venerdì 22 giugno 2018

DA X-GENERATION A X-FACTOR, I PEARL JAM E I SUICIDATI DELLA SOCIETA' (MA SOLO UN PO')






Non bisogna mai farsi influenzare dalla materia di un libro. Inoltre “Anni luce” di Andrea Pomella non è un romanzo vero e proprio, è un memoir con dentro una storia di formazione e dissolvimento dentro un’amicizia che si infiamma e si sbriciola dentro i primi anni 90 tra due ventenni. Dentro ‘amicizia il sangue che scorre è il rock – e di fatto questo è una biografia indiretta di esistenze Grunge – qella di Eddie Vedder per primo – e racconta un’epoca e il punto di vista sul mondo di quell’epoca formato con la musica, nzi meglio impastato con le sue schitarrate e gorgogli disperati. “Incendi” è la collana di Add diretta da Fabio Geda che ha pensato proprio a forme ibride della narrazione.
Se si parla di musica, invece è inevitabile prendere posizione, ognuno ha la sua storia gusti e memorie e si finisce per difenderle. Io non farò da meno, la mia poetica di critica sarà quella del cannibale – del resto in piena coerenza con l’etichetta che la bolla letteraria e editoriale diede a quella generazione nel 96.

“Anni luce” è nel gruppo dei 12 dello Strega, ha avuto ottime accoglienze e infatti è molto ben scritto, con l’assunzione dentro la letteratura dello stile del new journalism applicato alla biografia.
Io ho una tesi forte: la cultura di massa è il sorgere apocrifo di una socialità e di un’antropologia, di valori e gusti che non sono l’evoluzione della società borghese da cui le masse popolari si fanno contagiare. La piccola borghesia di periferia, impiegati piccoli commercianti, piccolissimi imprenditori e le classi lavorartici non ereditano né la cultura politica né quella umanistica. Nella musica, proprio il jazz e il rock – e il pop – sono la cartina di tornasole di questa entità “frankenstein” che non è evoluzione di nulla. Gli studi della “popular culture” americana mettono a fuoco meglio di tutti questa entità, senza la litania che sentiamo ribadire nel paese con più tradizione one elitaria dell’occidente, ovvero l’Italia, che classifica i libri che scalano le classifiche e la musica commerciale come una degenerazione superficiale di modelli tradizionali, mentre invece è un prodotto autonomo e “endogenetico” imparagonabile.

“Anni luce” è un libro in prima persona, ma tenendolo dentro il codice-letteratura  – lezione Capote - e così il “personaggio-che dice-io” (“Per-Io”, d’ora in poi) non necessariamente potrebbe essere Pomella Andrea, l’autore. Però proprio il suo restare prima della letteratura ne fa materia bollente, e coinvolge.
Il libro poi parla di rock, di giovinezza e scelte di vita, di amicizia e di avvenire che non s’avvera. Come tante storie di speranze giovanili tradite. Tutte, non ho mai incontrato un trentenne che non sia nostalgico.
Qui però senza la politica (il grande classico della nostalgia, formidabili quegli anni) e senza “la Storia”.
 E’ il succo di un vissuto personale e dell’urlo disperato che ha segnato, col rock, tanti di quella generazione, anche se ormai – a parte i Beatles ed Elvis forse – pochi eroi del rock o pop possono essere voci di un’intera generazione (qui sono i Pearl jam e il Grunge degli anni 90, quando la maggior parte delle persone ascoltava le Spice Girls Madonna Micheal Jackson o gli 883 da noi  ecc. quando esplodeva Radio Deejay e Fiorello con il karaoke. Il pubblico, il popolo – per essere attualizzanti).Ma pure “Anni luce” qualcosa dice a nome di tutti i ventenni dei ‘90’s.

C’è succo -anzi meglio sugo -  di vissuto dappertutto in questa storia di due amici, chi racconta e il suo amico Q, cantante e  chitarrista di una band grunge romana underground. LA loro vita si divide tra il palco e realtà (sigh) accumunati da convergenze di estrazione sociale simile, periferica, romana – Roma est, fa la differenza, casa mia (osservazione cannibalica)  -  e poi le feste, l’esplosione delle droghe e molto moltissimo alcol, un viaggio in interrail nel 1995. L’acme di una stagione dei ventanni e subito la parabola a discendere.
Applichiamo l’empatia critica,  siamo tutti devoti alla formazione “artistica” – la music ha plasmato un modello d’essere, il timbro di un’aura sta nel riff di una chitarra, che dice come una bandiera rossa per chi ha fatto il 68. Non c’è nostalgia, né favola, né memorie di un fan qui in AL. Più o meno 25 anni dopo il 68, nel libro, dentro quella  storia rock a due, si racconta una cosa grossa: che “la gioventù”  fa naufragio per sempre.

Da altri 25 anni la gioventù non si ribella, è assoldata a speranze commerciali e di talento legato alla fama, non tanto al talento in sé. 

Di quel naufragio – vissuto da tutti, non solo i grunge  – se ne accorse però con consapevolezza una parte della medesima generazione. Il simbolo di chi cantò quel “post-no-future” (che era ancora provocazione dentro un conflitto in atto, il 1977) fu quel genere venuto dalla California più consapevole,  e in particolare I Pearl Jam, e in particolare Eddie Vedder. Se ne accorse da subito, con l’album “Ten” uscito appunto nell’agosto del 1991. LA Tempesta del Deserto era appena passata sull’Iraq, il deserto era dentro di noi – e dentro chi aveva diciott’anni c’era un deserto mortale ereditato dagli ’80 e che si preparava all’ibernazione berlusconiana dal 94 in poi. Una generazione di ventenni italiani scopre dal 1992 che il paese che i loro genitori stanno per consegnare loro è marcio di corruzione. Non solo i politici, quella la favola di rimozione che ci siamo raccontati, ma tutti a chiedere raccomandazioni, a non pagare le tasse a vendersi il voto. 

Inevitabile decidere di darsi alla morte e fuggire in un altrove. I media eleggeranno a rappresentante di quei ventenni Pietro Maso, proprio un anno prima, nel 1991. Senza aderire  quell’esagerazione sociologica, non c’è dubbio che l’eredità generazionale che un paese consegnava ai ssuoi figli era un debto pubblico feroce e l’idea che solo gli sghei contano nella vita.
C’era stata una cosa che si chiama “la Pantera” un movimento studentesco, che a rivederlo ora fa l’effetto da foto-ricordo d una recita di fine epoca, contò zero per una generazione less then zero, replicò modalità estinte di movimento, ma più come posa, che non come risultato di una crescita culturale – come la Pantera da cui prese il nome, che tanto fece parlare di sé quanto fu prontamente ingabbiata e dimenticata.

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“Anni luce” è raccontato dall’anno 2016, con un “Per-io” adulto, con passione sentimentale. Dentro quegli episodi e quegli anni ci sono stato anche io da non-giovane, trentenne, che aveva molto sgobbato e un  poco avuto anche culo, ma quel tanto che bastò per ritrovarmi a fare il giornalista ma “aggratis” (non c’era ancora la precarietà ma ci pagavano già in visibilità) operativo “diciamo-giornalista” in radio, e mi occupavo del mondo - l’Iraq o la Russia del colpo di stato – Di quei ’90 ho un’altra percezione, ma ero lo stesso un ventisettenne, avevamo tutti alla spalle le macerie del 900 – io ero cresciuto a botte di Pink Floyd e Led Zeppelin, onnivoro. Avevo posato il culo all’infinito anche io – come il Per-io di AL,  e sicuramente Pomella,  sui marmi della facoltà di lettere della sapienza, giusto dieci anni prima, e continuavo ad andare al Villaggio Globale, come Q e il Per-io, perché la tragedia delle generazioni giovani dopo il 68 è che non avrebbero più voluto abbandonare quella riserva indiana della gioventù, per questo rifiutando la responsabilità di prendere di petto la Storia, si sarebbero in qualche modo consegnata a chi s’è poi approfittato di tanta indolenza post-sbronza.

Ma che cosa taglia in due, che cosa frantuma e spacca, questa generazione oggi 45 enne,  di cui racconta Andrea Pomella? che cosa li distingue?  Il loro suicidio, o meglio: che furono intimamente dei “suicidati della società” come Artaud definì Van Gogh, che era parecchio Grunge, pennellava come i Nirvana e i Pearl Jam schitarravano.

