martedì 29 ottobre 2019

TOMMASO GIARTOSIO "come sarei felice" (Einaudi)


“Sei tornato. Non eri mai davvero morto” inizia così il pometto “le notti bianche, una delle sezioni di questa raccolta di poesie di Tommaso Giartosio  “Come sarei felice”(Einaudi)  il cui sottotitolo “Storia con padre” già allude al suo carattere narrativo, di confronto, ma come in un abbraccio, con la figura dell’Altro-Padre. Un doppio ritratto di sé narciso, inevitabilmente narciso ( questo siamo, chiunqe di noi riflette su sé,  specchiandosi in sé o in una pagina di libro, letta o scritta).

Giartosio è uno scrittore originale, i suoi libri singolari, colti e preziosi ( sempre a cavallo tra autobiografia saggio e letteratura “Doppio ritratto”, per l’appunto - e non a caso Fazi aveva posto in copertina il Narciso di Caravaggio oppure “ la O di Roma” per Laterza) e negli anni ha alternato a questi,  molti e significativi studi sulla letteratura e cultura omosessuale, una questione a cui Giartosio si è dedicato anche con sua personale militanza, cosa che traspare anche in un libro di poesie come questo, in cui a un certo punto la realtà biografica entra con un segno non grammaticale, letterale.

Anche Narciso si riaffaccia sulla soglia in questo libro in cui “ la Storia” quella generale della società tutta, nell’elaborazione di un lutto per la morte del padre, include proprio la sua figura, la include potremmo dire alla lettera e oltre la lettera. 
Se la mitologia psicoanalitica misura la distanza e spesso la nostra esperienza pure la vive irriducibile, qui il padre compare, dentro l’ambivalenza di quel “con” del sottotitolo. La bellezza mortale nella leggenda di Narciso – che in Giartosio si colora di una delicata ironia alludendo al fatto, pare “ che il suo viso/ nella fonte riflesso/ fosse brutto lo stesso// questo pare l’abbia ucciso” –  viene posta a specchio della bellezza del caro defunto, del padre, di cui vediamo la sua allegria giovane e spavalda in un piccolo ritratto  (una piccola foto nel libro a marcare una “tessera” di verità dentro una scrittura che si misura sempre con la possibilità che tutto sia mitopoiesi, finzione, invenzione) . la foto sigillo di verità per la sentenza dei due versi centrali di una poesia posta nella prima parte: “Penso, tutto ciò che non si rivedrà mai/ abita gli specchi”.

Per questo la storia dell’io che scrive non può che tenere dentro, includere il padre, fuori dall’ambivalenza invisibile della scrittura, con la sua foto e la sua bellezza, il padre solo il padre, il suo corpo- padre.
Solo questo osso di vero rende possibile il confronto e la distanza, lo sdoppiamento, la necessaria separazione di narciso da sé, e dunque rendere non mortale la sua bellezza, la bellezza in cui Narciso-figlio se si riflette muore, per il suo non essere.
 Il padre è l’altro, ma io posso essere egualmente io, se l’altro è diverso ma è con me, dentro una storia in cui anche il conflitto e la differenza ci tiene assieme. Lo spazio delle dinamiche dell’inconscio non è tutto interiore al soggetto, ma è nello spazio che separa ma tiene in un medesimo campo di tensione, il mio volto e il tuo.

L’amore sembra sempre essere il tentativo di pace tra due che si fanno per natura la guerra. La ricomposizione procede nei frammenti di esistenza delle poesie recuperando le memorie nell’atto del “formarsi del ricordo/prima e dopo la realtà” come se il confronto dell’oggi, riposizionando la coscienza un “allora ora” con la pratica della memoria. LA rielaborazione memoriale, l’elaborazione, dovrebbe emancipare ma al tempo stesso ribaltare I poteri, mantenendo un doppio legame nell’età finalmente adulta (“Padre ti ho concepito come tutti/ I figli” e nell’enjambement Giartosio lascia sospesa l’ambivalenza di questa affermazione seguita subito da un sintagma adulto, ma detto tipicamente dai bambini (“sono grande adesso”). 

Il bilancio del consuntivo tra errori e sbagli reciproci trascrive nei testi questo esercizio di collocazione spazio-temporale dentro una Storia. Le poesie si fanno tentativi di mappatura di un’esistenza ereditata nella trasmissione della morte del padre che lascia in eredità la sua storia al figlio, inevitabilmente – e in modo ingombrante, sempre, anche quando non voluta o non condivisa- ma non la sua identità, seppure tenga in sé la sua immagine. E’ tutta dentro questo triangolo la vicenda, ma pure il modello dell’amore. Se il figlio elaborando il lutto genera, concepisce, suo padre, dall’altra si appropria di questa storia tradendola, e la tempo stesso portandola avanti dentro quella rottura di un patto che forse andava ben oltre l’amore singolare di un padre e di un figlio.

Qui il nodo lessicale, biografico, quindi poetico, si trasposta ancora una volta nella storia più generale con uno slittamento interessante che ci porta anche alle scelte biografiche e pubbliche di Giartosio.
  “figlio di una scrittrice” anche così viene definito questo padre dall’ io-che-scrive, padre che a tavola ingaggia col figlio lotte nel nome di qualcosa ovvero un duello sui nomi, sui  lemmi, duello di erudizione verbale che finiva arbitrato dalla Treccani. Ed è lì che nel suo turno di sfida il figlio scende, coi lemmi della poesia tra I lemmi nel ricordo, termini che il padre nelle sfide della disquisizione egli “abbaiava”. Questi ricordi sono le scende di una divisione, lancinante, lacerante tra questo alto ufficiale di marina e il figlio che sta compiendo il suo percorso di identità, rivelando in sé la sua omosessualità “scendevo in quella patria di voci, verso I miei termini che tu abbaiavi sfidandomi a penetrarli” (c’è tutta forse anche troppo sovrabbondante tra patria, lingua madre e penetrazione, una inevitabile rifrazione nelle parole usate) e quali erano quei termini dilanianti? Ovviamente “ ‘invertito, ‘sodomita’ e ‘ pederasta’ ”. Ora però che la morte ha sigillato il conflitto l’io scrive “mi alzo ogni mattina con la paura di non avere figli tuoi padre unico come un figlio, schiattato come tutti i padri” È l’impossibile tradizione, traduzione di padre in figlio, di geni in geni lo snodo.

Qui dobbiamo portare nell’analisi del testo una vicenda biografica – del resto autorizzata criticamente dalla posizione di una tessera-reale della foto del padre, dentro il testo letterario, alla maniera del maestro implicito di Giartosio che mi sembra sia GW Sebald ( e spero che l’autore non storcerà il naso, per l'incursione biografica,  nel nome della nostra conoscenza trentennale).

 Tommaso – racconto ciò che è già noto, e si trova in rete,  anche per la cronaca di una battaglia civile di cui s’è fatto portatore a partire dalla propria esperienza personale - è padre di due bambini con (il termine “con” che ritorna indica che è una paternità anche con) suo marito Gianfranco Goretti (sposato già dal 1998 negli Stati Uniti e ora finalmente anche riconosciuto in Italia e con esso, appunto, la paternità dei due figli a entrambi i genitori) .
 I figli avuti grazie alla “gestazione per altri”, in questo caso un’infermiera canadese che i piccoli (ora di 13 e 10 anni) conoscono e a cui vogliono bene, secondo quanto raccontato in interviste da Giartosio, che è stato ed è ancora militante e responsabile comunicazione per l’Associazione delle Famiglie arcobaleno.

