giovedì 15 febbraio 2018

L'ARTE, LA FICA, LA CENSURA, I SELFIE E I SOCIAL: IL CASO COURBET E UN ROMANZO

1.0
DA HEGEL ALLE GRANDI MOSTRE AFFOLLATE: L’ESTETICA COLLETTIVA DEL XXI SECOLO


L’arte all’inizio del XXI secolo vive in una giostra di paradossi: alle spalle si porta il peso della sparizione dell’arte stessa, dovuta non tanto all’estrema riproducibilità delle sue immagini ( che certo tocca apoteosi nei social network che neppure Walter Benjamin avrebbe saputo immaginare) quanto piuttosto alla vittoria totale del suo meccanismo di mercato, che si è fatto allegoria dei meccanismi e dinamiche, anche esse paradossali, del funzionamento di una società globale. E da qui, emblema di come si attribuisca “valore”, nella partita doppia dell’economia e dell’etica.

Nell’arte e in come si distribuisce nel mondo vediamo il post-capitalismo mondiale nella sua forma sperimentale, tra disseminazione del suo sex-appeal, anche virtuale (il brand prima del prodotto) e calcolo irrazionale di un costo, per cui l’oscillazione delle quotazioni artistiche tende ad assomigliare alla borsa di Chicago delle materie prime (in entrambi i casi è un gioco di intuizioni, scommesse, investimento sul futuro).
All’arte continuano ad essere legate le oscillazioni del gusto di una collettività, i rimbalzi di significati, le scosse simboliche che l’arte dà al mondo. Ma anche, al contrario, lo stesso meccanismo feticistico che è in ballo per la merce, il cui desiderio sta diventando più potente di ogni possibilità di critica allo stesso capitalismo postmoderno che le produce con sfruttamento “antico” ( masse  di lavoratori d’oriente che producono scarpe sneaker desiderate da masse popolari di altri lavoratori in africa,  che lavorano a produrre sottopagate lo zucchero con cui si confezionano dolci desiderati da altre masse popolari indiane e così via).

Con l’arte accade lo stesso: quelle che dovevano produrro " choc" sociali  ai borghesi, oggi entusiasmano la massa piccolo borghese mondiale, il "ceto medio consapevole e turistico" che si affolla davanti ai quadri per fare un selfie.
Tuttavia non ci si può fare nulla, è la democrazia  e giustamente masse di persone per secoli escluse, ora conquistano voce, esprimono a loro volta canoni di gusto, investono le opere di significati altri, magari più semplici, però l’estetica non è né una scienza, né una teoria fissa, non è un teorema.

Il  “bello”  dipende dalle risonanze della ricezione di un ‘opera, difficile definire secondo canoni assoluti un’opera in sé (malgrado la critica faccia proprio questo, stabilisce nel ristretto campo degli addetti ai valori un canone. Tuttavia, laddove la fruizione è più diretta, c’è meno bisogno di addetti ai lavori e critici, per cui la musica di Luigi Einaudi, disprezzata dai critici, viene considerata da un largo numero di persone alla stessa stregua di come per un secolo e mezzo la borghesia colta mondiale ha considerato Chopin). <

Va anche aggiunto che è stata la riflessione filosofica sull’ estetica ha decostruito sé stessa in una pratica multiforme di relatività del gusto, di moltiplicazione o polifonia delle forme artistiche, tutte legittime, tutte belle, tutte di valore.


 Oggi sono le grandi mostre, grandi aste e grandi fiere o biennali a polarizzare con il loro successo con il loro clamore eclatante l’attenzione dei fruitori, superano il recinto delal critica e degli addetti ai lavori. In queste la proposta e la risposta di opere producono un misto di semplificazione del canone (il rinascimento, gli impressionisti, Van Gogh, Modigliani (la fama di Modigliani nelle mostre di tutto il mondo è tale che sta producendo una serie di falsi, di cui quelli scoperti a Genova sono solo una piccola parte), Picasso, Caravaggio che diventano le “rockstar” dell’arte.
Fa parte della sua “risonanza” e che dà valore estetico in modo direttamente proporzionale, il  valore economico dell’opera – in cui la punta dell’”inestimabile” è solo la estrema legittimazione che  l’arte si valuta a partire da “quanto è stimata”. L’erre tipico del non intenditore di vino: “costa molto, sarà buono.”