Pomella fa un parallelo interessante: il 1979 è l'anno del divorzio di Jeremy Wade, un ragazzino che sarà tra i primi a fare una strage nelle scuole americane nel 1991. Il 1979 divorziano anche i genitori dell'io narrante, che ha sei anni quando accade, e due anni dopo nel 1981 anche Eddie Vedder (che tuttavia è di dieci anni più grande) il cantante dei Pearl Jam, vedrà i genitori separarsi, e aveva già saputo che il suo vero padre biologico, in realtà era un altro. Nell’album “Ten” che esce nel 1991 c’è traccia di questo dolore privato: “Alive” dedicata al padre vero, e “Jeremy” dedicata proprio a Wade.   Sono, quei ragazzini o adolescenti più grandi (lo steso per Kurt Cobain nato nel 1967 o Monte Rissell, altro serial killer) a fine anni 70, inizio 80, i primi “figli di divorziati” – le loro famiglie si rompono come sarà sempre più comune nel futuro. MA all’epoca, specie in Italia, in ritardo culturalmente, sono i primi, i primi a subire i traumi della libertà -  libertà dei propri genitori che vivono un’esperienza frattura nel privato -  è questo che contraddistingue la loro esperienza di bambini a cui rimarranno sempre legati.

“Anni luce” ha nel cuore questo enorme dolore privato, ma che fu travasato e condiviso, seppur nelle notti barbare, nelle stanze chiuse  – e sarà questo un peso che segnerà anche il destino pubblico di una generazione  – forse proprio nel decidere di non avere un lato pubblico, di rinunciare a storia e futuro, di cercare l’altrove – o “un amore dell’altro mondo” come avrebbe narrato magnificamente Tommaso Pincio nella maggior parte, accettare il qui-e-ora che veniva offerto col 3x2 del benessere e del Mulino Bianco (la serie più famosa e con più impatto, quella degli spot della “famiglia felice” che torna in campagna, non a caso è del 1990, la desert storm dei cervelli italiani di cui Aldo Nove aveva già avvertito in presa diretta con Woobinda nel 1996, quando gli “anni luce” di Pomella, qui raccontati s’erano fatti già opachi..)

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Scrive Pomella “la nostra fu la prima generazione di figli di divorziati” L’infanzia che vive il primo evento di una libertà di individui che sono anche genitori, frutto della storia pubblica (in Italia, referendum del divorzio, 1974) ma divenuta tragica solo nel privato. Quei figli vivono una separazione da sé, quasi un ‘orfanità.
Un arto fantasma – quanta poesia in quegli anni, dedicata questo mito percettivo di cui scrisse Merleau Ponty - La mutilazione della separazione corrodeva, straripava in psichismi fragili. Solo la forza d’argine dell’alcol poteva contrastare quel crollo interiore, liquidità contro liquidità, alla faccia di Bauman.

 In “Anni luce” l’ubriachezza sarà la pratia quotidiana del Narratore e del suo amico Q,  diventerà continuativa e si farà – ormai lo è – simbolo di un modo di vivere giovane, intergenerazionale di cui spesso si discute – tra allarme reale e esagerazione ( certamente la “movida” alcolica giovanile è il fenomeno sociale più rilevante, più visibile se non altro – insieme alla precarietà e all’emigrazione fuori Italia).

Quella raccontata in “Anni luce” è tuttavia una vita che non è dissimile da molte vite a spasso con mood-rock: lo furono quelle di Pazienza e Pompeo, lo fu quella raccontata da Brizzi con “Jack Frusciante” e certi protagonisti di Ammaniti, e di altra “gioventù cannibale” a metà anni 90, tutti a vivere come una sorta di ultimo capodanno – e dunque ultimi giorni dell’umanità. Ma lo racconta ora, da una distanza che ne decreta la mortale deriva senza exit strategy – se non altrove e oblio. Giovani americani si vanno ad impantanare in Iraq e Afghanistan, giovani dappertutto, in Italia più che altrove che si impantano in questa “pace occidentale” crudele e senza futuro. “Anni luce” racconta di capodanni folli a distruggere case di malcapitati amici di amici, di serate e rigatoni esplosi in tutta casa, di fughe di notte, centri sociali, LSD, periferie, malinconie, e poi un lungo interrail dentro un Europa che non era patria.

“Anni luce” è scritto però da un 45enne che guarda quegli anni distanti di   luce livida ma non come fosse una reunion (lo ha fatto Brizzi giusto adesso) ma una definitiva deriva da quel “Per-io”  (un’operazione simile è quella di Alessandro Bertante de “Gli ultimi ragazzi del secolo” i ventenni dell’89, la caduta del muro e anche lì un viaggio negli anni successivi, che dalla Croazia va a Sarajevo dopo la guerra diventa bilancio si un secolo che non sette di finire).

Cerchiamo di capire: Pomella ci porta dentro il perché ragionare sul riff disperato di un ventenne dei primi anni 90, estenuato da tutto questo finire, che veniva anche amplificato nelle sensazioni da droghe sintetiche. Ci mette di fronte però anche il fatto che sarebbe poi restato, quel giovane, impantanato nella realtà delle feste e nella tristezza totale dei postumi da sbronza – ma pure d’essere compiutamente postumi in tutto, nella Storia. Dagli anni 90 fino ad oggi, salvo “eventi” – nessuna gioventù avrebbe fatto un passo. L’ultimo, secondo me – ma qui si potrebbe litigare tra 40 enni e 50-60enni - fu la passeggiata dei giovani della Germania dell’Est verso Berlino Ovest e poi a seguire tutti da oltre cortina, ma a tuffarsi nel mare dell’oggettività consumista d’Europa. Il resto, fu interrail privato.

 Se quella dei 90 è la prima generazione dei divorziati, questo segna una sperimentazione emotiva, etica, di valori – ma nell’amicizia raccontata da Pomella di Q e del Per-io che narra, tutto era dentro una volontà di suonare e dimenticare che forse non radicò neppure l’amicizia, dissolta poi nei “ci vediamo” di incontri casuali, negli anni.
Gli anni 90, sono la terra di nessuno della storia. Del ragazzo che ispiro “Jeremy”, i compagni dissero che la sua tristezza era una “posa”. Dissero coì, scrive Pomella. Aveva in testa forse biografie anche lui, come il Per-io e tanti altri. LE biografie erano l’unico rifugio per essere alternativi ad un sistema, essere eroi e invisibili al tempo stesso.

 Certo – dico io e qui cerco di azzannare ancora  “Anni luce” - nel fare azioni eclatanti come una strage o per urlare da un palco, questo “privato dolore” era effettivamente esibito, non vedeva l’ora di essere sulla scena.

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Tesi provocatoria: è la generazione del “Guardarsi vivere “ e  –  complice MTV – guardarsi come in un film/videoclip – essere ancora una volta meno di “meno di zero” (Elliss, 1985) e dunque come in un film guardare se stessi “come in un film” – effetto che non a caso era degli acidi – le droghe sono simboliche di un’epoca anche se non consumate da tutti nell’epoca – ed era un segnale di costruzione di sé, del privato che segue il “riflusso “ degli anni 80, proponendo un “privato” spettacolare, esibito, in pubblico, (“Real World”, MTV, 1997 e prima ancora “Real People” e “Nummer 28” in Olanda, la patria di John de Mol, che inventò il format Big Brother nel 1997 e lo realizzo nel 1999) primi semi del fenomeno  che avrebbe segnato le generazioni a seguire che segna ancora oggi le generazioni social del mondo parallelo a pubblico e privato, quella zona di mezzo alterata e verissima che sono i social e Facebook. Cosa ci porta dal 1991, dal Grunge a X factor? La deriva di Manuel Agnelli? O di Morgan? Ex divi ani 90, exgiovani.

Se “Anni luce” è il racconto di un dolore privato che si amplifica e corrode la vita, bisognerà dirsi che quel dolore divenne spettacolo, questo il rischio – e che forse meriterebbe una più straziante autocritica.
Così al protagonista di questo libro di questo memoriale di Andrea Pomella anni luce non interessa come scrive il futuro

La consistenza musicale del grunge che dietro le chitarre rock è l'urlo nasconde una vastissima profonda malinconia .
La malinconia il sentimento dominante dagli anni 90 lo è diventato sempre di più, come scrive Andrea Pomella,  quel sentimento si sarebbe impadronito di quella generazione, creando " un'assurda forma di nostalgia” - così la chiama Pomella, parlando proprio del passato e del studio della passione per le biografie dei miti rock o della beat generation. “Credo – aggiunge AP -  che questo rimpianto per le vite degli altri per epoche della storia mai vissute sia un aspetto della malattia di cui allora soffrivo e di cui continua in buona parte soffrire ancora oggi una malattia che nelle sue varie manifestazioni e concatenazioni impedisce di godere del presente tanto più di eludere il futuro è nelle sue possibilità".