Di questa vicenda storica, sociale e biografica, ci sono rifrazioni naturalmente nel libro, e ne aumentano lo spettro di sentimenti, che approfondiscono la portata e danno certo il segno di un conflitto tra concezioni della famiglia e della sessualità, che però nel nodo di affettività private, la poesia mette in luce quale travaglio emotivo, di concezione identitaria sia aver fatto una scelta di rottura.
Ecco che però al padre “schiattato” (il termine è germanico, Sclatha, vuol dire stirpe, nella morte si sancisce la discendenza, nella morte l’albero della genealogia fruttifica) si contrappone il fatto che - scrive il poeta - provo per questa sua schiatta  “amore” e che – chiosa -  “per me si eredita”.

La ricomposizione è dunque dopo il conflitto, e con la morte.  E’ pur sempre nell’apparato genitale, biologico che si compie la filiazione ulteriore del padre attraverso il figlio e oltre, che rinnova la sua schiatta, seppure per diverse scelte laterali di concepimenti. Oggi geneticamente qiuel padre militare e distante ufficialmente e biologicamente  ha anche lui ha un nipote, seppur non nato da atto erotico genitale, e tuttavi da geni e in quel nuovo nato avrà continuazione. (ho rirato dentro l'elemento biografico, ma come per i romanzi , anche in poesia vale la profezioa del filosofo americano Emerson, siamo arrivati a quel punto in  cui nel futuro, scrisse un secolo e mezzo fa, ci sarà solo letteratura autobiografica, memorialistica, personale).

La letteratura serve però a  moltiplicare i significati a costrure un diorama di senso e dsentro quello si mantengono anche non detti, non tutto si appiattisce al discorso: "tutti I miei segreti morti con te/non sono mai esistiti. Sapevi/ tenerli. Non li sapevi” ma in questo gioco ambivalente una certezza che “solo questi segreti/ si tramandano/ tra le righe di un testamento” ma che proprio per questo figlio-poeta-figlio eredita ma dicendo “non ti tradirò mai abbastanza”.


Telemaco qui, contrarimente al mito, aspetta Ulisse per ucciderlo, e diventare re nel suo nome. La biografia di un padre ufficiale di marina trasporta la proiezione di un ripensamento nel cuore del mito omerico. Come si diventa eredi giusti? Uccidendo, come Edipo, che conosce il conflitto con il padre beneficamente traumatico? O restando fermo all’immagine giovane di sé e del padre, interrompendo la differenza tra le generazioni – e di conseguenza il flusso storico di eredità. 

La storia ha bisogno di procedere, Giartosio individua un percorso di riesumazione dopo la morte, di riconciliazione con il fantasma che deve passare per una guerra con la persona reale. È un Telemaco diverso da quello di Recalcati, un Telemaco che si traveste da Edipo prima, sarà poi il lutto a rendere vivo il loro rapporto. Se il Telemaco usato da Recalcati per spigare l'assenza di conflitto col padre tipico della nostra epoca, è un Telemaco conservatore, politicamente,  che in nome della sua identità e nel nome del padre, lo aspetta  per ristabilitre la legge nel regno, il personaggio-poeta-figlio di Giartosio separa amore dalla legge, nel volto del padre si, nel nome del padre no.

E vuole un’altra legge, una diversa legge della paternità, innanzitutto.
Qui – come abbiamo detto sopra – mito e storia continuano a dialogare. La paternità è uno specchio da infrangere e poi un ritratto da ridipingere, a memoria. Questo in sintesi, il passaggio duplice che la soggettività definita dal “romanzo familiare” contenuto in  “Come sarei felice”.
Al padre l’Io si rivolge:   “ah quanto mutato da prima della tua morte io sono” e poi constatando “è stupefacente il mondo/ che si è ricomposto senza di te”. Giartosio eredita una linea di pietas verso questa figura di pare “disperso” che in poesia ricorda anche quella di Maurizio Cucchi, quella figura non predominante, sfuggente, debole, traditrice delle aspettative eppure amata, sconfitta e  demitizzata (”non eri davvero/ tu quello che comandava le navi”) . Tuttavia proprio in questa essenza/assenza,  che viene prima della sua divisa da padre, “la primavera della tua preistoria”  è il luogo in cui figlio e padre possono ricomporsi . E addirittura il figlio si fa “portavoce del silenzio” del padre e nel sogno la fusione arriva alla ricomposizione anche erotica, che sublima tutte le seduzioni, i desideri, la volontà di generare un figlio dal padre, e viceversa (“papà t’avessi incontrato in treno/ e accompagnato ai gabinetti (..) “  in un approccio erotico che avrebbe azzerato le ipocrisie ( “le balle che ci siamo detti”)  in una fusione tra il ragazzo  adeso il di allora, bello, che era il padre e il poeta che scrive ora che ha l’età che avrebbe avuto il padre “quella di quando mi hai fatto” dice il figlio-poeta. UN incontro e un intrigo erotico che naturalmente non genera, non può generare. E’ questo limite invalicabile dell’amore omoerotico, della non fecondazione, ora passato per aggiramento culturale e tecnologico, ed è il nodo cruciale del libro. In ogni caso è quella impossibilità che fa da misura di tutto il resto,  che però è possibile. L’amore innanzitutto. Ma anche la genitorialità.

. EDIPO Può generare con il corpo di sua madre, Elettra con quello del padre. In questo caso il confronto erotico sostituisce il conflitto di Edipo, ma non può generare, quindi resta sospeso dissonante – se non che è quell’Eros a poter generare  simbolicamente: “sarebbe stato tutto stupendo, pur non sapendo/ chi in quel momento stesse venendo/ e chi venisse al mondo” questa complicità è chiesta anche nel poemetto “le stelline”(“pur disapprovando/ dovresti tacere”) diventa  il cuore di un testo-cerniera nel libro.

In  “Le stelline”  Giartosio modula in pieno anche il cuore stilistico della sua scelta di poesia narrativa scendendo in “ipogei” biografici del padre morto, in versi liberi ma sempre su quel filo di una rivelazione che nasce dal clinamen del linguaggio, fino ad arrivare in sequenze lessicali analogiche, come a inanellare nell’omofonia un punto di rottura rispetto al sottinteso segreto, la paura dell’io narrate, l’omofobia. Il lapsus come forma di  coming out, del resto.
Oltre al verso libro, ma misurato, alle ampie strofe che lo iscrivono nella linea della poesia narrativa, il libro è pieno di una trama lessicale di fitti rimandi sonori simbolici, come anche a misurare una storia del lapsus o deone di analogia. Ed èqeusta la caratteristica saliente a livello formale del libro, ma non lo è per pura casuallità o gioco.

 La scelta dei versi in questa raffinata penetrazione delle pieghe riposte dell’animo paterno entro la sua storia è perché “non sta scritto da nessuna parte/ il senso della nostra morte, tranne che in poesia” ma se poi la sequenza dei versi si fa emersione di umanità, al tempo stesso è il rischio di perderlo: “quando il padre sarà stato analizzato/ e spiegato cosa resta  del figlio?”. Così il racconto più si dispiega più resta inspiegabile e senza un lemma che lo inchiodi questo rapporto a due, che è sempre un doppio ritratto, mai ritratto di un doppio.

 Partendo da un fermo immagine di un video porno in cui due uomini fanno sesso, da un attimo di ilarità e gioco, non previsto nel canovaccio di quella  finzione-vera di quel sesso esposto commerciale per consumo cinematografico, con quel momento di gioco tra I due che diventa “metafora estrosa” per spiegare come anche in un rapporto improntato alla finzione e forse all’ipocrisia tra un padre alto ufficiale, militare e borghese e un figlio fuori dai suoi schemi mentali e culturali, sia esistita poi la scintilla,  la stellina,  il dettaglio rivelatore di una verità dell’amore, perché l’amore è “beneficio di innocenza"  che si dà all’altro che si ama anche quando si “disapprova” il suo comportamento. 

