venerdì 30 giugno 2023

l'Apocalisse, catastrofe quotidiana della Storia

 


L’Apocalisse nella tradizione biblica (ma ce ne sono in diverse culture e religioni di narrazione del giorno ultimo) è la rivelazione dopo il tempo, alla fine della storia,  di tutto ciò che l’ "essere è"
Alla lettera ἀποκάλυψις significa “rendere noto”, svelamento di verità ultime sul tempo e sul mondo, che si danno nell’istante in cui il mondo e la storia finiscono.
La narrazione più nota per il mondo cristiano occidentale è quella dell’ Apocalisse di San Giovanni apostolo,  che è normalmente interpretato come la profezia della fine del mondo, con numerosi dettagli visivi, fortissima simbologia mistica ed escatologia.


È a questo libro che si è rifatta l’interpretazione teatrale di Lenz che approda con questo lavoro maestoso, di grande impatto e coinvolgimento, alla sua terza tappa del cammino nel sacro,  dopo “La Creazione” e “Numeri”, è appunto “Apocalisse” creazione di Francesco Pititto e Maria Federica Maestri, un progetto quadriennale che approderà ad un lavoro basato sull’Apocalisse Gnostica. Mai come adesso il particolare procedimento di Lenz, che Pititto ha ribattezzato imagoturgia assume senso.  Non solo perché l’Apocalisse è un libro visionario, pieno di creature fantastiche, ma anche tutto il procedimento drammaturgico di Lenz sembra poggiare sull’immagine elevata a icona, che supera i limiti del dicibile stesso e non sembra neppure un prodotto dell’immaginazione, ma sembra affondare in un sostrato simbolico profondo che opera nell’antecedenza della germinazione del linguaggio.

 Lenz Teatro ha qui trovato una ulteriore felice sintesi non solo di equilibrio di scrittura e drammaturgia, coerente con una materia così complessa, ma senza subirne il peso, anzi traducendola sia in un essenzialità efficace sia arricchendola i un interpretazione che rende davvero attuale  l’inattualità del libro dell’Apocalisse. Uno degli elementi chiave è proprio la scelta del luogo , il complesso di archeologia industriale composto dal Padiglione Nervi e l’area Wopa della periferia industriale di Parma (a due passi dalla sede storica di Lenz, altro complesso di industrie storiche dismesse e recuperate). Già il senso del dopo-storia che trasuda dalla Fabbrica dismessa, accresce l’energia simbolica in un luogo “dove si sono compiuti dei sacrifici meccanici”, come scrive Maria Federica Maestri nelle note, restituisce un doppio livello ad un lavoro artistico sulla fine dei tempi, che sono anche la testimonianza vivente della fine delle utopie, trasformandosi in “Città-Sposa-Operaia” trasformata in un neo tempio di liturgie laiche e poetica, sovrastato dalla volta Nervi riempita di immagini sovrapposte tra il documentario sulla vita delle donne pastore di Anna Kauber e le immagini proiettate che ricreano gli affreschi del Correggio nella chiesa di San giovanni Evangelista nel centro di Parma. Qui si compie il percorso.


Lo spettacolo è si svolge passando in quattro sale del complesso. La prima, quella dell’Aquila, in cui i cinque bravissimi interpreti si presentano:  4 sono gli evangelisti  (Fabrizio Croci, C.L. Grugher, Sandra Soncini e Teresa Cappella, ognuno con una sua peculiare intensità)  con costumi ricalcati su divise tra il religioso, l’operaio e la agreste ottocentesco, che avvertono dell’imminenza apocalittica: “non c’è più tempo”.
 Insieme a loro per tutto il tempo, e Valentina Barbarini, l’Agnella, di particolare bravura anche in considerazione di come abbia ribaltato la sfortuna di una malattia che le toglie l’uso delle gambe  mutandola in creazione,  in una risorsa poetica per esprimere il corpo ferito della vittima suprema del disegno di Dio. 
Accompagnano le performance la musica di Andrea Azzali e i canti sacri di una soprano (Victoria Vasquez Jurado) un contrappunto tagliente e tremendo del percorso costellato di richiami a flagelli e invocazioni di giustizia, mentre l’eco naturale della volta di Nervi crea quell’espanso “silenzio del mondo” che è la dimensione in cui l’annuncio risuona..
Anche qui una prova di bravura degli interpreti che sanno tenere sia la tensione fisica, sia una dizione che non solo tolga ogni rischio di enfasi, ma che si deve accordarsi con la risonanza della volta, che emette un’eco ritardato di 8 secondi e che rende particolarmente complicato lo scandire del testo, una prova che però i cinque attori e la soprano superano benissimo.