Ottima sottolineatura, verissimo. Il futuro ce lo siamo giocato per un riff.

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Ecco la generazione astorica opposta alla storica (la mia, sotto spiego perché)  che si concentra sulle biografie ovvero sulla vita,  che si ritrova così nelle impasse di non aver alcun accesso decisionale alla storia cioè di modificarla di imporre se non per icone pop o personaggi la propria voce un po' come accadeva nella biografia sognata del vero padre di Eddie Vedder e questo è un po' quello che domina una generazione, scrive Andrea Pomella,  "che non si lamentava che non combatteva per il proprio avvenire una gioventù che passava il tempo a fuggire perché l'altrove era diventato quasi naturale".

Eh si troppe seghe mentali (Giacobbe) di eroi maledetti?. Una generazione che poteva sulle esaurirsi nell'ignoto,  ma forse ancora una volta per la suggestione di biografia al quadrato che andava da Arthur Rimbaud a Christian Mac Anders morto nel 1992 il protagonista della storia narrata poi nel romanzo “Into The Wild” che divenne nel 1996 un bestseller negli Stati Uniti per quella generazione americana che forse alimentò con questo sentimento dell'altrove – e nella cura dell’ambiente sognava l’altro mondo possibile, l’altro ve possibile, a partire dal movimento che nacque – forse non a caso – a Seattle, nel 1999. Il movimento No-global si rimpallò tra un occidente che oscillava tra liberal progressisti o di sinistra moderata (Clinton-Balir) e la destra dei Bush. La vera sconfitta fu però nella storia emblematica del Brasile di Lula: la sconfitta della destra dopo venti anni di libere elezioni, portò al potere un presidente che oggi è in carcere per corruzione – e col Brasile che vota a destra.

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Questa lunga digressione per dire che come racconta Pomella, quella generazione era morta nel passo breve di una scelta impossibile e radicale che sta nel monologo di Mark/Ewan McGregor del 1996 di Trainspotting, Pomella fa raccontare al “Per-io” di un pomeriggio indimenticabile al Metropolitan di via  del Corso a Roma – ( c’ero anche io, ancora mi drogavo, ma stavo per fare la mia scelta di vita di merda a modo mio).

la scelta era sintetizzabile in “scegli la vita una vita di villette di famiglia di matrimonio di lavoro dunque una vita di merda o scegli la gioventù anche autodistruzione la morte” magari sparato in una vasca o col vomito soffocato in gola o morire da tossico insomma una morte di merda, comunque. O vita di merda o morte di merda. L’innocenza era perduta per sempre. Il secolo s’era fatto come quegli anni nichilisti, di “Nevermind” totale, di sticazzi cosmico,  di buio in fondo al tunnel, di tagli, tagli, tagli: dal welfare ai polsi, dalle braccia scorticate alle relazioni come quella tra il narratore e Q ,tagliata di colpo, come quelli dati alla giovinezza, un dono della vita di cui disfarsi, magari con violenza e autodistruzioni, quel che diamoci un taglio con la vita, anche senza spararsi un colpo di fucile e nell’accettare l’opzione uno, la vita di merda non c’è miglior suicidio possibile, il più crudele, restare vivi. Alive.


Non che quelli come me avessero migliori alternative: da un alto il “no-future” dei Sex Pistols, dall’altro il “Forever Young” di quel bamboccione tedesco degli Alphaville, a vent’anni nel 1984, un destino restare giovanili fino a sessanta, cosa che mi sta accadendo ora, condannato alla prostata infiammata ma senza figli,  1984 anno con grandissime vocazioni di futuro distopico, anno di Orwell e del computer Mcintosh di Apple.

Era un futuro-truffa, la nostalgia del replicante in Blade runner se ne era accorta – infatti oggi è tutto un rifiorire di anniversari (2049, Réunion, Pomella che parla dei 25 da Ten dei PJ).  Bisognava fermarsi e suicidarsi prima, mentre urlavano da dentro quella “camera mortuaria dell’infanzia “come la chiama Pomella – che avrebbe rivelato solo una ribellione contro sé stessi - “la mia generazione - scrive Andrea Pomella " non può contemplare una forma di ribellione che non passi attraverso l'offesa del proprio corpo".

Ci penserà il settembre 2001 a riportare tutti nella Storia, ma la stessa che avevamo lasciato sepolta nelle sabbie dell’Iraq dieci anni prima, guardate con la birretta in mano : nel 1991 vedevamo di notti i flussi di  strisce verdi dei missili nella notte di Bagdad trasmessi live dalla CNN come fossero fossero effetti lisergici, come fossero tracce dei missili di Space Invader senso dell'infanzia dell'Atari perché ce l'aveva avuta Losi degli anni 90 sarebbero rimaste fino al 1997 quando esplode la bolla del Dot-com. con il quale inizia una serie di crisi e di precarietà che ancora durano a cui la generazione di Pomella, come le successive, si sarebbero consegnate volenti o nolenti, sfociando in una nebbia esistenziale, nell'inconsistenza di un finire senza un vero perché, della giovinezza come dell'amicizia tra l'io narrante che Q, qualcosa che si era già manifestato in quegli anni ma che sarebbe poi esploso ancora di più all'inizio del nuovo millennio anni luce anni di ore impossibili...

Se dieci anni dopo, un’altra birretta, migliore perché bio o artigianale, ci avrebbe accompagnato sul divano, soprattutto i trentenni di allora che stavano per entrare nelal fregatura della scelta della vita (di merda) sdraiati a guardare le torri gemelle venire giù (Guido Mazzoni, Pura superficie).

Nel libro “Anni luce” durante l’interrail, qualcosa prefigura ai due ventenni il futuro prossimo, un attentato a Parigi del 1995,di terrorismo islamista, dei ribelli algerini. Si pensa una cosa locale, post-coloniale. Siamo nell’”Oasis” dell’Europa ricca e scazzata dei 90, con ancora i fratelli Gallagher, a fare da cantori, decennio di  bevuti e dimentichi come L’io-narrante e Q. Che si separarano, come i due fratelli. Come i mondi del pianeta.
Ma non era niente, non è successo niente. 


domenica 10 giugno 2018

BREVI APPUNTI PER UNA POSSIBILE "STORIA INNATURALE DELLA DISTRUZIONE" IN ITALIA.




Partiamo dalla scena finale del film di Sorrentino (spoiler non leggete) ambientata a L'Aquila, la gru che solleva da dentro il duomo la statua del cristo, la porta prima in un leggero “volo” visto dal basso, poi la adagia a terra ,tra i detriti (nella foto sopra l'originale dei VVFF che ha ispistato S) 
 anche se ha una evidente inevitabile e forse anche un po' facile allegoria del “paese che crolla”  Al termine della parabola politica ed epocale del tempo di  Berlusconi,  si può pensare – legandola ad altri spunti –utile per una lettura più generale del “paesaggio italiano” - fisico e spirituale - dei suoi cambiamenti sociali (o antropologici?)  di un paese.
E’ un’evidente citazione del Cristo portato da un elicottero che sorvola invece Roma ne “LA Dolce Vita” di Fellini, quel Cristo che vola sulla città del boom dei palazzi e della speculazione, dell’arricchimento e della crescita. Si solleva in alto, sta in alto come il Cristo di Rio, c’è il sole, tutto è felice. Il punto di vista della camera è addirittura superiore al Cristo stesso, è l’apertura del film. 

Nel film invece è una deposizione notturna, un Pontormo, la camera riprende da terra, poi sfila lungo i volti di italiani, per la prima volta in tre ore e mezza, altri italiani, gente normale, terremotati e vigili del fuoco. Si chiude con questa mestizia umile, sono “loro” i depositari di questo messaggio di morte del cristo terremotato e deposto. Senza resurrezione. Basterebbe questa differenza tra i due film, uno del 1960 e l’altro del 2018 per dire il senso della nostra parabola.

Non solo Sorrentino sulle macerie de L’Aquila, prendete ad esempio  Marco Balzano,  con “Io resto qui” - ambientato nel Tirolo: racconta del paese di Curon e del suo legame col “Progresso”: la costruzione della diga nel secolo  900, la soppressione, l’annegamento di un paese con le acque di un lago artificiale, progetto che nasceva dagli anni del Fascismo e proseguito fino ai primi anni del boom. La costruzione-della-diga si lega in modo simbiotico alla distruzione di Curon, riproponendo uno scontro tra il microcosmo e il progresso, tragico come fu la vicenda dell’alluvione del Vajont o la distruzione ambientale e umana (la corrosione fisica dei corpi nel corso dei decenni di lavoro) legata al petrolchimico di Marghera – e ancora oggi Taranto e l'Ilva.

