mercoledì 23 marzo 2016

CARMEN PELLEGRINO "Cade la terra" (Giunti)

Ho letto con un mesi di ritardo, forse un anno, “Cade la terradi Carmen Pellegrino, anche se ne avevo letto così come avevo seguito della sua attività di abbandonologa. Però il romanzo era rimasto sullo scaffale, tra quelli da leggere. Nel futuro, ma di fatto era abbandonato.
E di questa strana miscela di un passato abbandonato che preme sul futuro che è fatto questo libro e quasi, magicamente, l’oggetto stesso, il manufatto edito da Giunti se ne era intriso.
Magico è una parola chiave, per il Sud (Ernesto De Martino, se non altro, seppure non ci incateniamo a nessuna definizione)  e per questo libro.

Un romanzo nato da un lavoro di ricerca, tra luoghi reali e carte,  centrato nell’immaginaria Alento, piccola Macondo delle montagne che identifico campane, sovrapponendole alle terre d’origine dell’autrice, alle cui terre appartengono ad una vena aurea di un sottosuolo tanto cavo, franoso, instabile quanto ricco del mormorio dei morti, dei rituali che sono stati (forse sono?) antichi duri a morire.

La storia è simbolica: c'è Alento, paese che ha cominciato a franare, in un passato che pian piano si comprende siano gli anni del dopoguerra -  e una casa, con un grande olmo vicino, quella dei ricchi De Paolis dove arriva a lavorare una ragazza, Estella scappata dalla sua stessa vocazione di clausura monacale, che diventa istitutrice del poco più giovane adolescente Marcello, figlio riottoso e insofferente. Conoscerà – e assorbirà per donarla in voce di prima persona al racconto di Carmen Pellegrino – le storie di vinti e fangosi contadini, parenti lontani, ma non troppo,  dei cafoni di Silone, Alvaro e degli umili di tutta una storia letteraria di un secolo che quelle masse aveva cercate di portarle ad un riscatto.
 Come dei Goylem, fatti di fango e da trasformare in persone, i contadini erano come dei “nati morti” che cercavano nuovi giorni a vivere.  In qualche modo Carmen Pellegrino scrive di un ritorno nell’ombra di tutti i vinti del 900, rievocando e chiudendo un tempo, secolare in cui masse di contadini si sono spostati, senza vincere nulla, anzi: sono i Vinti, nella Storia.

Mi colpisce però che Carmen Pellegrino arrivi a pubblicare, casualmente - o magicamente? - ,  proprio nei giorni in cui masse di persone stavano vivendo un collettivo spaesamento, abbandonando terre, una perdita di orizzonte e presenza - cosa che nel nostro sud non è più vera: è terra piena di arretratezze e di angoli ispidi, sacche di povertà, degrado, però tutto sommato fa  parte  di un occidente del benessere, se paragonato alla somalia, alla Siria della guerra, all'Africa, alla Libia ecc- Un occidente che s'è fatto anche con la sofferenza del lavoro o di chi partì, magari non tornare più, come i figli della contadina Mariuccia, donna arcigna ma capace però di gesti antichi e fondamentali. Con lei anche altre storie si dipanano dai ricordi di Estella, che ben presto, quando anche i suoi padroni lasceranno la casa franante del paese, nell’acme del secolo ( quegli anni 60 che altrove esplodevano di vita cittadina e di milioni di migranti italiani che si inurbavano)  diventerà custode della casa dell’Olmo e unica abitante, rimasta a ricordare.

 Attraverso di lei scorrono le vite di Cola Forti, coi suoi ideali mai realizzati,  la delusione di sua figlia Libera, una delle tante sventurate senza risposta,  la vana speranza di Giacinto di avere un berretto che ne sancisca formalmente la sua funzione di guardia o “guardio”  – un racconto in sé magistrale tra Totò e Checov, l’angoscia della storia dei Parisi, il duro Consiglio, la moglie Custoda, la figlia Lucia, emblema di un meridione contadino ottuso e al tempo stesso vittima infinita. O anche il piccolo industrioso Maccabeo con la sua bottega, che il secolo lo inaugura concimando coi corpi e il sangue dei figli altre terre “irredente” parte di una patria fino a quel momento inesistente e mai pronunciata nel suo nome “Italia”. Estella che resta nella casa e nel paese franoso fino al completo abbandono, sarà poi la custode di memoria e di presenza.

E dunque mi chiedo: Che senso ha però raccontare questa storia, suo modo è una Spoon River ambientata tra le frasche che sventolano sul fiume Alento, quello vero, oggi?
 Non ripeto tutto quello che di buono si è scritto per "Cade la terra" e che condivido – trovate la recensioni qui nella pagina Giunti – ma vorrei ripartire da una domanda: perché Carmen Pellegrino decide di seguire questo filone?

ci sono alcuni "fuochi centrali"a cui il libro fa pensare, oltre, ripeto, tutto quello che è stato detto, possono essere materiali per  per una risposta multipla.