Dalla prima sala, si passa poi nella sala della purificazione, con tre rudimentali docce-sacche e corpi nudi – qui è la spoliazione dell’ homo sacer, il segmento dell’estremo nel mod segnato dalle selvagge e cruente sia delle nascite che dello sgozzamento di agnelli, sempre dal documentario di Kauber. È la violenza del mondo a cui gli umani hanno opposto sacrifici rituali. Questa è stata la storia del mondo che ora come piane appare al limite estremo, l’Apocalisse è già nel rischiio estinzione, è già nella massa dei rifiuti ed emissioni simbolizzata da quella sorta d’inferno in terra che è la grande discarica di Korogocho a Nairobi in Kenya, nel documentario di Julius Muchai, con i grandi pellicani che razzolano tra i rifiuti insieme agli umani, immagine apocalittica nel presente. Questo come altri richiami della storia circostante, è la cifra di arricchimento interpretativo che Lenz ha saputo dare  alla poesia tragica dell’Apocalisse. Essa si compie mentre il mondo è ancora mondo, è anche nella lotta degli abitanti di Babilonia, con i quattro attori che stavolta hanno divise da Businessman.
È la Babilonia globale, quella che fa scivolare il pianeta  sul filo della catastrofe, sotto gli occhi dell’agnello, circondati da busti di potenti.  


È suonata l’ora, ormai e si entra nella sala del Carroponte il cuore del Tempio, con le colonne sospese. Qui i 4 sono evangelisti-operai, pronti, con le schiscette, al pasto  “nudo” e crudele imposto col sacrificio dell’Agnella da colui che agisce nel nome di Dio, che proprio nella violenza della distruzione della vittima fa compiere l’avvento della rivelazione quella in cui  l'Agnella che subisce violenza con crudeltà sacra è espiazione dell'uomo, sua salvezza data dal rivelarsi come Cristo che apre alla Gerusalemme Celeste, sospesa dal carroponte della fabbrica Manzini, sovrapponendo dunque alla simbologia celeste, la materialità di una storia morta e che tuttavia sopravvive nel dopo-storia del “lavoro artistico”. L’ultima sala della Gerusalemme “che non avrà porte che si chiudono” scrive Maestri nelle note, è quella che segna per gli spettatori l’uscita da questa liturgia sacra e laica insieme intorno ai temi dell’Apocalisse.

 Le azioni, i quadri scenici sono scanditi dal testo che naturalmente è ricalcato sull’Apocalisse di Giovanni ma con molti innesti, nella consueta densità poetica. Il segno che sia una sorta di acme di un lavoro rigoroso durato anni è dato anche dall’osmosi che un testo così sacro e distante, che arriva da lontanissimo e guarda oltre l’avvenire, è stato reso da Lenz così capace di evocare per immagini e parole un fitto cortocircuito col presente storico introno a noi, a partire dal luogo stesso dove va in scena: la fabbrica abbandonata e recuperata, in un dopo-storia senza Utopia,  la natura devastata dal industria, la natura lavorata dell’agricoltura devastata dal clima alterato, il grande fiume Po in secca. Tra molti di Maestri e Pititto, l’acqua è elemento centrale della composizione e imagoturgia di “Apocalisse” piena di  simboli che hanno un punto di contatto tra il presente storico e l’oltre-tempo apocalittico. Il fiume,  vicino a cui si trova Giovanni nella rivelazione, è quello reale asciugato dalla siccità apocalittica del 2022 e dentro cui si era svolta “Numeri”, la tappa precedente. Così come l’apocalisse dei rifiuti di Nairobi,  Due elementi del presente che compongo le moderne narrazioni apocalittiche della catastrofe dell’Antropocene, imminente – è nel 2050, tra trent’anni, no ventotto, anzi no, è un giorno è domani no è “tra 45 minuti” per citare una battuta dell’idiota di Dostoevskij detta da uno dei quattro cavalieri. Tutto si contrae, si condensa in una massa densissima in cui la fine di tutto è il punto di principio del tutto,  sorta di spaziotempo in cui la storia – come il gatto di Schoedingher – è al tempo stesso morta e viva.