Così il poemetto è una resa dei conti amorosa e biografia sommaria di un padre distante e vicinissimo, puro e al tempo stesso uomo d’ordine e “ufficiocasachiesa”, e come le parole nel loro cielo  sonoro fanno sovrapporre significati in antitesi, così Giartosio crea anche un interessante stratificazione di piani immaginativi e memoriali e reali. Così ecco l’analogia tra una stellina nera tatuata sulla natica del porno attore, in un video che l’io-poeta guarda, e che fa scattare il piano del ricordo (anche in modo ironico, irriverente) e si sovrappone alla “stellina” o stelletta di ufficiale, la “prima confitta al petto” giovane del padre, inizio di una carriera di uomo d’ordine, ma con dentro al cuore forse un caos che ora lo rende dopo morto più vicino, nella distanza siderale che hanno sempre I padri.

La storia tutta quella sociale , è una costellazione borghese di "stelle e strisce/ e di Plaris, l’Autosole, le star/ il brodo Star, il cristo superstar” ma per un padre che amava anche un altro ordine, che baluginava nel  “luccichio dei giochi di parole/le fusa di un antico endecasillabo/ (non rattoppato come il mio riciclo/ creativo costellato di  decenza”). 
E’ su questa scelta di caos come diverso ordine che la poesia analizza un altro senso nella relazione di finzione padre-figlio, finzione sociale che tuttavia sottende amore, come I sottintesi di parole, I non detti, il silenzio e  il poeta-figlio ammette “non so dire/ meglio del tuo silenzio/ per moti anni a venire, ciò che avvenne” anche se poi “trovami un poeta che sciolga/ ogni filo del legame tra I suoi/ genitori”. Il verso però serve a dire che oltre le stelle c’era “anche luna,  cruna, lacuna/il meato in te celato; / era vano varco, venia ventata” insomma l’accesso dentro la piega, senza necessità di spiegarla, esattamente come fanno versi, le costruzioni fonosintattiche, le  catene fono-simboliche di associazioni.

 E segreti, come l’ultimo post mortem, scoperto dai figli, grugando,  che rivela appunto come questo padre dell’autorità e dell’ordine “mortale” sia invece poi passato per un suo passaggio segreto ad un “caos celestiale” attraverso forse una decostruzione di quell’ordine, in cui l’ambiguità dell’eros – nella rivelazione della foto trovata dopo la morte nel suo portafoglio di una “ragazzetta sudamericana” -  si rivela ancora una volta portatrice di bene e di amore.

Le sezioni che seguono si nutrono di quella distanza. Ma nell’elaborazione I “viaggi immaginari” (titolo della terza sezione) diventano la misura della morte del padre che diventa “fatto della vita”. E a partire da questa oggettività “la distanza accelera/ finché gli intervalli formano la vera storia” e negli intervalli ci sono viaggi, dislocazioni interiori derivata dalla lettura e dalla scrittura. Una ridefinizione della propria posizione nel mondo, un desiderio di fuga. Un desiderio tout court.
non a caso, l’ultima sezione viene annunciata ancora dal tema del desiderio (“dall’amato dipende/ la soddisfazione dei desideri/ ma dal padre il desiderio”). E così già dal titolo (“Trovare” che come dalla spia in ex ergo che cita Arnault Daniel, va intesa nel senso poetico provenzale della lirica amorosa) esplicitando ancora una vota la relazione erotica nel doppio maschile, trasferendo il confronto immaginario con la figura del padre amato sulla figura dell’amato-compagno. E’ tuttavia una tradizione che ha poca e nulla lingua o codice, quella della “poesia / d’amore d’un uomo a un uomo” (il vero esperto in questo campo è Gartosio stesso)  nell’ombra de “l’affascinante/ adolescenziale bugia dei pronomi/ di seconda persona” e di tutti gli altri accorgimento per confondere le acque –  precedente più noto, quello di Shakespeare , aiutato dall’inglese dove non c’è la declinazione femminile o maschile dei pronomi, degli aggettivi ecc.).

 E’ una sfida seducente per un poeta questo nascondersi, dissimulare (“sedotto dai tranelli meticolosi” della lingua per “assecondare l’indistinto del desiderio”. Il destino e forse l’origine dell’amore è un lutto, è la mancanza è il perdersi. È qui che il poeta chiude un cerchio metaforico, nella circolarità della mancanza come dogma del desiderio, specialmente nella poesia che al centro ha il sentimento dell’amore: “prevedo, vedi, di perderti. E di accoglierti/ insieme, nel profondo di me, come /quello che non si perde”.  E neppure la morte “normale” del padre lla fine oggetto di discorsi ripetitivi, tanto da essere “un dolore infarinato di noia”, è più fondamentale, il cerchio si chiude di fronte la rispecchiamento ultimo, della morte con la morte. “oggi il dolore non c’entra con lui. / E’ solo paura per la propria morte” questa nostra morte “così fragile. Di cui dobbiamo prenderci cura” – per trasmetterla “pura ai nostri figli/come l’abbiamo avuta/ dai nostri genitori”. E il cerchio della vita, difronte alla morte trasmessa, può ricominciare.

FERNANDO CORATELLI "Alba senza giorno" (ed. Italo Svevo)


La realtà è satura di realismo. I quotidiani si fanno sempre più palpitanti di letteratura, nel tentativo di farsi prossimi alla realtà, trascurando I fatti (e mostrando subito un paradosso che ogni lettore deve tenere presente: realtà e realismo non sempre coincidono, e i fatti spesso scompaiono tra le due rive della narrazione corrente pubblica).
Le parole scritte dell’informazione, agonizzanti ormai per autorevolezza sociale, relegate all’angolo del mercato, hanno abdicato al loro compito e tentano di inseguire l’intensità emotiva di ciò che brutalmente si impone come fruizione del vero – e che non lo è - : le serie tv o le fake news.
Si impone “Come “ vero, ma appunto non lo è. Lettori inseguiti con folgorazioni sintattiche e iperrealiste, grondanti tanto di sangue quanto di sentimenti, al limite del trash per captare l’attenzione dell’utente medio-dei-media, altrimenti volto con le sue sinapsi emotive a ciò che lo droga con più piacere: I frenetici impulsi percettivi delle visualizzazioni di una foto ogni 0,3 secondi scorrendo Instagram. Con la stessa rapidità si scelgono le partner su Tinder. Per non parlare delle urla che dal verba dei social “volant” a quelle della vecchia Tv, che per tutti gli ultimi venti, trenta anni ha preparato il terreno a questa fame di reality di cui tuttavia ci stupiamo perché ci sembra irreale. 

cosa può fare il romanziere? Scavare. E scrivere. 

E sottrarre e sottrarsi questo trucco facile.
Scavare per rimuovere I detriti di una narrazione generale della realtà che si allontana da essa se non altro per il rischio di sovraccaricarla di drammatizzazione – è quello che fa mediamente un servizio televisivo che sia delle Iene o di piazza pulita che volete voi).