1) Carmen Pellegrino autrice di una generazione che ha initorno i trent'anni, abita una terra a sua volta abbandonata e senza più voce, ovvero non solo  la Letteratura del Meridione – quella di Silone, Alvaro, la poesia di Gatto, i saggi di De Martino – ma  forse la letteratura tout court, tra queste, prima tra tutte emblematica quella del coro di estinti, le voci dei poeti (che vivi o morti, parlano dalla medesima lontananza editoriale).
 Pellegrino è autrice esordiente, ma raffinata e consapevole, ha scritto un bel romanzo per celebrare lei stessa, e come Estella,  una ricca festa della presenza, abitando la soglia del romanzo dove possono convivere vivi e morti, prima tra tutti i poeti (nella nota finale se ne dà conto di questa consapevolezza e dei poeti, un lungo elenco da Leopardi a Gualtieri).  Dei poeti Pellegrino conserva la tradizione di scrittura, la forza e la cura di parola. Quel tanto di desueto, straniante, nella  terminologia e nella costruzione dei periodi, è un elemento felice di coerenza stilistica. Ma al tempo stesso non sta ricordando un mondo che ha conosciuto direttamente, è troppo giovane. Lo ha riscoperto dai libri, è un ritorno del rimosso di cui Carmen Pellegrino è – come Estella – una appassionata sacerdotessa, aggrappata a memorie anche non sue. Il rito della parole è quello che recupera i morti, ma pure quello che ne celebra una trasformazione che è stata un appuntamento con la storia, prossimo futuro, così come la loro storia di folla anonima di un secolo, non è stato altro che questo: un procedere verso un disfacimento e una gloria.

29 c'è lo sfondo reale del sud reale, fin troppo, quello della mutazione che porta dall'arcaico al postmoderno (la Taranta, da rito a showbiz, il folk come cartolina da turisti) la mafia, il pizzo, il mancato sviluppo,  la spaesamento anche senza abbandonare i paesi, e non può essere cancellato, mentre leggo le le atmosfere letterarie e rarefatte di Pellegrino, non cancellare dalla memoria il presente. Se da un lato c'è un mondo o una civiltà che sta per sprofondare definitivamente, dopo un lungo periodo di "omologazione"  in una sua dimensione ctonia,  una dimensione sotterranea, al confine tra la terra e  un  sottosuolo magico che ha qualcosa di carnale, sanguigno misterioso (l’abbandonologa Carmen Pellegrino, il paesologo Franco Arminio, il coppolone Vinicio Capossela, la poesia di Antonietta Gnerre attingono allo stesso pozzo).Se da un lato è anche vero che si sta usando il passato contadino per veicolare una merce (cibo, prodotti tipici, paesaggio rurale, eventi e  festival) ad suo turistico, e  il paradosso per "Cade la terra" è che diventi un'introduzione ad un qualche tour delle rovine, una sorta di baedeker per turisti consapevoli in cerca del vero sud.

Se da un lato non posso pensare anche a questo, dall'altro il libro parla anche al nostro presente, ma in un altro senso, credo. Lo spaesamento è ne senso del futuro. E i movimenti della Storia con le sue spinte in avanti affondante nelle macerie del passato, sono uno sfondo e il cuore del libro è l’umano. La sua sopravvivenza, nonostante la sparizione che - per molti protagonista del libro - inizia già durante la  vita, o meglio la loro sopravvivenza.  Per questo se da un  alto Estella sarà il viatico tra il mondo dei morti e quello dei vivi, con l'apoteosi di una cena joyciana dei morti, dall'altro porta a guardare più lontano, sempre verso sud.

3) guardare oggi a certi vivi stanno nella condizione di “nati morti”, nude vite, private di ogni chance e luogo?   Per questo a mio avviso le anime morte letterarie, comprese quelle evocate dal romanzo di Carmen Pellegrino, secondo me portano oggi nei campi dei rifugiati tra Siria e Turchia. Li sta il confine tra vivi e morti. 
  Non per voler sempre attualizzare, ma perché li si sta compiendo un altro passaggio e mutazione antropologica, oltre che una desertificazione e uno sgretolamento di ogni apparenza. Lasciare tutto, in una città franata dalle granate e girare come zombie per le rotte clandestine, vie dei canti che sanno solo in pochi e approdare in un altro paese, lontano dai propri minareti, proprio come il contadino calabrese di Marcellinara perse di vista il suo campanile dando un passaggio  proprio a De Martino.


4) Altro elemento è la manipolazione della morte. Ormai gli zombie sono un classico, ma i morti di Alento, creati da un'autrice di trent'anni circa, fanno pensare anche a certi romanzi di sci-fi o YA, consumati dalla generazione di Pellegrino,  in cui sopravvive sempre qualcosa di arcaico in certi eroi nel paesaggio post-atomico di un mondo crollato. Lo stesso è per il significativo ritorno dei "morti viventi" al successo tv  (la serie premiatissima  "Walking dead" e la francese (di Carrère, in parte) "Les revenants" anch'essa ambientata in un piccolo villaggio. E tutto sommato anche  il film “The revenant” racconta di  un 'morto' che torna al mondo dei vivi, e ci torna dentro un confronto diretto col mondo selvaggio della terra. 
Questa presenza della morte è un viatico vero il futuro. Non è solo rievocazione, ascolto di voci da un mondo abbandonato – che già è molto: sono  i morti, come Virgilio, a guidarci  in  “un secreto calle, / tra'l muro della terra e li martiri “ come ci ha poi ricordato anche Giorgio Caproni, vero la storia che resta ca compiere. Nostra e loro è una “guerra d’unghie” a scavare per aprire un varco, così come il loro scavare di talpe kafkiane, la poesia apre ancora verchi di un destino più segreto, l’odissea dei morti come dei vivi. 
E' significativo che ancora una volta, di recente, in un'Italia che soffre di un suo immobilismo storico, c'è una trentenne di oggi che parla così tanto dei morti ( colloco questo libro, assieme ad altri due recenti, ad esempio viciono a quelli di Di Fronzo e Peano), negli anni laici in cui ai funerali non si va o se si va, si cantano canzoni rock e si applaude, negli anni della fine definitiva del mondo che aveva un suo pianto rituale.
La generazione di Carmen Pellegrino forse più di tutti s’è confrontata insieme con la cancellazione del futuro e con un presente di “crolli” e morti” (come vediamo ancora in questi giorni)  e una possibilità di morire che è sempre presente in una pace apparente.
Allora il mondo di Alento, che non c'è più, è sparito. A cosa serva rievocarlo sta in un dettaglio, non a caso finale, chiuso in una lettera - ma il cui senso è: i destini possono cambiare. Cambiano, magicamente, anche per il morti, a maggior ragione cambiano per i vivi.

