mercoledì 24 ottobre 2018

ITALO TESTA "L'indifferenza naturale" (Marcos y Marcos)


Nella nuova raccolta di Italo testa “L’indifferenza naturale” (Marcos y Marcos) potremmo dire che la poesia – parafrasando  Zanzotto – posa lo sguardo  dentro il paesaggio. Sulla scia degli altri lavori del poeta (nato a Castel’Arquato nel  1972, attivo come con diverse raccolte da circa quindici anni e direttore della rivista “L’Ulisse”) l’ultimo lavoro concentra la ricerca, lo scavo, la domanda , sul punto chiave della poesia così come la conosciamo nell’epoca della modernità, concentrata sulla ricostruzione di una visione del mondo e attraverso i testi, definisca la linea d’orizzonte della realtà  che è introno a chi guarda.
In questo caso, seppur rarefatto, in un’atmosfera sospesa , siamo dentro un paesaggio contemporaneo, nordico, con flash assorbiti dalla biografia di un poeta che si muove tra il parmense e Milano : pianura, conglomerati urbani, una vasto limbo di autostrade, escrescenze vegetali indistinte, indomma lo spazio umano e naturale insieme, che cresce senza un disegno.

Metropoli, natura, non c’è differenza. Il perno della poesia è come viene scritta la restituzione di questo sguardo dentro il testo. Nel dettaglio,  ciò a cui ruota “L’indifferenza naturale” è come si accoglie il caos di vita e materia,  la metamorfosi che pullula dentro  L’io-che-percepisce (“la mente che rumina” scrive Testa ). 
il soggetto che osserva,si muove, slitta lungo assi, dentro le vastità, ma pure indaga, come una radiografia del poco visibile, interstizi minori, l’invisibile del reale e pure realissimo, tutti sciami di realtà sottratti al centro: fossi, pozze, sterrati, non luoghi tra natura e cultura. Dentro questo minimo mondo, la vita brulica con ostinata perseveranza, nella sua “esposizione” indifferente al nostro sguardo, ma pure alla distruzione della  stessa natura, che sta – in questo libro che costruisce una sua originale fenomenologia – tra  la “lenta costruzione” di una visione.

Se la lirica è non tanto e non solo una espressione del sé, quanto forse  una domanda, una sorta di meditazione che si chiede quali siano le condizioni che un soggetto ha per “percepire ed esprimere la realtà che vive”:  e se la poesia lirica è ciò che agisce anche attraverso quel particolare dispositivo che i ltesto stesso che pone la domanda,  bè allora Italo Testa è un poeta lirico.
Sta dentro un idea generale condivisa di lirica e pure è sperimentale nel prendere la tradizione farla sua e – ben consapevole per la sua vasta esperienza sia teoretica che critica – cercare di rinnovarla, di mutarla..

Nei testi abbondano strade, pianori, fossi e canali, disegnano la geometria di una passione della presenza colta nel suo contrario, come sparizione del sé.
Poesia dopo poesia Testa ci porta in un universo aurorale, bianco, polveroso, silente – tutto è minima stasi, compresa quella di un “io” – più fisico o luogo che Soggetto - che seppure inevitabilmente registra l’accadere, anche se non pronuncia sé stesso come pronome, ma resta origine o termine di quel percepito.
 Chi percepisce è  dunque innazitutto per Testa, una cosa tra cose, senza prevaricare..
Chi percepisce però  resta  diviso dal mondo , non è possibile altrimenti: è  proprio lo sguardo, la mente che lo distingue ancora  – in due parole, ripescando una storia della poesia tra 900 e XXI secolo, la domanda è : come poter essere oltre Valery e le avanguardie partendo dagli stessi temi? Così in una formula ridurrei Italo Testa.

Il mondo delle sue poesie è un Tutto immerso in una sorta di chiarità, una luminosità che per certi versi sembra quasi da un lato onirica dall'altra è polvere bianca materica e reale di strade laterali, lungo canali d i scolo  padani, luoghi d’origine del poeta: qui è “la vita che ignota fermenta nei fossi “ e che fa da correlativo di un’attività mentale e onirica di noi “ che Muti boccheggiamo alla rinfusa” come “anguille nel fitto di una chiusa”. Il distico, la rima baciata, la metrica e un lontano riandare a Montale, ma spostando in luoghi meno netti, seppur nel dorso negativo del mondo, come era nel poeta degli Ossi.

