lunedì 12 aprile 2021

SOGNI, FAVOLE SCRITTE, VITE PARALLELE, SPIRITI. (Su "Due vite" (Neri Pozza) e altri libri di Emanuele Trevi

 




Avevo scritto molti appunti, poi abbandonati, su "Due Vite" nel maggio del 2020, dopo averlo subito comprato, come faccio con tutti i libri di Emanuele Trevi quando escono (il primo fu "Istruzioni per l'uso del lupo" di Castelvecchi, 1994 e prima ancora le poesie nel Quaderno di poesia italiana contemporanea. A volte però quando certi autori sono così seguiti da vicino, diventa difficile afferrarli. Almeno per me è così.
E tuttavia visto che Trevi sta per entrare in gara al Premio Strega, ecco quegli appunti, un po' aggiustati, ma forse sempre viziati da una certa lunghezza. Chiedo venia.

 Sarebbe bello poter essere un narratore come quello di Anna Karenina, creato da Tolstoj. Negli ultimi decenni, venuta meno filosoficamente (almeno a seguire la de-soggettivazione del sapere, in intento anti-autoritario, da Foucault in poi, potremmo dire)  ogni autorità del Soggetto e di conseguenza diventata difficile ogni possibilità per i Narratori che vogliano seguire l’attualità del dibattito culturale d’essere divinità che sanno e muovono le storie verso un destino di diversità  (gli altri, narratori commerciali e senza grilli per la testa continuano a scrivere romanzi come se fossero burattinai celesti e vendono un sacco) si cercano altre strade.

Tra queste, quella di chi scrive ma si rifugia nella verità relativa, in una possibilità solo minima dell’Io (non meno narcisistica in certi casi) di raccontare quel che sa, ovvero spessissimo solo di sé, nella più diretta verità, anche oscena a volte. Come se la confessione intima dei vizi, superasse il divieto filosofico dato al Soggetto di poter dire “io” a nome di altri.

Posso dire la mia verità, solo quella e allora la dico tutta. Questo in sintesi.

Con effetto non meno totalizzante (invasivo) quanto lo è quel modo di fare di uno che ti volesse per forza confessare i suoi segreti. Se è impossibile all’Io dire di tutto, l’io-minimo occupa tutta la scena. L’autofiction né è solo una variante.


Emanuele Trevi ha scelto una via diversa, speciale e tutta sua, aderendo solo in apparenza al coté di chi fa autofiction, semmai più semplicemente, attinge alla biografia, ma sempre in un intreccio di “vite altrui” raccontate innanzitutto nella loro unicità di dolore e gioia, ma poi – trattandosi di persone che avevano intrecciato la vita privata di Emanuele Trevi, ma anche quella di altri e essendo figure pubbliche, autori letterari, intellettuali (dovremo dirla sempre con rispetto la parola) ecco che la dimensione narrativa di Trevi esce da ogni genere e perde felicemente ogni precisa collocazione (sono saggi? sono memoir? romanzi?).

Ad esempio in questo ultimo libro “Due vite” (Neri Pozza) ora candidato allo Strega, il racconto di Pia Pera e Rocco Carbone è di fatto una triangolazione d'amicizia, come era nella vita, dunque Trevi da un lato racconta sé stesso, narrando dei suoi due più intimi amici, dall’altro si spoglia del Sé, per lasciare, nel triangolo, spazio alla coppia (in un certo senso, ci si perdoni l’irriverenza, ma la posizione di Trevi e in un certo senso quella dell’abile “swinger” che nel Threesome riesce a generare una circolazione di energia affettiva, non erotica (si perdoni la metafora da Reverendo Cooper, ma che qui va intesa come Eros della conoscenza, dell’apertura a intuizioni e sentire del profondo, posizioni dell’anima dentro una neo-agàpe di micro-comunità non confessata a sé stessa).

Rocco Carbone e Pia Pera sono stati scrittori, traduttori, saggisti, hanno avuto una presenza e un ruolo, come tali, negli anni 90 e a seguire. Sono morti prematuramente.
Erano amici di Emanuele Trevi. Un' amicizia di formazione, di lunga data e di intima solidità.
Di questo racconta Trevi, nel raccontare di loro.
Qui si salda dunque amicizia in una forma d'eros conoscitivo, che di fa poi agape, comunità (qui piccola.