Concludendo: un libro che potrebbe esser letto come un’elegante “fuga”, melodiosa e accattivante, in un hortus conclusus in cui la terra di parole non frana e tuttavia protegge. in realtà, la resistenza di Estella nel tempo ai colpi di un destino feroce mi appare come una scommessa e un ponte verso il tempo che resta, che è pur sempre un futuro. E come certe donne che perdevano il marito da giovani e portavano il lutto per decenni – vivevano tuttavia quel futuro, tutto il loro tempo futuro,  segnato dal lutto ma vissuto. 

Ci prendiamo questo memento  da “Cade la terra”: abbiamo davanti un  futuro da pensare con i morti, attraverso il passato, anche se non ci appartiene,  perché  qualcosa nel futuro lo avremo. Sopravviva  in noi la coscienza – nel modo laterale dei poeti di ricordarcelo - che quello che strapperemo alla terra, tuttavia, sarà  quello che abbiamo già perso.

lunedì 21 marzo 2016

NICOLA GARDINI "La vita non vissuta" (Feltrinelli)

Nella sua storia di autore di romanzi, Nicola Gardini ha spesso fatto della questione del linguaggio. forse meglio, detto in modo semplice, diretto,  delle parole, un elemento di snodo concettuale, come della loro pregnanza nella vita. Poeta – con i versi inizia la sua storia di autore – romanziere, docente a Oxford di letteratura  , traduttore, Gardini ha fatto del suo continuo lavoro sulle parole anche un luogo di snodo di esperienze ed elemento chiave attraverso cui passano le sue storie.
A parte le sue prove poetiche  e quelle da traduttore (ultime per Ladolfi la raccolta “Stamattina” e l’antologia di “Tradurre è un bacio”) ad esempio  in due suoi romanzi precedenti, centrale nell’evoluzione della malattia del padre ne “Lo sconosciuto”  il  disfacimento linguistico del padre, accudito nella sua fase terminale della malattia dell’Alzhaimer, e quello sul “Le parole perdute di amelli Lyndt “ compilatrice di dizionari e maestra di vita e letture .

Anche questo ultimo “La vita non vissuta” (Feltrinelli)   è intessuto di parole, scavate tra esattezza e nouances, e da subito protagoniste fin dall’incipit, con la radice della parole latina “Virus”. La storia è infatti segnata dal Virus. E' quella di  Valerio,  un uomo di lettere (scrvie, insegna latino in un collegio americano), ha poco più di quarant'anni, una moglie, una figlia, 
la quiete passiva di un’ esistenza di marito e padre : una vita di fatto non vissuta a pieno. Lo sarà, quando Valerio riscoprirà la sua più intima radice del vero amare, custodita dall’adolescenza in una prima sfolgorante passione per un compagno di scuola. Ma il vero oggetto del romanzo è il passo successivo e pure collegato alla relazione di coppia (l’amore non è anche un contagio? Una malattia, per lo meno in una certa tradizione romantica) , ovvero la malattia.
 “La vita non vissuta” racconta infatti del confronto tra Valerio e la condizione di sieropositività che scoprirà poco tempo dopo la riscoperta dell’amore, con Paolo, giovane pittore che lo riama, ma che pure avrà la disavventura inconsapevole di contagiarlo. Valerio dovrà così fare i conti con una battaglia con il proprio corpo e con un “Avversario” invisibile e subdolo, che non è solo il virus  -  in anni in cui era ancora difficile la cura e il rischio – ma diventa l’identità mutante di Valerio stesso.
Alla notizia della malattia lo spettro della morte invade tutto lo spazio del vissuto, cose e parole, Valerio è costretto a diventare filologo di una malattia, capirne i sintomi, sapere le evoluzioni, le cure, attraverso le definizioni esatte dei sintomi, la precisione dei farmaci e della chimica. 