Il 900 è lontano, soggetto, cose e biologia stanno dentro un’unica - e non facilmente riducibile a definizione – condizione d’esistere  in cui l’immagine primaria sembra essere quell’acquitrino in cui  “la vita anonima fermenta”.
 Da questa condizione di mescolamento dentro un indistinto paesaggio il poeta parla decentrato “da questa indifferenza” che esplode nel torpore e consuma le cose. L’attitudine fenomenologica è di  un percettore che cammina, passa tra viali, luoghi anonimi, ma che come in Zanzotto del Galateo, rivelano poi sottocodici storici, sentieri della resistenza, presenza dei morti di una stoia che non aveva ancora questa dimensione dell’anonimia. E’ dalla natura che arriva il pungere di una memoria che piante e sassi conservano, ad  esempio sul monte Giogo. Oggi dove era morte e sangue, distruzione dei combattenti per la libertà
 
“la storia ha fissato
Una tranquilla dimora,
prendiamo possesso, noi
Di un tempo che frana
Per una traccia andiamo
Che a voi ci riconduca”

E‘ dunque un mondo di presenze e luci, come anche di “piante senza nome” – che tuttavia ce l’hanno, come gli “infidi ailanti” ,a cui dedica una sezione, le “vegetali epidemie” di un arbusto che,  dalle origini orientali arrivato anche del nostro paese, infesta i bordi delle autostrade, piante che i più vedono anonime  e in quelle parti non di non-luogo che attraversiamo. In  esse, queste “gemme crudelissime”  strappate alla loro anonimia, lo sguardo si identifica, partecipe, nello sfarinare del paesaggio medesimo.

La misura è nell’ utilizzo di endecasillabi, di base, con alcuni slittamenti iper o ipo metrici, con  diverse risonanze fonetiche per una versificazione che alterna libertà e costruzione, in cerca di una misura, come se di fronte a tutto questo disfacimento, la poesia di un autore degli Anni Zero rispetto ai percorsi di ricerca iniziati negli anni 60, fosse fin troppo consapevole, ritenendo non più necessaria la decostruzione mimetica del linguaggio  o ogni qualsivoglia sua ideologia.

. Geologia, storia, il presente di pace sgomenta che emerge da questi testi, è fatto da  materiali abbandonati, la natura che prolifera in una sorta di disordine senza senso, senza un sentimento metafisico della stessa natura che si manifesta

Dov’è la ridondanza delle lame
Lo sciame che rigurgita dai fossi,
ancora spogli quando avanza il niente
nell’aria più lucida, e più demente.

Tutto questo si somma nella poesia di Testa, ci conduce attraverso una beanza di fronte a squarci di paesaggio, là  dove “fioriva il limonio/dove l’acqua stagnante s’intorbida” : quadri di natura ambivalente a fare da scenario di una rincorsa percettiva tra l’io e l’altro. nello spazio di riconoscimento percettivo , in “io E l’altro” per riformulare Rimabud.

 La poesia ne resta un luogo primario e dunque la scelta stilistica non può seguire l’esempio delle avanguardie , non può essere un deragliamento linguistico perché il suo primo luogo di manifestazione del dire è proprio nel medesimo spazio,” io e l’altro”  dentro la comprensione, dentro la grammatica di comunità, che rimane aperta, tra il testo e il suo lettore.
Italo Testa si concede una dimensione anche lessicale controllata, in cui alla proliferazione nominale dei dettagli naturali, corrispondono occorrenze testuali referenti ad un universo chiaro e luminoso piuttosto omogeneo, che sconfina anche in riproposizione di “ariette” settecentesche, acquerelli di ripetizioni fonetiche che sembrano un lento gocciolare in certi testi haiku o la sospesa immobilità dei quadri di Morandi.