E tuttavia - lo dirò dopo meglio parlando di un libro di Sebald - alla fine i Tirolesi di Curon hanno riconvertito, da tedeschi la disgrazia in benessere (oggi Curon è un’attrazione entro un paesaggio molto bello, che certo nasconde come racconta Balzano ferite e morti, dolori e rimozioni)


Tutto  il paese-Italia è stato interessato da questa mutazione, l’italia verde e contadina si doveva gettare da subito – per il ritardo – nell’era industriale, dopo la fame della guerra. E quei soldi a noi tutti hanno fatto comodo -(piano Marshall boom, indebitamento felice, sono questioni ancora sul piatto, sono l’eredità che abbiamo, ma s’è pagato a caro prezzo).

non si vorrebbe fare nessuna Mistica dell'universo legando le due cose però ebbe potrebbe servire per cercare di mettere assieme come una costellazione di eventi che hanno avuto un significato, sono forse entrati nel profondo: eccoci allora,   nel 1976 il terremoto del Friuli Venezia Giulia segna e ferisce la Terra da cui si era mosso – dal paese  Casarsa -  Pier Paolo Pasolini che quella mutazione l'avrebbe poi raccontata proprio esattamente fino all'anno della sua morte, giusto pochi mesi prima del terremoto dalle sue parti.

Pasolini era anche quello che stava raccontando come l’italia nel nome del “Petrolio” stava pagando una mutazione non solo ambientale, si stava consegnando a forze oscure della storia che in PPP seguirono due strade, quella politica (che individuava in apparati e personalità la forzatura autoritaria (vedi Cefis) e dall’altra quella antropologica – o metafisica – c’era il famoso “quartetto” che decide  le regole in “Salò”  e quelle che forse hanno deciso la sua morte, la morte reale del poeta. Pasolini raccontava - con una nostalgia tutta sua, per cui fu criticato come un romantico idealista delle “popolo” che ha una sua purezza astorica - una trasformazione che era reale: il benessere trasforma – snatura per lui -  il sottoproletariato urbano ex-contadino e marginale di una città come Roma, laboratorio del populismo “da sempre” - se avesse abitato a Milano avrebbe raccontato tutta un’altra storia.
La trasformazione omologante era in atto, fu assolutamente positiva (io ne sono figlio) fu quella che portò alla vittoria dei due referendum, all’affermazione del PCI, alla crescita dei movimenti giovanili e delle donne.
Certo ad intaccare la crescita positiva, ci furono distruzioni naturali e distruzioni pilotate: crollano le case e muoiono persone sotto le macerie, esplodono bombe sui treni nelle piazze, nelle stazioni.
Di quella mutazione intorno a metà anni 70 e che ebbe con la distruzione del terremoto e la ricostruzione di una linea di confine di una terra di confine. E’ il Friuli che passa con rapidità dall’arretratezza  contadina  ad un benessere diffuso di piccola impresa, di commercio, a cui si somma una tradizione di amministrazione di impianto “europeo” che fa fare un balzo in avanti verso il “nord-est” ricco che conosciamo oggi.


Di quella fase di passaggio un altro poeta, venuto dopo e più radicato alla sua terra di quanto lo fu Pasolini che vi nacque per caso da padre militare bolognese, c’è traccia nella poesia che Mario Benedetti ha iniziato a scrivere proprio n quel 1976, col passaggio della sua personale esperienza verso la lirica,  verso lo studio andando a Padova all’università  ma ritornando anche poi Friuli dopo il terremoto proprio in quell'anno 76. Così è  testimoniato in “Umana Gloria”.
Non sarebbe passato molto tempo, in un passaggio pieno di sangue e piombo tra quel 1976 e il 1980 dell’Irpinia. UN  quinquennio eccezionale per la Storia d'Italia : che segnò l’avanzata del PCI alle elezioni e la controreazione di forze oscure, con il rapimento Moro, le Bombe come alla stazione di Bologna,  ecc.  azioni guidate con trame dimostrate da storia e processi, da parti dello Stato Italiano. Periodo che visse le rivolte delle giovani (future)  elites universitarie, ma  allargate - col movimento 77, frutto della crescita demografica del post-boom, con molti figli della classe media e a volte popolare che vanno all’Università. Anche questo un passaggio “culturale” una frattura di sapere e valori, che coincide e a volte entra in conflitto proprio col “benessere” e con le logiche del capitalismo le stesse che avevano permesso alle famiglie di molti di quei ragazzi di pagare le università ai figli. **
(** Secondo me quella rivolta antiautoritaria - sempre contro “i padri” colpevoli di essersi integrati col potere è molto simile a quella accaduta in parallelo  e esplosa oggi delle seconde generazioni e del loro radicalismo antioccidentale di ritorno, dopo che i padri vennero a lavorare e integrarsi in Europa (“mio figlio il fanatico” di Kureishi lo racconta bene) **)


dal 76 all'80  succede di tutto in questo paese, dentro questo quadro di lungo corso che fu il “Progresso”  nella sue forme e articolate una società Industriale ex contadina industriale che si affacciava agli anni 80 e con i giovani che passavano  rapidamente da “ribelli” a “consumisti” in una generazione.
Con una storia borbonica e di isolamento, l’Iripia era diversa dal Friuli post asburgico che entrò nel 900, contadino in egual misura, con egual emigrazione per povertà, ma con connotati diversi che poi riemersero nel corso del secolo.
In Irpinia  c’era un altro poeta,  che  stava crescendo figlio anche lui del boom economico, che arriva anche nelle campagne,  ed è Franco Arminio, nato nei primi anni 60, figlio di un 0ste di campagna, ha  elaboratola sua identità e la sua poetica la sua storia personale insieme alla storia collettiva del suo mondo, che oggi ha portato a maturazione, con più vigore intellettuale, la questione che OGGI ci pongono proprio quei piccoli centri segnati da ferite naturali, da arretratezza storica, rispetto all’idea di Progresso dominante in questi decenni passati.

 I “piccoli paesi”, i borghi, oggi segnano l’esaurimento, non solo il passaggio: sono al termine di una notte storic,  abitati da anziani, privi di servizi. HAnno conservato tracce di passato, a volte viene recuparato da archeologi delle forme di vita, come i poeti, come Arminio.

E quindi "i paesi" si sono ripresentati però alla fine della storia, alla fine del 900, alla fine dell spinta propulsiva, magnifica, ottimista del 900, offrendo ad una civiltà occidentale un altro modello, quello che forse sta cercando ANCHE nel suo sapere profondo, un altro modello di vita (almeno per prendere una pausa) e lo trova nel mix dei luoghi dell’arte, nel cibo, nel diverso modello dei “borghi” non solo un paesaggio da cartolina da offrire ai turisti, ma forse un legame col “diverso mondo possibile”
 Luoghi in parte dimenticati abbandonati che sono ormai distanti dal “vivere metropolitano”  generalizzato anche in provincia, tenuto assieme, instillato,  da una omologazione della rappresentazione di sé con i social, ma che forse segnano una via futura  - vedi Matera capitale della  cultura con la sua parabola dalla malaria degli anni 50 alla destinazione cool dei nuovi bobos e del ceto medioalto-consapevole.

 insomma dall’”abbandono” si può rinascere  (Carmen Pellegrino, altra autrice che da quel Sud appenninica sta creando una poetica, della cura e dei fantasmi, del valore e della visione a aprtire dai luoghi “abbandonati”)  A questo abbandono così come dopo il terremoto segue una  ricostruzione, quella post terremoto dell’Irpinia che non fu perfetta, pagò difetti antichi di governo e di cultura diffusa.
IN un certo senso oggi ce ne può essere un’altra, che si inquadra non dentro un’idea di “sviluppo” industriale, ma nasce da una via diversa che guarda con più attenzione al patrimonio  locale o del “glocal”, guarda con la cultura a una diversa misura del sentire e del vivere. NE fa un messaggio che è anche politico, nel caso di Arminio soprattutto. Recuperare il vissuto dei piccoli centri non è conservazione del passato, ma spunti per un modello di vita futura.
 Non è solo la conservazione “ a mo’ di presepe”  di  questo passaggio.
ma come fare?