Dunque Non è più l’occhio soggettivo, individuale ed interiore, affinato  abituato alla tecnica, ai significati formali e storici del gesto pittorico, artistico che produce un’opera. L’arte sempre di più asseconda cosa il sistema della distribuzione del bello definisce come tale -  “bello” (al tempo stesso questo stesso sistema recepisce le indicazioni dal basso, privilegiando prodotti di facile e diretta figuralità.)
La cosa che si può sottolineare è che il bello (artistico, ma non solo: pensiamo al turismo) è sempre più  sottoposta ad una fruzione collettiva, a uno sguardo collettivo, è sempre percepita anche fisicamente, alla lettera, “tutti assieme”, in gruppo, spesso in modo clamoroso, con un reale affollamento fisico e rumoroso, a contatto con altri corpi, che disperde la percezione dell’opera (se questa vogliamo immaginarla in modo classico come meditazione interiore) e che al tempo stesso è un’ulteriore conferma del  valore dell’opera – o dell’autore/i in mostra -  (come per il vino “se c’è tutta questa fila, sarà bello”)

I grandi incassi della mostra diventano dunque parte del mercato dell’arte e a cui  stavolta –  collettivamente – anche il singolo anonimo cittadino ha partecipato, come fosse un’enorme “fund rising” che valorizza l’autore – già di valore esso stesso. detto in modo semplice: Se una gran massa di turisti sborsa, poniamo,  un miliardo di euro per vedere Caravaggio a Milano in tre mesi, si compie quel che fa l’anonimo compratore che ha acquistato  per 450 milioni un Leonardo su cui ci sono anche alcuni dubbi, e questo stesso fatto catalizzerà migliaia di persone a vedere quel quadro, trascurando i Leonardo Da Vinci pur visibili, a volte in forma gratuita, in musei di facile accessibilità.

PS in realtà le mostre spesso di fanno anche perché l'esposizione aumenta il valore di opere possedute da "fondi privati" - per fare un esempio,  le mostre di Sgarbi a Palazzo Reale di Milano all'epoca, primi anni 2000, erano proprio questo, spesso: un favore fatto ai vari proprietari di "croste" diciamolo che inserite poi nell''esposizione in una mostra a Palazzo Reale   e nel catalogo aumentava il valore dell'opera del privato proprietario al borsino delle aste. Quindi tanto neutre non sono le mostre.


1.1
SALVATOR MUNDI , GEOPOLITICA, GUSTO GLOBALE, ESTETICA  



Con la vicenda del “Salvator Mundi” il discorso sul capitalismo mondiale intreccia  l’arte e ci dà un esepo interessante e concreto.
Dopo pochi giorni dal clamore della vendita del “Salvator Mundi” leonardesco, come è noto, si è scoperto che l’acquirente era il principe erede al trono saudita Mohamed bin Salman, amico del principe Zayed al Nahyan presidente degli Emirati arabi uniti dove c’è il Louvre di Abu Dhabi, museo che esporrà il Cristo del Da Vinci  – e dovrebbe catalizzare masse globali di turisti-spettatori-fruitori di un’opera-evento. Non solo: questa operazione – comprare il quadro più costoso della storia occidentale, falsando così la scala dei valori del mercato stesso dell’arte in occidente ( anche istituzionale: quale museo può comprarlo a quel prezzo?) trasportarlo in un museo arabo, portare in questo museo un pubblico globale, in gran parte non-occidentale, ma soprattutto usare l’opera come provocazione culturale che sposta equilibri : esporre un Cristo in terra araba, un gesto che vuole essere uno schiaffo dei “giovani” principi sauditi alla vecchia nomenclatura conservatrice e wahabita – accreditandosi agli occhi dell’occidente come moderato e riformatore.
insomma "epater le scheik", choc non ai borghesi, ma alla nobiltà conservatrice araba.

Un gesto che sposta dagli artisti ai mercanti quelle dinamiche che un tempo erano degli artisti-produttori dell’opera nei confronti del pubblico, della società e del sistema stesso dell’arte, accademico o del mercato stesso, in nuce all’inizio dell’ultima fase del moderno. Insomma il principe Mohamed sta facendo un gesto di destabilizzazione con un’opera d’arte, in modo che potrà essere anche scandaloso nella sua società, come fu l’esposizione di alcuni quadri di Courbet, nel suo tempo in Francia.