 La drammatizzazione è spesso non solo nel canovaccio della notizia ma negli orpelli stilistici usati che la sovraccaricano. NE fanno sempre una scena. Una scena del delitto. Il cadavere è proprio la realtà o meglio sono I fatti.
Fernando Coratelli, nel suo nuovo romanzo “Alba senza giorno” (Italo Svevo editore) ci racconta una storia (che è fatta dell’intreccio di tre sotto-storie) rappresentativa dei nostri tempi. Lo scrittore qui fa però l’operazione opposta della pessima paraletteratura giornalistica: scava per tentare di eliminare il sovraccarico, l’”effetto di realtà” che di solito vediamo sovrapporre al racconto di questo tipo di fatti. Una storia che racconta di Rom, di gente arrabbiata, di n’ndrangheta.
Come se puntasse a una nuda azione. Liberare in uno stile limpido la realtà dei fatti, cercando una nuova realtà e un nuovo realismo, che certo è anche un ritorno alla stessa pratica. In qualche modo in un mondo di giornalisti aspiranti scrittori, agli scrittori conviene trovare una via letteraria per farsi ultimi cronisti. E proprio dalla cronaca Coratelli attinge, restituendoci un romanzo civile: ecco la storia di Stoian e Stephka, due giovani sposi Rom della Bulgaria, che dal loro paesino sperduto viaggiano, attraverso la Germania prima e poi in Italia, nel tentativo difficile di trovare un lavoro, o  in quello disperato di rimediare soldi suonando il violino, e poi in quello impossibile di convincere gli altri che non tutti rom sono zingari bastardi delinquenti, anzi la gran parte non lo è e lavora. All’opposto, c’è quella di Tonino Cortale, un bravo papà di famiglia che fa la ninna ai figli tutte le sere in un appartamento della periferia milanese, ma è anche un sicario della ndrangheta e deve uccider I figlio di un traditore della cosca, a Milano. E mentre li bacia I figli nel letto pensa al piano migliore per l’agguato mortale. E infine c’è quella di Roberta e di Martina sua figlia e la nipotina, Alice. Due donne, due madri, alle prese con la loro storia normale, di periferia, con padri assenti e mariti distratti o sempre davanti alla tv e in cui nell’angoscia di doversela cavare ogni giorno con il lavoro che non c’è e I soldi che non bastano, e che si lasciano andare dalla normalità alla ferocia, quando nel quartiere l’amministrazione comunale decide di trasferire, in un campo attrezzato, alcune famiglie rom, sgombrate da un palazzo che occupavano abusivamente. Da qui sale la protesta, l’odio cresce, contro I rom e contro I politici, mentre I due sposi rom nel frattempo si arrabattano a Berlino, mentre in un paesino sperduto della Calabria si decide la morte. Storie che conosciamo ma che hanno bisogno forse di essere narrate con altro sguardo. E la letteratura serve a questo.
 Fernando Coratelli intreccia queste vicende con un doppio passo: da un alto fa risuonare la campana del destino, nella scansione temporale e incastrata dei capitoli (“un anno prima, maggio”..”tredici giorni prima, 13 maggio” e così via) segno che esiste un ineluttabile, un tremendo, una beffa della vita, un tragico, che incalza e che sfocerà nelle ultime pagine.
Dall’altro segue con uno sguardo limpido e slow, gli aspetti minimi dell’esistenza di queste persone. Lo fa con l’attenzione umana del documentarista. La ripresa scorre con piccoli piani sequenza nelle varie scene, restituendoci dettagli che fanno di una storia come la nostra, una normalità pacifica, che tuttavia a un certo punto genera l’odio o che incappa in quello, in modo ineluttabile. Qui il romanzo, con la sua costruzione formale ci esprime quale destino, secondo il romanziere, attende la nostra vita.
 L’alba è senza giorno, I nostri giorni sono senza innocenza. Vite che sono la nostra e non sono quelle degli altri, di cui non ci importa nulla, finiscono inevitabilmente invece per scontrarsi e cambiare in quello scontro, anche minimo, la nostra. Spesso leggiamo nella cronaca: I rom, I cittadini, la ‘ndrangheta. Nell’impersonalità c’è lo stereotipo. Coratelli la usa, la fa sua, quella tipicità, in questo c’è una scelta di opporsi da romanziere civile alle narrazioni correnti del reale. Lo fa scegliendo dei personaggi nell’atto di compiere ciò di cui leggiamo tutti I giorni o vediamo (I rom mendicare, le signore arrabbiarsi e protestare, I criminali della mafia uccidere).  Ma il realismo che voglia essere non il solito effettacci che parla alla pancia del lettore, è pur sempre quello che Walter Siti definisce “lo strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale”. E se I realismo è quella forma di narrazione, quell’organizzazione tecnica della disposizione delle sequenze verbali, che – ancora Siti -  “coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà”, Coratelli sceglie di farlo, guidandoci con mano attenta, dentro stanze, baracche, appartamenti, vagoni della metro, bar uffici, con lo sguardo che penetra I dettagli come fossero indizi. Ma indizi di cosa? Certo noi lettori, Per certi aspetti sappiamo e intuiamo che una tragedia incombe. Più del kairos del destino, più del punto finale in cui le storie vanno a parare o la sorpresa che il narratore ci ha preparato, ci deve sorprendere come persone, come coscienze, quello sguardo. Che sembra dirci: è   dunque dentro questa banalità della vita che sta il male? L’odio sociale? Il tragico? Il malvagio senza scrupoli? La paura? Tutto ciò che sappiamo essere intorno a noi, lo leggiamo nella storia di questi cinque personaggi principali, così simile alla nostra normalità. E quel tamburo battente che prepara l’ineluttabile, abita sempre ogni istante della loro vita. Dunque, attenzione lettore: può abitare ogni istante della nostra e non lo sappiamo.
 Come il precedente “La resa”, questo nuovo romanzo di Fernando Coratelli è ambientato nelle nostre città in fiamme. Se quello del 2013 che aveva in qualche modo anticipato gli attentati islamisti del 2014 e 2015 cogliendo l’aspetto di una conflittualità che era tutta interna al nostro modo e si intrecciava nelle nostre vite, non veniva da lontano, ma era nato tra noi, così questo “Alba senza giorno” è un romanzo in cui le fiamme poi non divampano in attentati, ma sono le vite bruciate a bassa intensità, dall’atrofia del bene.
I personaggi si muovono dentro le loro emozioni ma come se le emozioni non gli appartenessero più. Anche la decisione di tenere questo sguardo di oggettività, non psicologico, è il modo con cui Coratelli che strappa il velo della nostra quotidianità (e di quella “rappresentata” dalle tante narrazioni di realismo dopato, come la tv, ma anche I nostri social lo sono, noi stessi cela raccontiamo deformatala nostra vita, falsata) e lo fa  non mostrandoci un mostruoso” ma mostrando che semplicemente il mostruoso dell’odio e del male è esattamente quella normalità, è lì, è nelle sue pieghe, come nei dettagli sta la divinità del destino, che strangola l’innocenza. Sta anche al lettore aggiungere pensieri, psicologia, morale, perché non c’è nessun sottosuolo dove abita l’odio ma esso sta esattamente dove sta la tenerezza per I figli, le piccole beghe, gli amori, le faccende di ogni giorno. Il giorno come I nostri, tutti uguali, che non hanno alba, che non hanno redenzione.



lunedì 28 ottobre 2019

DURS GRUNBEIN A MILANO. Un discorso.


Il grande poeta tedesco Durs Grunbein (1962) è stato di recente a Milano dove ha ritirato una pergamena di rinoscimento del Comune (preludio a una laurea onoris causa che gli verrà conferita nel 2020) e ha tenuto un bel discorso, sulla speranza che, in un’epoca di opacità e assenza di punti di riferimento in questo spazio tempo così ampio da immobilizzarci, può arrivarci dalla memoria.questo spazio tempo così ampio da immobilizzarci, può arrivarci dalla memoria. (la memoria è un deitemi chiave della sua poetica insieme alle esperinze concrete, a ciò che las cienza ci dice dell'esperienza del nostro corpo, lo si ritrova anche nei saggi recenti "I bar di Atlantide" (Quodlibet)
Forse il “principio speranza” può essere attinto di nuovo, re-innestato in noi, non tanto dal passato in sé come una banale nostalgia (se fosse così sarebbe un erorre non era idillio quello) ma a tornando a quel momento di passato in cui - pur avendo reali e concrete difficoltà,  muri reali e duri, davanti ai nostri occhi, per la gran parte di noi figli, bambini negli anni 60, a est come ovest,  di operai, di classi di un ceto medio popolare senza una storia di istruzione in famiglia, vivevamo  quel tempo trascinati  da una tensione di fiducia nel futuro che oggi potrebbe fare da germinazione di una Utopia ridisegnata, re-immaginata.