All’interrogazione continua, al vissuto drammatico e raccontato anche in tutta la sua banale deriva di degenerazione fisica (la banalità del malanno) sarà però opposta anche un’immediata e ansiosa voglia di vivere cose: e così la risposta di Paolo e Valerio saranno  viaggi, esperienze, amicizie cercate proprio a partire da quella condizione, quasi una rincorsa di una vita che potrebbe sfuggire da una momento all’altro. “Quante cose desideravo fare e quante di queste non le avevo ancora fatte per nulla o le avevo fatte solo in parte o male, o avevo smesso completamente di farle?” si chiede  Valerio. La vita non vissuta reclama. Eppure questa fame di vita, è anche desiderio di comprensione e di non lasciarsi sopraffare dal sentimento del tragico. inltre, Benché sia una storia cui la morte e l’amore sono sullo sfondo (l'uomo che ami e chie ti ama, ti contagia: che fare?)  questa non è una storia che prende una via  di neo-romanticismo. Tanto quanto c'è il rifiuto di arrendersi all'idea di malattia condizionante e assoluta, così l’amore per Valerio e Paolo cerca di sottrarsi a pulsioni e patologie dell'ego, come si è pensato per secoli, da Cavalcanti a Freud. Nel procedere di un monologare continuo interiore, che si trasforma in una presenza di  continue frasi interrogative – che quasi rallentano la storia, il fluire della narrazione, Valerio ppone la lucidità del pensiero all'eplosione delle emozioni.
Non per rifiutarle, ma per rivoluzionarne il senso. E in un passo che segna una svolta, con una sorta di illuminazione , Valerio si rende conto , un giorno,  sì, di essere un malato,  mentre è in una sala d'aspetto,  assieme a tanti altri malati come lui, ma si si accorge che il suo limite interiore è la vera malattia: quel limite è l'accentramento individuale sull'Io. Inseguiamo un affermazione di noi, il piacere, la realizzazione, il benessere. tutto molto legittimo, ma subdolamente è sempre l'Io al centro del nostro agire. E un malato, per via negativa è ancora più individualista e narciso. Nache chi pensa di "fare analisi" alla  fine è accentrato su di sé. 

Valerio invece comprende che bisogna scartare di lato o di fronte, verso l’ Altro : “basta con questa mania di distinguermi, basta con la fatica di avere un nome, un volto” . Cancellare l'io per cancellare l’egoismo e il narcisismo e  anche quando siamo malati, dice nel suo flusso contino di  voce narrante e meditativa Valerio, cerchiamo le ragioni nell’anima. In realtà è il corpo malato ed è la malattia del corpo che muta una coscienza o un ‘anima, non viceversa. E smettere con il continuo individuarsi ha un risvolto anche nella responsablità verso l’altro –  come dirà Valerio più volte all’amico anch’egli sieropositivo e che per la prima volta sente di essersi innamorato ma non ha il coraggio di dirlo all’uomo che ama. La malattia ha questo di buono invece:  sradica l’io da sé stesso, lo trasforma, non siamo più gli stessi dall’oggi al domani. E poi bisogna ascoltare il proprio corpo, per paradosso un ascolto dell’ “altro” che abbiamo scoperto in noi.

Se l’amore è stato fino ad ora proiezione “ sforzo di identificazione … con un fantasma che con l’altro reale non ha nulla a che vedere” come era per il suo primo amore giovanile, ora la malattia fa compiere una rivoluzione etica copernicana. Essere attenti all’altro, non essere l’altro o “essere altro da sé”. E’ nelle amicizie anche nella solidarietà della malattia che Valerio trova una nuova dimensione – con il suo compagno di classe ritrovato, Emanuele, … - anche nell’amore : quell’intreccio complesso di colpa e identificazione, di amore che colma una mancanza e alimenta una ferita, alla luce della malattia diventano un veleno-Bovary. “dovevo rimanere con Paolo. Solo così la malattia sarebbe  diventata una libertà”. Essere vivi sotto gli occhi dell’altro, solo questo il superamento di ogni ambiguità dell’amore. 

Anche scrivere corre questo rischio: di trasformarci in Bovary, non in Flaubert.

Il moteore dell'Io è il desiderio. non lo si può condannare moralmente, certo, chi non desidera viaggiare, fare cose belle? Valerio alla  luce della possibilità di morire, ad esempio elenca tutte le cose che desiderava fare e non era ancora  riuscito a fare: la vita non vissuta, che però ci porta sempre ad inseguire i nostri desideri pria di tutto. 
La possibilità di non soddisfare tutti i nostri desideri non deve  però diventare un’angoscia tagica, non possiamo subire il ricatto frustrante del desiderio. Qui sta l’elemento chiave e il nucleo morale del un romanzo, ed è la malattia a rivelarlo.  Desiderare è una perdita.  Valerio non è Ulisse. Viaggerà, anche fisicamente,  insieme a Paolo, e non a caso, cercherà con sforzo di volontà di occupare e abitare la vita del presente, la vita  attraverso l’accettazione della vita stessa, questo proprio per l’evidenza che la morte c’è. Ma non ad essere schiavi di un'ansia da accumulo di sé. E allora cede anche il desiderio, in Valerio di scrivere il romanzo  (“a un certo punto smisi di scrivere il mio romanzo “). Il romanzo deve nascere dalla comprensione esatta delle cose, non da una proiezione di un sé irrisolto. Ed è quello che fa il suo narratore, Gardini:  “Una storia si può raccontare solo quando si capisce che la propria condizione non è riducibile a una definizione di vocabolario”. “La vita non vissuta” è forse il romanzo che Valerio avrebbe dovuto scrivere, ma non sappiamo se e come lo scriverà. Di certo il perno della sua vità sarà a quel punto "fare" piuttosto che scrivere di sé.