2. 0
COURBET, DALLO CHOC DEI BORGHESI AI SELFIE DI MASSA CON “IL QUADRO DELLA FICA”


C’è un bel libro recente ( David Bosc, “La chiara fontana”, L’Orma editore)  che ci racconta uno dei più significativi artisti del XIX secolo, Gustave Courbet fondatore del realismo, ma al tempo stesso capace di lavorare sul significante formale dell’opera, narrando l’ultima fase della sua vita, Courbet al suo tempo e Courbet oggi, accostandoli possiamo forse capire anche lo squilibrio rispetto al sistema globale dell’arte fin qui descritto, il libro di Bosc  con la scrittura esplora il cuore pulsante della creatività di  questo artista mondiale,  un piccolo libro letterario, con una prosa (come sempre ben tradotta per quanto riguarda l’Orma, stavolta da Camilla Diaz)  di cui è evidente il tentativo di inseguire il suo  oggetto narrativo, attraverso il racconto dei tumulti, dei tuffi e delle trame psicologiche, delle illuminazioni di un pittore che inventò il realismo (inventò il termine sicuramente, fu il primo a definire le sue opere con questo aggettivo) ma che poi lo travalicò  con una forza visionaria, così da generare il paradosso di un realismo che tallonò così da vicino la realtà da farla però diventare “l’impossibile” da rappresentare.

Questo corpo a corpo con la Natura Courbet lo fece da artista, mentre introno a lui l’Europa di metà ottocento  della tecnica e del capitalismo iniziava la sua accelerazione – ma lui come il poeta veggente Rimbaud che gli era contemporaneo seppur non coetaneo – fondavano per l’ultima volta un dominio dell’artista come sovrano (ma non riconosciuto subito, anzi crocifisso come un Cristo scandaloso) di una visione del mondo e del suo segreto generativo e creativo.





 2.1
IL CASO COURBET : L’ARTE VA ALL’ ORIGINE DEL SE’
 (tra realismo ottocentesco, psicologia, avanguardie del primo 900)


prima di proseguire, una breve considerazione sulla stagione in cui inizia "l'arte moderna".

Il linguaggio dell’arte è ciò che riproduce il mondo, ma non tanto in una copia appiattita dello sguardo, come stava già facendo per conto suo la fotografia. La pittura, l’arte volevano arrivare alla vita come la vita stessa. Courbet amava moltissimo tuffarsi realmente in ogni specchio d’acqua che incontrava, era per lui come una passione irrefrenabile. Il pittore sceglie di non dipingere la realtà, il bel lago, ma si spoglia e si tuffa. Questo gesto – che equivale al lasciarsi andare ebbri alla corrente del battello-Rimbaud o trascinarsi dell’angelo nel fango cittadino dell’angelo decaduto di Baudelaire, anche se Courbet – che pure conosce, frequenta in un famoso bistrot, forse abita insieme a  Charles, non amava del poeta dei Fiori del Male quel suo trafiggere il mostro – così Bosc identifica in Baudelaire, rispetto a Courbet pittore del “tuffo” nel grande tutto.

Courbet è un omaccione grosso e generoso, vitalissimo, E Bosc lo racconta seguendolo con la prosa che si adegua anche alle premesse poetiche dell’oggetto-personaggio che narra, Courbet, ma soprattutto la sua pittura, come lui vitale, che coglie in certi sussulti di vitalità, intrecci di visionarietà, eccessi. “Alla chiara fontana un bel dì sono andato/ tanto nella era l’acqua che mi ci sono tuffato”. Sono versi che Courbet ripete e forse lo identificano anche nell’inseguire “l’origine” stessa della sua pulsione rappresentativa, un realismo che non è solo piatto riprodurre la realtà.
E di fatto, l’artista non fa che riprodurre sé stesso. la parola "Riproduzione" qui può conservare l’ambivalenza anche di generazione, in cui ciò che viene fondato di fatto è una forma dell’individualità: nell’oggetto rappresentato c’è il meccanismo generativo del soggetto che rappresenta, ci sono le leggi e le forme della sua creazione, c’è insomma il linguaggio, l’origine stessa del linguaggio che è in atto in ogni riproduzione artistica che usi quel linguaggio medesimo.
Non è un caso che Freud iniziasse in quel periodo una medesima indagine in cui saranno proprio i linguaggi artistici ad essere sia ispiratori della scienza psicoanalitica, scienza anomala da questo punto di vista, sia oggetto poi d’indagine da parte di critici freudiani o post freudiani. Courbet ad ogni quadro fonda l’individualità, nell’oggetto c’è sempre l’origine soggettiva. Courbet cercava il percorso che porta un individuo ad essere sé stesso, insomma la sua origine interiore.