Grunbein è partito nel suo discorso su memoria, storia e tempo, dalla città di Milano, legandola a questa “’ immaginazione del futuro” da ritrovare.
Ha raccontato che la città di Milano, meglio il suo mito, la sua generazione imprigionata oltre cortina, l’ha conosciuta viaggiando col cinema. “Teorema” di Pasolini e “La notte” di Antonioni, tra tutti. Nell’oscurità delle sale cinematografiche della Germania dell'est, dove il regime di solito opprimente nel controllo delle “vite degli altri”,  sbadatamente e per ignoranza, tollerava, sottovalutandolo, il cinema straniero che circolava.
 In quelle visioni i giovani dell’est avevano una finestra verso l'esterno e questo, dice Grunbein ,  vale per la dimensione spaziale e per quella temporale. “Vediamo più di quanto comprendiamo e  sviluppiamo una sensibilità per luoghi dove non siamo mai stati” ha detto il poeta tedesco,  e così Milano  è diventata per lui anche la Milano degli autori che ha letto e conosciuto, da Manzoni a Gadda, fino a Milo De Angelis (che certo è con lui oggi uno dei maggiori poeti europei)

I legami con le città possono essere immaginari, come i nomi i nomi di città che si intrecciano tra loro, quando in una specifica città troviamo nelle vie i nomi delle altre, oppure in tante  troviamo sempre il nome uguale di una via, di solito la principale e spesso nomata “via Roma” (e qui G. ha letto una sua poesia scritta a Roma, in Corso Trieste, con la memoria a Trieste, dove aveva trovato altre vie con città italiane ecc)
“La letteratura è il commercio spirituale tra i vivi e morti” ha detto ancora Grunbein , la letteratura trascende tutti confini quelli temporali come quelli spaziali “ in questo i contemporanei con la loro presenza fisica si danno sempre troppa importanza”
E’ stato un discorso in cui Grunbein ha elogiato la possibilità dunque di scardinare - come lo spazio, attraverso il viaggio-cinema-immaginario - anche  il tempo. L’arte deve e può rompere i suoi assi culturali come fa la fisica moderna, che anzi addirittura ha “abolito” il tempo come lo conosciamo noi (vedi Rovelli), riducendolo a mera convenzione.  Il tempo non esiste nella sua linearità, matematica, aritmetica che va dalle ore zero alle ore 24. Il tempo è una presenza simultanea di dimensioni spaziali, dove avviene una trasformazione della materia, questo è il tempo dunque anche se non è applicabile alla lettera. Nessuno vuole cancellare il passato o il futuro, ma è possibile che la speranza per il futuro, oggi, vada rintracciata nella memoria, nel passato, in altre parole nel momento in cui abbiamo iniziato a sperare.

Questo per Grunbein come per la mia generazione, era qualcosa che accadeva prima della caduta del muro, negli anni 70 e in quel momento e in quella dimensione senza tempo che l'utopia, essa stessa cosa senza tempo, può ritrovare il suo stesso discorso.
In qualche modo si può dire con Grunbein: “Ci sono alcune idee che noi idealisti speravamo non sarebbero mai venute meno” e  questo è vero.
Oggi ci dobbiamo misurare invece con una trasformazione una di queste idee: ad esempio la  democrazia e  libertà, che cedono il passo all’egoismo, ad un individualismo che non era quello che allettava i giovani della Germania dell’Est come Grunbein negli anni 80, la libertà di poter essere sé stessi, l’individualismo della libertà nelle società capitaliste, in cui - nella disuguaglianza - ciò che attirava era però un forte desiderio di poter dire “io sono mio” (lo dico volutamente calcando lo slogan femminista perché la rivoluzione alla fine degli anni 70 fu una rivoluzione culturale che ha segnato con molte contraddizioni anche un’ auto-riforma del capitalismo che si è fato “capitalismo dell’immaginario e del desiderio” disinnescando e inglobando quella rivoluzione molecolare dei Movimenti del 77)

LA libertà delle idee oggi si è trasformata nello spettacolo dell'economia e nello spettacolo delle idee. Quella libertà che gli insorti della Germania dell'est salutavano nell’89,  senza conoscerla immaginandola da lontano ( erano gli eredi delle illusioni del socialismo corrotto ) era qualcosa per cui valeva la pena di morire. Oggi, ha detto Grunbein, tutto è stato spazzato via e il credo del progresso e del progressismo di quel capitalismo che è andato in frantumi, più del  muro di Berlino- la libertà deve essere sempre la possibilità che si possa trasformare il mondo e che ci sia uno spazio per questo agire libero, quella è l'utopia di un “luogo ulteriore,  spazio interiore e mentale per poter concepire un mondo nuovo e uno spazio per poterlo generare. Questa possibilità spazio-temporale è venuta meno.

Non è un caso se oggi tutte le idee di tempo corrono nella direzione contraria, narrazioni di retrotopia o distopia che diventano predominanti, che è però un segno di crisi, ma nasconde la trappola di una regressione.
E allora importante poter andare a rintracciare il “principio speranza” nel luogo anch’esso ormai immaginario, del passato e andare a recuperarlo come se non fosse ancora vissuto.
E’ un lavoro sulla memoria e un lavoro sulla e il  tempo mostrato nella sua tensione di mutazione che aveva,  di metamorfosi continua. Non bisogna tornare al passato (anche se molto passato e memoria c’è nei discorsi e nelle poesie di Grunbein ma del passato è l'attenzione al futuro che ci interessa a ricordare. Rivivere una memoria identificativa empatica massima, quella tensione al futuro ridiventa nostro  presente perché appunto non essendoci più  un tempo lineare, la poesia o l’arte elaborano questa sintassi delle copresenze parallele, un ossimoro multipli dei tempi, in cui non conta appunto quella razionalità sequenziale di cui  nella normalità del discorso quotidiano dobbiamo per forza tenere conto, ma va al cuore attraverso proprio una trasformazione della grammatica metaforica, nella narrazione a-temporale, di un cubismo temporale come quello che pratica Grunbein, che ci riporta al “principio speranza” così come esso genera e si è generato e si continua a generare (potrebbe, la sfida della poesia è questa dalla sua invisibilità sociale in cui è del tutto impotente al livello politico immediato)  al di fuori di quella che è la misurazione dei giorni e degli anni. Così è quella Milano che cancella le tracce del fascismo nato qui, che confonde la sua brillantezza culturale con il cinismo finanziario, questa Milano che è oggi dentro una sovrapposizione di memorie che Grunbein ci sollecita, che è rimasta nella sua memoria, cinematografica letteraria come “ la metropoli più moderna di Europa” definizione che il poeta ha trovato in un quotidiano del 1962 l'anno in cui lo stesso Grunbein è nato, il 1962, come dire: c'è una tensione al futuro che ci precede, nel passato.





domenica 6 ottobre 2019

COLSON WHITEHEAD I ragazzi della Nickel (Mondadori)

