1.
La questione “Roma”:
Mi sembra che il titolo sia azzeccato, perché qui la città è
la coprotagonista e al tempo stesso “architettrice” quasi inesorabile dei
destini. La città che guida con i suoi movimenti sotterranei quasi un suo
carattere un suo stato la sua evoluzione e una trasformazione verso questo
sfacelo. Certo, si dirà, Roma non c’entra, altrimenti è un diverso
determinismo. In realtà Roma nel romanzo secondo me non è presente solo per il
degrado o l’inferno, ma è anche l’irriducibile sua grandezza, vitalità, come nel
titolo, di un’umanità che è viva e nella storia. Il suo degrado attuale, la sua
cultura diffusa coatta e violenta, l’abbandono che vi si respira non vanno
negate, ma non sono un ‘anima della città anche perché una città non ha un’anima,
ha sola la sua storia. Lagioia è un romanziere e anche un po’ “Annales del presente” e
oggi la storia di Roma è questa qua, dei topi morti dei gabbiani cattivi, della
violenza omofoba, dell’aggressività.
tra l'altro la "zona del crimine" non è soltanto la mia, che solcavo in macchina a vent'anni, quando non c'erano i palazzi di via Igino Giordani, ma era tutto pratone, a cercare paradisi artificiali e illegali. E' anche una zona letteraria: Pasolini, primo su tutti - da Rebibbia a Pietralata alla Tiburtina, poi in ambiti più recenti, anche altri autri: Torrebruna (il "tocco magico" la scuola di parruchciere, è lì a due passi, nel titolo di un libro credo edito proprio da Lagioia tra i primi "nichel" di minimumfax e storia in cui c'era sullo sfondo una morte che percorreva Roma nel sottosuolo, quella di Alfredino Rampi) Desiati, Durastanti, e poi uno splendido reportage di Siti su Repubblica e uno altrettanto bello di Stefano Ciavatta, e poi ora Lagioia. Sotto la mappa.
Del romanzo, ad esempio questo senso di sbrindellamento della città c'è anche in figure
di contorno, ad esempio personalmente la figura più misteriosa per me è una specie di accattone di oggi, “Alex tiburtina” la sua esistenza meriterebbe
un romanzo a sé, perché il suo dire “sì” alla richiesta di Manuel e Marco alle
4 del mattino, mentre si trovava senza soldi e dall’altra parte della città, il
suo entrare dopo un viaggio in taxi con
gli ultimi dieci euro in tasca nella casa e tentare di fare una precaria e
allucinata conversazione, è uno dei pezzi dell’assurdo più incredibili che io
abbia letto ed è un fatto vero, non è frutto del labirinto allegorico di Ionesco
o Beckett La simile la risposta di uno dei due assassini al PM, non so. La
città dei vivi è il romanzo di un virus del “non lo so”, del “boh”, del non
senso, dell’approssimazione, del possibile, tutto è possibile, compreso
l’orrore. In questo Somiglia – la città dei vivi – alla città che racconta,
Roma.
2.
Roma e me (nota personale)
Roma è una città che io ho lasciato, proprio quando Nicola Lagioia
esordiva col primo libro e la abitava da poco, la descrizione della città
corrisponde a come la percepisco, in quanto luogo di nascita e dunque “mamma Roma
“per me, ma come tale (quasi in un racconto biblico secondo la lettura di James
Hillman) è “Eva Roma” la traditrice. È una città che sprofonda, nella sua
superficie di materia oscura. A Roma come il passato è presente e rimasto nella
rovina, l’Averno non è sotto, ma è dentro, è nelle pieghe del suo barocchismo,
come lo smog o il guano che si accumula nella bellezza delle sue facciate di chiese.
Roma, non è una città “trascendente” dice un certo punto lo
scrittore è una città molto materiale, tuttavia, è una città in cui pur senza
Dio (è la città di Dio, nel senso che tutto sembra esistere meno che Dio,
riprendendo la definizione agostiniana di Francesco Pecoraro altro scrittore in
cui la città “agisce” narrativamente). Pur senza Dio è tuttavia una città in
cui soprannaturale “accade”, del resto l’incipit del romanzo, con quei segni di
morte e sangue nel banale (ma determinante per Roma come i lanzichenecchi)
bailamme del turismo, col topo morto, il sangue che cola, già ci proiettano in un’atmosfera
horror – ma quasi più da cinema, arte che a Roma non è casuale, Roma è il
Cinema e viceversa, come Fellini insegna, ma è proprio la verità della cronaca
a essere cinema)
Il soprannaturale a Roma accade nelle cose, anche se è un
trucco o ha una spiegazione, accade nella materia. Sì, ci sono delle presenze
in questa città. Ci sono nei mattoni, i mattoni di cui parla appunto Francesco
Pecoraro la sua fabbrica di mattoni. Il “Mattone” (che ambivalenza sarebbe,
questa solidità del mattone e questo “sellerone matto” un tipo corpulento e
folle e Roma è appunto solida e al tempo stesso un organismo corpulento e
imprevedibile). Il Mattone dunque, Elemento principale della devastazione
urbana di Roma, che è – per dirla con la
parole di Lagioia che non a caso aveva nel padre della famiglia al centro del
suo romanzo-Strega un imprenditore edile, di quella devastazione urbana che
oggi si può vedere lungo le tangenziali
del barese-foggiano - la
“ferocia” di Roma da sempre, i palazzinari come oggi è la “cocaina” il collante
invisibile di tutti gli affari della città che non sa essere di sviluppo ma da
sempre di rimestamento.
