mercoledì 20 novembre 2019

LA SOLITUDINE DEL CRITICO: poeti e critici letterari i "numeri primi" della letteratura



“La Solitudine del critico” è un saggio sul'attività di leggere e riflettere a partire da un testo letterario. La critica, un'impostazione di lettura, interpretazione del testo, a partire da una teoria.
Il 900 è stato un secolo di teorie e pratiche, anche della letteratura.
Questo libro ne sorvola la storia, e parla immediatamente a chi ha letto gran parte dei libri citati, come capita a chi come me era studente proprio di Ferroni &  Co alla Sapienza di Roma, nel periodo in cui era direttore di Italianistica Alberto Asor Rosa, metà anni 80.
A metà anni ottanta convergeva nelle università  la tradizione italiana di Contini o Binni, o Debendetti, Macchia, Avalle. Segre. Corti ecc con le molte scuole per lo più francesi o russe - Lotman, Da JAckobson - o Genette, BArthes, MA poi saggi di Starobinski, De Man, Derrida, Blanchot. Insomma c’era un gran traffico di teorie e di pratiche saggistiche della letteratura.

Accade ancora ? So di esami in cui "per legge" - o strane regole -  non si possono superare le 200 pagine (complessive) dei testi da studiare per un esame.
   Possibile? sarebbe non la solitudine, ma la sicura morte non metaforica della critica.
In ogni caso, sia per chi li abbia letti e a maggior ragione per chi - studente oggi o fresco laureato sia  intenzionato a stare dentro le cose umanistiche - non li abbia letti, questa sintesi mostra che razza di enorme patrimonio di sapere sia la critica letteraria. Oggi a rischio abbandono.

LA critica ai testi letterari è un “sapere “ che non è scientifico, ma è umano e sociale e artistico, indecidibile e non definitivo,  che ci permette prò continuamente di misurare la smisurata sfuggevolezza del mondo.
In nemmeno 100 pagine  Ferroni ricapitola tutta quella che è stata la grande storia dell'evoluzione della critica letteraria novecentesca,  legata alla teoria . E’ pur vero ammette F. che  “l'età delle teorie letterarie è finita per sempre”  dice Ferroni , al massimo sopravvivere nell'applicazione della critica fatta sui mezzi di comunicazione anche se edulcorata, anche se affidata a non competenti, anche se devota a essere ancella che raccontano trame ( sui giornali certo la critica letteraria è stata ridotta a 30 righe e spesso quelli che vengono definiti i critici letterari per il 70% del loro pezzo riassumono una trama del romanzo in oggetto) E’ tuttavia quello che vuole il mercato editoriale,  perché il critico è diventato un supporter del prodotto editoriale.  

Il campo dove forse la critica da un lato ha  esercitato la sua attività più alta e più difficile è la poesia, che è stata sempre un tentativo di dare voce a ciò che non abbiamo,  di dare voce a ciò che manca e a cui Ferroni dedica significativamente il penultimo capitolo, prima delle considerazioni finali.

la Poesia è forma suprema di conoscenza data attraverso la forma testuale della varie “forme del vivente” -  e questa parola che ritorna inevitabilmente (forma)  ci dice che appunto il lavoro della critica come quello della poesia non esiste se non si lavora sulla “forma”. Il poeta è sempre stato come testimonia Dante quello che puntando “all'alta fantasia manca la possa” In  qualche modo la solitudine del critico è la solitudine del poeta,  perché il critico partecipa nella sua versione più genuina a quel inseguimento della dell'alta fantasia,  quel collocarsi nel momento in cui lo stesso autore sta creando,  cercando di comprendere,  interpretare qualcosa  elaborato da un altro soggetto .

 Così il  critico tenta di ricollocarsi nel punto in cui il creatore, il poeta  era intento a creare. C’è quindi questa intima solidarietà . Ma se oggi critico deve fare il supporter marketing del prodotto editoriale medio,  in cui la lingua ormai a rinunciato a ogni idea di forma letteraria,  collocandosi di più nella "medietas" linguisto-stilistica della lingua  di comunicazione,  ecco che il lavoro del critico vero diventa marginale e inutile rispetto a quel che resta da fare ai post-critici, overo i "recensori": la  certificazione del già dato, la sottomissione  ad una preponderanza dello Storytelling come unico elemento che ha un valore di scambio nel rapporto tra autore e pubblico ed editore.