Confesso che avevo abbandonato a metà “LA ferrovia sotterranea” di Colson Whitehead, unico suo libro letto - e di quel libro, come capita spesso, mi era sembrato eccessivo il battage, rispetto al romanzo, per cui finisci per mollare anche libri buoni se non sono quel “capolavoro” che gli editori cercano di spacciare.
(breve digressione: Mi è capitato ancora molto recentemente di avere la prova su pelle che se non partecipi a questo entusiasmo dell’entourage editoriale, hai quelle eleganti forme di indifferenza ( anche peggio del “mob" ) ” in vario e sottile modo, dal non-like, al non-saluto, al non-invio del libro ( pratica della benedizione editoriale, elargita come le indulgenze dei papi ai tempi di Lutero, che abbondante si sparge su capi chini dei semplici e pseudo lettori-forti , ritenuti più funzionali al sistema di chi, come me - ormai da semplice lettore forte ma senza nessun ruolo ) - mantiene il suo ciglio alzato - un distaccato relativismo sano - verso “il sistema”. Quel sistema, che poi fondamentalmente è fondamentalmente commerciale e di promozione del prodotto, ossessionato dalle vendite come non mai, più di quanto un editore debba giustamente fare, in quanto impresa economica, rinunciando però al SUO ruolo critico e culturale (cosa per la quale rispetto a altre imprese pretende fondi pubblici. Ma capisco, lavoro in un’azienda editoriale, ne va della sopravvivenza, ma è deprimente lo stesso). Chi se ne frega, in ogni caso. Ho già pagato pegno col mondo della poesia allo stesso modo)
fine digressione..

Detto questo: avevo già mollato a metà “LA ferrovia sotterranea” di CW per questo leggendo del nuovo “capolavoro” (“I ragazzi della Nickel” Mondadori) non avevo molta voglia di leggerlo. Però vista la mole non eccessiva, l’ho comprato in kindle e l’ho letto.
Confesso che a un certo punto stavo per mollare pure questo. NOn che sia brutto, anzi. Fino a metà però non mi prendeva, mi sembra si un classico libro della narrativa di Building-roman di stampo anglosassone e nella tradizione americana e poi afroamericana (da Twain o Dickens in poi ) ma come se fosse scritto negli anni in cui è ambientato, all’inizio della vicenda quando il protagonista Elwood è ancora un ragazzino, fine anni 50. Nobili intenti, ma letteratura già letta.
Sono fissato col fatto che la letteratura si rconosce dalla "forma" che posso farci, no dalal bella storia.
Purtroppo - o per fortuna - avendo appena letto un grandissimo libro, come “L’archivio dei bambini perduti” della messicana Valeria Luiselli, il mio gusto letterario forse troppo novecentesco e postomoderno insieme , prende questo libro come parametro per le altre uscite, tra le novità editoriali.
Anche questo di Colson Whitehead "Ragazzi della Nickel" dunque mi sembrava romanzo classico, non particolarmente originale nella struttura, nell’organizzazione narrativa, nel punto di vista, in più la lentezza, meditata, dettagliata, della prosa aggiunge si vividezza delle cose, ma pure rallenta, insomma stesso effetto dell'altro fino al 60% (kindle). Riconosco può essere un pregio: Whitehead non sentimentalizza né esagera la storia che emerge dal procedere dell’azione, ma era fin troppo documentarista. Forse archeologo.
Mi dicevo: forse negli stati uniti è più apprezzato (Cona lferrovia ha preso il Pulitzer) perché direttamente coinvolti nelle storie di segregazione razziale, è il tipo di narrativa che ancora oggi in America ritrova più senso proprio nell'era Trump e quindi ha avuto un ottimo lancio editoriale e riscontri dell'intellighenzia newyorkese e cc ecc
.
Un lancio che si ripropone anche da noi, ma forse c'è della generosità, diciamo. ma è Difetto mio.
LA struttura del romanzo è per tre quarti il racconto della sfortunata vita di Elwood Curtis, ragazzino balck della Florida, giovane promessa scolastica, vive con la nonna, senza genitori, si arrangiano senza grandi soldi, ma lui ama leggere, lavora si dà da fare, è destinato al College ( in quegli anni per la prima volta si stava permettendo anche ai neri di accedere o si stava combattendo per quello il traguardo era vicino).
Sembrava.
Il caso sfortunato - il romanzesco dickensiano quasi - fa finire Elwood innocente in galera, alla Nickel, riformatorio del sud degli stati uniti, per neri. LA Nickel diventerà il “college della vita” per Elwood, la sua scuola di vita e di “ resistenza ”
Elwood incontra Turner, più sgamato ed esperto. I due diventano amici Elwood crede sempre negli ideali di Martin Luther King e ai soprusi che subisce alla Nickel, risponde con gli insegnamenti del Reverendo e cerca di ribellarsi; Turner, invece, si arrangia come può, spesso rispondendo alla violenza con altra violenza.
Colson Whitehead ha un modo classicamente realista di condurre la storia, forte padronanza dei caratteri, dei racconti secondari che si intrecciano nella coralità di un carcere. La Nickel è un infermo, un lager, è la peggiore rappresentazione del sopruso e questo di Whithead è anche un romanzo storico, di finzione, ma pure di denuncia di un’America WASP che on solo non è mai morta ma con Trump ha ritrovato forza.
E basato su una storia vera, dopo il ritrovamento di cadaveri di ragazzi detenuti in quel riformatorio, e seppelliti senza nome alla Dozier school ,sempre in Florida tra gli anni 50 e 60. Fin qui bello, intenso profondo, ma letterariamente appunto un classico, o meglio pure “non una novità” diciamo.
il romanzo però dal 70% in poi cambia e CW trova una chiave interessante, anche se non posso dirvi il finale, un bel colpo di scena che aggiunge senso a ciò che sto per dire.
Ad un certo punto iniziano i flashback - lo intuivamo dall’inizio, che c’era un ritorno di questi ex-ragazzi detenuti dopo tanti anni a quel carcere ormai dismesso, rovina dell’orrore, scoperto per caso per costruire uin centro commerciale.
Un ritorno di chi non può dimenticare ma pure vorrebbe trovare il modo di dimenticare. E nel flashback troviamo Elwood a New York, diventato un imprenditore dei trasporti, una persona normale ma anche realizzata, con i suoi probelemi, ma tutto sommato potrebbe avere vita soddisfatta.
Ma la scuola continua a trascinarsi dentro i suoi pensieri in ogni istante in ogni nuovo vissuto dell'America, dagli anni 80 a oggi, e anche a New York che nell’anonimato multiculturale almeno gli permette di tenere a bada i fantasmi.
La prosperità economica e le opportunità anche per lui, forse hanno messo via per un po' i conflitti razziali - che infatti ora con la crisi dopo il 2007 riesplodono, al confine e dentro gli stessi USA.
Negli anni recenti Elwood vive la sua normalità che forse in parte è un fallimento, rispetto non solo all’ingiustizia subita e non riscattata, non riconosciuta.
Una normalità che quasi lo priva d’identità, cancella la sua vita perché lo costringe alla rimozione, non lo porta alal giustizia.
Prova una sorta di malinconia in questa nuova esistenza da imprenditore e americano medio, che in qualche modo è un vuoto, è un mancare, un non compimento.
La memoria della Nickel lo opprime e la memoria della sua utopia secondo il “sogno” del Reverendo King che non si è compiuta integralmente, vanno a intrecciarsi in un senso d’insofferenza per quell’apparente normalità conquistata.
Essere un "everyman" non fa di tutti i “man” la stessa persona, non fa uguaglianza.
E proprio in questo elemento del nome, dell’anonimato e dell’uguaglianza c’è la chiave del colpo di scena finale.
Soprattutto chi ha commesso orrori, ha torturato, ha rovinano esistenze giovani, ancora non è stato processato e forse ormai è morto. Ecco che Due file di “sepolti senza giustizia” si confrontano idealmente, ma i primi con nomi e onori - i bianchi del disonore - e gli altri senza nome, disonorati e cancellati senza ottenere risarcimento.
La nuova normalità non è stata l'emancipazione è stato qualcosa di diverso, il benessere che livella tutto, ora livella anche l'identità e trasforma tutti in “americani medi” ma davvero diventare americani media significa acquisire gli stessi diritti ? la risposta è nell’archeologia: no, emergono corpi senza giustizia, bisogna dare giusta e degna sepoltura. E’ su questo punto tragico, che il romanzo si apre, sarà questo i l compito del protagonista e forse - pur col passo di scrittura “classica” , lento e fermo, paziente, come quello dell’archeologo - è pure il compito di romanzieri come Colson Whitehead.