C’è un esempio che vorrei immettere e di diversa natura, ma che si intreccia con il nostro presente. Quanto paga l’Italia - specie l’italia del sud, come la Grecia -  delle politiche del rigore, della pressione tedesca, lo sappiamo, si è discusso a Sinistra, ma l’elettorato ha oggi deciso di affidarsi ad una risposta populista e “da destra”.
ma cosa è successo alla Germania? Anche la Germania è stata rasa al suolo come il Friuli e l’Irpinia o successivamente le zone  di Marche, Umbria e Abbruzzo attraverso il terremoto. LA distruzione della guerra mondiale e dei bombardamenti: Berlino, Francoforte Dresda soprattutto, ridotte in cenere letteralmente.

 Ci può  aiutare a capire qualcosa della storia della nostra distruzione, mascherata da “ricostruzione” la lettura del libro di W. G. Sebald  “Storia naturale della distruzione” (Adelphi) in cui si racconta anche della rimozione psicologica e letterale (dalle pagine dei romanzi degli anni 50) del paesaggio tedesco distrutto.
 Ne gli anni 50 e 60 la rimozione non è solo psicologica, è rimozione da senso ci colpa, ma  a un certo punto divenne altrettanto soprendetmente dal punto divista psicologico, un ribaltamento di quella rimozione.
Ci fu un “ritorno del rimosso” come un utilizzazione delle proprie colpe nel  processo che va dal  senso di colpa alla “ricostruzione” di un’identità della nazione da quelle rovine. E così - racconta Sebald - si passò dall'impegno che i tedeschi misero nel tenere il silenzio delle colpe, dei genocidi  dei lager, col silenzio anche da parte di chi si era opposto su quel paesaggio (  la  mancata descrizione anche nei romanzi di quello che era il paesaggio di rovine intorno) fino alla rivendicazione di quela distruzione: perché poi i tedeschi ne avrebbero  fatto un “vanto”, recuperando  la loro grandezza storica, umiliata dalla sconfitta e depressa dall’essere passata nazione dei filosofi a nazione dei Lager. Proprio nell’impegno della ricostruzione la Grande Germania si ritrova : zero esercito, molti grattacieli, per dirla con una battuta. Fino a diventare oggi il “Reich” dell’economia europea.



C’è un dettaglio che racconta Sebald significativo la cartolina del 1997 venduta a Francoforte in cui si mostrava in una foto a un paesaggio di Francoforte nel ‘47 Tutto distrutto dal bombardamento e dall'altra la ricostruzione di quello stesso luogo fotografato dall’alto e scintillante di architettura modernissima per una città bellissima, divenuto hub commerciale mondiale. Come a dire: visto come siamo bravi? noi tedeschi siamo i migliori anche nel ripartire dall’ “Anno Zero”.
Lo stesso si è ripetuto nel dopo storia del 1989  con Alexanderplatz a Berlino: cuore pulsante negli anni 20 e trenta dell’Europa più cool, poi distrutta e divisa dal muro nel 61, oggi dopo l’89 tornata a essere con la caduta del muro luogo centrale di una Berlino magnifica, il cuore pulsante di un’Europa che proprio a Berlino fa segnar il punto più altro delle integrazione tra la Grandezza “da Reich” della potenza tedesca con le “culture alternative” giovani che la abitano e la fanno proliferare.
A noi manca paradossalmente la famiggerata - concetto controverso di Nietzsche -  “volontà di potenza”che immaginava negli Oltre-uomini del futuro un avvenire della nazione  “ grazie alla loro sovrabbondanza di volontà, sapere, ricchezza e influsso, si serviranno dell'Europa democratica come del loro strumento più docile e maneggevole per prendere in mano le sorti della terra, per plasmare, come artisti, l'uomo stesso “ che ben si addice alla strategia tedesca del dopoguerra, forse .
Per noi ci vorrebbe una strada non simile che è impossibile, ma in generale ci è estraneo questa capacità di ribaltamento delle sorti, recuperare una grandezza, recuperare un’identità della tradizione italiana e offrirla al senso “alternativo” del vivere che chiede oggi piacere, sviluppo sostenibile, cultura.

 Siamo tuttavia il “Paese senza” un paese in cui il paese steso si sottrae ad un destino comune, sempre etero-diretto, deciso altrove  (potenza straniera, papato che sia, e poi dal 900 in poi, elites, duce, classe politica che ha governato dal dopoguerra un paese in cui la partecipazione era scarsissima, ma l’obbedienza profittatrice clientelare e amorale altissima  - senza borghesia senza tessuto produttivo forte, se non concentrata in due regioni. La grandezza italiana del Rinascimento, del Barocco e quel poco che è seguito dopo,  è frutto sì quasi esclusivo delle elites nobiliari e clericali, dello sviluppo anche di una cultura popolare ma solo dentro un alveo di latifondismo, di nobiltà, con poche eccezioni. Per questo è più difficile oggi pensare di trasformare Taranto da inferno dell’acciaio a paradiso del turismo - paradossalmente obiettivo più facile per il Salento poco distante che è passato come certa Spagna dalla povertà contadina al turismo postindustriale della fine del 900.
E’ il pensiero che mi faccio guardando alle distruzioni naturali e alle innaturali ricostruzioni che  hanno accompagnato anche simbolicamente e naturalmente il nostro paese (Belice Friuli Venezia Giulia a Irpinia e poi appunto L'Aquila e ora il terremoto di delle Marche - ma ci metterei anche simbolicamente la Stazione di Bologna) . Mi chiedo come si possa tenere il doppio livello di tutela e al tempo stesso ricostruzione della vita - non solo delle “attività economiche”) una ricostruzione che affondi nell’identità, come a loro modo hanno fatto i tedeschi, tornado ad essere tedeschi e mostrandolo anche “nella cartolina”.
Questo penso leggendo - come Sebald lesse i romanzieri e poeti degli anni 50 per capire gli autori italiani ( Arminio della paesologia, Balzano di Curon, il Friuli di Benedetti, ecc) e penso alla questione assolutamente simbolica di Castelluccio nelle Marche, dove stanno costruendo un Deltaplano ovvero un “centro di ristorazione “ e appoggio per il turismo della valle, squarciando però di nuova distruzione - per i locali detta dalla  necessità per chi si oppone (altri locali, il WWf e altri) è in realtà una “diversa distruzione” di questo ecomostro, sul dorso di una collina che si affaccia sulla valle,  ferendo  di nuovo il  paesaggio, a ci si aggiunge l’ “ecomostro diffuso”, una massa come sempre incotrollata dei turisti-vandali che camminano sulle piante che devono fiorire distruggendole…

Certamente, mentre la città di Francoforte è stata ricostruita la dove c'era una città, non si comprende come un paese che viene distrutto dal terremoto non venga poi ricostruito, per le mille lentezze burocratiche e la cronica mancanza di soldi del paese, e però poi prevale il “particulare” della lobby dei ristoratori, e lo stesso paese avalli (immaginando come sempre “lavoro”, “dateci il pane” sempre “accattoni”, “cafoni” - sono citazioni cinematografiche e leterarie  - senza un progetto, siamo fermi lì) che si costruisca un'altra cosa un corpo estraneo andando a incidere per sempre nel paesaggio, che poi vorremmo sempre vantare come patrimonio, in astratto - o dentro qualche museo guardando i paesaggisti europei che calavano in massa in Italia.
 Infatti a loro, a quella elites culturale è rimasto il senso del paesaggio e ne tengono cura maggiore nei loro paesi. Hanno appreso la lezione “italiana” mentre noi italiani no.
Inglesi  e tedeschi, i più toccati dalle trasformazioni industriali, hanno poi adottato più spesso che noi politiche di riconversione - basta vedere da Amburgo a Liverpool, Manchester, la Ruhur, ecc.
All’Italia non riesce di trovare, per miopia a volte anche degli stessi abitanti oltre che della classe dirigente, produttiva, una soluzione di equilibrio sostenibile. Non riesce a farlo nemmeno in modo episodico, e particolare per questo la vicenda di Castelluccio è tanto esemplare.  Sorrentino Arminio Balsano Benedetti ma ce ne sono naturalmente anche altri Carmen Pellegrino e le sue case e paesi abbandonati, Simona Vinci nel raccontare di Budrio alla fine de “la Prima Verità ma anche nel raccontare del isoletta greca e il paesaggio tra turismo carcere ora hotspot )
Io penso alla mia esperienza personale di Kathonzweni in Kenya - lo metto come simbolo di luoghi d’origine potenziale di “italiani futuri”  altrettanto preda di un capitalismo rapace come quello cinese, che si sta impossessando dell’Africa aiutata in modo però ambiguo nel suo sviluppo  e al tempo stesso la distanza nella memoria del paesello dei miei genitori, sull’Appennino laziale, perso nella sua  incuria da decenni di sviluppo italiano col suo degrado, simbolo tra i tanti di questo paese che ha perso il suo tesoro e ci trasforma in senza patria, strappandoci la terra sotto i piedi. Ancora una volta un distruzione, stavolta meno rumorosa.



lunedì 4 giugno 2018

MARCO ROSSARI "Nel cuore della notte" (Einaudi)


Mi piace questo romanzo di Marco Rossari per come usa la letteratura, con uno speciale stile di appropriazione 'alla seconda', fino a tenderlo in un sottinteso di  topos, fino a non temere di disseminarlo di spie  metaletterarie, perché se lo fa,  lo fa per amore della letteratura. Egli del resto è scrittore, ma pure aprezzatissimo traduttore, in qualche modo lavora col linguaggio lungo questo doppio binario.