Eros è – prima di essere solo confinato all’amore – originariamente un più ampio e comprensivo sentimento (comprensivo anche di sessualità, come sappiamo dai greci, ora implicita a volte in certi equilibri di amicizia tra maschio e femmina, nell’epoca post psicologica e post femminista di fine 900) e che chiamiamo Amicizia e che ha avuto anche una sua lunga tradizione anche filosofica (Da Epicuro  Pascal a Levinas o Derrida) e nella sua flessibilità (starei per dire “liquidità” per provocare i seguaci del reazionario Bauman) e una certa stabile aleatorietà, ha il suo pregio maggiore, benché sia difficile approdo. In fondo nell’intimità non si cerca possesso, ma “autenticità”, in cui specchiare la nostra. E su questa parola sta un nodo del libro. Parlando degli amori difficili di Pia Pera, Tre vi sottolinea come “a innumerevoli esseri umani è dato questo destino, di ottenere molta più felicità dall’amicizia che dall’amore. Ma purtroppo queste persone non si arrendono facilmente, perché come tutte le altre, sono vittime dello stesso liquame sentimentale sull’ anima gemella che fin da piccoli suggiamo dai romanzi, dalle canzonette dai film. E quindi si innamorano, pensando di accedere a un grado superiore dell’esperienza e alla loro piena realizzazione e invece stanno solo incasinando la vita che gli tocca vivere”.

Ecco che allora Trevi con Carbone e Pera, dà vita a un sodalizio che seppur camminando precariamente sul lato del perenne fallimento, alimentato dai romanzi, proprio dai romanzi, ma da una loro lettura al contropelo (anche nel rigore strutturalista di Carbone) non possono che trarre l’antidoto,  il farmaco che annulli quel veleno.

A me sembra che Trevi faccia questo, un trasportare fuori dall’amicizia vissuta personalmente, quello che era il suo nucleo sia psicologico e letterario, poetico in fondo, sia quello storico, pubblico, un privato in fondo anche etico, nell’oscillare tra un lasciarsi andare anche deluso e distruttivo (l’anima di Carbone) e invece la resistenza, ostinata e contraria, del rifiorire fino all’ultimo (l’anima di Pera).
Lo sottolineo perché lo fa lo stesso Trevi in apertura di libro: buffo guardare con ironico scetticismo, ma anche con un certo affetto, al destino delle due anime, anche nel loro sostantivarsi onomastico, con Carbone e Pera, a due stati di materia naturale differenti.


(Un po’ forse io stesso forzo il mio giudizio, per via una conoscenza che è stata tanto occasionale, quanto permanente, nella lunga durata, dai tempi dell’università, con Emanuele Trevi, divenuto poi maestro fratello – e pervia anche del fatto che in quel tempo, per alcuni mesi, alla biblioteca nazionale capitava spesso di parlare tramite Emanuele anche con Rocco Carbone. In me agisce, non lo nego, un affetto sentito, insieme alla condivisione dei significati culturali che questo come gli altri libri di Trevi hanno)



E dunque la lunga fedeltà alla vita e all’amicizia che ha Trevi autore si esprime in diversi libri, tra saggio e autobiografia e narrazione letteraria, con al centro persone che ha frequentato, a volte ponendosi in posizione paritaria e orizzontale, come è normale tra amici, a volte di sacro rispetto o di magistero (io stesso considero un maestro contemporaneo nonché coetaneo, Emanuele Trevi come scrittore) a volte intimorente o insondabile, ma sempre pieno di nutrimenti.


Ecco allora Pietro Tripodo in “Senza verso”, Laura Betti (e Pasolini sullo sfondo) in “Qualcosa di scritto” e Amelia Rosselli, Cesare Garboli, Arturo Patten in “Sogni e favole”. E ora in “Due vite” Rocco Carbone e Pia Pera. Da un lato, restano tutti persona, raccontati con il registro da flaneur della memoria tra divagazioni, rievocazioni, domande ancora aperte, ricordi precisi e fotografici, sempre con lo sfondo di una città che è più Flaneuristica di Parigi, una Roma sovraccarica della sua bellezza miserabile, poi auto-generatrice del mito di sé stessa, città quasi set, quasi paesone, quasi metropoli, quasi assente, quasi materna.

 Tutte persone e tutte evocate come vive. Come solo i personaggi scritti sanno essere vivi perché vividi. È vero quel che in “Due vite” Trevi esplicita quasi in sentenza di poetica “Scrivere di una persona reale e di un personaggio immaginato alla fine dei conti è la stessa cosa: bisogna ottenere il massimo nell’immaginazione di ci legge utilizzando il poco che il linguaggio ci offre”.