Quindi il critico come intimo fratello-ombra dell'atto di creazione, svanisce. Una fatica che non ha comunità. Quel critico che seguendo le tracce della creazione, entri dentro i movimenti della forma stilistica dell'autore, dando conto anche dell'intenzione ( magari sbagliando perché anche il critico è soggetto al fallimento  come il poeta)  non può più essere esercitata, se non sempre più in zone protette e ristrette. Sempre per le problematiche produttive dette prima. A che serve il critico? basta una bella storia.


No, oggi le opere  di narrativa e poesia, in maggioranza, stragrande maggioranza,  prendono  la lingua già data,  prendono una forma già data,  applicano modelli dati dal dall'editor, dalle scuole o dalla produzione editoriale in base a ciò che funziona, rispetto al livello die lettori (qui si aprirebbe un capitolo sulla "fruizione" unica frontiera in cui la critica, relativizzandosi, può ancora esercitare una qualche pratica)

NEl frattempo dominano i modelli narrativi (che sta diventatando tout court sionimo di letterari, perché la poesia è totalmente espulsa, malgrado quelche segnale di ripresa, dall'orizzonte di interessedell'editoria)

“Funzionano” (eccola parola chiave dell’editoria che cancella il critico letterario : “ questo libro funziona”).
Poiché deve funzionare, la storia racconta  quello che  voleva raccontare, in modo piano e medio, senza complicazioni testuali. 
 Questo vale ancora di più per la poesia, il cui timido risveglio editorile è fondamentalmente legato a modelli di versificazione che si appiattiscono alla possibilità-data della sua fruizione, "funzion" una poesia  con concetti magari anche elaborati, ma esposti iu forma semplice, niente di complesso e alla fine sono pensieri, anche arguti, ma appunto come "cose che vanno a capo" senza un vero perché creativo. .

Di fronte a ciò il critico vive una sua solitudine, perché la solitudine di chi non ha più nessuno con cui parlare,  la sua lingua  - e secondo Ferroni in realtà si può resistere, interrogando la differenza interna e tra testi, quindi continuando a ad attraversare nella coscienza della propria inadeguatezza il testo letterario come fosse sempre un  testo, sì letto, ma anche vagliato criticamente, che pone domande di conoscenza, anche in opposizione all'universo della comunicazione dominante. Che  si colloca insomma  nella "inattualità"  e sa di dover fronteggiare la solitudine.

Per  Ferroni resistere serve , io non ne sono più così convinto, sono più pessimista, , ma riconosco il magistero di  Ferroni e quindi cerco di non esserlo,  e mi lasci trascinare dalla antica passione del battagliero prof.

mercoledì 13 novembre 2019

MICHELE MARI "LEggenda privata (Einaudi)


Questo libro “Leggenda privata” è stato definito - e giustamente - uno dei più bei libri più importanti degli ultimi anni.  (in un saggio breve di Andrea Cortellessa su “le parole e le cose”)
Il testo leggenda privata di Michele Mari è collocabile, secondo Cortellessa, tra le altre  possibili definizioni critiche, nella categoria dell'  “iconotesto”, letteratura che aggiunge al testo linguistico icone (disegni/foto) innescando, specie nell'uso delle fotografie private, una contaminazione della “verità” (extra-testuale, per convenzione “vera” ma non è detto) attingendo a quella biografia, privata, appunto.

Ci sono dei testi molto simili come quelle di Carrère,  Sebald,  oppure il nostro Valerio Magrelli con “Geologia di un padre”  ma ci sono anche i testi del passato che avevano questa sorta di ibridazione (“la divina Mimesis” di Pasolini, Barthes di Roland Barthes, “Lettura di un'immagine”  di Lalla Romano).

Il romanzo di Mari è una “filologia privata” dice Cortellessa,  quindi paradossale,  non sono assolutamente possibili dei postulati su un testo – e sul testo della sua vita, se come Galileo o Dante o gli gli Ebrei, leggiamo l’universo sempre come un libro. Non è possibile filologia, che aspira alla materia oggettiva,  anche se “la storia narrata” in Leggenda privata contiene verità oggettive della sua stori biografica . Ma non tutte, non completa (ma è mai completa una verità? E poi: come si fa a dire quando è vera?)

