo sguardo dritto e aperto nel futuro. “ come cantava Bertoli ad apertura del decennio. E resistenza era guerriglia, teppismo, piccoli gruppi,  centri sociali, underground, una sopravvivenza e una sotto-vivenza. E in isolamento  nella periferia o nella suburbia di quel centro splendente che era la Milano da bere – Ogni ragazzino metropolitano si è identificato con la tristezza di Jimmy Sommerville in  “Small town boy “.

Tutto ciò nel libro, nella storia narrata in modo apertamente autobiografico da Bertante,  non poteva che approdare fisicamente – è il segmento di avventura romanzesca centrale – nel luogo che tutto ciò ha rappresentato per  un secolo, per molteplici simbolismi: Sarajevo.
La città in cui il 900 s’è incendiato con l’attentato che portò alla prima guerra mondiale e all’ingresso delle masse nella Storia, la città in cui precipitò l’Europa alla fine del secolo e dopo decenni di pseudo-pace post ideologica, diventando di nuovo guerra. Il secolo che vedeva l’uscita dal 900 delle masse, delle identità sociali e accompagnandoci in un tempo storico di percezioni singolari, virtuali, quella solitudine dentro la storia, quall che va da chi assiste ad una guerra dal salotto di casa, fino a chi nella solitudine di una tastiera si trasforma nell’unabomber di parole di odio, sui social…

 L’autobiografia di Bertante qui non è autofiction ma una decisa narrazione memoriale che cerca difarsi storia comune,  che non cerca ambiguità, ma cerca la cronaca, tiene il passo di quell’epoca in cui di fatto si è vista la fine delle grandi narrazioni diacroniche, per un appiattimento del presente.
Così Bertante scrittore recupera anche toni e forza ritmica della sintassi, costruzione di scene, velocità di un suo stile  per tentare un’operazione che direi riuscita: riportarci al passato, ma attraverso una narrazione materica, diretta, di forte impulso “epico”  ce la fa rivivere così come chi l’ha vissuta la ricorda – e chi no la può sperimentare – con un tratto caratteristico che aveva la medesima elettrica battente cadenza, ma che era di segno opposto, ed era il ritmo del presente nel ritomo delle news del flusso CNN che fa narrazione e dramma "live" della storia.

Percepire il presente e raccontarlo in presa diretta.Con questo si confrota oggi uno scrittore. come inseguire quel ritmo, quella percezione.
Ed è significativo che quella  generazione (di Bertante soprattutto) ci si sia formata dentro.

  Bertante con la scrittura arriva ad un effetto simile ma col contrario: Sembra che faccia la cronaca, la radiocronaca di un suo vissuto, in simultanea, ti ci trasporta anche per forza visiva, irruenza nervosa del lessico e della sintassi,  ma sta in realtà narrando un addio, se non un’elegia,  un’epica ma con distacco. Un secolo che per certi aspetti quasi pare leggenda.

Un secolo del conflitto che si chiude con una guerra, ma pure con un decennio in cui tuti i conflitti che l’avevano attraversato anche felicemente, progressivamente, diventa il decennio del “ripensamento” come lo chiama Bertante, preferendo questo termine a “riflusso”. Una generazione di isolati, senza più un nemico. Un decennio che sfarina via e che Bertante raccoglie nel suo sfarfallare di istantanee belle, vive, concrete, che restituiscono “l’energia in movimento “ di un weekend postmoderno come lo raccontò Tondelli, ma che non poteva non essere anche una “dorata illusione”: la conferma di esistenza al mondo l’avrebbe data lo specchio della Tv, unico collante sociale: libertà è partecipazione al consumo.

Aldo Nove lo raccontò in quasi presa diretta con Woobinda, oggi Bertante lo ripensa, quell’affollato supermercato fatto di gag e fastfood, già nostalgico nel suo proporsi con l’estetica “revival” anni 50 del “Drive-In” televisivo. Già rivolto all’indietro, perché una cosa era chiara in quegli 80. L’assenza di orizzonte. Che per qualcuno fu tentativo di un “altrove” dell’eroina. Oppure coprirlo con il “dark” dei Joy Division.
Chiusi in uno spazio asfissiante di solo consumo e nessun alternativa. Ci circondava un’aura negativa come il contorno viola della sagoma del malato di AIDS della pubblicità con la musica della Anderson. E nessun crollo di muro cambiò la situazione, ampliò solo lo spazio della cella in cui eravamo rinchiuso. Costretti in un fortino con il senso di assedio, ma senza nemico che assedia. (Il deserto dei tartari di Buzzati che si fa verità).

Se senso  di assedio da warriors metropolitani era, tanto valeva andare verso un assedio vero. questo fanno i due amici, in pantaloncini e ciabatte, in quell'estatedel 96.
Quell’andare verso oriente, nell’altrove di una terra squarciata dalla  battaglia per certi aspetti era sentire il fascino di un’epica e del tamburo battente della Storia che attraversa un territorio. Là dove il 900 muore, forse pure il 900 è ancora vivo, nella morte e nelle ferite. Questi due “ultimi ragazzi del secolo”, Alessandro e il suo amico, decidono così di rompere la  cortina di ovatta che attutiva tutto in un flusso “live” ma da salotto tv della storia e decidono di fare qualcosa di antico: andare a vedere, testimoniare cosa è Sarajevo, la cosa che “sta prima” del suo nome, del suo simulacro, alla  faccia di Baudrillard, ” la sua immagine tv, per non lasciare che solo quella “nuda” immagine come le “nomina nuda” del motto medioevale trascritto a inizio anni 80 da Eco.

Vedere le cose, non solo le immagini, per poi depositarle in parole. Fosse anche – quel sottrarsi all’ inesperienza che ci stava caratterizzando – dal 89 ma soprattutto da quei filamenti verdi del bombardamento di Baghadad del 91 che visto in tv,  somigliò nel cervello di molti ai bastoncelli verdi con cui si sparava nei video game di “Space Invaders” con cui quella  generazioni aveva giocato 12-14 anni prima. Toccare le cose,  fosse anche da turisti sciabattanti e per solo due giorni, in Panda.