Quegli artisti,  prima maledetti, venivano però succesivamente riconosciti maestri di questa nuova "indagine interiore": la modernità filosoficamente iniziata secoli prima, ora stava piantando i suoi valori dell’individualismo in terreni sociali più ampi. LA borghesia si scandalizza, ma poi si riconosce nell’artista, ne riconosce il talento individuale - come l'imprenditore no? -  riconosce una grande personalità, un maestro. Insomma l’esaltazione dell’impresa individuale fa tutt’uno, seppur in modo conflittuale, ancora una struttura verticistica nella costruzione dei suoi valori.


Non è un caso che tutto questo assume una valenza immensamente simbolica in quel quadro che Courbet dipinse nel 1866, e che egli chiamò semplicemente “l’origine” poi diventando celebre perché un collezionista che l’acquistò aggiunse “del mondo”. Non solo del mondo quella era “l’origine”, non solo per il riconoscimento libero e sensuale al corpo libero, ma anche il riconoscimento allo sguardo altrettanto libero di non avere più alcun tipo di barriere nello spazio pubblico, lo stesso sguardo così libero e diretto era l’origine del suo dipingere da vero realista la realtà, che oscenamente, pornograficamente si mostra in tutta la sua evidenza che non ha bisogno di mediazioni: come nella “chiara fontana” lo sguardo è invitato a tuffarsi nella realtà dipinta. E tuttavia, propri perché dipinta, questo è intimamente impossibile.

“Questo quadro dovrebbe essere esposto in una stanza a parte, al D'Orsay, da solo e per uno spettatore alla volta” ci dice David Bosc , incontrato a Roma a “Più Libri più liberi” 2017 “così da restituire il contatto diretto e intimo con ciò che voleva essere”.  Courbet è  stato un artista che fece dello scontro sociale parte non solo della sua vita artistica, ma divenne anche impegno politico  (fu tra i dirigenti della Comune di Parigi e l’abbattimento della colonna di Vendome fu la causa dei guai dei suoi ultimi anni) eppure questo quadro fu concepito esattamente come il desiderio di Bosc di sottrarlo alle masse di sefie dei turisti del D’Orsay, per un solo spettatore.

Courbet era famosissimo,  ma pure fu un antagonista in quegli anni. Sfidò le Esposizioni ufficiali, con un suo padiglione privato, ma era già stato messo in croce per i suoi quadri inquietanti (“LE signorine sulla riva della Senna”)  nel 1857 poi dieci anni dopo dipinde  “L’origine” che tuttavia fu dipinto su commissione di un collezionista.
“Del quadro bisogna cogliere la a sfida col tutto – ci  scrive Bosc – come la intendeva Courbet, con la pienezza della vita da inglobare, fino a bandire il misterioso, il meraviglioso e l’incomprensibile”. E tuttavia, poiché la natura, il mondo sono l’inesauribile e irriducibile, l’artista porta l’individuo ad accettare la dismisura, il panico che la realtà genera, con illuminazione abbagliante e accecante che introduce di fatto ad un’iniziazione. Così lo concepì il pittore, d’accordo col suo committente il diplomatico turco Kahlil-Bey, un quadro da tenere sotto una tenda verde e da svelare da soli, sollevando la tenda. Era questo tuffo in acque chiare, ma di cui non è possibile intuire la profondità il doppio rapporto tra estremamente aperto e offerto oscenamente a noi e rigidamente coperto e velato al tempo stesso.