I nostri racconti apocalittici sono gli ultimi di una lunga tradizione e di molte civiltà,  ben oltre quella cristiana giudaica e islamica, tutti articolati nella medesima diegesi: per avere la rivelazione dell’Essere, alla fine del tempo storico, si compie una  distruzione proprio di ciò-che-è, del mondo stesso. Del tempo, della storia.  È “ultimo giorno” ma Kant, infatti, lo chiamava “jungsted Tag”, il giorno più giovane, l’ultimo nato. Dunque, questa rivoluzione/rivelazione si dà solo quando la realtà che deve rivelare  (il tempo, la storia, la nostra esistenza nel mondo) è passata. Dà senso a ciò che è stato, distrutto proprio per permettere la rivelazione. Naturalmente per i credenti la distruzione è il preludio del passaggio ad una vita eterna rivelata in Dio.
Ma per chi non crede, che senso ha una narrazione apocalittica? Che ce ne facciamo di una rivelazione su ciò che la rivelazione distrugge?

Ecco che  l’Apocalisse stando sospesa in questo paradosso non sarebbe esattamente da intendere come profezia, ed il suo principale interesse non è il futuro ( o la fine della storia). Invece è rivelare il suo fine, mentre si è qui. Il senso del mondo che si è dato già, che si sta dando, quello che oggi, ultimo giorno di tutti i giorni, sta finendo, ma è qui. È qui il segno positivo di un lavoro sull’Apocalisse che non si è appiattito sulla pur valida  magnificenza visionaria e poetica di un testo che ha un preciso significato religioso. Quello di Lenz è un sacro vivo e immerso nella storia, pur non usando rappresentazioni realiste di essa tutt’al più sue spie simboliche.

Questi riferimenti, dalle cripto-citazioni anche cinematografiche, ai costumi, allo stesso luogo-cornice dell’ex-Fabbrica, ci riportano ad un’Apocalisse che accade  come catastrofe quotidiana. Il presente non è solo una sequenza di punti non estesi, in attesa di un
éskhatos , un punto ultimo,  ma in ogni momento e dettaglio della vita può rivelare uno squarcio e uno choc, un varco di passaggio dal passato al futuro, da ciò che fu a ciò che sarà, considerato come il luogo della catastrofe nel qui e ora, per rifarci alle tesi di  Walter Benjamin, che connette, questo momento storico ad una “volta metastorica”, così che ciò che è avvenuto e avviene interroga sempre il futuro perché lo stesso ripensare della manifestazione choc della memoria, ha il compito di rivelarci un volto diverso della storia e come tale anche del futuro a cui essa prelude (Benjamin lo chiama il Jetzt-zeit l’attualizzazione del passato nel presente).

“Apocalisse” di Lenz a mio avviso sta dentro una ricerca sul sacro, ma il tema della fine è fuori dall’ orizzonte religioso di salvezza, canonico, ma più vicino a questa presa di coscienza del mondano e della  “finitezza”, consapevolezza politica, ma anche nuda e disperata, ma che non può che partecipare al continuo rivolgimento della storia stessa, come primo atto di una rivelazione incessante.
Come le opere dense di poesia, il linguaggio teatrale di Lenz, che prolifera dentro lo spazio dell’ imago collettiva e costruisce una liturgia-drammaturgia a costellazione di fuochi, in un lampeggiare della catastrofe del presente in atto nella storia, una  discontinuità – ma proprio perché in relazione con la stratificazione simbolica e letteraria che manteniamo con il testo biblico e tutto i palinsesto semiotico che ne è derivato nei secoli -  che riformula un ordine del discorso diverso,  squarcia ciò che è dato sapere, raccordando in una sintesi simbolica, poetica, il presente ai segni del tempo, fatto di universalità ma anche di questo tempo che ci resta, della storia umana, specie dopo la prima rivelazione ( l
venuta di Cristo a partire dalla quale per l’umanità occidentale nostra comunità,  si è diviso il tempo storico, si sono accumulate immagini, parole, segni, indipendentemente dal fatto che si creda o meno, un palinsesto storico della nostra cultura). Cristo è un discorso centrale, una narrazione di redenzione e rivelazione, è già venuto chi per noi annuncia il “dopo”; quindi, viviamo la Storia già in quel dopo-rivelazione, l’esistenza è la catastrofe futura in cui si gioca la partita già condizionata. Tutto sembra già dato, Dio ha sacrificato suo figlio, poi siamo stati liberi di accettare o meno l’annuncio del dopo. Ma non ci sarà un giudizio finale, Dio ci lascia liberi e al tempo stesso sa già chi sarà condannato e chi no.