Salvo scoprire che in Bosnia non c’era l’epica, l’onore, i valori, ma era esattamente come nel resto dell’Europa e dell’Occidente – e da lì a poco in tutto il mondo dalla Cina ,all’India, al mondo islamico. Era tutto un teatro (”teatro di guerra”) uno “specchietto per le allodole” dichi vi voleva credere, la realtà erano i soldi “Rimangono solo i soldi, tantissimi soldi” – è solo questo a muovere la falsa pace, come anche il teatro di guerra.

“Questi sono i Balcani qua ancora vivono le leggende della nostra storia”. In un certo senso lo scrittore del “Al Diavul “ e di “Nina dei lupi “ cercava a Sarajevo la leggenda, ma di fatto trova la cronaca bieca dell’affarismo – pur trovando umanità, tra vittime e volontari. Una volta Roland Barthes scrisse della differenza tra lo storico e il romanziere: lo storico sorvola in mongolfiera la paesaggio della storia, il romanziere la attraversa a piedi o cavallo. Così noi vediamo questa lunga passeggiata metropolitana tra Milano  e Sarajevo di questo giovane in cerca di leggenda e che approderà al finisterre che avrebbe da lì a poco inaugurato un’altra epoca: quella dell’economia globale dei destini individuali che non ci sono più.

Resta al narratore far sentire però l’odore della storia e la sua puzza e Bertante ci riesce molto bene. E’ una scrittura a volte da “inviato speciale” nella memoria, che per questo mi sembra legata a quel decennio in cui per noi fu assorbire la realtà dal “flusso” della CNN (“inarrestabile flusso”). Il palinsesto della storia si compone nella sequenza costruita dei capitoli della narrazione (qui la letteratura si mostra, rispetto al semplice memoriale) per un Bertante che come tutti noi ha salutato il decennio degli 80 con Mario Pastore e l’ha vissuto molto attraverso la Tv – e la TV poi si sarebbe fatta realtà, con Berlusconi, la TV sarebbe scesa in campo  

Nel palinsesto del racconto di Bertante tutti i segmenti si sovrappongono  (le vacanze con il pulmino wolkswagen, la politica anni 70, le stragi, la scuola, le case di Milano, la musica e il punk, le controculture, il paesaggio metropolitano, la piccola borghesia, la televisione vista ecc. la sequenza delle tessere costruisce il narrato ) Come Schifano – non a caso l’artista emblema del periodo, che in quegli anni inseguiva in una sua disperata rincorsa di fermo immagine le istantanea del suo televisore perennemente acceso - Bertante allinea le sue polaroid, che a sua volta fotografano il periodo e infine le rimanipola linguisticamente – con accenti particolarmente  riusciti nella passeggiata di attraversamento della città, nelle scene in cui le risse o la durezza del contatto urbano, le botte, la violenza, si acuiscono – e non a caso li torna il presente indicativo come tempo verbale, il passo è il presente, ma pure restituisce non anni formidabili, ma l senso di una generazione che si stava sciogliendo, diluita nell’anonimato, invisibile e mentre cammina diciassettenne del 1986 sa che “questi anni già dimenticati dureranno per sempre”. 

“del mondo che mi ero lasciato alle spalle non mi importava più nulla, dell’eredità storia ancora meno, ogni retorica si mostrava  caduca … che niente finisse era ormai un dettaglio marginale, melanconia, gioia e tracotanza si mischiavano nel tumulto dei giorni cavalcati senza rete, fra le crepe della storia si stava forse aprendo un passaggio, negando la menzogna della sua fine, e noi, inconsapevoli e fragillissimi, pensavamo di essere pronti al futuro.”


Dimenticare, ultima possibilità di farci ricordare nella storia

venerdì 12 febbraio 2016

ALDO BUSI "L'ALTRA MAMMELLA DELLE VACCHE AMICHE" (MARSILIO)

“Busi tanto per cambiare sei andato fuori tema”. Aldo se lo sente dire da quando era in terza elementare. Lo scopriamo a pagina 83 della sua debordante autobiografia non autorizzata e soprattutto non richiesta, ma proprio per questo subito diventa un dono incandescente. “L’altra mammella delle vacche amiche” (Marsilio, p.466) è il racconto in forma stream di scrittura di tutto quel lungo  fuori-tema che è stata la vita di Aldo Busi, quel suo essere anche fuori-classe. Il materiale del libro è anche in parte ciò che era rimasto fuori dal precedente Vacche amiche, tanto da lievitare da 180 a 466 pagine e ci porta a rimestare ancora di più nell’essenza del suo capolavoro: fare di sé stesso un’opera d’arte, ma solo per poterne scrivere. 

E’ la scrittura, la totalità della  scrittura, quello che consacra con questo libro Busi,  il suo essere fuori da canoni, da generi, da limiti (“uno scrittore del mio non genere”) : per anni abbiamo letto i “romanzi” di Busi, spesso trovando le imperfezioni più belle delle forme composte, del “romanzo-in-sé” che aveva strutture ad alterna efficacia, in libri che tuttavia non si potevano apprezzare nel complesso dell’ “opera”. Insomma romanzi che da un lato erano imperfetti, spesso, dall’altro non potevamo non essere letti, per attraversarli alla scoperta dei suoi vertici. Ora Busi, proprio come con la  vita di chi ha vissuto molto e si può permettere di rinunciare, con questo libro ha definitivamente rinunciato ad obbedire anche a quel tanto di necessità editoriale e si riprende la libertà della scrittura, chiamano i suoi lettori ad essere messi sull’ottovolante e anche sulla graticola, dentro pagine irresistibili di una sua personale ed egocentrica Entretien infini .