 Ma se l’editore fosse coerente con il suo spirito arguto e avesse voglia di un azzardo dovrebbe ripubblicare la prossima edizione con una fascetta : “IL PRIMO ROMANZO DELLA TERZA REPUBBLICA”.
Chi ha letto il romanzo già intuisce dove andiamo a parare e spero Rossari vorrà perdonare la provocazione.

Sa di nobile tradizione letteraria lo schema della cornice, un racconto nel racconto, un romanzo che narra di cosa potrebbe accadere se una notte d’estate un viaggiatore, perso insieme a un gruppo di turisti in un pulmino, in una pianura sotto un vulcano incontrasse un altro viaggiatore, solitario, italiano come lui e dalla faccia già vista da qualche parte, e questo viaggiatore - più adulto e con uno sbrego inguardabile sul viso, mentre la ragazza della giovane coppia già dorme -  si mettesse a raccontare la sua storia a quel giovane uditore, che potrebbe trovare in quel racconto echi del suo possibile destino. Una storia da brividi, una storia emblematica quella che quello sherazade, magnetico e respingente al tempo stesso si prepara a raccontare, mentre il ragazzo si tormentava: “è una faccia nota, mi pare” e alla fine lo sconosciuto inizia a parlare, rivelandosi come quel Poeta, di quella nota vicenda......

Prima di proseguire: diciamo “Ecco il primo romanzo della Terza Repubblica” perché  in questo romanzo va in scena la politica, nella danza dei due protagonisti del racconto dello sconosciuto che sta nel cuore del libro.
 Anna e " il Poeta"  si amano dal liceo, si sposano un evento tragico li divide, poi però si ritrovano e si ameranno più compiutamente. Anna diventa finalmente, come sognava, giornalista e per caso, notata per i suoi articoli sul quotidiano battagliero e moralista, si ritroverà ad essere una deputata nel “Partito del No” guidato da un leader giullare, Vittorio Torchio. "il Poeta"  invece, è appunto un poeta, mentre s’era perso,  durante la separazione da Anna,  usava la poesia solo per rimorchiare e  intortare puffolose ragazze sui social,amanti della poesia-bacio-perugina con cui chattava e scopava, a volte solo virtualmente a volte fisicamente. Ora si è ripreso, scrive di questo amore ritrovato ma anche dell’eros della perdita, aspira a pubblicare anche se è un appartato. 
 Da Viaggiatore Sconosciuto, anni dopo,  sul bus sotto il vulcano è ormai un poeta che non  scrive più, in fuga dal nostro mondo, come Rimbaud, e che racconta al suo compagno del suo amore per Anna perduta due volte. Nel pieno dell’apice politico di Anna, sarà proprio una cosa da niente come la poesia ad innescare ancora una deflagrazione. E’ buona educazione non dire troppo, ma dentro questo romanzo si incontrano i diversi volti della “mutazione antropologica”, culturale che è in corso, davvero radicale, che è estetica e etica insieme.
E’ il primo romanzo della Terza repubblica soprattutto nel racconto di Anna e lo è senza pregiudiziali. Anna è brava, colta e un po’ per caso si ritrova dentro il Movimento in cui porta anche Il Poeta" , riluttante ma non ostile – se il vecchio mondo erano i circoletti autoreferenziali della politica come della poesia (ovvero il nostro presente) il nuovo non potrà essere peggiore, pensano. Nel loro ritrovarsi coinvolti nel Nuovo c’è un ritratto di una generazione fatto  da Rossari con queste due figure complementari, che in fondo non aveva (non ha) avuto granché  da quelle precedenti.  Dunque - fuori dalla debole copertura letteraria che fa Marco Rossari  -  , in questo racconto di una ascesa dentro il movimento che somiglia molto al Movimento 5 stelle, ciò che sembra sedurre Anna è che finalmente “con le parole” si potrà incidere sulla realtà. Sarà così, ma non nel modo sognato. E In questo si intrecciano i nodi del libro, politica, poesia, social network.

Il “ Cambiamento”  che è in atto è anche questo: una risposta a questo desiderio di far seguire alle parole i fatti -  C'è stata nella nostra epoca e c’è una interruzione della motilità, come Freud dice del sogno,  e così noi  siamo una società che produce continuamente opinioni slogan indicazioni, post, tweet,  cose da fare,  critiche ma niente di tutto questo è mai diventato “azione”.
Dall’altro lato, nel Poeta-Viaggiatore, la poesia non cerca di essere azione, anche se certo un poeta si chiede “ A che serve scrivere poesie?” È una domanda legittima, anche se già altre volte, in altri kairos ben più drammatici della storia altri se la sono posta e hanno continuato a scrivere. Nella sua vicenda il Poeta-fuggito che non scrive ,  c’è un vulnus, ed  è la poesia  che si può leggere come simbolo della politica, meglio della relazione etica. E Sicuramente è un elemento significativo che sia proprio la poesia, nel romanzo di Rossari,  l'oggetto dello scandalo della Terza Repubblica così come viene raccontata dallo sconosciuto. E che si scateni nella rete soprattutto una rivolta “contro la poesia” – nello specifico contro la poesia del POeta-Viaggiatore.

La poesia era stata rimossa dal nostro tempo recente, ma ora Il “ritorno del rimosso” per come accade in “Nel cuore della notte” ha tratti ambivalenti.  Perché finalmente “nella Terza Repubblica”  la poesia conterà qualcosa, visto ciò che accade nella vicenda del libro  – e anche Il Poeta-in-fuga  arriverà a pensarlo disperatamente a  un certo punto  – perché la ritroviamo al centro di una discussione pubblica, con i commentatori del web, il leader del movimento del no che daranno una grande importanza alle poesie di Marco, ma certo non per apprezzarne la letteratura, ma pure per cercare dentro esse una estrema verità. L’estrema verità è tuttavia  quello della parola che va letta in modo talebano alla  “lettera”.  

Coerentemente con quello che aveva detto nella campagna elettorale (quella immaginata da Rossari ) il Partito del No (“per noi la cultura è importante”) la poesia assumerà importanza, ma in senso negativo, fino a farne strage. Perché letta nel modo più aberrante e banale ( letta alla lettera come oggi accade in molte scuole e come oggi molti poeti scrivono, pensierini con concetti che vogliono comunicare una cosa e che vanno a capo)   i testi amorsi del "POeta" dedicati ad Anna verranno letti in una lettura-processo social fino alle estreme conseguenze.. Non solo per il suo contenuto di scandalo – di cui il lettore scoprirà - ma perché il popolo del web si appropria della poesia solo nella sua versione letterale e unidimensionale. C’è un cuore profondo nel porre come tema la poesia ma nell’interpretazione di un testo appiattito e banale. Si lega al fatto che il nucleo stratificato e profondo dell’esperienza poetica si è perduto, è impraticabile. E Tanto più avrà spazio la socialità facile della poesia (social network o letture, performance) La tanto più la poesia sarà disseminata nel suo morire. Ma in gioco non c’è solo la poesia, ma c’è tutto un processo di lettura della realtà e di capacità – attraverso al letteratura.
 vediamo cosa Rossari scrive – e fa dire al suo personaggio ex poeta sotto il vulcano che racconta nel cuore della notte:

“.. era la fame di realtà la ricerca di coincidenze con il mondo il buco della serratura. Non la bellezza ma la verità e nel momento in cui un libro di poesia diventa un best seller la poesia smetteva di esistere, era morta tutto era morto. E lo sai perché la letteratura non serviva più a niente? perché la vivevano già tutti, la Rete aveva fornito un doppio equivalente per rendere migliori o peggiori le nostre esistenze. Anche tu ora che ascolti o fingi di ascoltare anche tu aggiungerai il commento nel doppio globale,  scrivendo fra tre o quattro ore su qualche Social “chiacchiere con un beone” che ti racconta una storia straziante. Letteratura e immaginario sovrapposizione idea gioco, si era trasferito dalla la mostruosità di une illusorio a due dimensioni della poesia alle illusorietà a  tre dimensioni della rete, ora  tutti quanti poteva.no abitare la mia insulsa vocazione con più agio e più voracità a me non interessava più l'illusione era finita.”