sabato 5 ottobre 2019

VIOLA ARDONE "Il treno dei bambini" (Einaudi)



Vorrei dire qualcosa su “Il treno dei bambini” di Viola Ardone. ( Einaudi editore ) che ho letto in treno (ieri sera osservando da roma a Milano parte del paesaggio che anche quei bambini avranno osservato a i tempi):
Mi è piaciuto e sotto spiego perché e come inquadro il giudizio, ma parto come al solito, da lontano.(la faccio lunga)

Come qualche amico e amica sa, c’è una bambina a Calcutta che cresce, sostenuta a distanza da me. Si chiama Barsha e oggi ha 13 anni. Sono andata a trovarla grazie agli amici di ActionAid Italia un anno e mezzo fa, nello slum in cui vive con la famiglia, molto modestamente, la casa è una stanzetta cucina sotto e una sopra.
La superficie dell’intera casa è minore del soggiorno piccolo da cui scrivo. È tutto quello che posso fare, da solo, per le ingiustizie del mondo. Nel tempo della post-politica globale, nel tempo della solitudine disseminata delle monadi iperconnesse.

Forse. O forse no, potrei avrei potuto fare di più. io c'ho provato, 40 anni fa, ma la mia generazione – benché qualcuno come me si fosse attaccato in quella fine anni'70 a quella precedente, partecipando da ragazzino alla politica dei più grandi – è stata la prima del riflusso, del privato e della svolta a destra di questo paese.
Prima I cattolici, CL, poi Berlusconi ora Salvini e Di Maio, la stragrande maggioranza dei “giovani” tanto osannati oggi, dagli anni ’80 fino al 2018 ha votato a destra, e in generale ha votato CONTRO la sinistra. (dati iSStat e Istituto cattaneo, controllate) come del resto tutto il paese, da sempre.

Perché questa premessa per parlare del libro di Viola Ardone “il treno dei bambini” che Stile Libero ha lanciato con grande spiegamento di mezzi ed è già tradotto in 25 lingue prima di uscire? Perché non si capisce questa storia narrata nel romanzo, e legata al vero, senza sapere cosa sia stato il partito comunista e la storia d'Italia dal dopoguerra agli anni 70.
Sapere, è dire poco, bisgna immaginare, introiettare a fondo.

Ma .Mi rendo conto che già oggi non lo sanno, perché non lo sapevano allora, quelli come me nati a metà anni 60, guardavano altrove, pur se beneficiati da quel movimento (e certo non bisogna dimenticare il cattolicesimo sociale, certo , dentro la DC).
Difficile per me dimenticare la memoria bambina del 75-76 quando il PCI raggiunse il suo massimo storico, alle elezioni.
A casa mia si votava comunista, mio padre era muratore e quello era, così andava fatto - c'era maschilismo patriarcale e certo.
Mia madre era una contadina cattolica che aveva la quarta elementare e faceva come diceva mio padre, che era arrivato alla quinta.

Io andavo in sezione da piccolino per mano di mio padre e restavo fuori a giocare seduto sul marciapiede, mentre dentro c’era la riunione della domenica mattina. Sezione “Antonio Gramsci” al Tiburtino. Primi anni dei Settanta. Quando poi sono entrato al liceo, nel 77, I ragazzi grandi erano quasi tutti schierati "Né con Lo Stato né con le Br " e contestare il PCI con l’arroganza del saputello e contestare mio padre con la eterna dissidenza dell’adolescente, fu tutt’uno.

Poi tutto finì nel giro di due anni, Moro, le bombe. Nel 1981 la sezione del PCI chiuse, iniziarono le processioni della parrocchia per strada e da allora tutti I ragazzi hanno preferito il privato, l’omologazione, qualcuno era rivoluzionario “ebbro” la notte e ancora oggi è pieno di ragazzi che la rivoluzione la fanno In cameretta sfondandosi di alcol o canne, ma fuori “tuttapposto”.
Adesso ci sono i teen della generazione Greta, e sembra un miracolo. Vedremo.

torniamo al romanzo "Il treno dei bambini"
Quello che racconta Viola Ardone ha due piani. E io credo che il secondo non sia da trascurare, per questo la faccio lunga.
il primo è una storia universale, per certi aspetti. vediamo.
Uno.
il primo, quello della storia di Amerigo Speranza di otto anni che viene affidato al treno dei Comunisti, quelli che portavano da Napoli I bambini a crescere “a distanza” in famiglie del Nord, comuniste, che spesso li adottavano o li sostenevano, poi in seguito come faccio io con Barsha.

E in primo piano c’è la storia di un dolore che dilania Amerigo per sempre, anche se come in tutte le storie di dolore, la redenzione e la riconciliazione sono sempre in prospettiva possibili, I romanzi anche I più tragici servono a far balenare la stella della redenzione, anche se si risolvono in schianto finale, che qui non c’è,( questo è un romanzo doloroso e commovente, ma non è tragico, non fino in fondo almeno). Da un lato c’è la madre di Amerigo, Antonietta che col padre lontano in America – ma chissà – cresce il figlio con scoppole e modi bruschi che non sembrano amore.
Dall’altro lato, ci sarà Derna, la comunista di Modena, senza marito, senza figli che lo prende con sé, sceso dal treno, e lo cresce con la famiglia della sorella Rosa e di suo marito Alcide, che lo accudiscono tra valori comunisti, di rispetto e solidarietà e ne sviluppano il talento del violino. Amerigo cresce e significativamente vira anche nel cognome che sente suo, da Speranza, che gli ha lasciato il padre che come quella però non arriva mai, a Benvenuti, che è quello che gli darà la famiglia di Alcide e Derna, un ‘accoglienza, un gesto reale, anche se forse una goccia nel mare delle ingiustizie.

Dice Milo De Angelis che il tragico è come “un bambino smarrito” non sa che via prendere e così il tragico, non si dà come oppressione di una potenza oscura e superiore data al nostro limite d ieroi che soccombono, come I greci.

Nel 900, il tragico è la Storia e gli uomini in essa, e il destino sembra dilaniato tra due potenze che sono al tempo stesso interamente giuste e interamente incompatibili.

Amerigo cresce nello sgomento di una povertà e di una vita brusca a Napoli in cui non c’è amore, ma pure c'è magia di un sottosuolo di carne, è quello l’amore profondo che sempre manda scosse, vibrazioni, bradisismo, la radice che attraverso il bios ti richiama al suo profondo uterino.
E dall’altra l’altra c’è un amore razionale, fatto di logos, non è ciò da cui vieni, ma senti che a quell’accudimento sei destinato, perché ciò da cui vieni è un forte ma è pure un mancamento, un profondo incompiuto, come l’amore di Antonietta per il figlio Amerigo - che posterà su Derna l'amore, a perdersi nel suo profumo materno di non madre. UN romanzo sulla maternità che è non viscere necessariamente, ma valore di giustizia e empatia solidale. Amore, insomma. Che dell'amore delle viscere diffidiamo.