 Il  doppio canale produce un attrito, un contropelo della  vita che alla  fine è “il” fine ultimo: la fine è il fine, ossimoro del gender, come nella sessualità espansa di un omosessuale  stanco ma gaudente sadico del fatto di essere, per esempio, il desiderio sessuale delle sue tante vacche, ammiratrici, lettrici, amiche. Ma pure di aver vissuto al punto di intrattenerci tanto con i ricordi del sesso mirabolante, quando con le sue disavventure della prostata.
E delle donne poi, di queste vacche, nonostante amiche, ne fa un ritratto spietato (“l’unica voce che ha nel mondo oggi la donna è la voce Donna di Wikipedia”) ma proprio per eccesso di amore che non si può definire tale, quindi non è. . Busi non ha freni morali, eppure è animato da una ricerca di moralità assoluta. Daniele Giglioli ha scritto di non farsi ingannare:   in Busi è il reale autentico risentimento, l’odio vero, il vero motore della scrittura. E che non  è vero che in fondo ci ami, e che non  scrive del brutto di paesani, italiani, giornsliti, politici, ecc per una catarsi della “bella scrittura” che poi tutto risolve. No Busi è sferzante, senza sconto. Il risentimento, l’odio che circola in queste pagine è reale, è un’espulsione di viscere, ma alla fine (permettete la critica empatica da lettore) dato che non abbiamo un sentimento altrettanto di odio e rifiuto,  nei suoi confronti, ma semmai di gratitudine , di divertimento, di riso, di vitalità, penso – non vorrei fare del sentimentalismo al posto della critica, ma concedetemelo un po’  – che Busi effettivamente ci tratti male ma per non lasciarci andare a fondo.


Come in uno specchio, del resto lui stesso scrive:  ”volevo semplicemente essere amato (..) volevo diventare memorabile per qualcuno ..dunque cominciai a fare qualcosa di insolito”  in cui si vedesse “ il ricordo l’affetto, la traccia d’amore civile per me nella sua memoria, tra se e sé”. Ecco in questa proiezione futura di essere rammemorato Busi si ritrova scrivendo oggi, attorno al  perno da cui s’è originata poi la (sua come di tutti?) scrittura che di quella pulsione diviene forma.
perché la memoria è la chiave di tutto, si vive per essere ricordati da qualcun altro. Lo si veda nelle sorprendenti pagine finali in cui Busi confessa qualcosa che non si era nuppre ben raccontato da sé: quell’uomo violento che era il padre, mancava alla madre, per tutti i gesti quotidiani che condividevano, nonostante avesse pure tentato di ucciderla. Perché conta in una coppia anche se l’altro è un avversario, il fatto di  aver “depositato presso di sé la memoria del corpo dell’altro, la sua storia e quindi la propria”. E dunque anche a Busi, pur odiandolo questo mondo-uditorio, il lettore è un “nemico fedele”.

E non è un caso è proprio il suo libro più libero, libero anche dalle forme narrative più originali. Come nell’arte c’è espressionismo, informale ecc, qui Bisognerebbe chiamare in causa “giornale intimo” “diario” pamphlet” “autofiction” “zibaldone” e nessuna di queste categorie sarebbe adeguata e tutte assieme si.
Lo fa , si potrebbe dire quasi a specchio, in un libro-testimonianza , in un libro in cui certo fa strame delle sue memorie, ma quel nucleo che tiene assieme il desiderio di eros il suo essere un cives in Aldo è ancora lo stesso, da sempre.
Di schiaffi tuttavia ne dà, Busi altro che, e non si salva nessuno, tanto che hai la sensazione che se proverai a parlarci, a scrivergli, a farti fare un autografo, il prossimo sarai tu.
Ci lascia affogare, riempire la bocca di amarezza e vomito di noi, della sua implacabile lucidità quando ritrae miserie altrui che tuttavia riconosciamo nostre, ci sembra  di affogare, ma poi la scrittura – e l’Autore dunque - ci riprende per i capelli.

Così se da un lato dichiara che vorrebbe “istigare coi miei libri più gente che posso al suicidio, uno legge un mio libro e dalla vergogna per le sue azioni, la sua ipocrisia, la sua viltà, la sua doppiezza “ i lettore al suicidio, dall’altro   non fa che trattenerci ancora un po’, intrattenerci per mille e una pagina in più dentro questo suo diario a rebours , grazie proprio alla qualità che non dovremmo chiamare in causa, la pregevolezza della frase. Busi, come Flaubert e come Proust è uno scrittore di “frasi” e procede in un tessuto continuo e raffinato, il periodare diventa paesaggio. Scrive, non mollandoci mai, e amandoci alla  fine, non tanto perché davvero ne abbia bisogno narcisisticamente – Busi non è mai narciso, non vuole che si legga per piacere suo, e non vede solo sé stesso: Busi è uno scrittore dall’ego civile, vede tutto, ha un occhio clinico per le miserie e gli splendori umani, e italici in particolare,  ma anche un occhio politico non indifferente sulla realtà.
Busi è spinto se non da amore per noi,  da una reale pietas per l’umano. Ha l’occhio che avrebbe un suo quasi conterraneo Caravaggio, lo stesso furore e nettezza, la stessa vicinanza ai corpi, alla  luce sempre in chiaroscuro, sempre di taglio contrastato, la passione per il guazzabuglio del marcio, del feroce, del sangue. E al tempo stesso, pietà  per quel cartoccio di vanità e inconsistenze che siamo noi tutti, mucchio di carne stracciata e bolsa attitudine  pure per i più elementari istinti. Ce l’ha questo sentimento di attenzione umana anche per quelli verso cui prova risentimento vero, autobiografico. Le pagine in cui descrive la famiglia, quella Osteria delle Antiche Mura di proprietà dei suoi , quei parenti poveri, quel sottofondo di miserabili che era la provincia italiana forse anche prima di essere provincia – più grassa e ottusa col suo benessere – quel bresciano contadino e gozzo e violento di cui racconta, come a sedici anni quando un compaesano stava per ucciderlo perché “culatì”, dello zio che lo imbroglia e lui si lascia imbrogliare, per un misterioso abbandono al mistero di una vita incomprensibile, fino a i vizi di una società letteraria dove “ognuno sta solo sul cuore delle app” in un fandango di isteria comunicativa e di chiacchiera e arroganza del lettore che seppellisce la letteratura, l’opera, la memoria.