 

 

mercoledì 28 giugno 2023

"Everybody talks about the weather", Venezia, Fondazione Prada

 

C’è una bella mostra da vedere se capitate a Venezia, alla Fondazione Prada (aperta fino al 24 novembre) ed è ““Everybody Talks About the Weather”, negli spazi del palazzo storico di Ca’ Corner della Regina. Più di cinquanta opere di artisti contemporanei con un’idea già sperimentata da FP di una sorata di mostra-documentaria, in cui l’arte intreccia i suoi percorsi con la scienza (del resto biologia, fisica, neurologia  e in questo caso climatologia, sembrano essere il background dell’estetica, scalzando la tradizionale filosofia ) seppure c’è un collegamento con l’arte del passato che proponeva gli effetti del clima sul mondo, pur dividendosi tra una suggestione romantico-progressista (Turner) e più direttamente sublime di fronte allo spettacolo catastrofico degli eventi naturali (Friederich).

 Una decina di questi quadri sono riproposti in copie esatte ed è utile poterle rileggere in chiave climatica, là dove un tempo potevano esaltare una dimensione di sfida dell’uomo alla natura- In effetti quella sfida fu vinta, l’uomo ha piegato la natura ai suoi interessi, piegandola e alterandola, senza capire – per eccesso di filosofia rispetto alla scienza – che quella vittoria era esattamente il suo contrario, una sconfitto, per altro mortale.

Oggi di fronte alla catastrofe la bellezza sposa una consapevolezza diversa – così  ai quadri su associano grafici di metadati dedicati molte crisi climatiche , con didascalie e abbinati alle opere d’arte. E’ la forza estetica del sapere scientifico e in qualche modo è sublime anche lo sgomento d fronte alla fine del mondo naturale per opera dell’era dell’Antropocene, arrivata  ai suoi ultimi giorni, specie se la calcoliamo come alcuni come iniziata con l’epoca dell’Agricoltura tra i 20 e i 10 mila anni fa verso la fine del Paleolitico,

Curata da Dieder Roelstraete , la mostra alle opere in mostra si affianca un ampio apparato informativo, la proposta di una bibliografia – anch’essa esposta fisicamente con 500 volumi cartacei consultabili – col fine di proporre una ricerca che esplori i rapporti tra tempo meteorologico e arte visiva. “tutti parlano del tempo”, delle condizioni atmosferiche: da chiacchiera disimpegnativa, si è trasformata in incubo che nell’immediato del prossimo 30 anni potrebbe essere il contrappasso della caduta delle Utopie del 900, in un azzeramento di futuro che collassa nel buco nero dell’irreversibile catastrofe ambientale globale. Tra “tempo meteorologico” e “clima” c’è una differenza, ma in qualche modo la mostra propone di considerarli appaiati, perché per entrambi c’è una qualche forma di pensiero del futuro. Tutti parlano del tempo, anche un pensiero democratico – o intrattenimento.


Proprio il titolo richiama questa polarità tra il pensiero messianico dell’utopia marxista e l’appiattimento sulla chiacchiera del tempo in ascensore – Nel 1968, in Germania la Lega degli studenti socialisti tedeschi diffuse un manifesto con le facce di Marx, Engels e Lenin, con uno slogan: “Tutti parlano del tempo. Noi no”. Il messaggio era : mentre altri partiti politici erano impegnati in futili chiacchiere “sul tempo” –  ovvero  quisquilie – la pensava al lavoro, al salario, al futuro della città socialista. Tutto giusto, ma pure una cecità (  Amitav Ghosh  La grande cecità , 2016) che non ha visto come la difesa del lavoro diventava anche la difesa di un sistema industriale inquinante- Da questo punto di vista la mostra ha un impianto che – con alcune ottime opere e altre più deboli o scontate – di sicuro offre un’immersione nella questione più radicale che la nostra epoca ci sta ponendo e a cui assistiamo con un misto di abitudine intorpidita e paralisi, con molti materiali e approfondimenti scientifici sviluppati in collaborazione con il New Institute Centre For Environmental Humanities (NICHE) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Un po’ come quando guadiamo le “previsioni del tempo”, ultimo scampolo di un’umanità che non sa pensare al futuro se non nell’arco delle 24 ore. Certo fino a pochi anni fa era ancora la quisquilia vezzosa del cittadino felice consumista. Oggi non più (non sappiamo però quanto le produzioni Prada siano sostenibili e se questa mostra sia un green washing, nel caso certamente offre materiale di riflessione proprio per mettere in discussione anche il lavaggio verde di istituzioni e società del capitale globale come Prada).

