domenica 20 dicembre 2020

ROMA E "LA CITTA DEI VIVI" DI NICOLA LAGIOIA (appendice al post sopra)

 

1.       La questione “Roma”:

Mi sembra che il titolo sia azzeccato, perché qui la città è la coprotagonista e al tempo stesso “architettrice” quasi inesorabile dei destini. La città che guida con i suoi movimenti sotterranei quasi un suo carattere un suo stato la sua evoluzione e una trasformazione verso questo sfacelo. Certo, si dirà, Roma non c’entra, altrimenti è un diverso determinismo. In realtà Roma nel romanzo secondo me non è presente solo per il degrado o l’inferno, ma è anche l’irriducibile sua grandezza, vitalità, come nel titolo, di un’umanità che è viva e nella storia. Il suo degrado attuale, la sua cultura diffusa coatta e violenta, l’abbandono che vi si respira non vanno negate, ma non sono un ‘anima della città anche perché una città non ha un’anima, ha sola la sua storia. Lagioia è un romanziere e anche un po’ “Annales del presente” e oggi la storia di Roma è questa qua, dei topi morti dei gabbiani cattivi, della violenza omofoba, dell’aggressività.

tra l'altro la "zona del crimine" non è soltanto la mia, che solcavo in macchina a vent'anni, quando non c'erano i palazzi di via Igino Giordani, ma era tutto pratone,  a cercare paradisi artificiali e illegali. E' anche una zona letteraria: Pasolini, primo su tutti - da Rebibbia a Pietralata alla Tiburtina, poi in ambiti più recenti, anche altri autri: Torrebruna (il "tocco magico" la scuola di  parruchciere, è lì a due passi, nel titolo di un libro credo edito proprio da Lagioia tra i primi "nichel" di minimumfax e storia in cui c'era sullo sfondo una morte che percorreva Roma nel sottosuolo, quella di Alfredino Rampi) Desiati, Durastanti, e poi uno splendido reportage di Siti su Repubblica e uno altrettanto bello di Stefano Ciavatta, e poi ora Lagioia. Sotto la mappa.



Del romanzo, ad esempio questo senso di sbrindellamento della città c'è anche in figure di contorno, ad esempio personalmente la figura più misteriosa per me è una specie di accattone di oggi,  “Alex tiburtina” la sua esistenza meriterebbe un romanzo a sé, perché il suo dire “sì” alla richiesta di Manuel e Marco alle 4 del mattino, mentre si trovava senza soldi e dall’altra parte della città, il suo entrare dopo un viaggio in taxi  con gli ultimi dieci euro in tasca nella casa e tentare di fare una precaria e allucinata conversazione, è uno dei pezzi dell’assurdo più incredibili che io abbia letto ed è un fatto vero, non è frutto del labirinto allegorico di Ionesco o Beckett La simile la risposta di uno dei due assassini al PM, non so. La città dei vivi è il romanzo di un virus del “non lo so”, del “boh”, del non senso, dell’approssimazione, del possibile, tutto è possibile, compreso l’orrore. In questo Somiglia – la città dei vivi – alla città che racconta, Roma.

2.       Roma e me (nota personale)

 

Roma è una città che io ho lasciato, proprio quando Nicola Lagioia esordiva col primo libro e la abitava da poco, la descrizione della città corrisponde a come la percepisco, in quanto luogo di nascita e dunque “mamma Roma “per me, ma come tale (quasi in un racconto biblico secondo la lettura di James Hillman) è “Eva Roma” la traditrice. È una città che sprofonda, nella sua superficie di materia oscura. A Roma come il passato è presente e rimasto nella rovina, l’Averno non è sotto, ma è dentro, è nelle pieghe del suo barocchismo, come lo smog o il guano che si accumula nella bellezza delle sue facciate di chiese.

Roma, non è una città “trascendente” dice un certo punto lo scrittore è una città molto materiale, tuttavia, è una città in cui pur senza Dio (è la città di Dio, nel senso che tutto sembra esistere meno che Dio, riprendendo la definizione agostiniana di Francesco Pecoraro altro scrittore in cui la città “agisce” narrativamente). Pur senza Dio è tuttavia una città in cui soprannaturale “accade”, del resto l’incipit del romanzo, con quei segni di morte e sangue nel banale (ma determinante per Roma come i lanzichenecchi) bailamme del turismo, col topo morto, il sangue che cola, già ci proiettano in un’atmosfera horror – ma quasi più da cinema, arte che a Roma non è casuale, Roma è il Cinema e viceversa, come Fellini insegna, ma è proprio la verità della cronaca a essere cinema)

Il soprannaturale a Roma accade nelle cose, anche se è un trucco o ha una spiegazione, accade nella materia. Sì, ci sono delle presenze in questa città. Ci sono nei mattoni, i mattoni di cui parla appunto Francesco Pecoraro la sua fabbrica di mattoni. Il “Mattone” (che ambivalenza sarebbe, questa solidità del mattone e questo “sellerone matto” un tipo corpulento e folle e Roma è appunto solida e al tempo stesso un organismo corpulento e imprevedibile). Il Mattone dunque, Elemento principale della devastazione urbana di Roma, che  è – per dirla con la parole di Lagioia che non a caso aveva nel padre della famiglia al centro del suo romanzo-Strega un imprenditore edile, di quella devastazione urbana che oggi si può vedere lungo le tangenziali  del barese-foggiano -  la “ferocia” di Roma da sempre, i palazzinari come oggi è la “cocaina” il collante invisibile di tutti gli affari della città che non sa essere di sviluppo ma da sempre di rimestamento.