Tutto questo è la palus putredinis dove è cresciuta e continua a crescere la miracolosa virtù di Busi,  l suo talento, quello di una scrittura che si è voluta sempre come assoluto: “non darei un frammento di Saffo per tutta la Cappella Sistina”.
Una scrittura che ne fa grandezza perché voleva esserlo e lo modestamente lo nacque scrittore,  il Victor Hugo dei bassifondi di Montichiari, il Balzac di una commedia umana che poi ha avuto infinite repliche man mano che Busi cresceva acquisiva fama, intratteneva rapporti conosceva l’Italia che diventava ricca, volgare, pretenziosa, ignorante, la stessa Italia che lo celebra in Tv e non gli mette i bastoni tra le ruote per  trovare un editore. L’Italia delle tribù e del merito unico dell’essere andato in tv. E tuttavia ancora benevolo non solo verso la sua gente come verso la sua amica Miriam, l’altra mammella delle vacche amiche, ma più in generale con quello che è l’esistente, il mondo intorno a sé. Come quando in un passaggio, quasi con un eco del finale della Giornata di uno scrutatore di Italo Calvino, Busi non sente intorno a sé l’inferno e in qualche modo riconosce che tutto quel che ha intorno inferno non è : “Quello in cui vivo, a parte quello altrui che subisco, non  è un inferno, si chiama vita, e del paradiso non saprei che farmene”. Qui ci trattiene Busi, senza dichiararlo mai, anzi negandolo semmai nella sua banale definizione linguistica, inaccettabile: in quello in cui viviamo, con una dichiarazione di implicito amore per la vita in forma di invettiva risentita,  lunga 466 pagine.

mercoledì 10 febbraio 2016

ANDREA TARABBIA "IL GIARDINO DELLE MOSCHE" (PONTE ALLE GRAZIE)



Quando ho iniziato a leggere il Giardino delle Mosche di Andrea Tarabbia non avevo ricollegato la vicenda di Andrej Cikatilo alla denominazione con cui era passato dalla cronaca alla storia la prima volta che l’ho sentita, ovvero “il mostro di Rostov” – era il 1994  quando avevo letto e fatto interviste a David Grieco che aveva raccontato la stessa storia nel libro-documento  “Il comunista che mangiava i bambini”. Non ne ricordavo il nome. Ho letto “il giardino delle mosche” senza leggere nesusna scheda. Ad un certo punto del romanzo, leggendo che l’azione si svolgeva a Rostov mi è venuto il sospetto, ma la pigrizia mentale non mi ha fatto controllare su google , poi pian pieno era evidente fossero la stessa persona.

Faccio questa premessa perché la qualità del libro di Tarabbia è sì il resocondo di un uomo terribile e delle sue azioni malvage, crudeli, ma tolto, specie nell’avvio della narrazione,  da ogni mostruosità, efferatezza, effetto di pathos - nonostante di quelle atrocità e di alcuni dei 56 omicidi Tarabbia ci risparmi ben poco. Con grande maestria ed equilibrio di scrittore e di essere umano, ma anche con una scelta che si inserisce in una tradizione del racconto del male, di fronte all’ “illustrazione della violenza”  Tarabbia disegna l’atto attraverso parole che non si fanno pornografia, estetizzazione. Che è una scelta di campo estetica, dunque etica, senza che il libro sia “morale” e tanto meno moralista.
Dico che questo in sostanza, oltre appunto alle evidentissime qualità di scrittore, è il superamento di quello che è anche un evidente laccio che limita il romanzo: perché raccontare una storia di cui sappiamo tutti i dettagli e che è stata già raccontata in libri e film?

Chevolto ha il male? L’urlo di Munch, il volto impassibile e “banale” di Eichmann, la faccia stravolta di Cikatilo. ?

Non ha volto, diffidate del volto, diffidate di ciò che vedete.



“Il giardino delle mosche” E’ un’indagine narrativa che letteratura scavando e reinventando dentro una vicenda vera, attraverso i documenti, che in qualche modo trova una sua traduzione letteraria. Andrej Cikatilo serial killer che tra il 1978 e il 1990 commise cinquantasei omicidi in una provincia dell’unione Sovietica in disfacimento. Le vittime, dopo essere state adescate, venivano torturate, stuprate, mutilate, e in alcuni casi Cikatilo mangiava piccole parti del loro corpo. Tarabbia  dà voce a Cikatilo  in prima persona, come fosse un resoconto, basandosi sulla confessione che lo stesso pluriomidicida fece quando fu arrestato nel novembre del 1990 per poi eseguirne la condanna a morte il 14 febbraio del 1994.

La narrazione è suddivisa in tre parti, lega la vicenda più marginale ed eccezionale che si possa pensare alla storia comune di una nazione e forse di un secolo.
La prima parte, intitolata “La morte per fame” (1936-1978), Čikatilo racconta l’infanzia durante gli anni della seconda guerra mondiale  tra una madre che lo partorì nella fame e nel dolore un padre che non c’era ma tornò dalla guerra e divenne l’emblema dell’orrore stalinista – qui l’eco e il pensiero vanno a Vassilj Grossman -  condannato ai campi di prigionia  con una serie infinita di traumi tra cui quello del fratellino maggiore ucciso e mangiato dai vicini di casa durante la grande carestia dei primi anni Trenta. Ed ella prima volta che causa la morte di una persona e che quella morte, che per lui è ancora quasi accidentale, genera in lui piacere. Eccitazione sessuale. Fin qui saremmo nella deriva psichica di un essere umano che ne ha subite troppe e fin qui il “mio” Cikatilo non è ancora nella testa l’uomo pelato con gli occhi di ghiaccio, la bocca da cannibale, ma è un uomo grigio (“un uomo noioso” lo definirà l’uomo che lo arrestò, nel romanzo)  un uomo qualunque, bravo padre, che non farà mai del male ai suoi figli – pur essendo invece un “signore delle mosche” un Belzebù.