 Qui si inserisce il senso delle scelte di Valerio con quelle narrative di Gardini: una storia che ha, avrebbe,  in sé tutti i connotati per cavalcarne la tigre dell’emotività, del romanticismo (anche Paolo manifesta drammaticamente i sintomi della malattia) ma anche dell’ambivalenza – si pensi al parallelo sturm und drang tempestoso che ne ha fatto Margaret Mazzantini –  ma pure un ricorso all’autofiction come ha fatto Siti. Gardini non fa nessuna delle due cose. “La vita non vissuta” è un romanzo della malattia, ma attraverso una sottrazione del romanzo ad un facile romanzesco   a favore di una lucidità cristallina che si riflette anche nello stile adottato da Gardini.  ” Il malato deve, a posteriori, inventarsi un destino, proprio come Dante nella Vita Nuova.” Ecco, l’invenzione è, deve essere,  a  posteriori, prendendo atto del nuovo dato reale: emozioni, sentimenti, mutazioni ci sono, ma analizzate con sguardo lucido come un Resoconto dettagliato, un reportage del vissuto banale  –  o referto potremmo  dire, perché di referti e dettagli medici in questo libro è pieno, a dare testimonianza di ciò che è, ciò che è stato. E non è un caso che  dalla coscienza che si fa lucida e informata nascerà la piccola svolta finale per il destino dell’amico Emanuele, anch’egli sieropositivo.

Il resoconto esprime il concreto del fare scelto da Valerio. Un vivere incessante negli attimi del vissuto. “Cercare e perdere la vita ad ogni momento” si dice Valerio alla fine. Ecco, non l’Ecce homo, ma il  “Quod egi” ovvero "quello che ho fatto"  diventerà il motto di Valerio. Concretezza, poiesis che si riprende la sua etimologia: fare.

Questo di Nicola Gardini è un libro da cui ho imparato molto, ho seguito il percorso e la concretezza della vita di Valerio, ho vissuto una vita che non è la mia, ho saputo della sua intimità fisica e delle sue emozioni interiori, conoscendo aspetti della sieropositività che mai avevo saputo. E forse mai avrei immaginato. Invece sono reali. E così il realismo illuminista e civile di Gardini pota il romanzo fuori al romanzesco, attraverso un resoconto di verità. Non ricordo chi fosse, fose Bachtin o Barthes, che aveva detto : un romanzo può essere realista quanto si vuole, ma non sarà mai tale: infatti non si vede Anna karenina quando fa la cacca. Ecco, per certi aspetti, ci sono anche momenti e resoconti minimi, al grado più basso possibile di oggettività nel calvario di Paolo e Valerio con la loro battaglia contro la malattia. Per questo, “la vita non vissuta” è un romanzo che provoca gratitudine, è illuminante oltre che illuminista. La realtà prende corpo in parole chiare e dirette, senza il trucco del patetico. Romanzo civile, non mi viene altra espressione. “ll malato è uno che sa che qualcosa è accaduto; e che lui è la viva espressione di quell’accadimento, ora e per sempre.” Ora lo so anche io, lettore.



lunedì 14 marzo 2016

MARCO PEANO "l'invenzione della madre": un romanzo e altre narrazioni e opere sul lutto.



il romanzo di Marco PeanoL'invenzione della madre” (Minimumfax) è un romanzo in cui ancora una volta ci si confronta con il lutto e con la morte di una persona cara. Ancora una volta perché, a fronte di un tema universale, va registrata una certa ricorrenza negli ultimi tempi, sul piano editoriale (Kanusgard, McDonald, Di Fronzo, Ernaux e altri).
 In un' epoca che – come scriveva già Philip Ariès molti anni fa – tende se non a cancellare ad anestetizzarla, quando accade si ripropone spoglia e senza argini valoriali. Un uragano muto. LA morte poi, essendo stata la sua celebrazione, l'inizio della rappresentazione e del linguaggio, da sempre, ad ogni cambio d'epoca, nella forma del suo esser raccontata, segnala cambi di codici.

Nel libro di Peano  il lutto per la madre diventa anche un' elaborazione di una relazione d'amore e della sua dimensione totale.Come dovrebbe essere l'esperienza del lutto quando muore chi ci genera. Ma come ne facciamo esperienza? Ed è sempre la stessa esperienza o magari oggi, per una persona giovane di oggi segnala anche un'inesperienza sempre frustrante?  (per dirla con Antonio Scurati - "Letteratura dell'inesperienza").
L'uso delle immagini in Peano, l'elemento dell'immagine in relazione alla scomparsa della madre, pur non essendo ancora immersa in quel fluxus continuo che proprio in questi ultimissimi anni la foto (l'arco temporale narrato va dalla fine dei 90 ai primi anni del 2000), contraddistingue questo libro, e forse ne evidenzia una specificità contemporanea, rispetto all'esperienza della morte.  La mancanza è universale, come riempirla o crearne un simulacro, no.