A essere felici
In una luce dura
Sotto il muro altissimo

Infrangono lo schermo
Di acque velate
Le anatre al mattino

Fiore a fiore aspirano
Il giallo improvviso
Delle forsizie

Il percorso mattutino di rivelazione luminosa azzarda una felicità del vivere in questo continuo rimuginare del  lavorio percettivo che è principalmente un abbandono, “perché ogni cosa si senta/ e tutto sia nostro // perché nell'abbandono/ tutto ci attenda”, senza manipolare soggettivamente, senza che l’interpretazione prevalga sulle cose. Da qui il richiamo a questa indifferenza naturale che  è uno stare nelle cose e un invito all’altro ad una condivisione che “ti consegni al fuoco /mentre inizi a essere /come non sei mai stata”.
L’asse verticale della mente si arricchisce nella misura in cui scambia la dimensione di un abbandono al mondo come gesto orizzontale verso una mente altra, non specchio. Lo spazio del fenomeno è intimamente legato ad una tensione di relazione, di  “meraviglia” e “dedizione” verso il mondo .
Il mondo accade anche senza di noi, quindi nessuna volontà di costringerlo in categorie e ridurlo alla sola nominazione, anzi la poesia da un lato è proprio questa possibilità di far essere il percepito senza il percettore. Eppure nel medesimo tempo, è parte di un’attività di conoscenza  .
 Anche l’amare passa per questo scivolare, dimenticare, perdersi, abbandonarsi e aspettare che come un’unghiata dall’invisibile, l’altro ci prenda. Il “verde” ovvero l’universo vegetale che in queste poesie è così presente e invade il soggetto che si muove in questi testi, è la potenza dell’accadere, e invade anche  “la lingua” - termine nella sua duplice valenza di corpo che percepisce e di linguaggio, “nudo” e “aperto al canto/ di tutto ciò che non ho amato”.

La percezione del mondo, la conoscenza ripassa per questa condizione di possibilità che riconduce alla radice del pathos, ma con una chiave diversa non romantica, ma di rispetto dell’alterità anche irriducibile a essere conosciuta del mondo, come del resto c’è una conoscenza solo attraverso il riconoscimento dell’altro, solo nell’esposizione nudo all’altro. Ciò che è fuori di noi, passa in noi ma non si trattiene, non possiamo dirlo proprio, non ci appartiene, ci è di fronte, ed è splendente, meraviglioso anche senza di noi, anche senza la nostra meraviglia.


L’impermanente, il filo che si perde
L’ansia, la bava che cola alla bocca,
l’inapparente che più non ci tocca;
era questo, e non è più nominabile,
iridescente, il manto d’apparenza:
la ghirlanda stesa, sul cuore immobile,
immobilmente spende dell’assenza.


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Altre poesie da "indifferenza naturale" 