C’è il mattone raccontato punto da Francesco Pecoraro della sua Valle Aurelia e del mattone che dà sempre viene costruito, ma segnato anche da questo soprannaturale, della trasmissione del tempo che non è Storia, lo è apparentemente, è invece teatro di immobilità. Un soprannaturale storico-metafisico. Metafisico nel senso che sta nella materia come un’allure, uno strato di olio sacro delle icone che qui invece è un “trasudare”, una patina, tra il sangue, il sudore, le lacrime che è costato erigere questa città – e lo zozzo. Significativa la parte in cui Nicola Lagioia insieme alla troupe-tv de La 7 entrano nel palazzo dove si è compiuto l'omicidio e improvvisamente il cameraman percepisce l'odore del sangue (Tanto per dirla con il classico).

Il sangue dell’omicidio – che dobbiamo ricordare il sangue versato da Romolo mentre apprestavano il primo “piano regolatore” dell’Urbe, fatto con l’aratro? – ma pure il sangue versato per costruire le glorie, il bottino di sangue strappato ai poli conquistati, il sangue versato degli schivi che l’hanno eretta e a tempo stesso sia sempre quella città che sta per “crollare su sé stessa” – scrive Lagioia – “lasciando intravedere una città anteriore”.

È il peculiare “odore del sangue” di un Romanzo che ha Roma come scena del crimine, una città che è essa stessa scena del crimine che l’ha fondata

 al tempo stesso che questo palazzo è come una scena biblica segnati da un destino è a Roma sono i mattoni che guidano il destino, del resto, come viene detto in un'altra battuta “il principale clan mafioso e criminale di Roma non sono i Casamonica ma sono dei palazzinari”. La fine del mondo è fatta non con la distruzione di Babele, ma con l’erezione di Babele-Roma, dei palazzi (e erezione in questa città maschia, il cui fascino maschilista si espande limaccioso anche sulle femministe più solide). Roma è “Palazzo”, del resto, Potere del palazzo.

È proprio la devastazione del palazzinaro, Che fa da sfondo alla tragedia esattamente come la devastazione del palazzinaro fa da sfondo alla tragicommedia tipo “C’eravamo tanto amati”. Infondo quell'elemento del palazzinaro che rovina l'Italia rovina l'Italia. Non è un caso che a Roma siano le rovine la vera presenza di una sua natura feroce, Le rovine che sono contengono il sangue. Di chi lo ha sputato per costruirle e di chi ha tramato e ucciso per conquistarle.

La rovina è il segno di una immobilità del tempo. Non di una sua trasformazione storica. A Roma tutto quello che viene costruito non diventa lo scintillante futuro, Per cui abbiamo ancora oggi l'ammirazione per i grattacieli newyorkesi costruiti negli anni 40 e ci sembrano sempre lo scenario di una Città Futura.
A Roma, anche se costruisci La nuvola di Fuksas, già la percepisci come rovina (e del resto era abbandonata all’Eur) percepisci la sua devastazione la sua morte in questa consapevolezza che tutto deve finire.

Di questo Dio che promette un’eternità alla città, nel suo ciclico morire e finire, nel suo essere sempre la decadenza, abita la Città.

La storia è trasformazione anche in questo suo lato Aufhebung, direbbe Hegel, morte e rigenerazione, una dialettica continua. A Roma domina la morte come costruzione, costruzione in rovina così come la vita pubblica è dominata dalla Monnezza, che non si riesce a trasformare ovvero riciclare, in niente se non in altra monnezza e a volte residui di monnezza già diventano “rovina” come le buche di cui ce ne sono alcune “storiche”. La violenza psichica e la violazione della legge sono “l’ordine e la legge” di Roma, la legge l’ordine di oggi che è avvolta in un suo “grottesco ristagno” pubblico. L’unità sotto vive, il futuro però è incerto. Tanta storia, anzi, forse incrementata dalla mitologia fake e turistica, e da una certa diffusione della cultura di destra, stanno diradando la possibilità di un futuro. L’orgoglio di Roma è prettamente nostalgico, la Roma de na vorta era già cantata nell’800 quando era già “na vorta”.

E tale deve rimanere impossibile una trasformazione verso il futuro un cambio anche un abbattimento per costruire qualcosa di nuovo, tutto rimane com'è, questa Stasi immobile del tempo, come scrive un certo punto Nicola Lagioia. Dentro il palazzo dove abitava a Manuel Foffo sentendo quasi una segnatura quasi soprannaturale delle pietre che costruisce la massa che porta - scrive la gioia – “il tempo a rallentare fino a sfiorare una Stasi dove non c'era Quiete ma solo idiozia solitudine e disperazione”.

 

 

 

Una profilassi concentrazionaria individuale perché a lock down della seconda Ondata aggiungo anche il fatto che in questi giorni in cui lo leggo. Sono in quarantena da contatto con un positivo (ora che pubblico questa nota tutto si è risolto in tampone negativo). La strana sensazione è che nel chiuso di un appartamento, estenuato da giorni richiuso nell’universo concentrazionario del mio soggiorno studio, “senta” qualcosa della violenza e angoscia dello stare richiusi per giorni di Manuel e marco.

 Un contagio del nulla. In realtà della fine. O degli effetti postumi delle droghe, come l’MDMA, la cocaina, quando entri nella specie di camera barica dei postumi questa estrema prevenzione salutare della quarantena gli somiglia. A quel “dopo” agli effetti del dopo, Foffo e --- non sono mai arrivati, se non con un omicidio sulla coscienza. Sono entrati nel tunnel dell'orrore. Quanto leggo di quel tunnel da questo limbo?

1 commento:

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