Rossari articola questa parabola discendente diel Poeta-in -Fuga dentro il romanzo per mettere in luce da scrittore anche di questa sostituzione che a questa esperienza del doppio in poesia, in letteratura, quello che tiene il duplice binario tra finzione e realtà, dentro la lingua alla seconda della forma poetica, che è un luogo dell’apertura, del senso, della complessità e che non conosce opposizione.  La poesia ha questo privilegio,  È “sia bianco sia nero”,  soltanto in poesia possono esistere gli ossimori ed essere logici, così come soltanto nel sogno accade di camminare e volare insieme o di essere sia vivi che morti. Ci insegna a leggere le cose da un altro punto di vista.
Tutto questo doppio livello nella storia del Poeta-Viaggiatore-sconosciuto e Anna viene ucciso o meglio sostituito dalla rete,  (“è la rete il nsotro più grande poeta”) uccidendo simbolicamente la poesia, perché il nostro tempo vive una condizione in cui le esperienze rischiano di incatenarsi ad una morale acritica, ideologizzata in una forma ottuso tradizionalismo   – e guarda. Il caso del Ministro Fontana … -- Così la vicenda così preziosa e letteraria di Rossari può esser letta (così pare a me) come un apologo politico. Il precipizio drammatico che fa esplodere l’amore delal coppia  nasce da un pregiudizio, o meglio da un giudizio sulle esperienze che viviamo, la realtà che ci circonda,  no solo senza che si sia stata un’elaborazione e una discussione “morale” adeguata (il sesso l’eros sono una di queste le esperienze sono già oltre, anche quelle virtuali, libere e selvagge di cui il Poeta è protagonista nella fase della sua vita in cui si era perso) ma anche retrogredendo a posizioni oscurantiste..

Lo stesso accade per tante altre dimensioni della nostra vita. Il patrimonio di libertà e valori conquistato è un po’ come la presenza stessa della letteratura come uno strumento umano di mediazione e interpretazione della realtà, di cui però bisogna conoscere i codici.
Se invece quesi regrediscono a principi tagliati con l’accetta, fatti viaggiare veloci grazie ai  social network abbinata a giudizi sommari e quasi sempre moralistici, tutto precièita come precipita il mondo di Anna e del suo compagno d'amore Poeta,  come precipita anche la loro apertura al Nuovo.
Vincenzo Latronico in una prima recensione del libro di Marco Rossari aveva sottolineato come questo sia un romanzo in cui compare con più naturalezza l’esperienza della rete. Indice di un cambiamento generazionale. Effettivamente è così e compare tuttavia anche la sua “natura degenerazione”, compare come sia tuto sommato connaturato con il sistema anche la sua degenerazione. Indice questo però di un mutazione culturale profonda, che invese il senso del rispetto dell’individuo, i linguaggi del sapere, la coscienza politica, e anche una trasformazione sia  estetica che  etica dell'immaginario di riferimento, specie in Italia, uno dei grandi laboratori di queste mutazioni in cui la rete è protagonista.
Le dimensioni complesse della  psiche in cui "il Poeta"  vive con una sorta di duplicità, una sorta di  sospensione di un sé a favore di un altro sé, sono interessanti e ci dicono di un possibile sviluppo della libertà del soggetto, di un soggetto finalmente multiidentiario,  in cui la letteratura sarebbe potuta essere col suo gioco del mondo come lo chiamerebbe Cortazar, un laboratorio anche politico delle soggettività nuove  - come del resto è stato, per tutto il 900 e non solo.  
Lo tsunami di “polemica web” che si ferma alla lettera unidirezionale di un testo poetico, come accade nel romanzo di Rossari,  diventa non solo un’allegoria di un tempo presente e immediato futuro del nostro tempo “circostante” ma avviato ad essere sempre più “senza letteratura”, ma evidenzia proprio nel dispositivo del linguaggio, delle conoscenze , dei codici acquisiti e ora stravolti, distrutti o deformati, il luogo in cui si combatterà la battaglia politica del futuro e in cui forse anche la poesia, sempre negletta,  potrà avere invece la sua parte importante. Ma queste sono solo  illusioni, direbbe l'ex-Poeta-sconosciuto-viaggiatore, sotto il vulcano, prima di sparire.


ERODIAS di Giovanni Testori, con Federica Fracassi, regia di Renzo Martinelli, prod Teatro I.


Se amate il teatro dovete andare a vedere  a Milano fino all’11 giugno al teatro I - –“Erodiàs” di Giovanni Testori
Innanzitutto per la straordinaria  interpretazione  di Federica Fracassi, da premio – e infatti di premi del teatro ha vinti già, nella carriera,  i più importanti e che in questa messa in scena insieme alla regia di Renzo Martinelli ha raggiunto una grande forza espressiva.
Anche il testo è forte, vi chiederà l’attenzione della lingua di Testori, uno dei nostri grandi del teatro. Una lingua che attinge al dialetto, intarsiato dell’italiano come di altre lingue, latino o latinorum compreso.
Forse avrete visto gli spettacoli del Gramelot di Dario Fo (la leggenda dice che forse potrebbe aver rubato l’idea all’amico Giovanni)  oppure avete letto Gadda. Ecco Testori, rispetto all’espressionismo comico, ha costruito una potenza che viene tutta da dentro. E’ una confessione questo testo, quello della regina, moglie di Erode Antipa e madre di Salomè,  che confessa in realtà la sua segreta e irrefrenabile e oscena passione per Giovanni battista a cui fu poi, secondo la leggenda. Tagliata la testa per desiderio di Salomè, proprio su istigazione di Erodias. Forse perché respinta dal profeta, forte della sua fede.
 
Erodias ce lo urla quel desiderio, ce l codice travolgendoci in uno irriverente, quasi sguaiato delirio amoroso. In corpetto, tacchi, dietro una vetrina che mi ricorda le vetrine delle prostitute di Amsterdam, poi pian piano fino a venire fuori quasi in braccio  agli spettatori, cosi ob-scena, con l’adorazione per il Battista la sua forza fallica esibita è anche una forza segreta di fede, l’eros è tanto forte come la fede e più forte della  morte, come già cantava il cantico dei cantici, che forse è ispirazione per Testori, che tuttavia la modernizza, fa lanciare dall’antica Galilea una profezia verso di noi, mondo in cui il sesso è sicuramente più forte di Dio. Dio si è fatto carne, e la carne è stata la sua grande traditrice. Se poi considerate che “”i l Verbo” si è fatto carne, quest’opera la possiamo anche leggere come quelle di Pasolini, come il canto del cigno di una civiltà della scrittura dentro un mondo di offerte di piacere visivo.

in ogni caso, significati a parte lasciatevi travolgere dalla sensualissima eroticità  di Erodiàs e nell’interpretazione ormai immersiva e divorante di Federica Fracassi diventa   regina spodestata ma fiera di un misticismo erotico, un’orazione profetica di lussuria futura. Un’invocazione alla libertà sessuale  trattenuta una dialettica che dilaniava Testori in tanti testi. “corpo e mente, ignoranza e conoscenza, sesso e morte. Infinite declinazioni della stessa cosa. Di una vita che cerca, non trova, e allora attende.” Scrive Renzo Martinelli.
E che ancora ci riguarda, dal tempo antico, ma anche dagli anni 60 e 70 di Testori,  parla questo testo  alle nostre zone irrisolte di ossessione, lascia un spiragli d’anima, ma in cui precipitiamo col corpo, come in un mare che ci affogherà ma è anche il massimo di vitalità che possiamo immaginare. 


venerdì 1 giugno 2018

"MAESTOSO E' L'ABBANDONO" di Sara Gamberini (Hacca edizioni)


“Maestoso è l'abbandono” di Sara Gamberini (Hacca editore) è un romanzo, ma si colloca in una zona di scrittura di confine, in cui la voce di un personaggio in prima persona deborda tra la narrazione di sé, il diario intimo e innesti poetici, tentativi di inseguire con i significanti una catena di significati intrecciati nelle cose, altrimenti indicibili o imprendibili.
La terminologia che uso non è casuale, perché il cuore della storia ha a che vedere con la psicoanalisi e fondamentalmente “l’abbandono” (non l’unico ma quello importante)  è lo strappo, il distacco  che compie la protagonista (Teresa, detta Maria)  dal suo analista, il dottor Lisi, troppo teso, per lei, a trovare un ordine del senso.  Maria cerca la sua mappa per il desiderio, al tempo stesso quello con il dott. Lisi è irrinunciabile momento e legame, perché – e qui tutti ne siamo investiti –  siamo spesso incapaci di sciogliere, di abbandonare,  il bisogno di avere un legame, più che il legame stesso, ripetibile esperienza di un medesimo incastro.