 Siamo accolti all’inizio da uno schermo che proietta tutte insieme i vari weather channel mondiali, tipologia usata da vari artisti anche in questa mostra, vera presenza di un brusio di fondo, il mantra di un’ansia religiosa per sapere che tempo che fa, in un mondo che – con la metà della popolazione residente in area urbana – ormai ha sempre meno a che fare con il clima per sapere destini della sua giornata. Le opere in mostra sono diverse le più belle sono:

a) Un video del gruppo indiano Raqs Media Collective con “Deep Breath” un film di 25 minuti in cui alcuni sub si immergono nel Mar Egeo alla ricerca di un’iscrizione sui pericoli dell’Oblio. Si tratta di una finzione iscritta su un naufragio reale (da cui furono estratti molti manufatti e opere d’arte ,tra cui “la macchina di Anticitera” ovvero un calcolatore analogico, il più antico mai ritrovato. Nel film il collettivo indiano invece immagina si vada alla cerca di un’iscrizione sull’ “oblio dell’aria”, che in realtà è un titolo di un libro di Luce Irigaray dedicato a Heidegger (The Forgetting of Air) ma l’idea è davvero suggestiva. Forse perché avevo appena finito di leggere “il passeggero” di McCarthy, col suo immergersi in una vastità onirica dell’anima così come del pianeta, forse perché siamo usciti non da molto dal pericolo dell’aria con il fiato del covid, forse perché la corsa fino all’ultimo respiro per fare in tempo a d evitare la catastrofe forse perché l’autorità toglie il respiro (I can’t Breathe, diceva George Floyd steso a terra prima di morire) ma mi è sembrata un’idea semplice e bella, specie per degli artisti indiano che vivono a New Delhi, dove la qualità dell’aria è pessima. Cos’ ci dimentichiamo dell’aria, mentre respiriamo, il respiro come il cuore è una delle poche attività neuro-muscolari che va in automatico, ma ce ne ricordiamo, come adesso quando stiamo per rimanere senza. 

b) Una serie di foto e citazioni di Beate Geisler e Oliver Sann che da 25 anni lavorano proprio a promuovere la riflessione sull’Antropocene. L’opera consiste in un contrappunto tra 37 citazioni tratte da libri di Science Fiction del passato 900 in cui  incredibilmente si profetizzava con precisione (anno compreso)  lo scenario attuale: basti il solo esempio del romanzo di Richard Fleischer, I sopravvissuti del 1973 in cui si legge “Nel 2022 la sovrappopolazione, l’inquinamento  e un’evidente catastrofe climatica hanno causato una penuria di cibo acqua e alloggi in tutto il mondo”. A questa carrellata di testi si uniscono foto di piante con strane propaggini tecnologiche, quasi una cyborg-nature, dissimulata tra la bellezza degli arbusti, mescolati a i fiori e foglie




c) I “Rain Studies” di Jitish Kallat, che con un’idea semplice crea opere suggestive, stendendo un pigmento su fogli bianchi e poi lasciandoli esposti alle piogge monsoniche della sua città, Mumbai, capaci poi di ricreare una sorta di volta celeste con vaghe stelle

d) il video di Hitali Singh Soin, indiana figlia di esploratori e naturalisti, ha ideato la mostra approdando la prima volta alle isole Svalbard, unica persona di pelle scura, ha realizzato come si potesse connettere il dato coloniale e di genere alla cultura della natura e dell’esplorazione. Da qui nasce “we are opposite like that” in cui riflette con una serie di disegni d’epoca e citazione come la cultura maschile bianca occidentale, protagonista delle prime esplorazioni diffuse nell’800 e collegate all’espansione coloniale avessero però creato un clima di terrore della natura, connesso certo al clima di mistero dell’epoca vittoria, le minacce della vita moderna, la prima letteratura fantastica o “gialla”, lo spiritismo, la passione per i fantasmi, da cui l’idea che  la natura stessa fosse foriera di catastrofe avesse un natura di minaccia fantasmatica e di ignoto (in fondo qualcosa che si ritrova anche in Leopardi con la Natura Matrigna, non a caso donna -tra l’altro a margine sulla connessione tra esplorazione evoluzionismo e idea della natura c’è il bellissimo libro di Antonella Anedda, ) più o meno come la presenza di una persona “coloured” crea un senso di allarme in un contesto bianco.

Tra altre opere la forse ingenua, ma suggestiva nella sua forza vitale e tutto sommato allegra di “tsunami” del Kenyota Richard  Onyango o Thomas Ruff un fotografo-senza-camera, che lavora sull’ingrandimento di immagini da internet ma stampate e ingrandite ad alta risoluzione – ma che ovvio si disgregano in quadrati pixel perché sono riprese da immagini Jpeg  di bassa qualità – cercando fotografie di catastrofi o eventi estremi del clima, con un effetto straniante di questo “googolism” in cui la presenza massiccia di immagini a disposizione finisce per renderci “ciechi” di fronte alla natura – e Ruff in qualche modo ce le sbatte in faccia in formato gigante, come una tempesta che spira non dal paradiso, ma dal futuro, indietro al baratro in cui non possiamo più dominare né il tempo storico, né il tempo naturale.