 Il rapporto con una madre che resta forse la radice di tutte le relazioni e l'unica esperienza di “totalità”, cozza oggi con un'epoca che ha decostruito, reso relative, tutte le nozioni, le idee, di universalità, ha "liquidato" l'amore, pur facendolo sopravvivere nell'immaginario cine-mediatico nella sua forma più banale e romanticheggiante.
. Quel che mi ha colpito in Peano è che - letto e pubblicato oggi, 2015, questo libro nel giro di pochi anni rispetto alla colocazione della sua storia, diventi agli occhi del lettore di oggi anche narrazione di un passaggio epocale e di una distanza storica. Quando e dove  lei  c'era , era un “altro tempo” – ed epoca (basterebbe pensare già a suo tempo ovviamente al libro di Bendetta Tobagi o di recente quello, diverso,  di Nadia Terranova).
 Tornando a “L’invenzione della madre”: il protagonista è lo studente Mattia, che apprende ben presto che la madre malata di tumore,  non si salverà. Da qui quella totalità in perdita, si tramuta in pratica di dilatazione e rallentamento : del tempo, del ricordo, del pensiero, del linguaggio, dei movimenti, del movimento della propria vita.. Mattia, studia, lavora in una videoteca ed è appassionato di film, ha una fidanzata: tutto si sposterà in secondo piano,  della morte, nessun  momento potrà essere sprecato, neanche un istante dell’esistenza. Da qui la prima conseguenza sullo stile che come tutte le narrazioni di lutto si concentra in modo ossessivo sui dettagli.

Il lutto si addice alla metonimia, al fotogramma.  Come se la scrittura nel farsi dettagliata (tipico)  fosse anche una sorta di rallentamento temporale della morte, da parte di Mattia,  in una narrazione che è tuttavia anche di Peano, e dichiaratamente autobiografica. Ed è una dichiarazione di poetica oltre che una posizione valoriale.

 Il primo effetto che noto è infatti biografico-culturale: Marco Peano è del 1979, se la sua autobiografia va a sovrapporsi a Mattia, i suoi studi lo portano tra la fine del XX secolo e poco dopo l'11 settembre. Non viene mai citato il tempo storico, ma il dettaglio degli oggetti della vita quotidiana di Mattia diventano, ai miei occhi di lettore di oggi, 2015/2016 non tanto la forma di un diario di un lutto,nel presente,  ma il congelamento di un passato che – complice l’evoluzione rapidissima della storia umana e tecnologica – colloca quasi involontariamente questa registrazione di lutto in un tempo molto lontano, in un circuito chiuso di ricordi, facendo del memento mori Storia,  memoria – con un preciso aggancio, esplicitato nel libro:  “nel 1997 i DVD vennero immessi sul mercato e nello stesso anno cominciarono a manifestarsi i segni della malattia di mia madre”.

Insomma:il lutto cambia tanto quanto cambia il modo e l'esperienza del suo vissuto e della sua conservazione - mettere un vestito nero o lasciarsi crescere la barba era per avere sempre un segnalatore ad ogni momento: ma oggi si può?

Il modo di conservare le immagini di chi è morto (VHS dvd, internet e ora facebook) sono  correlativo oggettivo non solo della decadenza fisica e biologica, ma anche del senso stesso dell'esperienza di cosa conserviamo della morte, dell'esperienza della morte alla l luce di questa trasformazione rapida del mondo degli oggetti e della Storia occidentale che sarà determinante nel libro per tenere la memoria della stessa madre.


 Trasferito nelle cose è il pensiero della morte, per sedarlo nei suoi effetti. (effetto-passato per un autore che mentre oggi pubblica il suo romanzo, sicuramente usa netflix e spotify non i CD e le videocassette) . Sono elementi Extratestuali, che stanno oltre la soglia del romanzo,  ma del resto la narrazione di un lutto, così come la condizione psichica del lutto si colloca proprio per statuto al confine, sulla soglia tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi.
Il romanzo è dunque per statuto, luttuoso. Ma si rivela insufficiente, specie perché il lutto oggi  diventa anche la perdita di una Storia. La morte si fa essa stessa straniante e desueta.
Mattia resta scosso, come capita a molti: la morte è destrutturante, depressiva, scatena accidia:   Comincia a vedere tutto in termine di perdita, dilatazione: ad esempio, inizia a rimandare l'appuntamento con i progetti. Nel pc di Mattia Il documento “tesi.doc” è fermo, mentre è dinamico quello “medicine.doc.” I nomi dei farmaci, precisi sono il segnale chiave di una parola-pharmakon che tuttavia può solo registrare il dettaglio. Anche il progetto di coppia si scolla, via via, ammutolisce. Dispare.
Il romanzo stesso dispare, scivola nella sua impotenza: alla prosa asciutta di Peano, che scrive come Narratore in terza persona,  fa da contrappunto il continuo ricorso di Mattia, in uno scivolamento di narrazione libera diretta, a comparazioni, accostamenti metaforici con dettagli e scene tratte da film, ma non solo, in ogni caso altri linguaggi: quasi a rendere esteriore l’acme simbolico, quasi a sottolineare di non aver finito le parole. E’ un dichiarato “rifugiarsi nelle immagini” un montaggi di fotogrammi, perché un genitore che muore, dice il narratore ma certo è anche un pensiero di Mattia,  “è come un film che hai visto da metà e di cui sei certo di ignorare molto”. Eppure per vederla basterebbe “andare di là “.

C’è inoltre un elemento ed è quello del futuro, per una generazione che non ne vede, la narrazione di lutto in un età giovane ha proprio la funzione di autorizzare la rinuncia al tempo futuro. Chi è nato alla fine degli anni 70 è senza futuro senza proclamarlo, come fecero i padri, che quel futuro lo hanno occupato fin troppo, come era di moda uralrlo nel 1977.
Loro lo sono in carne e ossa, quel futuro mancato. Il tempo davanti, all’annuncio della malattia
irrimediabile diventa concepito solo in “tempo che resta” come quello di cui chiedono Mattia e il padre alla dottoressa.  Se nel passato, generazioni che avevano proiettato la visione verso un avvenire e un’utopia, la morte era anche passaggio di consegne di generazione, simbolicamente per Mattia, poco più che ventenne all’alba del XXI secolo, la morte diventa la conferma che il tempo è finito. Mattia diventa “una videocamaera di carne” –  sogno alla 
Cronemberg, ma lungi dall’essere quell' incubo, è invece ormai ribaltato a conforto.