Ecco nella mia testa, iniziando a leggere senza ricollegarlo alla foto “del mostro di Rostov”  il personaggio che dice “Io”  nel romanzo di Tarabbia somiglia di più a al uomo qualunque-Eichamann senza esserlo, un ometto grigio al massimo un rancoroso.  E’ nella seconda parte Dissoluzione (1978- 1990) che  Čikatilo ripercorre i suoi innumerevoli omicidi ed espone la ragione che fece più scalpore all’epoca della prima narrazone di questa storia tra il 90 e il 94: ovvero la fine del comunismo. Lui, figlio di un patriottismo degenerato in orrore, non ha potuto né saputo fare altro che farsi egli stesso “dio cannibale” o padre violento,  come Stalin e mettersi al servizio di quella Ragione Assoluta che lo aveva così tanto segnato per ripulire la patria da quei reietti umani da cui lui stesso proveniva, quel farsi “dio della carne” in una sorta di vertigine mistica della violenza totalitaria attuata proprio nel tragico tentativo di liberarsi  di un potere totalizzante e pervasivo, quello singolare vissuto sulla sua pelle di umiliato e offeso fin nelle viscere del suo primo giorno e quello della Russia post-staliniana.

Perché raccontare tutto questo, se è stato già raccontato? Perché – azzardo – è come se la storia di Cikatilo (oltre che essere familiare a Tarabbia che già su quei material post-sovietici ha lavorato per il precedente romanzo) diventasse un paradigma di poetica.
Nei tempi di auto-fiction a volte un po’ troppo facile, qui c’è un invito da un lato a farsi “io” anche al lettore a partire da un’alterità insostenibile. Io è altro, oltre ogni alterità.
Poi, la lunga confessione-racconto dal punto di vista stilistico non fa che togliere spazio all’immagine e all’immaginazione. In tempi di “narrativa piegata già al suo debutto a logica da sceneggiatura, da acting, da leggibilità facile, Tarabbia Sottrae ma concettualizza una riflessione versandola nelle stesse parole del reo-confesso. Cikatilo si fa così Narratore,  un narratore realista, poetica familiare ad un comunista come lui.. Tarabbia però lo fa diventare anche Narratore psicologico in prima persona, lo costringe ad immettere il sé, a riportare il Male non all’esterno, come lui tenta di fare, verso quelli che considera i suoi Avversari,   ma all’interno. Qui Tarabbia prende il documento e lo fa letteratura.
Il fatto diventa evento. Esperienza da condividere. Ovviamente anche nell’identificazione che il lettore, pronunciando in soggettiva il male.

La poetica di Tarabbia è quella che il fantasma del fratello di Andrej, comparendo come un alter ego schizoide nel delirio solitario di Cikatilo,  esprime, parlando della sua stessa storia – quella di essere stato mangiato per fame: “ le storie non sono fatte per proteggere. Il silenzio protegge” in sintesi: nessuna concessione all’effetto, nessuno sconto alla storia. Un difficile equilibrio che lo Scrittore affifa al  Personaggio:   riportando un dialogo tra lui e un ragazzino, che poi ucciderà, violenterà e strazierà, nel momento in cui il piccolo  dice di non andare più a scuola e di non conoscere Puskìn, Cikatilo diventa silenziosamente la belva che è e il  ragazzino  l’emblema del cancro che ha colpito la Russia e lo sevizia. Eppure nella confessione, è l’assassino a decidere per l’ellissi narrativa: “Quello che accadde nell’istante successivo non si deve raccontare per intero. Del resto, come ho forse già detto, non è nei dettagli che risiede il segreto delle mie azioni” non è in quello che si vede, è in una forma di cecità – e non servirsi della pornografia dell’orrore, non guardare i dettagli, togliere gli occhi alle proprie vittime crea uno strano intreccio di intenzioni tra Autore e Personaggio-Narratore. E non è un caso che poi la Cecità – tra cavare gi occhi alle vittime e la miopia estrema di Cikatilo – sono una chiave di volta sia letteraria che morale.

 La scrittura tuttavia ha  il suo compito, farsi indagine di come il Male sia un processo della coscienza, e ci appartiene. Nel Linguaggio trova il suo strumento, e nessuna altra forma ha maggiori possibilità di evitare l’ambiguità dell’identificazine e dello specchio che divora l’anima.
Tarabbia si colloca con questo libro sul versante letterario di un’indagine storica e psicologica che il suo centro nella Banalità del Male di Hanna Arendt. Con un tentativo in più, come fu per il bellissimo e controverso LE Benevole di J. Littell, mettersi dalla  parte dell’Io che compie quel Male. Come anche nel Nazismo, c’è un tratto di Cikatilo che può essere considerato simile: il Male assoluto del singolo avviene dentro un contesto di Sistema del Male. Il Nazismo come lo Stalinismo – con la differenza che quella  di Cikatilo, fu un’azione individuale, fatta non come culmine di quel sistema, non come parte di un’Operazione di Soluzione Finale, ma come contraccolpo e sintomo della fine di quello – e dell’affacciarsi tuttavia di un altro sistema, quello occidentale, che produce i suoi “mostri di normalità” in un contesto assimilabile a quello di Cikatilo: il vuoto, quella dimensione di deserto totale, di totalitarismo del deserto che diventa la dimensione che occupa ogni spazio interiore e rende la macchina umana a cui quel deserto interiore appartiene capace di tutte le cose più disumane. La disumanità che il suo tempo e la sua terra conobbero come sistema diffuso.
Tarabbia   raggiunge con grande efficacia letteraria quel compito che ha l’arte, ovvero non dare una visione edulcorata e consolatoria della realtà ma mettersi davanti allo specchio ustorio dell’oltreumano, restando umani, qui è la chiave.

. Il libro del resto è un confronto a specchio, continuo.Un  duello a due, tra andrej e i suoi fantasmi, primo il fratello alter ego,  tra andreej e le sue vittime, e tra lui e la moglie, personaggio incredibile emblema della nostra prossimità cieca al male, ma anche di pietà.
Se l’assassino tende a gettare fuori l’origine del male, noi lettori e l’investigatore, abbiamo necessità di introiettare, per capire per indagare se e quanto ci sia in noi di quel Male, per continuare – proprio comprendendolo, magari in forma narrativa – e poi provare pietà, unico limite che ci assicura di rimanere, noi si, nel territorio dell’umano.