A questa indicazione, io però vorrei aggiungere un taglio di sguardo: si tratta certamente di un unico percorso memoriale che cerca di descrivere non tanto l’unicità di una persona e il suo vissuto singolare, come suggeriva Tolstoj, ma di collocare in una unicità delle relazioni di amicizia, chiedendo soccorso al “poco” (ma che nel casi Trevi è sempre tantissimo) che lo stile, il linguaggio e la letteratura possono offrire, ma soprattutto raccontano in un passaggio privato vs pubblico di qualcosa a metà, tra persona e personaggio immaginario: è quel personaggio pubblico che è lo scrittore o l’artista o l’intellettuale.

È riconoscibile a tutti i lettori di Trevi e ognuno lo “sa” per quella sua esperienza più pubblica può dire, ovvero che nell’indecidibilità del dittico persona/personaggio troviamo Trevi scrittore di letteratura. La risonanza di epoca che aleggia nei vari libri, racconta di destini comuni e lo fa dentro un’architettura delicata, sempre in bilico tra la celebrazione di un secolo ormai fallito e crollato e l’acuto di una bellezza e vitalità che quel secolo aveva e a quel secolo ha dato figure intellettuali. Esse sono state di quelle epoche interpreti prima, non capite cassandre poi, infine vittime. Nel frattempo essere intellettuali è diventato negli anni in cui Trevi racconta, una figura ai margini (marginalizzata anche a causa di suoi presunti non sempre veri privilegi di casta) spinta fuori da una socialità che non ha più bisogno di intellettuali scrittori, insomma i ‘mediatori’, perché ogni può scrivere da sé il proprio foto-romanzo su Instagram, ognuno spesso confonde l’innegabile diritto a poter dire “io” come la unica garanzia di verità e autorevolezza di quel “dire” (mentre invece conterebbe sempre la competenza, lo studio, la dedizione, la pratica ecc.)

Per questo Trevi non appartiene  a questa deriva del racconto di sé, se non nella misura in cui si avvicina a chi lo ha fatto inconsapevolmente (Pasolini e diversamente, nel metodo del suo saggismo, Garboli) e oggi in diversa maniera (tra i pochi scrittori davvero rappresentativi) Walter Siti e più recente il Mari di “Leggenda privata” (non è un caso che i due si siano confrontati, certo da rive opposte, ma pure con parecchi ponti comuni in “Scuola di Demoni” una doppia intervista di Carlo Mazza Galanti per Minumfax).
 Leggenda privata come il Contagio o Troppi Paradisi sono allora  la perenne radiografia in soggettiva di un paese senza capacità di coscienza e dunque lo scrittore (tradizionalmente delegato dalla stessa società a rappresentarle e al tempo stesso correggerla o spiazzarla, farla crescere, da cui il Demone che si fa maestro, in una pedagogia non lineare)  ora ci parla da una condizione realmente postuma. Insomma, quella che racconta è una deriva pubblica e quasi politica, del rapporto tra una società e i suoi depositari di saperi.

Trevi ha strutturato in questi anni una sua strada, nell’uso della biografia e nel fatto che racconta – di fatto – di amici intellettuali. Egli eredita e liquida al tempo stesso, mantiene vivo un ruolo e si sottrare ad esso, lo fa offrendo nel racconto di una formazione letteraria ed esistenziale, un destino di deformazione e sconfitta, di sparizione, fantasmi. Trevi, in Due vite e in molte interviste, dice di voler collocare il suo scrivere “tra critica letteraria e spiritismo” che sono “due arti davvero gemelle, che procedono dall’assenza a una presenza momentanea, del tutto fittizia ed opinabile”.

 Con “Due Vite”, questo accade in modo diverso dalle rievocazioni di amici, maestri, persone frequentate e in qualche modo però passate alla storia come erano Garboli o Rosselli, Betti, Patten, ecc. Qui ci sono due vite interrotte, parallele, una amicizia di formazione a tre (come non ripensare a Jules e Jim? Di Rocheé/Truffaut).  Trevi costruisce un trittico in realtà perché stavolta siamo oltre il gioco-dedalus, in cui il ritratto del maestro da maturo viene fatto come fosse parte di un autoritratto dell’artista da giovane. Qui in terreno “Jules e Jim” senza l’Eros, Rocco, Emanuele Pia diventano amici, si frequentano e incontrano a Roma, vanno in gita,  scattano foto discutono di letteratura e vita, passano serate  pigre e malinconiche, stavolta nell’orizzontalità della relazione è come se Trevi giungesse al capitolo finale di un racconto del 900 letterario italiano visto e condizionato proprio dalla città, da Roma cornice mai neutra, un secolo che tuttavia si è irrimediabilmente chiuso, morto con i due amici prematuramente scomparsi e rievocati nella seduta spiritica del testo ( in un paese che ha affidata a una seduta spiritica, falsa ma vera, il suo mistero più grande, quello sulla morte di Aldo Moro, mai svelato).