L’interruzione dell’analisi e l’abbandono dell’analista sono l’apertura e il cuore di riflessione per la protagonista. il centro della sua vita, che in “Maestoso è l’abbandono” verrà poi raccontata per flash, ricordi, ritagli di un diario interiore ch vanno da un  “prima” ( le esperienze famigliari, la sua crescita come bambina sensibile in una famiglia certo alternativa, i primi fidanzati, le esperienze in generale con i maschi ecc) e un dopo-Lisi, la sua autonomia di riflessione, il rapporto con un uomo diverso e non “onnipotente” o ritenuto tale, fino alla scelta di maternità.
La chiave di volta è l’amore, nelle sue varie forme, ma con un'unica costate: l’attaccamento, l’adesione all’altro, la dipendenza dall’affetto altrui. E poi la decisione: Abbandonare l'amore,  quando questo amore diventa un “bisogno d'amore”  e una dipendenza dall’altro per riconquistarlo in un amore “ altissimo ” ma che “non serve a niente” come scrive Gamberini/Teresa   –. Questo il motivo che se da un lato porta molti proprio all’analisi, è quello per cui poi l’analisi  stessa diventa, un nuovo legame di bisogno, compensando, sublimando quello da cui ci vogliamo distaccare  – fino a un doppio legame (la persona che è lì per guidarti nello scioglimento, diventa essa stessa un nodo).
 Platone descriveva questo paradosso con una favola poetica (ritrovare la metà che ci è stata tolta dl castigo degli dei) - lui che diffidava dei poeti, ne aveva bisogno – ma oggi le neuroscienze effettivamente attribuiscono all’imprinting col genitore,  dei primi sei mesi di contatto, un’importanza ancora maggiore rispetto a quella definita dagli etologi che hanno elaborato scientificamente il concetto. Noi tentiamo sempre il ritorno ad un incastro con un tutto-tondo che eravamo.. investendo l'altro occasionale supposta metà, del sogno di un regresso o una conquista, la mancanza si cola e finalmente noi siamo.
Maria invece – sarà questa la scelta o meglio il punto a cui tenderà -  intuisce che ha una chance nel rimanere incompleti e imperfetti, e come scrive bene Viola Di Grado intraprende un “cammino di de-formazione”, di emancipazione da ogni bisogno dell’altro, identificabile nel nodo-analista, abbandonandolo. Proprio questo diventerà il motore per un recupero dell’imperfezione, del non razionalizzabile, la scoperta di una profondità e di un modo di stare al mondo che si riappropria anche di una forma molecolare, aleatoria, diffusa di una compartecipazione e una disseminazione nel mondo.
 Come la poesia (Mariangela Gualtieri compare tra le letture di Maria già subito e tutto il libro è scritto da chi si comprende ha meditato sulla poesia) Maria/Teresa compie un  “esperimento dell’vuoto”, lascia che accada, che prenda spazio,  il non razionalizzabile,  ciò sta fuori dalla grammatica e dai sensi compiuti e logici, cercando di vedere anche nelle pieghe della realtà. La narrazione di conseguenza si fa piena di connessioni, metafore, accostamenti e forzature del senso, e  segue Maria nel suo dislocamento, se metafora ha come significato “spostamento”  e Maria costruisce una diversa prosodia dei giorni, dell sua mente, si riappropria del rimuginio, del fantasticare magico che eredita dall’infanzia e il mondo magico ,che apparteneva già alla madre, amata , sghemba e difettosa, ma proprio per questo molto amata. 

Il flusso interiore che cerca di dare forma alla propria coscienza prende corpo allora, in questo libro, in forma spesso di lettera a una madre assente che ha lasciato in Teresa un vuoto che diventerà circo e cerchio del sacro, e l'ha formata in questa acrobazia della mente, col suo essere madre alternativa, femminista, ma Narcisa, alla ricerca di figure-alfa, negli uomini come nei leader politici, ma pure capace di individuare nell’invisibile, o di evocare nelle cose una loro magia concreta. Il dislocamento è la madre che se ne va, e la scrittura di Maria che la insegue, che la ritrova proprio nella scrittura, dove apparir il suo diverso pensare.

Fisicamente anche Maria si muove, lascia analisi e casa, si trasferisce dalla campagna, in città entra in relazione con i suoi vicini Nomadi irregolari marginali. Lavora in una libreria dove conosce Lorenzo che lavora con lei, e la loro coppia sarà proprio un diverso sperimentare la non-paura del fallimento curando la differenza, anzi la “differanza”, questo diversa inferenza linguistica tra i due, perché  sperimentare l'amore vuol dire farlo con tutti i “discorsi amorosi” in cui l’amore si nasconde senza svelarsi mai alla parola, o meglio mai compiutamente..

“l'amore per un freudiano è un movimento sospetto” dice un certo punto scrivendo di come lascerà a Lorenzo il suo essere scostante. Del resto l’errore è una diversa energia dell’amare, non ci sarà bisogno – e dunque nemmeno bisogno di portare il significato a casa,  come il pane.
Lorenzo e Maria saranno il loro essere-due, cercheranno una sorta di “tutto alternativo” laterale o distopico : L’amore è una speciale distopia perché è molto invocato e richiesto in società e invece abita un altro luogo, parallelo, che è la comunità degli amanti, luogo del non-senso.
Così questa ex bambina sensibile, che pregava Dio di liberare Moro, ma anche ferita per come cresceva  da genitori alternativi e litigiosi, senza un modello di famiglia al tempo stesso con legami molto forti in insondabili, cerca fondamentalmente d icompiere un suo destino. Che non è essere diversa, ma per certi aspetti di ripetere l’errore, ma non come una coazione bensì come una scelta. Solo in questo glorioso fallimento, che sa di “destino” può risiedere tuttavia una grande libertà, che è quella  di accettare l’incompleto, l’infinito finire di ogni nostro sogno di infinito – o “nel” finito.  E in questo, stare. O naufragare dolcemente, come da poeta, come in fondo Maria-Teresa è (e per certi aspetti anche Sara Gamberini).

In tutto questo proprio perché il luogo del desiderio e di tutti i suoi equivoci è linguistico, fondamentale sono per Maria le lettere che scrive alla  madre, interlocutrice e diverso, materno,  essere-due, perché non c’è che il poliamore a salvare l’amore da ogni suo potere immaginifico  ma normativo. E' con lei che mette a punto i suoi passi, la trasformazione fino ad arrivare ad una maternità che come l’amore viene alla vita nel suo cadere. 

Il libro è esattamente questo,  non è soltanto il racconto di un'esperienza ma è la sperimentazione stessa dell'esperienza attraverso il linguaggio,  in questo senso formalmente è un romanzo , ovvero in prosa,  ma profondamente è una forma di prosodia e poesia. In un certo senso il mondo si ricopre con un “Aura invisibile”  lega le cose in una trama di dissipazione e di disseminazione,  sempre sull'orlo di diventare Mistica, forse religiosa. Maria vive  il suo anno di pensiero magico , riusciendo a tenere il vuoto che contiene e in cui siamo contenuti.  Non è una mancanza, non è un precipizio in cui cadiamo, ma punto di un intarsio del mondo, e la  ferita diventa così una vertigine del pensiero, come quando siamo di fronte a un quadro di Fontana,  una cabala della coscienza scoperta tra le pieghe del reale. Come le stelle in cielo: vastità,  dove tra buio e stelle, scovare un senso, un disegno una costellazione. Maria lo cerca come un percorso accidentato, di imperfezione,  che ci può portare dalla sofferenza di essere stati figli a generarne altri, accettando che il figlio potrà essere nel futuro sia perfetto sia un criminale, oppure morire a un anno,  di una malattia inaspettata. Alla fine scienza o magia,  Dio o Don Calabria, c’è spazio per la salvezza, bisogna però abitare l’invisibile, ma – come questo libro – anche continuamente scrivere questa invisibilità.

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...