 La rappresentazione di questa dialettica di stampo dostoeviskiano, emerge nella parte finale in cui il commissario… prende la parola  Issa Magomedovič Kostoev, l’ispettore che lo ha arrestato, dopo avergli a lungo dato la caccia, e ne ha raccolto la confessione e che è un altro doppio, anche egli con ferite, anch’egli deluso dalla  Russia del suo tempo, anch’egli con la possibilità di disporre della vita di chi arresta, senza che questo lo porti a distruttività. Con questa strategia, lo porterà a mimare sé stesso, a replicare teatralmente per gli inquirenti quel che lui ha fatto e al tempo stesso, replicare fuori dalle parole i gesti, e alla domanda di Cikatilo, perché mi fa fare tutto questo, Tarabbia fa in modo che la risposta resti fuori dalla  registrazione del video della polizia, ma pure fuori dal nostro testo.
Salvo poi una frase enigmatica che Cikatilo dice nella stanza dell’esecuzione. La lasciamo alal vostra lettura e meditazione.


Cikatilo aveva trovato nell’infermo del suo abisso interiore un furioso coraggio di opporsi alla storia, Kostoev scopre che invece lui è l’uomo nuovo ma anche l’uomo del nuovo vuoto ordine del mondo,  quello stesso vuoto dove il continuono  monolog-dialogo che aveva mosso Cikatilo, passa a diventare inarrestabile e indefinibile nella coscienza di Kostoev: compirà un ultimo piccolo gesto, simbolico, che potrebbe essere un gesto di pietà e sovranità dell’Umano oppure il segno di una resa, di un’accettazione – Tarabbia viene dopo Dostoevskij, dopo Kafka e dopo Beckett, dopo anche la letteratura, tant’è che sceglie di ri-narrare una storia già accaduta. La letteratura ritorna ad un grado zero di una scrittura che obbedisce alla  realtà, la ripercorre, la ri-pronuncia, collocandoci nella condizione umana in cui siamo, di fronte alla  violenza illustrata del mondo: in un fragilissimo equilibrio tra resistenza e resa.

martedì 2 febbraio 2016

SOUL FOOD: ROSSELLA MILONE "Il silenzio del lottatore" (minim...

SOUL FOOD: ROSSELLA MILONE "Il silenzio del lottatore" (minim...: Quel che resta dei racconti di Rossella Milone è una memoria involontaria dei gesti vissuti dai protagonisti dei racconti. Lettore e   p...

ROSSELLA MILONE "Il silenzio del lottatore" (minimumfax)

Quel che resta dei racconti di Rossella Milone è una memoria involontaria dei gesti vissuti dai protagonisti dei racconti. Lettore e   personaggi ingaggiano una danza o una lotta di il cui spartito è la vita, con i suoi misteriosi snodi e tuttavia, mente leggiamo riconosciamo nelle scelte che fa ogni personaggio la sua naturalezza, benché non dichiarata, e  sappiamo come agire come se conservassimo una memoria che pur non nostra, diventa intima.
Nel nuovo libro, “Il silenzio del lottatore” (Minimumfax)  ci sono sei racconti, sempre la protagonista è femminile ma da una racconto all’altro si passa dall’infanzia all’adolescenza giovinezza e via via verso la maturità. Diversi, ma tutto sommato come fosse un unico personaggio e ne fa un cripto-romanzo.


Quella memoria involontaria, è al centro del racconto Operazione avalanche in cui la bambina protagonista entra in relazione con Erminia anziana con degenerazione psichica che balla il Charleston. La ragazzina sta crescendo, è in vacanza col suo amichetto, sta iniziando a capire il passaggio dall’infanzia alla preadolescenza e alla a differenza maschio e femmina, quando viene all’improvviso coinvolta dalla svagatezza di Erminia in un dialogo, in cui l’anziana la scambia per suo marito morto. La ragazzina sta alla gioco e in un passaggio la accusa di essere una bugiarda ed in effetti la menzogna in realtà agisce, perché “la memoria si spinge al di là dei confini della ragione” ed affiora, affiora con gli episodi che hanno segnato, si sono impressi nella memoria involontaria. Imprinting alla vita – tra cui il ballo del Charleston con un soldato americano di cui Erminia si era evidentemente innamorata. Sarà proprio questo incontro che forse genera nella ragazzina una consapevolezza, per la prima volta di essere riuscita a “creare da sola qualcosa di nuovo” che non dipendeva dai genitori da cui era nata “ma soltanto dal fatto che fossi li ad esistere”.  Ed è lo stesso senso di autonomia che Erminia aveva provato – Milone crea un sottinteso parallelo tra le due – quando Ermina bambina si rende conto che quel soldato in realtà poi preferì la femminilità della madre. Così il trauma genera la leggerezza della dimenticanza, l’unica garanzia che possa aiutare a vivere, anche un amore che non è l’amore originario e che l’identità si misura nella differenziazione dall’alterità Femminile di una madre.


La relazione col maschio e la differenza dall’alterità femminile, da una figura femminile a specchio è poi una delle architetture degli altri cinque racconti. “Il peso del mondo” nel confronto tra la spavalda protagonista e la sua amica imbranata e vergine Marianna che vorrebbe essere all’altezza della sua amica, vorrebbe anche lei poter avere la stessa sicurezza e finirà per bruciarsi, ma mai quanto l’amica ha forse bruciato il suo futuro a forza di eccesso di libertà sessuale: ogni nostro gesto costruisce il futuro c he possiamo conoscere perché ogni nostro gesto, azione, parola scambiata con l’altro è sempre un’apertura di possibilità.
E’ questo  il tratto più importante dei racconti di Rossella  Milone: di solito si elogia il racconto per una sua chiusa compiutezza, un tratto semplice come uno schizzo ma – se ben riuscito – preciso e indimenticabile. La grazia che solleva dalla pesantezza delle situazioni anche drammatiche che Milone racconta sta anche nel fatto che ai suoi personaggi dona sempre più di una possibilità, di apertura, quasi a far intravedere un "romanzo possibile" (un altro, oltre quella densità da romanzo che ha ogni suo racconto)  .
E  tanto sembra avviluppato nel reale ogni protagonista di questi racconti, tanto più continuamente ha uscite da cui potrebbe fuggire – e fugge, ma più di una in ogni caso. la fuga, il run away è un dei principi fondamentale del romanzesco,. in milone magari è una fuga anche temporanea, per poi rientrare però in una dimensione della storia mutata proprio da quel gesto di fuga-rottura. E’ un procedere narrativo che crea densità al racconto una densità da romanzo pur nella forma relativamente breve di ciascun racconto.