Rocco e Pia sono poi morti, improvvisamente per incidente e malattia, morti con dentro una delusione tragica e irrisolta che forse con la Scrittura Trevi vorrebbe in qualche modo risolvere, restituendo memoria e rilevanza alle figure intellettuali dei suoi amici, ma la loro importanza è sul fronte di una condivisione culturale di un secolo, pur ferito a morte dal suo stesso principio (l’indeterminatezza, la relatività) e figli di guerre che avrebbero generato una conflittualità mai esaurita. Eppure, scrive Trevi, “nel 900 la bellezza rappresentava ancora, un’esperienza a lento rilascio, strettamente individuale, ustionante; una scoperta capace di sconvolgere la vita; capace, soprattutto, di indicare un altro mondo a chi fosse disposto a credere alle opere di artisti disposti a loro volta a bruciarsi nella propria materia” Erano aggiunge lo scrittore “Esseri umani investiti da una vocazione”, sconnessi (e disconnessi) tra i loro simili, non ancora come oggi, fenomeni da social, “variabili mercantili della celebrità”.

Naturalmente Trevi qui gioca col fuoco e lo sfida: il fuoco pericoloso è quello della nostalgia restauratrice, della lamentazione da boomer per una superiorità del passato perduto. Sfida il fuoco nel rischio di sembrare egli stesso autoproclamato maestro, anche se implicitamente. Tuttavia, sono convinto non sia così, perché libro dopo libro, Trevi racconta di una in fondo dissolvenza di un mondo e di un fallimento, in cui ciò che resta a far da bandiera è un rigore delle persone, reali, non tanto del gruppo o casta, semmai del piccolo gruppo comunitario, che non è rifugio. E in più, però, da questa esperienza resta l'amaro anche della morte che vince -  e la seduta spiritica è solo un abile trucco di Ulisse

A questa esperienza di rigore, in ogni caso,  era rivolta con Philìa amorosa,  la comunità d’anime sconnesse e precarie, fragili e rabbiose, malinconiche, che erano le tre vite del libro, che alla fine condividevano  questo rigore, che non era rigidità ma l’abbandonarsi alla domanda e alla fame di vita e  di conoscenza (come scriveva in Sogni e Favole, era tempo in cui di fronte a scene enigmatiche di un film o a quadri o a opere letterarie complicate, queste “ tutte quelle cose che ti colpivano perché non le capivi e non le capiva neanche chi le aveva inventate”. Ma se da un lato Trevi dice “finite per sempre inutile lagnarsi” io credo Trevi stesso scriva ancora perché attratto da quel voler capire, dalla volontà di sapere).

Era una forma di resistenza e fede in qualcosa di scritto, principalmente nella letteratura e nella vita stessa, pur essendo già postumi in vita, tre allievi senza più maestri, ormai morti senza lasciare eredità. Eppure, per le vite che hanno condivisione questa perdita, non resta solo un lutto, e forse non resta affatto un lutto, né tanto meno a Trevi il sopravvissuto, ma forse un’umana fratellanza, orizzontale, che rialimenta la stessa bellezza in chi ha semplicemente voluto bene a Rocco e Pia, ma come poi, per osmosi da lettura, quel bene è quello che abbiamo voluto a chiunque abbia avuto questo tipo di significanza per noi.

La letteratura, i libri, ma prima ancora, in un’antecedenza morale, il vivere conta, certo. Tuttavia, Trevi che tanto quanto spande amore per la letteratura, da gran lettore e critico quale è prima ancora che scrittore, sa pure che la vita è irriducibile alle pagine e questo è parte del dolore malinconico condiviso con Pia e con Rocco, su due fronti diversi delle loro ferite.

 “Non solo nei libri ma nella letteratura, non c’è nulla che davvero ci assomigli” scrive a un certo punto Trevi “Noi stessi non ci assomigliamo e ogni forma di identificazione non è, in fin dei conti, che il casuale sovrapporsi di ombre fuggitive”. Dunque, ciò che possiamo portare con noi leggendo di Emanuele Rocco e Pia è un quasi-niente, una fuggevole inconsistenza ontologica del reale, la sua porosa irrealtà che, attraverso le favole (il racconto) fa della realtà, della vita, altrui o nostra, al massimo un sogno ricordato. Questo impalpabile amuleto di parole ci ritroviamo inaspettatamente in tasca, dopo aver finito “Due vite”. Forse un amuleto lasciato da uno spirito che non ha voluto lasciarci, dopo la seduta.



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 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...