 E proprio dal passato invece soffia il vento che porta le nuvole ritratte in “Plume” foto di Inigo Manglano-Ovalle , uno degli artisti concettuali che con video,  foto e scultura dai primi anni 90 lavora sulle intersezioni di sistemi culturali, come il modernismo, con la politica, la scienza e la natura.
Da molti anni si interessa alle nuvole che qui però hanno la forma di funghi atomici  (anche il climatologo di “Tasmania” di Paolo Giordano, si interessava alle nuvole - altro libro che dialogherebbe benissimo con questa mostra). Questa serie è stata fotografata  in questa forma, in un luogo chiamato  “Trinity” nel deserto della Jornada del Muerto a 50 km da Socorro, nel New Mexico. E’ il posto in cui fu fatta la prima  esplosione nucleare,  16 luglio 1945, tre settimane prima di quella fatale a Hiroshima e poi Nagasaki. E come il libro di Giordano si conclude proprio in Giappone, riconnettendo il senso di un destino in pericolo dei cambiamenti climatici con il pericolo della bomba atomica, anche Manglano-Ovalle lo fa. Basti pensare che Il nome in codice "Trinity" era  stato assegnato da J. Robert Oppenheimer , il direttore del Los Alamos Laboratory , ispirato alla poesia di John Donne,. E Oppenheimer era lo scienziato che lavorava con il padre immaginario di Bobby Western, il protagonista – di nuovo -  de “il passeggero” di McCarthy. Se Manglano-Ovalle vorrebbe richiamare il passato nucleare come storia di una catastrofe possibile – certo ancora possibile – dal futuro altre Plume si riconnettono alla loro esattezza semiotica, sono forme estreme di fenomeni climatici che ci avvertono di un’altra “bomba” naturale, pronta ad esplodere sebben lentamente, ma da qui a 30 anni, che rispetto a tutta la storia dell’Antropocene, potrebbe essere una sorta di Apocalpise now, dell’adesso, del oggi o al massimo, domani.
Direi che come argomenti impliciti di una banale conversazione in ascensore  sul tempo ce ne sono abbastanza.

 

 

sabato 3 giugno 2023

"Non Tre Sorelle" : da Checov all'impossibile umano di recitare Checov

 


Quello portato in scena, al Fabbrichino di Prato, prodotto dal Teatro Metastasio non è uno spettacolo, E come recita il titolo è “Non Tre sorelle” dunque non la messa in scena del testo di Cechov, anche se una messa in scena dell’autore russo dà lo spunto – ancora una volta fuori dal teatro e insieme meta-teatrale – a quel che abbiamo visto al Fabbrichino.

 “Non Tre sorelle” parte da una impossibilità reale, che ci ha riguardato tutti (ma ha colpito drammaticamente chi il teatro lo fa)  ovvero quella dovuta alla pandemia. Enrico Baraldi, il regista di “Non tre sorelle” ( non ché fondatore insieme a Nicola Borghesi e Paola Aiello, di uno dei gruppi di teatro più interessanti,  Kepler 452)   aveva vinto un bando del Teatro Metastasio  per portare in scena il capolavoro cechoviano. Tutto sospeso, non si lavora, difficoltà economiche per tutto il mondo dello spettacolo.


Quando un anno fa la pandemia si è attenuata e ha permesso  la riapertura parziale poi totale, solo due attrici erano rimaste disposte a riprendere il percorso, Susanna Acchiardi e Alice Conti. Mentre si cercava di riorganizzare un cast, il 24 febbraio la Russia invadeva l’Ucraina. Tra i milioni di sfollati, assistiti dalle Ong, c’era anche un gruppo di  giovani attrici ucraine, appena diplomate all’accademia di Kiev e all’inizio della loro carriera, che lasciano il loro paese e arrivano in Italia con il progetto “Stage4Ukraine” creato dal regista Matteo Spiazzi – volto a offrire ospitalità e occasioni di studio e lavoro in Italia ad artiste e artisti ucraini.  Baraldi e le due interpreti italiane del vecchio progetto si incontrano con le attrici rifugiate. 

Ovviamente per loro Cechov è la quintessenza di una storia teatrale che comunque riguarda tutte le scuole nazionali di  tradizione non solo post-sovietica  ma post-impero russo. Ma quando viene proposto loro di lavorare in scena “Tre sorelle”, ne nasce una dilaniante contraddizione e una discussione che se da un lato segna il fallimento definitivo del progetto su Cechov, genera invece una creazione diversa e che porta alla “cosa bellissima” che abbiamo visto al Fabbrichino. 