La dialettica ne “Le domande di un uomo” è proprio tra la coppia di Pia e suo marito, imprigionati in un ‘abitudine che non li smuove nonostante la menzogna esplicita del tradimento e il dormire separati – e la copia della protagonista e del suo uomo che fa domande, che vince le resistenze alla relazione di lei, ma al tempo stesso in lei – attraverso la sovrapposizione con Pia – si fa strada lo spettro dell’abitudine e fa riemergere la paura di nuovo, perché la lotta in una relazione umana è infinita e non bisogna mai abbassare la guardia. LA vera paura è che le cose esistono e finiscono e forze nel ritirarsi in uno spazio privatissimo e silenzioso i vari personaggi principali e secondari – come la protagonista de “La luccicanza “ che pone fine alla sua relazione  dopo tradimenti e si abbandona ad un deragliamento esistenziale e fisico e i pescivendoli sotto casa Alfonso e sua moglie malata di cancro e che si era chiusa in un mutismo ostinato quasi di protesta col mondo: tutti vorrebbero con questo ritirarsi in un fondo scuro e depresso dell’anima, fatto di buio, ma è un buio anche uterino, lo stesso della vita come della morte: “sarebbe stato bello morire solo per un attimo e solo per tornare a vivere l’attimo dopo e accorgermi che si può tornare a vivere dopo morti e che le cose, tutte le cose, possono esistere anche senza finire” 
Il silenzio del tradimento e il silenzio della fedeltà: il cane, la moglie di Alfonso – e invece la protagonista – ma pure la silenziosa strategia della protagonista, in una relazione di cui cerca di trovare quasi in un’inerzia motoria la ragione – prima nel asciare Leo, poi nei ragazzi con cui passa le notti, spesso telefonando a Leo dopo il sesso con loro, poi cercandolo, poi risolvendo tutto nella  polvere di un’aspettativa che va delusa proprio nell’atto de ritrovamento: nei racconti di Milone lo straniamento è nella progressiva alternazione della familiarità, nello scivolare lentamente verso un’estraneità.

Nei racconti del SDL sono decisive le pause, i silenzi e il non detto che tuttavia non custodisce un grumo misterioso e oscuro, ma è come fosse un già detto un accaduto, un ripetersi di forze e dinamiche che stanno tra l’azzardo e l’abitudine, un impulso.  Sono le mosse di una lotta, sono i gesti, le decisioni, è la formazione di un destino costruito minuzia per minuzia. Apparente il minimalismo, in realtà Milone costruisce vividi affreschi di iperrealismo che sono puzzle, mosaici. La storia e il destino appaiono come figura, appaiono nella sua evidenza, senza bisogno di parole, proprio come la moglie di Alfonso. Rossella Milone agisce con tagli, montaggi e sottrazioni, asciugando, come fa la poesia, ma che pure ha ben trasportato nel romanzo (come mostra l’autrice a cui più spesso viene accostata con ragione Milone ovvero Alice Munro e come Milone ha fatto con il libro intitolato – significativamente – “Poche parole, moltissime cose”). Nei racconti di SDL ci sono tantissime cose, dettagli, minime rifrazioni di altri gesti, ombre, luci, parole che sembrano cadere casualmente e invece sono piombo fuso che cade nell’acqua e dà forma ad un evento duraturo. Ma nei movimenti della storia e dei dettagli si aprono però squarci di possibilità: è la libertà del possibile ad agire, si aprono altri possibili percorsi di cui, nell’ellitticità del racconto restano porte aperte – ed è una visione della vita che trova proprio nel racconto la sua forma artistica conseguente - questo lasciare spazio al taglio, come se il racconto avesse quella possibilità apertura di un legato che in poesia è l’enjambement – ebbene non è proprio un’apertura nei legami quello di cui parlano questi sei racconti? Un’apertura che può essere spazio ulteriore per la coppia, spazio di fuga per uno dei due, spazio di uscita, via d’uscita da una stretta, da un angolo del ring dove la vita ti aveva messo in quel momento, con uno scatto.

 E proprio in “Questione di spazio” la protagonista, passa da una relazione appena iniziata ad un’altra che sarà tuttavia di lunga durata, decisa nel volgere di un ballo di un spazio breve e ristretto anche fisicamente, di un’appartenenza dei corpi che ha più forza anche di incomprensioni. In questo racconto possiamo vedere anche l’abilità tecnica di Milone: la protagonista  ormai sposata con quell’uomo a cui si è legata nel volgere di una danza in Irlanda, è in montagna con il figlio nato dal matrimonio e Valerio, il marito, decide di partire per una passeggiata in quota da solo. Mentre aspetta con il figlio piccolo arriva un uomo, Fabio che subito la colpisce, ma quell’attrazione non è mai esplicitata eppure il lettore la percepisce dai dettagli descrittivi che la fanno tuttavia risuonare come dei rimbombi in fono ad un lago. E nello scambio di conversazione con quell’uomo, Fabio, ad un certo punto c’è questo passaggio

“gli dissi chemio marito era lì, adesso, in cima”
“con la seggiovia o a piedi” mi chiese.
Al momento non capii perché quell’informazione fosse importante. Poi dopo – molto tempo dopo – capii che si stava informando sul tempo. Su quanto tempo avevamo”

Ecco silenziosamente qui c’è un preludio sotterraneo: è scattato un implicito desiderio, e “dopo” arriverà la comprensione. Perché quel dopo, molto tempo? Il racconto – non svelo cosa accade tra sogno e realtà, termina comunque poche ore dopo. Quel “molto tempo dopo” è la porta delle possibilità di questa scena. Ci sarà un tradimento? Ci sarà un momento di puro sesso da mezz’ora e via? Ci sarà una storia tra i due? Diventeranno amanti? O addirittura si sposeranno? Ecco il racconto are la possibilità ma poi non la chiude come voi potreste aspettarvi. Nei racconti di Milone il destino è una sorta di Via dei Canti di cui protagonisti hanno contezza quasi animale, quasi intuitiva, sotterranea. Come se ogni protagonista proprio nel suo destreggiarsi tra soppalchi, appartamenti, camere, luoghi chiusi, sia in realtà in cerca di fuga e al tempo stesso di un posto dove non fuggire più. E tuttavia l’amore, nel suo essersi rivoluzionato, nel non essere più il porto sicuro della convenzione e dell’abitudine borghese e al tempo stesso noi non possiamo  reggere un nomadismo continuo dell’esploratore o del viaggiatore del desiderio e dell’individualità come tuttavia ci sentiamo: e dunque diciamo io ma quell’io che rivendica la sua autonomia poi non ha di fatto un posto dove stare.