Lo svolgimento della vita sarà questo per Amerigo, quando anche crescerà, studiando violino, restando al nord, in una lunga lettera sd'ampre scritta a distanza e non vissuta con sua madre.
. Il romanzo è diviso in quattro parti: tre tra il 1946 e I due anni successivi. L’ultimo è titolato 1994. Amerigo, adulto, ultracinquntenne, affermato, farà I conti con quel dolore incompiuto e cercherà un senso nella distanza, un affidamento di sé stesso a distanza. UNa distanza ora irreversibile. E cercherà la stella variabile del suo cammino, ritrovando "Speranza".

Due.
Il Secondo piano è più sullo sfondo, anche se è quello che segna la vicenda, ed è l’organizzazione del Partito Comunista Italiano. Qui il senso della lunga premessa.
Mitologia, nostalgia, realismo, illusione e disillusione, sono tutti attivi quando parliamo di quella storia a cui molti di noi devono tutto perché fu la grande spinta propulsiva che attraverso la mobilitazione delle masse, riuscì a far ottenere diritti e welfare a un paese povero in cui I bambini erano costretti ad essere “strappati” a fin di bene (uso la parola volgare usata in questi tempi per Bibbiano perché al di là della complessa vicenda giudiziaria, è davvero insultante la volgarità di un pezzo di paese che sputa su una tradizione politica a cui deve sostanzialmente il merito di essere uscita dalla povertà, e perché ancora una volta è anche quella di cronaca una storia di bambini)

E ‘il piano, questo secondo, del personaggio della compagna Maddalena la giovane comunista che fu incaricata di accompagnare I bambini e che rimase sempre una maestra di vita e solidarietà, non solo a scuola. È Maddalena che nel 1994 consegna all’Amerigo adulto, ora affermato musicista di violino, col cognome benvenuti, la verità di un secolo che – direbbe l’altro napoletano, Ermanno Rea – s’è lasciato andare a una “dismissione”.

"Era più facile una volta. C'era il partito, c'erano le compagne e compagni del partito. Oggi non ci sta più niente, chi vuole fare qualcosa di buono lo deve fare da solo per conto proprio" dicce maddalena a Amerigo. (come faccio io con la bmbina di Calcutta)
"C'erano anche le cose brutte " - dice Maddalena - di quelal storia del PCI, ma resta l'insegnamento: ""tutto quello che si può fare, si deve fare". una cosa simile me l'ha detta valeria Luiselli, la scrittrice mesiscana. Poi ci torno.

Il romanzo è un limpido esempio di una tradizione che si rinnova, quella di un realismo partecipe: nella testa scorrono I film come Sciuscià e tanto De Sica, scorre Elsa Morante de La Storia, Anna Maria Ortese, scorre Erri De Luca, e altri.
Una storia simile l’ha raccontata Marco Balzano con “L’ultimo arrivato” pubblicato da Sellerio, che vinse il Campiello e che forse meritava più attenzione e maggiore ricezione, specie oggi che di minori non accompagnati si parla.
Quel libro parla di bambini che dal sud partivano come emigranti, e insieme a quelli, ma senza genitori, magari piazzati da qualche parente o compare al Nord e andavano lavorare, a spezzarsi la schiena nelle fabbriche e nei cantieri o nei negozi in condizioni di semiclandestinità e molto più soli. (una storia diversa anche se non meno sconfortante quella del treno dei comunisti)

Leggendo il libro di Viola Ardone, grazie al suo sapiente ed equilibrato uso di una ricostruzione linguistica per cercare di conciliare una leggibilità nazionale (e una traducibilità internazionale), veniamo immersi in un pensare bambino di un bambino napoletano del '46, con un risultato che è anche un altra eredità. quella migliore della nostra pedagogia – Don Milani fino a Rossi Doria. (Ardone è una professoressa, e mi viene in mente tra gli scrittori prof, anche Giusi Marchetta che sento di apparentare e su7 altri piani anche i romnazi di Simona Vinci per i bambini e per la storie de La prima verità - ma faccio torto sicuramente a qualcuno che dimentico ma vado a braccio)

La storia dei minori che vanno nel mondo da soli, oggi diciamo “ non accompagnati”, quelli che oggi arrivano sui barconi dall’Africa o chiusi in un tir, dall’Afghanistan (la storia di “Nel mare non ci sono I coccodrilli” di Fabio Geda ad esempio, altro esempio di una tradizione che si rinnova), volendo ci riporta anche a Charles Dickens .

Io sono diventato comunista (ovvio sui generis) all’età di otto anni, quando mio cugino diciottenne che era venuto dal paesello da dove erano venuti pure I miei negli anni 50, a lavorare alla Fiat e dormiva in camera mia, mi regalo un’edizione per bambini di Olivier Twist e quello fu il mio battesimo con le ingiustizie che andavano sanate, per bambini poi! Io ero fortunato e quelli no. Il pensiero mi straziava, è sempre stato così. Era un sentire ingenuo, ma è la radice su cui hanno poggiato tutti I ragionamenti adulti. Anche quelli di dissenso rispetto a letture troppo positive dell’immigrazione e delle stesse ingiustizie.

Con Dickens poi, io come tutti I bambini inquieti, io mi sentivo orfano, come Amerigo, non amato da un padre che rifilava troppe scoppole – e pure mia madre ogni tanto. (Ma erano quelle le madri e I padri e delle loro difficoltà a vivere non potevamo sapere, anche se oggi niente giustifica la violenza, anche la minima, di una scoppola, ma erano altri tempi e la redenzione per loro è necessaria, come il perdono che nessuno è esente). la faccio troppo lunga.

Perché cito tracce di possibili araldiche letterarie al cui termine c’è “”il treno dei bambini” di viola Ardone? Perché la stratificazione di storie può farci inciampare nel rischio di una ricostruzione paradossalmente metaletteraria, sentimentale ma incompleta di una storia. Viola Ardone lo evita, con sapienza, ma per i lettori sarebbe un bene sapere tutto il contesto e anche questa lunga tradizione di racconto di bambini che vanno via da casa, che migrano da soli, non accompagnati. Un esempio di come si possa superare, o tematizzare il rischio esibendolo, certo facendo una scelta più complessa, postmoderna, decostruttiva dello stesso racconto appassionato che pure vuole fare di una vicenda simile (bambini soli, su un treno dal Messico verso gli stati Uniti) è Valeria Luiselli che ha scritto “L’archivio dei bambini perduti” (la Nuova Frontiera) di cui pure consiglio la lettura, insieme al libro di Viola Ardone (e non dimenticate Balzano)

Luiselli narradi una coppia che viaggiando vero il confine del Messico, lui con suo figlio, lei con la sua figlia, da differenti matrimoni, ma ormai una famiglia, si apprestano a separarsi. L'amore della coppia sa finendo e i due neo.fratelli si divideranno seguendo il destino dei genitori-single.

A questa storia di dolore privato negli stati uniti delle opportunità anche per Valeria Luiselli che vive a new York, si sovrappone la cronaca che la narratrce vuole raccontare, quelal di dolore e solitudine dei bambini che in treno viaggiano da soli verso gli USa. Il romanzo di Luiselli è una mirabolante stratificazione, Ardone e più lineare, semplice, meno stratificata e metarifelssiva, ma tutt e due sono storie di separazione, di destino dilaniato, di un dolore inconsolabile, di una distanzache è come una voragine-confine.
E in entrambi, da lettori dobbiamo sempre essere consapevoli della Storia, dei suoi "millepiani " complessi che sono dietro, anche là dove non sono scritti.
Libro In ogni caso, da leggere.

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...