 Non a caso il quadro finì nello studio di Jacques Lacan, nel 1955. Il filosofo e psicoanalista francese era l’ultimo lembo di una storia della rappresentazione della realtà che si basava su solidi principi sia soggettivi che ideali, tesa tra Hegel e Marx e che propri Lacan – sulla scia di Freud e Nietzsche stava contribuendo a demolire e decostruire per sempre, dopo che per qualche decennio le avanguardie avevano già compiuto le prime operazioni di demolizione di una prospettiva della realtà – quel che Piero della Francesca aveva inventato, si rivela come tale – un’invenzione della realtà attraverso i suoi linguaggi: con le avanguardie – prima di essere sbeffeggiate e sepolte da Duchamp – era iniziato comunque un processo di de-realismo - de- realtà a dire il vero - dell’opera, privilegiando i linguaggi complessi dell’espressione di sé così come si andavano definendo attraverso un vissuto metropolitano e accelerato che faceva esplodere ogni possibilità di recuperare l’alienazione di sé – anzi la rivendicava – e dall’altro in quell’alienazione cavalcata, l’altro da sé che portiamo dentro trovava una voce: tra cubismo e espressionismo questo è il tentativo. Poi il Ready Made, introduce il gioco di specchi con la realtà e al tempo stesso l’ironia della consapevolezza nei linguaggi stessi dell’arte, che perde ogni possibilità di dire cosa sia il mondo e la realtà. L’approdo di Lacan, le scienze del linguaggio, lo strutturalismo, ci consegnano un meraviglioso meccanismo per interpretare ogni forma della realtà, ma al tempo stesso tolgono a quella forma ogni statuto di certezza e di metafisica.

E in base a questa convergenza che Picasso, a casa di Lacan, sollevando proprio la tenda verde del quadro di Courbet – come racconta Walter Siti nel suo libro col titolo preso da quella frase – dice, dopo qualche secondo di silenzioso sguardo profondo -  “il realismo è l’impossibile”.

Quello che era considerato il fondatore e l’inventore del realismo  (compresa questa stessa parola, quando giusto cento anni esatti che un suo quadro finisse a casa di Lacan, espose nel 1855  i suoi quadri rifiutati al Salon, con un’esposizione alternativa intitolandola “Du realism”) aveva anche intimamente compreso che la realtà sgorghi da una fonte inesauribile, come una fontana, ovvero la possibilità infinita di essere espressa attraverso un linguaggio che in modo inesauribile “la manchi” continuamente, cercando di fissarla, alla fine rinunciando di fatto a copiarla.
Nel suo quadro certo più “realista” , per certi verso osceno, senza difese (L’origine) con quella tenda voluta dall’autore ci stava dicendo che anche la realtà, l’oggetto più “ready “ in realtà è una sovrapposizioni di nascondimenti, un gioco di svelamenti, oltre il quale non c’è nulla, ma l’inesauribile ambivalenza del suo significante di superficie è “l’oltre”.
 La tenda sopra aveva questo compito, ricordarci che anche l’estremo e osceno realismo sono un teatro mentale, una forma di linguaggio che trasforma la “realtà” in “reale” e la realtà è espressa, rappresentata, da un linguaggio che si approssima continuamente ad essa.  Non a caso questa scena avviene a casa del filosofo che insieme ad altri teorici e artisti partecipava di quella cultura che destrutturava i linguaggi stessi della filosofia e dell’arte, togliendo loro statuto, condizione di possibilità di poter rappresentare la natura, la vita, la realtà.
Come Duchamp, anche Lacan che osserva tutti i giorni il quadro i Courbet, il significato interiore o l’oggetto esteriore non sono che dinamiche di segni, di significanti. Rappresentare con l’arte è un inseguimento a vuoto della “Chiara fontana”, al cui posto c’è un paradosso, una mancanza, un vuoto, una risata ironica che tutto seppellisce.