Nella “cosa” che poi diventa questo “Non tre sorelle/ He tpи cectpи” che vede anche Francesco Alberici per la scrittura drammaturgica, e Ermelinda Nasuto  dramaturg , ma ruolo paritario hanno le tre attrici, ventunenni, bravissime:  Anfisa Lazebna, Yuliia Mykhalchuk, Nataliia Mykhalchuk

La cosa che abbiamo visto  porta nel luogo di partecipazione collettiva, di riflessione sul mondo che è il teatro (e che in questo allestimento ha avuto una riprova, vivissima, bruciante, di altissimo livello) porta una realtà irriducibile e ne fa un possibile lavoro che riprende la pratica più recente del post-teatro e lo supera.  

Come già accade nel teatro di Milo Rau (e questo non è da meno di quelli del regista svizzero per profondità e complessità e bellezza) sono gli attori a guidare l’entrata e l’uscita attraverso la quarta parete. Così Alice Conti e Susanna Acchiardi partono dal loro desiderio di poter lavorare a questo Cechov e della sofferenza e della malinconia (cechoviana) raccontano la sofferenza di chi non lo ha potuto fare, né questo né altro. Così se è vero che “la battuta più ambita di tutte le attrici è ‘ A Mosca! A Mosca!’ “ – come dicono in scena -  la frustrazione della chiusura pandemica è come se facesse pronunciare loro, ma a tutti anche gli attori, registi, maestranze un  “A teatro! A teatro” con lo stesso senso di impossibilità di Masa Olga e Irina. E così nel momento in cui il teatro sembra farsi va in scena – prima fuori dal teatro, poi dentro  – lo scontro con le attrici ucraine, che ora oppongono un muro/parete in forma di domanda: “perché proprio Čechov?”. 

Al Fabbrichino di Prato vediamo scandito per quadri tutto ciò: troviamo le attrici che camminano lungo la scena vestite con abiti ottocenteschi “alla Cechov”, ma è solo il quadro di ciò che non vedremo, nonostante il tavolo ingombro di tazze e teiere, non faremo finta di trasferirci nel soggiorno di casa Prozorov, ma dopo il racconto di Conti e Acchiardi, ci troveremo di fonte a un sottile “dissing” tra posizioni diverse espresse in una forsennata alternanza al microfono modello assemblea o riunione di “posse”,  rispetto all’opportunità di mettere in scena con la guerra in corso proprio un autore russo. 

Davanti a noi la realtà di un blocco da parte delle attrici ucraine, della loro impossibilità emotiva soprattutto, oltre che razionale, di poter mettere in scena un autore che conoscono benissimo e hanno amato e il cui ritratto capeggia enorme sulla parete dell’Accademia di Kiev (nato e cresciuto sul Mar Nero dunque di fatto geograficamente ucraino, a stare alla geografia instabile del XXI secolo anche se dopo il 2014 la casa natale di Cechov è nel territorio sotto i russi). 

Lo spettacolo porta dentro la comunità, riunita in platea, tutta quella che è stata la discussione anche attorno a queste possibilità, con le molteplici ragioni. Anche la battuta “ a Mosca, a Mosca “ cambia il senso, perché a Mosca è Putin e perché i compagni attori delle ragazze in scena, al momento sono al fronte e le tre giovani attrici non vedo le famiglie da mesi.

Si fronteggiano le attrici italiane e ucraine: Čechov sì perché è il più grande autore russo, Čechov no perché è russo, Čechov sì perché è commovente, Čechov no perché metterlo in scena, per un’attrice ucraina, significherebbe non poter più rientrare a casa. Checov no,  perché la Russia sta usando la cultura russa, boicottata in Occidente perché legata a istituzioni di Stato, , come arma di propaganda. E tuttavia c'è anche l'obiezione che Cechov non solo è paradossalmente ucraino, nato a 56 km dal confine dell’Ucraina di oggi,  estraneo a tutto perché vissuto quando la Russia era l'Impero dello Zar di tutte le Russie.

La discussione o dialettica viene superata in qualche modo, perché sono le attrici stesse che nel raccontare la loro passione per il teatro e il fatto che abbiano studiato così tanto e in maniera così rigorosa dai 17 anni ai 21 all'Accademia teatrale di Kiev, lo hanno fatto secondo la tradizione di una scuola di recitazione che tutti noi abbiamo ascritto sempre per convenzione a “una scuola russa” che nasce da prima dell’URSS e di Putin. 