Tuttavia questa videocamera non trasmette, è un circuito chiuso, temporale e psicologico.    Ed è così che questa generazione tende a volgersi verso il passato molto più che le generazioni precedenti, tra vintage, hipster, vezzo: l'utopia per Mattia è quella dell’ “attimo”, ritagliato nel presente o nel passato, l’attimo in cui siamo felici  (ho conosciuto Peano come editor di Valerio Millefoglie) . È quel momento lì aurorale originario legato spesso tuttavia al privato al proprio ricordo personale dentro magari una dimensione storica dentro un ricordo collettivo, come capita anche a Mattia,  che
può far riandare agli oggetti cartoni animati ai gadget alle cose da consumare alle cose che si è vissuto, comprato, i film visti, le trasmissioni televisive dei cartoni animati tutto e immediatamente tutto è irrimediabilmente passato tutto è legato a questa dimensione “ri-uso” del passato. L’esistenza di mattia diventa così un gigantesco “giorno della memoria” – e non a caso questi sono gli anni in cui questo tempo esausto che è stato il secolo breve ha smesso la sua corsa, e si volta all’indietro, a cercare sempre più celebrazioni.
Mattia si concentra così sui dettagli dell’accudimento, con un eccesso, dal punto di vista narrativo, di tecnicismo, materico, di ostentazione della freddezza che è un mix di citazione letteraria ( l’archetipo di Albert Camus, “Lo straniero”) e fissazione feticistica luttuosa.

 Il libro di Peano del 2015 si lega benissimo ad un altro libro, del 2016, quello di Gabriele Di Fronzo “Il grande animale” (che con Peano condivide l'apparennza a quella  città ctonia ed egizia che è Torino) in cui il protagonista  è l’imbalsamatore perso anche lui nei dettagli,  anche lavorativi della sua professione, nella esattezza con cui elenca strumenti azioni e spiegazioni anche scientifiche della lavorazione del cadavere degli animali e che fanno da controcanto speculare ai dettagli dell’accudimento del corpo del padre). Scienza, tecnica, illustrazione iperrealista. Dettagli materici.
lo sguardo sulla morte così opaca e muta, è tuttavia fatto con lenti HD.


Ad esempio lo si vede nei film ed è presente anche in questi libri (in  Nanni Moretti (Stanza del figlio e Mia Madre) si ripete la scena del fissaggio della bara, filmata in modo così ravvicinato, come Peano racconta dell'odore che fa la chiusura di una bara).  Mattia segue con la prosa l’esattezza di malattia e morte, sempre lo stesso doppio binario: da un alto la morte ci rende gli occhi apertissimi e vediamo tutto con insolita esattezza anche i dettagli più banali (effetto MDMA) dall’altro non vediamo più nulla, nel complesso, siamo dentro un’opacità di occhi velati. Di certo, come nelle statue barocche, la sfida alla morte è nella piega e nella riproduzione della carne morta e fissata nel marmo: nell’esattezza. Lo dice in un incipit lo scrittore americano Rick Moody (Rosso americano) “Colui che conosca le pieghe e le complessità del corpo della propria madre, egli non morirà mai”.

L’esattezza della cura, come poi sarà della procedura funebre, c’è anche nel voler sapere: anche se Mattina è frustrato: “più cercavo informazioni in rete più mi deprimevo”; Altro dettaglio epocale: la malattia e la morte ai tempi di Google.

In realtà di fronte alla morte, non abbiamo bisogno di informazioni, ne abbiamo fin troppe, quel che manca è una necessità che taglia le epoche: abbiamo bisogno di un disegno, di una trama (il romanzo di Mattia non procede, è un succedersi avanti e indietro nello stesso lasso di tempo di brevi episodi divisi in capitoli e la narrazione sul lutto è spesso anche una meta-narrazione implicita). Necessità di scriverla dentro un destino: soltanto così la morte ha senso. Ci manca l'immaginazione del futuro, non solo le culture della consolazione religiosa . Un quadro di una storia, una trama.

La morte è disfacimento della casa, ma al tempo stesso archivio: Come Mattia che mete le mani tra le
cose della madre, le disperde e le conserva al tempo tesso. La nostra è una malattia dell’archivio, la coscienza un database. Un accostamento:  la registrazione del morente, della propria reale madre,   che ha fatto  Sophie Calle con la bellissima mostra “MaDre” (il gioco in fracese è “mere” mare/madre) in cui ha tra le altre cose, ripreso per settimane lo scivolamento verso la morte della madre rale, poi ne ha allestito un monumento-opera funebre,  vista tra l’altro a Rivoli di recente (ancora Torino città di memoria e lutto, di mistero, sangue, mummie egizie)

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  E alla Fondazione Merz, ho Pensato a Di Fronzo e Peano guardando anche la mostra di un autore dell'archivio, della memoria e della morte che si conserva nella materia: Christian Boltanski , con “Dopo”: scatole sotto lenzula, silenzio irreale, lenzuola a coprire forse il lavoro stesso di Boltanski dopo la sua morte - lui che sta immagazzinando quantità innumerevoli di dettagli e tracce anche anonime di esistenza per salvarle dall'oblio...  Mattia personaggio come Peano autore - e altri più o meno trentenni oggi -  appartengono alla generazione che negli anni “dopo” la morte dei genitori o di un genitore, coincidendo con l'epoca del dopo-900, si stanno preparando ad entrare negli anni dell'arrcivo evanescente, la rappresentazione continua e continuamente obliata del loro tempo personale nel diario di Facebook, si preparano ad offrirsi specchiati in un selfie agli occhi degli altri e li resteranno nella gran confusione di immagini, i nostri ricordi, come lacrime perdute nella pioggia.