Il cuore pesato

come la favola del provinciale / perso nella grande città:
sul piazzale dove le vie convergono / si orienta guardando i tigli
lo stradario ramato delle macchie / che qui tempestano le foglie.
tutto è foresta, le torri d’acciaio / le pareti specchianti, i vetri
sono stagni fatati, rami e tronchi / percorsi da corvi parlanti;
sarà come la fiaba del ragazzo / che sposa la selva e tramuta
le vene in cavi d’acciaio, gli occhi / in biglie di vetro incolori:
se un passante per sbaglio lo sfiora / scioglie il sortilegio, lo lascia
cadere in pezzi, nei mille frantumi / degli aghi di pino del bosco.
così cammini, in trance, lungo i viali / macinando un solo pensiero
dopo giorni che nessuno ti parla / ti ammali di luce, di passi
votati alla strage, scagliati a caso / sulla mappa degli abitati,
la raggiera delle strade a scomparsa / dove il nulla ti ha invaso;
e passare l’incrocio che nessun dio / contadino guarda e protegge
è esporsi al vento gelato che spira / dall’ombra lunata del male:
o sarà come il bambino velato / dell’apologo che a tastoni
risale sulla cresta del cuscino / e incosciente si lascia andare
fino al giorno in cui avrà il cuore pesato / e gli occhi offerti su un altare
di nuvole, sino al nido del merlo / dove una corona di piume
sul fondo azzurro cupo dell’infanzia / lo inchioderà al suo dolore.
***
Codice stradale
ma il salice piegato a difesa dei container non ha istruito il giorno il suo carico d’angoscia risale il cavalcavia tra i tir incolonnati non conosce quest’attesa a corsie alternate se l’anima è un biancore imbevuto di neon e aree industriali rattrappite nella nebbia qui è sempre linea continua qui solo gli aironi possono testimoniare ogni sorpasso qui ruotare il becco a presidio della strada qui squalificare gli astanti il guardrail sfondato.
***
perché sono arrivati e ci chiamano
dalle cascine sparse nella neve
e nel dicembre luminoso affondano
dietro le quinte mobili del giorno;
ho provato a fermarli: non ascoltano,
camminano sugli argini, proseguono
stringendo le spalle contro il vento
si piegano in avanti, a passi lenti
raggiungono il cofano innevato,
l’auto lasciata in mezzo al campo;
ho provato a chiamarli: non guardano
in nessuna direzione, s’inoltrano
sulla pianura estesa nel chiarore
da cui sono arrivati infine tornano.
***
Bianca
si apre un vuoto tra le cose
e in mezzo il pieno dei tuoi occhi
“eccomi”, dicono, “sarò nuda”
mentre stacchi un piede da terra,
“chiedo di essere amata,
………………………………..e guardata
nel palmo aperto delle mani”,
domani sarai polvere nel prato
come un animale sdraiato
a guardare la fuga dei rami
“eccomi”,
……………..mi chiami, così bianca
nella luce, così intensa,
sei sul punto di fare un passo avanti
con le labbra ferme,
terribilmente serie, senti
di essere pronta a cibarti dalle mani.
***
contro l’ago inflessibile e ancora
la roccia, il bianco magnetico e in alto
falde e falde di nebbia
ora risuona, ora sbanda e riprova
ad alzarsi contro le palme grondanti
contro gli ailanti accesi
è un muro di calce la luce viva
e s’apre, nel grigioazzurro sfarina
calamitata a riva
lui guarda, prova a pensarsi in quel quadro
un viaggiatore perso in un anfratto
uno scarto del tempo
su una carta cigliata
non segnata su alcuna mappa
come ogni vero luogo immaginata
mentre l’isola nella pioggia
scivola sotto un’immensa onda bianca
in una glassa d’acqua
e la costa innominata sparisce
dalle pagine intatte del cielo
bianca, vaporizzata
in un volo latteo di schiuma
nella lacrima, sulla cornea bianca
dell’estraneo che guarda.

martedì 23 ottobre 2018

ANTONELLA ANEDDA "Historiae" (Einaudi)


La storia, quella dei grandi eventi anche nel nuovo libro di Antonella Anedda ((“Historiae”, Einaudi, p. 87, Euro 11) è fatta non solo da monumenti ma anche  da miriadi di tracce invisibili.
Anzi, la gran parte delle presenze vive, partecipano alla storia col loro sparire.
 Così è per ciascuno di noi.
Limitato dalla finitudine naturale della vita e spesso da una fragilità ulteriore che l’anticipa, cerchiamo redenzione utopica ben sapendo del destino della morte. Bisognerebbe avere il coraggio di Leopardi. Anedda fa parte di quella compagine di coraggiosi.
In questo nuovo libro , la grazia opposta a questa pesanteur è nell'individuare il brillìo del dissolversi, le stelle sommerse, le anonime  “historiae” che danno un senso proprio a questo apparente scacco esistenziale degli umani.
 Come il sale che si scioglie dai corpi di migranti affogati, rimasti abbracciati e decomposti in fondo al mare a cui dedica uno dei non pochi componimenti civili di questo libro: le loro cellule ridiventano sale della terra – e dell’amato mare sardo – tonando ciclo di natura. Ma non è solo una poesia civile - o tanto meno  di occasione. Anche quelle vicende, che sono urgenze politiche del'oggi,  come tutti i nostri destini, che sono il lungo corso della Storia, si sovrappongono. E c'è una cosa in più che il libro sapientemente introduce, come solo in poesia si riesce a sintetizzare.

Un tema fondamentale: che la nostra persona si decompone, si trasforma, il nostro tempo è anche quello di una parabola del biologico: “ogni sette anni si rinnovano le cellule/adesso siamo chi non eravamo” . Da qui la forza, non lo scacco: dunque nessuna nostalgia del passato, scrive Anedda. Siamo nulla, il quotidiano fragile di una malattia che “scollando dalla mente la pelle del passato” permette – dice il poeta nello specchio che ci riguarda - di “prendere senz’ira il tuo nulla tra le dita”. Ma non c'è nichilismo.