2.2
L’ORIGINE DEL MONDO: DAL SE’ AL SELFIE


Stiamo parlando però del raffinato elaborare, quasi avvitandosi su sé stesso, di una filosofia che rappresenta proprio quella eccellenza dell’indagine interiore individuale, fino al punto di metterla in discussione dall’interno (come Duchamp e Lacan su tutti) ma al tempo stesso figlia di quella elitaria concezione di cosa sia puntare all’origine di sé e che spesso portava ad una coincidenza “one-to-one” tra gruppi ristretti di spettatori e fruitori e l’artista.
Stiamo parlando dell’Europa della prima metà del secolo, in cui la scolarizzazione è relativa, è forte il divario tra la borghesia stessa e le classi popolari.
Poi arriva la guerra e tutto cambia, tutto si accelera. LE stese grandi masse escluse dal potere, sono travolte dalla guerra che altri hanno provocato e accettato e anche nei casi di paesi democratici, come gli Stati uniti, tocca poi a migliaia di working class kids andare a combattere per la libertà.
inevitabilmente saranno protagoniste, soprattutto col pieno ritorno dell’Europa alla democrazia, con lo sviluppo in tempo di pace del capitalismo diffuso e della mercificazione pop.
Ma anche l’Europa delle avanguardie di Picasso e Duchamp finisce, si evolve nella direzione in cui i due artisti forse avevano intuito andasse, ma di fatto erano più espressione della fine di una storia della formazione dei valori, etici e artistici.
Nel giro di pochi anni, a fronte di questa perdita di autorevolezza dell’arte e della cultura,  che dall’interno contesta sé stessa, la sua presunta autorità, i suoi idealismi , le sue grandi narrazioni,  emerge proprio in quegli anni Cinquanta la società delle masse del dopoguerra, che sposteranno completamente il piano della discussione.
Più che un allargamento dell’idea di arte, bello, più che un allargamento della fruizione dell’arte secondo i canoni trasmessi nella pedagogia democratica delle scuole, la “popular art” che si diffonde nella nuova midcult occidentale fino ad arrivare alla fruizione di massa di oggi,  utilizza in modo diverso la stessa materia dell’arte. Nonostante un accesso delle prime generazioni degli strati sempre esclusi dalla cultura, è proprio questa rifondazione apocrifa di una fruizione dell’arte ciò che da sempre (da Adorno in poi) fa discutere criticamente sulla reale portata culturale di una cultura fruita in modo industriale e massificato, a fronte di una spontanea fruizione di forme di linguaggi attraverso i media.
 Ora sarebbe complicato riassumere qui la trasformazione estetica che ha posto lo sviluppo della “popular culture” – da Beethoven a Elvis Presley e oltre -  complessa fino al punto che sofisticati artisti ne hanno fatto materia e situazione di opere e performance, quasi aderendo in maniera acritica a quell’accumulo di significanti che produce (anche industrialmente col consumismo) la società di massa (Andy Warhol il primo)

 Ancora oggi, l’uso del materiale che costituisce l’estetica della società di massa, entra nelle biennali e nelle gallerie, ma come rielaborazioni ironiche e “camp” di artisti colti, mai prodotte direttamente dalla medesima massa da cui emergono produzioni estetiche, ma sempre in forma pop, che poi entra nelle opere d’arte – o diviene essa stessa parte di questo circuito (vedi i graffitisti che dai muri entrano nei musei o la parabola di Banksy) che è solo una citazione postmoderna dell’eterno ritorno del pop.

La società di massa tuttavia è cresciuta nella fruizione con la crescita della scolarizzazione e del turismo sceglie le proprie icone e le modalità di restituzione del valore dell’arte. Depotenziandone la “profondità”- non curandosi più del "tuffo£" interiore e solitario nelle profondità del sé attraverso il linguaggio e leforme d'arte - questa, forse,  è un storia culturale conclusa, marginalizzata a minoranza, forte ma minoranza.
.
Per chiudere la parabola, l’arte non è più per quel corpo a corpo con la natura, la realtà e oltre la realtà, per quel tuffo nella “chiara fontana” dell’origine stessa della propria percezione, come faceva Courbet e come faceva il suo collezionista e come faceva in fondo il suo pubblico, abituato a quel valorizzare l’individualità e il suo concetto di “profondità”.
. Il processo verso la profondità, che dall’artista passavano ad un pubblico che partecipava degli stessi processi in base alla omogeneità culturale che condivideva con l’artista, nel momento in cui il livello di istruzione si allarga e si fa “medietas” non solo c’è un attestarsi su “canoni” tradizionali (è grottesco, ma l’episodio di Alberto Sordi alla Biennale in “Dove vai in vacanza?” del 1978  è ancora oggi un modello delle reazioni medie non troppo dissimili da quel che ancora oggi accade anche a visitatori di “grandi mostre”  di fronte alle opere “da biennale”) – i dati ISTAT ci dicono che crescono le partecipazioni alle “grandi mostre”  che non a caso sono Modigliani, Picasso, Caravaggio, Gli impressionisti, Monet, ecc. al massimo la Pop Art.