Ma proprio questo metodo, questa capacità di introiezione profonda della recitazione come un elemento aderente alla vita e di grande forza interiore, di grande attraversamento dell'interiorità, fa capire che il rifiuto di mettere in scena Cechov affonda in un’idea vitale del teatro, a una sua profondità esistenziale.

Così la scelta delle attrici ucraine non è una scelta, ma è una necessità. Un bisogno esistenziale  psichico e politico insieme, di NON (poter) mettere in scena Cechov. Si possono comprendere le molteplici risonanze emotive in un'attrice che dice “Io sono qui a recitare un autore russo e non vedo i miei genitori da un anno”. 

Così il teatro si trasforma da luogo della rappresentazione ad aggregazione di persone, nella pratica dell'ascolto delle ragioni profondi di qualcun’altro. Ragioni che sono fuori anche dalla dialettica razionale e sono i gesti più delle parole a dirlo: la distruzione dei servizi da thè a colpi di mazza, l’iconoclastia del ritratto  di Cechov accecato (lui che si chiedeva come sarà il mondo tra cento anni)

Insomma il teatro che permette da millenni di giocare con la quarta parete (lo faceva già Plauto) proprio perché ha attraverso il 900 e oggi ragiona a partire da un superamento del teatro NEL teatro, può e deve trovare un limite ( e del resto pandemia e guerra o dittature ci dicono che non sempre il teatro è un gioco all’infinito e non sempre puoi fare tutto quello che vuoi).

Per tutto il Novecento l'arte ha sempre creato opere che tematizzano anche l'impossibilità dell'opera stessa. Così il teatro, da Pirandello alle avanguardie di fini 900, tutte mostravano i meccanismi del teatro dentro il teatro. A ribadire anche il rifiuto di un naturalismo, dell'illusione di credere alla illusione stessa del teatro. 
 Forse Baraldi e le tre attrici ucraine indicano una scelta che segna l’esaurimento di questa poetica dell’impossibilità e di un ritorno di narrazione ed etica insieme. L’impossibile del teatro è sublime, ma forse rende necessario tenere conto di limiti più umani. Qui è più semplicemente: “non ci è possibile mettere in scena, adesso, il più grande autore teatrale di lingua russa”.

Qui il limite è in una ragione che non ci appartiene, perché non viviamo quella situazione  e che è fuori dalla scena e fuori dalla recitazione, sebbene dentro un quadrato di ri-significazione (o se si vuole ri-sacralizzazione) di uno spazio con il pubblico attorno. Personalmente l’ho colto in un dettaglio, che arriva al termine non solo dei racconti dolorosi di cosa sia significato quel 24 febbraio per le attrici impegnate in scena quel giorno, ma della scena finale proprio di quello spettacolo in cui le tre attrici, il caso vuole, interpretavano la parte di tre sorelle (non di Cechov). E’ una scena che nessuno ha visto in patria, che vediamo noi, stavolta senza sottotitoli. 

Le loro battute in ucraino sono le ultime dello spettacolo. Buio, luce, applausi

Quando si accendono le luci, le tre ragazze avevano una visibile commozione. C’è posto per queste lacrime, forse però come verità che sta fuori dal teatro. 

È una verità irriducibile a ogni argomentazione,  che arriva dal corpo, è una verità profonda che impone di superare ogni dialettica filosofica di ragionamento sul teatro, lasciando spazio alla risposta delle emozioni, intese non come sentimentalismo superficiale, ma come ciò che è alla base della costruzione linguistica del senso, che arriva dopo il passaggio di uno stato fondamentale per ogni attore, la capacità di empatia

 Quel pianto, quella lacrima vista dopo gli applausi, non era richiesta dalla “ recitazione”, nemmeno da quella vera dal racconto vero che Baraldi ha proposto alla fine alle attrici, ma era la loro parte di verità era “la parte” di loro, in sé stesse, una “parte” che porta nell’ambivalenza semantica di questa parola, tutto il suo carico multiforme.  

Mi interessa quella lacrima che spunta dagli occhi dell'attrice che ha terminato lo spettacolo con il finale di un'opera che non è andata in scena per la guerra. In cui io ho sentito propriamente mettere in scena l'incertezza per un futuro di queste ragazze di ventun anni. Che cosa faranno? Dove potranno fare il loro lavoro e anche realizzare il loro sogno di attrici, quando torneranno e se torneranno? Ecco che la verità di Cechov, l'aspirazione delle tre sorelle ad andare a Mosca, diventa questa tensione malinconica e desiderante delle tre attrici di tornare a Kiev. 

Tornare a casa e un giorno poter dire la battuta “A Mosca A Mosca” come una liberazione.

Foto di @Luca Del Pia


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