 
Il libro aggrega una geografia interiore ed esteriore sull’asse della memoria ma anche della percezione presente: la Sardegna, Roma, le pieghe minime, rasoterra, le tracce storiche insieme ai dettagli domestici in uno sfarfallio di percezioni, di lampi e barbagli. Illuminazioni profane che connettono collettivo e corporeo singolare, lo scriveva Benjamin del surrealismo. In Anedda non c’è onirismo, semmai molto del tempo di mezzo tra veglia e sonno, percezione e memoria in sciami, le nostre historiae pulviscolari. Mi verrebbe in mente una sorta di visione "lucreziana" della Storia.

Anedda continua qui una perlustrazione negli immediati dintorni di tutti, dentro cui cercare una misura del sé, come scriveva Enrico Testa collocandola alla fine dell’antologia “Dopo la lirica” nel 2005. Oggi di ciò che rimane forse residuo, nel “luogo dove si irradia luce/ e non esistono pronomi” dunque tanto meno un io, assertivo. Ma resta viva una sperimentazione di alleanza tra persona e mondo. Trasformato, rimeditato intimamente, il suo "assolutismo lirico” (così Galaverni, citato anche da Enrico Testa, sui primi libri) la scrittura di Anedda usa ora un verso libero, una tensione dell’immagine che si scioglie,  ma resta voce che si distingue, forza di una sintassi, di una lingua che non a caso si tuffa consapevole nel mare interiore della lingua sarda, per poi riemergere  anche grazie a misure metriche, cadenze sintattiche, più distese, a volte anche con  dei "quasi- alessandrini"  incastonati in versi anche più lunghi (e ricordiamo una forma di dismisura anche nei versi del precedente  “Dal balcone del corpo”). Anedda usa  un lessico preciso, tagliente, che non si pone in attrito di enigma, di scarto con hazard, siamo davero dopo la lirica e pure certe sue illusioni. E più concentrata sulla potenza della lingua, che guarda ammirata all’efficace contrazione materica del latino di Tacito (citato in una bella poesia, e non a caso si parla dello storico degli “Annales” per queste historiae  che sono tessuto ctonio della grande Historia). Il latino capace di evidenziare i “nudi fatti” scrive Anedda, mostrando anche in queste due semplici parole un segno di scelta di senso, direzione, anche per questo suo libro.

 In Anedda, attraverso anche l’esempio latino, è cresciuto evidentemente un desiderio di una lingua dalla medesima efficacia, che la porti come dicevamo anche a tentare l’impasto materico interessante in alcune poesie con la lingua sarda. Così emerge realtà da realtà, luce da luce, una sorta di realismo dell’invisibile, dove le vite, le nostre, quelle dell'io che scrive, ma specie quelle lontane dai nostri sguardi di migranti o nomadi che rovistano nella spazzatura, così come i ricordi, le percezioni di nuance ambientali, le memorie del lutto: tutto ciò concorre a dispiegare una visione complessa del nostro essere coinvolti nella vita.

Lo siamo e lo siamo con più forza se manteniamo vivo il sentire della morte che giace con noi dalla nascita, così come dicono anche i fisici – li cita Anedda prendendo atto del tempo che non c’è, quello in successione delle ore e i giorni. Il tempo e questo essere-qui è solo un cumulo di “larve e miele”, è solo lo spazio in cui ostinati procediamo, osservandoci, nella trasformazione del corpo che siamo. Biologia qui ridiventa politica se colloca noi come esseri viventi senzienti e fragili dentro un destino che va ridefinito. Questo fa la grande poesia, l nostro corpo come le cose, in questo passaggio da presenza a tracce, a dissolvenza, ma di nuovo a ritornare in un circolo, in uno spazio che è il tempo. Il sogno sta nella storia nelle  grandi migrazioni, battaglie, economie, e,  inseme, allo “scroscio della pioggia”, i nostri animali domestici, i gesti minimi.

Il nostro tempo è duro, fatto di ingiustizie e dolore, lucidamente Anedda colloca noi, con lei (e una delle qualità stare i per dire etiche di Anedda poeta è che il poeta è sempre con gli uomini, magari fronteggia la comunità ma non se ne sente mai separato) dentro questa stagione di gelo che viviamo, questa epoca di neve e lupi. “Eppure è inverno, tempo di piantare cose”. Questo libro è uno degli strumenti umani con cui lo potremo fare, lo faremo. Lo avremo già fatto, quando le cose nasceranno.

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...