Romeo Castellucci con “Sul concetto di volto nel figlio di 
Dio” aveva messo in scena nell’esposizione del corpo malato, morente e decadente di un padre
accudito, nulla sua evidenza scandalosa, una totale e perfetta assenza: quella di Dio, appunto. E sulla scena l’elemento più forte è stata la merda, che invade la vista. Va da sé che si pensa alla fase anale, alle feci, all’elemento di fissazione feticistica che questa nel “romanzo freudiano” così Mattia. Così Mattia ad un certo tempo si dice esasperato dalla impossibilità di poter curare la madre e mentre sta per arrivare a trovarla nell'altra stanza (un di là ripetuto, a prefigurare fin troppo evidentemente un aldià) si augura che la diarrea della madre quella notte sia così abbondante così violenta e  “pietosa” da seppellire tutti loro quando lui aprirà la porta.

no è solo morto Dio e assente suo figlio, il suo volto così fisso e muto e atarassico: è “la memoria, quella facoltà che reinventa da sempre nel lutto, ad essere oggi  morta. L’ossessione di Mattia  è quella di conservare e quella dell’ immagine riprodotta, nella debolezza del romanzesco :non solo i film associati a episodi personali, ma anche quando vede o pensa di vedere la madre in un pubblico televisivo, durante una trasmissione.

Il sesto senso che ci permette la presenza del defunto è postmediatico. I fantasmi sono anche loro  nel sistema della parcellizzazione totale delle immagini, che ora ci avvolge. Instagram è il codice nuovo. La morte rende assente ogni altra presenza simbolica: icone religiose e religioni su tutto. Faticosamente qualche oggetto, ma sono morti del passato – la bisnonna riesumata, la sua fede. Non sopravvive nei nastri delle video cassette, ma sopravvive in un file audio registrato inavvertitamente col cellulare, forse è confusa nella folla di spettatori di una trasmissione tv. Poltergeist. L’invenzione della madre è di fatto  la (sua, nostra)  riproducibilità tecnica di presenza. Il lutto è tale, la morte è tale solo se sta dentro questo sistema – e tutti gli episodi folcroristici della morte ai tempi di facebook in realtà sono dentro questo quadro: farsi un selfie tutti assieme nel giorno del funerale della madre e postarlo, non è più una degenerazione di un momento sacro, ma il memento necessario per superare il vuoto. Mattia vive la morte della madre prima di  facebook ma con la sua scrittura addizionata di immagini e frame di film è come se preparasse questo terreno.

Non è un caso che il “dopo”, il tempo che viene, senza essere tempo ovvero l’ultima parte dell romanzo è ancora meno “narrativa”, è un film dei ricordi ancora più  slegata dalla trama : trama, storia è quella della presenza in vita, il dopo è una serie di piccoli capitoli, ancora più frammentati, che  forse appesantiscono anche un po' il libro (anche l’ultima pagina “tutte le parole del mondo è troppo ostensiva, si capiva già tutto prima)   ma che al tempo stesso lo riempiono di ulteriori elementi di riflessione diventando quasi una sorta, qui si, un diario- saggio (e più debitrice dei “Dove lei non è” di Roland Barthes ma forse tutto il libro è bathesiano) .


Siamo alla Deriva senza approdo, nella parte finale del romanzo, la più incerta - come  quelal di Di Fronzo è invece la più forte e radicale - ma significativa nel suo essere  deracinè rispetto ad un ordine narrativo. Mattia , dopo, l'anno del "dopo", apre il computer di casa e legge una scritta inglese “This day will never Happen Again” . Condannati al presente, i  detriti della materia del passato accumulati ai piedi, ecco il non ancora trentenne Mattia che nella vecchia officina del nonno trova una foto della nonna quando era giovane e nei suoi occhi vede, con una preveggenza rivolta e cercata nel passato, come un Pollicino nei frame, come un tossico dove non c’è più nulla, la presenza della madre anche prima di lui, per poter immaginare i giorni che l'attendono e creare una trama che invece si è sfaldata per sempre: il futuro ha i tratti del passato che si preparava al nostro presente. Anche nella sua possibilità non percorsa .
Mattia rovistando trova anche un fascio di lettere indirizzate alla madre, da un altro uomo: fanno immaginare un “se” un’altra storia possibile, un altro padre: è il passato ormai l’unica fonte in cui possiamo immergerci in un ‘immaginazione del futuro. L’invenzione della madre è l’invenzione del futuro che poi siamo stati. O anche non siamo stati, in ogni caso: è lì che cerchiamo illuminazioni e intermittenze, e  risposte  a domande non ancora formulate.

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...