C’è il mattone raccontato punto da Francesco Pecoraro della
sua Valle Aurelia e del mattone che dà sempre viene costruito, ma segnato anche
da questo soprannaturale, della trasmissione del tempo che non è Storia, lo è apparentemente,
è invece teatro di immobilità. Un soprannaturale storico-metafisico. Metafisico
nel senso che sta nella materia come un’allure, uno strato di olio sacro delle
icone che qui invece è un “trasudare”, una patina, tra il sangue, il sudore, le
lacrime che è costato erigere questa città – e lo zozzo. Significativa la parte
in cui Nicola Lagioia insieme alla troupe-tv de La 7 entrano nel palazzo dove
si è compiuto l'omicidio e improvvisamente il cameraman percepisce l'odore
del sangue (Tanto per dirla con il classico).
Il sangue dell’omicidio – che dobbiamo ricordare il sangue
versato da Romolo mentre apprestavano il primo “piano regolatore” dell’Urbe,
fatto con l’aratro? – ma pure il sangue versato per costruire le glorie, il
bottino di sangue strappato ai poli conquistati, il sangue versato degli schivi
che l’hanno eretta e a tempo stesso sia sempre quella città che sta per
“crollare su sé stessa” – scrive Lagioia – “lasciando intravedere una città
anteriore”.
È il peculiare “odore del sangue” di un Romanzo che ha Roma
come scena del crimine, una città che è essa stessa scena del crimine che l’ha
fondata
al tempo stesso che
questo palazzo è come una scena biblica segnati da un destino è a Roma sono i
mattoni che guidano il destino, del resto, come viene detto in un'altra battuta
“il principale clan mafioso e criminale di Roma non sono i Casamonica ma sono
dei palazzinari”. La fine del mondo è fatta non con la distruzione di Babele,
ma con l’erezione di Babele-Roma, dei palazzi (e erezione in questa città
maschia, il cui fascino maschilista si espande limaccioso anche sulle
femministe più solide). Roma è “Palazzo”, del resto, Potere del palazzo.
È proprio la devastazione del palazzinaro, Che fa da sfondo
alla tragedia esattamente come la devastazione del palazzinaro fa da sfondo alla
tragicommedia tipo “C’eravamo tanto amati”. Infondo quell'elemento del
palazzinaro che rovina l'Italia rovina l'Italia. Non è un caso che a Roma siano
le rovine la vera presenza di una sua natura feroce, Le rovine che sono
contengono il sangue. Di chi lo ha sputato per costruirle e di chi ha tramato e
ucciso per conquistarle.
La rovina è il segno di una immobilità del tempo. Non di una
sua trasformazione storica. A Roma tutto quello che viene costruito non diventa
lo scintillante futuro, Per cui abbiamo ancora oggi l'ammirazione per i
grattacieli newyorkesi costruiti negli anni 40 e ci sembrano sempre lo scenario
di una Città Futura.
A Roma, anche se costruisci La nuvola di Fuksas, già la percepisci come rovina
(e del resto era abbandonata all’Eur) percepisci la sua devastazione la sua
morte in questa consapevolezza che tutto deve finire.
Di questo Dio che promette un’eternità alla città, nel suo
ciclico morire e finire, nel suo essere sempre la decadenza, abita la Città.
La storia è trasformazione anche in questo suo lato
Aufhebung, direbbe Hegel, morte e rigenerazione, una dialettica continua. A Roma
domina la morte come costruzione, costruzione in rovina così come la vita
pubblica è dominata dalla Monnezza, che non si riesce a trasformare ovvero riciclare,
in niente se non in altra monnezza e a volte residui di monnezza già diventano
“rovina” come le buche di cui ce ne sono alcune “storiche”. La violenza
psichica e la violazione della legge sono “l’ordine e la legge” di Roma, la
legge l’ordine di oggi che è avvolta in un suo “grottesco ristagno” pubblico.
L’unità sotto vive, il futuro però è incerto. Tanta storia, anzi, forse
incrementata dalla mitologia fake e turistica, e da una certa diffusione della
cultura di destra, stanno diradando la possibilità di un futuro. L’orgoglio di
Roma è prettamente nostalgico, la Roma de na vorta era già cantata
nell’800 quando era già “na vorta”.
E tale deve rimanere impossibile una trasformazione verso il
futuro un cambio anche un abbattimento per costruire qualcosa di nuovo, tutto rimane
com'è, questa Stasi immobile del tempo, come scrive un certo punto Nicola Lagioia.
Dentro il palazzo dove abitava a Manuel Foffo sentendo quasi una segnatura
quasi soprannaturale delle pietre che costruisce la massa che porta - scrive la
gioia – “il tempo a rallentare fino a sfiorare una Stasi dove non c'era Quiete
ma solo idiozia solitudine e disperazione”.
Una profilassi concentrazionaria individuale perché a lock
down della seconda Ondata aggiungo anche il fatto che in questi giorni in cui
lo leggo. Sono in quarantena da contatto con un positivo (ora che pubblico
questa nota tutto si è risolto in tampone negativo). La strana sensazione è
che nel chiuso di un appartamento, estenuato da giorni richiuso nell’universo
concentrazionario del mio soggiorno studio, “senta” qualcosa della violenza e
angoscia dello stare richiusi per giorni di Manuel e marco.
Un contagio del
nulla. In realtà della fine. O degli effetti postumi delle droghe, come l’MDMA,
la cocaina, quando entri nella specie di camera barica dei postumi questa
estrema prevenzione salutare della quarantena gli somiglia. A quel “dopo” agli
effetti del dopo, Foffo e --- non sono mai arrivati, se non con un omicidio
sulla coscienza. Sono entrati nel tunnel dell'orrore. Quanto leggo di quel
tunnel da questo limbo?
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