Proprio la Pop Art non viene interpretata con quel doppio-fondo camp, ironico, citazionista e critico nei confronti dell’arte, ma viene fruito come un tempo i pittori del 700 come una celebrazione del proprio mondo identitario (di ceto medio consapevole) che finalmente viene “assunto” nell’olimpo dell’arte. insomma nella scatola del “Brillo” c’è la critica alla casalinga di Voghera come del Missouri, ma oggi le casalinghe nipoti di quelle, vedono nel “Brillo “ la celebrazione dell’epopea del proprio essere-massa.
 Si azzera ogni critica della società consumista, anzi è proprio la rifrazione tra varie superfici del consumo a “rappresentare” la realtà dell’arte di oggi che diviene parte dello stesso consumo. il poster della “Brillo” e il “brillo nei supermercati” - l’opera originale è sempre consumismo, ma di lusso, come le Ferrari.


2.3
L’ORIGINE DEL MONDO E’ IL BUCO NERO DI FACEBOOK

 E dunque un bel libro come quello di Bosc mostra anche la distanza tra il buco nero da cui l‘acqua della fontana sgorga e la superficie della medesima acqua in cui lo spettatore si riflette. Per cui è proprio nel segno di Courbet che questo accade, se oggi “L’origine del mondo” di Courbet è sia l’immagine più censurata su Facebook (oggetto di campagne di protesta contro la società di Zuckerberg) nell’esposizione universale del nostro “io minimo” moltiplicato in una massa di narcisismi che fanno comunità, che è proprio Facebook.

Al tempo stesso come quadro è ancora oggetto di pruriginoso successo e ironie e proprio Bosc, ci raccontava a Dicembre a Roma, dell’insopportabile pellegrinaggio da selfie di cui è oggetto al Museo D’Orsay, in cui gli spettatori fanno la fila per essere fotografati con alle spalle l’origine del mondo, riproiettata non al mondo ma al “proprio mondo” dei followers, come una sorta di “realtà aumentata” del propri sé (con un gioco di parole che si potrebbe definire “dal Sé all’ Osé “ ) collocato in un evento, in un luogo, uno di questi , ma non DI FRONTE ad esso, non con quel corpo a corpo con l’opera che doveva  essere la “riproduzione”  della dinamica di corpo a corpo dell’artista con la natura, e con il proprio sé profondo.
L’osceno non è il mistero che sta fuori la scena, dentro una sorgente oscura, l’osceno è proprio quello che può mettere in scena il sé potenziato da un’immagine.  Così anche Courbet e “L‘origine del mondo” entrano a far parte di una estrema visibilità dell’esposizione universale (non scevra da censure globali, per cui l’anonimo revisore ventenne di immagini  che per poche rupie a Bangalore potrebbe censurare il nostro selfie su Facebook) – del sesso che si unisce all’estrema visualizzazione di un quadro-icona (tipo Monna Lisa poi finito nelle grinfie di Warhol). Ora non c’è più bisogno d’interpretare un quadro icona – è l’icona stessa moltiplica la sua visibilità nell’essere esposta a milioni di turisti nel museo d’Orsay -, ma al tempo steso censurata da Facebook, in entrambi i casi la chiara fontana di Courbet è chiusa, la superficie definitivamente asciutta. Noi, come tutti, possiamo anche dire “Io” ma non siamo che “pura superficie” (Guido Mazzoni) tra milioni di altri, ognuno imprigionato nel proprio riflesso che arriva dell’altro, dai milioni di altri. **


** non a caso, ogni volta che Yayoi Kusama espone la sua “All the Eternal Love I have for the Pumpkins” la stanza degli specchi con le zucche a pois, moltiplicati anche essi milioni, l’artista impone che la fruizione sia un singolo visitatore alla volta (mi è capitato di vederla a New York, al Wintey, e a Roma, al Tempio della Pace, e sempre c’era una massa enorme di singoli che faceva la fila per quella esperienza unica (come Bosc sogna per Courbet de L’origine) unnica e riprodotta all’infinito negli specchi e non solo – perché  naturalmente tutti (me compreso) abbiamo fatto dentro, da soli, nella nostra solitudine di due minuti, nella tanto desiderata percezione solitaria e interiore, un selfie. E postato su facebook.

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...