La prima cosa che viene d pensare leggendo i racconti di SDL è “educazione sentimentale” e tuttavia le protagonista  – qui va sottolineata la soggettività femminile – è sempre quella che ha preso voce all’inizio con l’anziana Erminia, ovvero una donna che si stava “facendo da sé “ la cui crescita era in autonomia rispetta a qualsiasi modello, specie se femminile: esistere per sé stessi. E’ su questa autonomia da ogni educazione, metodo, definizione di forma che il sentimento deve assumere che si chiude il libro e che dà il titolo al libro Il silenzio del lottatore”  . La protagonista- ormai arrivata, immaginandola come la stessa seppur diversa – ad un’età adulta ha accettato di frequentare una sorta di terapia di coppia collettiva con una pseudo psicologa guru che ha elaborato proprio il metodo del silenzio del lottatore. Al suo secondo matrimonio, finito il primo con Valerio che– parlando con la sua attuale moglie Manuela – era diventato qualcosa di inaspettatamente violento.   Ed è per fuggire da questo che Manuele aveva pensato ad una fuga nel deserto, un viaggio da sola nello Yosemite, che non farà mai perché un incidente la costringerà ad uno stato vegetativo a letto.. L’intreccio tra colpe, casualità e responsabilità si fa qui denso perché la protagonista vede in quella coppia, prima franata nei lividi e poi frenata nella paralisi uno specchio di una coppia, la sua attuale,  che invece sembra intrappolata in una trasparenza, come una mosca in un bicchiere o come una persona che si è persa in un deserto. In un implicito quartetto, sorta di affinità elettiva ribaltata: in che modo il negativo dell’Altro, in questo caso Valerio l’ex marito, è diventato violento anche perché ha attraversato lei? E lei dunque è il vero “avversario” direbbe Emmanuel Carrère della lotta, non l’altro, non l’ex marito o l’attuale, con il quale dovrebbe fare quella sorta di lotta-terapeutica per ritrovarsi. Ma non c’è nulla in cui ritrovarsi, nessun luogo a cui tornare, nessun modello di relazione, nessuna forma di coppia. Nel deserto in cui siamo tutti dispersi, troviamo forse come gli aborigeni i sentieri seguendo una musica delle formiche blu: un istinto che ha a che fare innanzitutto con il corpo, qui elemento centrale, forse unico elemento in cui ritrovarsi – il piacere, lo stare bene. Per il resto, c’è una lotta reale, ma non predefinita, in cui i sentimenti come dovranno essere si conquisteranno con strette e prese centimetro dopo centimetro. E tuttavia, a differenza della sicumera di Cristina la psicologa-guru,  non c’è una vittoria da conquistare, piuttosto quella possibilità sempre aperta. Come se ogni racconto si chiudesse su un’apertura, una scoperta di nuova etica, che poi potrà anche essere nuova abitudine. Ma in un tempo in cui non ci sono più aspettative di orizzonte utopico, redenzioni e rivoluzioni, desiderare un futuro è diventato complicato e pure desiderare tout court. Moltissimi gli oggetti, ma di fatto un’infelicità senza desideri come aveva già siglato la fine delle utopie Peter Handke nel 1972, intuendo un ‘apertura verso il consumismo pochi anni prima della nascita di Rossella Milone. I personaggi che parlano nei suoi racconti sono nati in questo deserto affollatissimo di oggetti e scarno di desideri certi. I ldeserto segnala che la città finisce, ma pure che l’ignoto inizia, che il viaggio inizia. Come le coppie che non si muovono quando la protagonista e suo marito Marcello decidono di andarsene da quella farsa, le alternative sono restare invischiati o rimettersi in viaggio in due.

In fondo ognuno di loro, lì dentro, vorrebbe alzarsi, togliere le tende, andare, mollare tutto quanto.  Correre via e correndo cancellare qualsiasi cosa o persona che possa creare loro dolore. Ma sono troppo invischiati l’uno all’altra per districarsi così con la semplice agilità di un bambino. Troppi rovi troppe radici attorcigliate  sedimentate al terreno.. meglio accantonare tutto in un angolo ..L’unico a guardarmi senza fronzoli è Marcello. E’ fermo anche lui in attesa. Però non mi chiede non mi interroga, sono si dispera, non è nemmeno imbarazzato stavolta. Aspetta come un fedele aspetto il sollievo nel cuore della notte, fiducioso, senza pretese, libero dalle aspettative, consapevole che qualsiasi fede – compreso l’amore – può portare alla delusione. Sa che l’unica cosa che può fare è stare lì e resistere, con me o senza di me.
In quel momento penso a Manuela che voleva andare nel deserto ed è diventata deserto. Su di lei, intorno a lei, scorre un tempo invisibile. Faticoso e umido, come una cappa bollente sopra i quaranta gradi. Il suo nome in quel deserto assoluto ha perso l’eco della consolazione e quel rimbombo muto non fa nemmeno male. E’ un peccato che la vita possa ridursi a questo – a una resistenza senza panico. Eppure qualcosa batte lì dentro, in quel corpo, come il cuore di un piccolo topo affannato, al riparo nelle tane sotterranee dopo la fuga da un’aquila in picchiata”

Tenersi l’affanno, ma restare in piedi, andare. Prepararsi ad un cammino verso una meta che non conosciamo. Ridiventare veri pellegrini, prepararsi a partire senza sapere quanto e dove si arriverà.
Fare “le ennesime valigie”.

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...