Le immagini però più di tutte le parole ci dicono, si così è stato. C’è stato quel tempo. E quella foto in copertina. Ma è stata veramente come racconta Mari Michele, quella sfida al padre che la scattava?

Eppure in questo caso il mondo delle immagini non è casuale e in Michele Mari fa emergere un vero detto (un v erdetto?) un vero detto “tra virgolette” (orrore) di una biografia familiare precedentemente, in altri libri,  solo allusa. A me è quello che più è piaciuto perché così radicale.

il filosofo americano Emerson scrisse profeticamente che un giorno ci sarebbe stata solo memorialistica, non più romanzo, che l’epoca era quella del soggetto travolto dalla soggettività. Forse un po’ è così, se osserviamo il grande successo dell’autofiction.
MA pure c’è il fantasy che ha successo, la distopia.

venendo a Mari, “Leggenda privata” è come una sorta di resa dei conti e quello che rileva Andrea Cortellessa il mondo delle immagini genera mito-grafia originaria, ma anche un tempo oggetto di una rimozione (il testo è fatto di pagine divise spesso, ogni paragrafo da parentesi quadre con puntini - [..]  - del tutto simili al segno grafico degli omissis) e allude ad alcuni pretesti infantili e adolescenziali, virati al fantascientifico horror e meta letterario.

Nell’accumulazione iper-letteraria e dolorosa insieme, c'è sempre nascosto questo pretesto dell'infanzia e a mio avviso è anche una sorta di “ resa dei conti” con la letteratura stessa,  come se si fosse arrivato a una sorta di capolinea biografico, psicologico, autoriale, che non vuol dire che Mari non scriverà più ma è come se fosse anche la fine e la ripartenza di una vita.

Avanzo un’ipotesi, per carità, interpreto segnali che reputo “oggettivi” (filologia o critica paradossale, la mia) magari semplicemente marginali,  ma che sono come tutti i margini rivelatori,  indizi, vie di fuga energetiche.
C’è dentro questa dimensione originaria, una privatezza che ora si rivela nella scrittura con questo corpo-a-corpo, rivelandosi come una privazione dentro la vita che ci viene qui raccontata. La privazione (questa l’ipotesi che seguo) forse sta  forse con un suo puoco centrale, al bivio del talento di Michelino, bambino ma non più “infante” benché vessato come stupidello. Il bivio è quello in cui Mari sceglie il suo linguaggio e forma il suo inconscio come tale. Lo sceglie, lo scelse allora, nella sua esistenza biografica, per raccontare e al tempo stesso mai “centrare”  quel tipo di mancanza. Che fu per lui forse “privazione”.
Forse fino ad oggi la scelta della scrittura è stata una scelta fatta “ in opposizione”  rispetto al destino disegnato ed è il caso di dirlo,  dal padre Enzo Mari per il figlio. Che si aspttava di averlo fatto a sua immagine e somiglianza anche se al tempo stesso come un dio padre, lo crocifiggeva continuamente.

La scelta di Michele fu per la parola,  anziché  per la matita, anziché le immagini, come era nella speranza paterna, Fece di sé un altro destino personale, ma  privato appunto, un destino privato di un'origine libera,  perché non è mai libera l'origine,   o l’inizio di qualcosa,  che  si  è imposto per necessità (qui a necessità di sfuggire all’ombra del Padre) una  scelta per contrarietà.

Lo dico con ancora maggiore arbitrarietà filologica e psicologica, ma è come se Mari ci stesse dicendo “io tutta la vita avrei preferito disegnare” ma se aggiungesse, come è inevitabile  “come  mio padre” il segno diventerebbe una frattura, un ‘afasia, o una doppia non-scelta. E tuttavia, in questa sua mancanza, laddove  volessimo accettare l’idea della scrittura come rimarginare di una ferita, tagli oo mancanza, Mari scegliendo per sottrazione o privazione si collocò nel centro più forte della scrittura, che è tanto più efficace quanto si colloca pienamente in questo vuoto originario.

 C’è dell’ironia nella (sua) storia, che però romanzata è romanzo, non biografia. Né autobiografia, né autofirtion.
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E potremmo dire  questo aggiungendo: ha tutto un  tratto grottesco e comico (si ride, si ghigna, leggendo, Mari è scrittore di raffinata ironia cattiva) in questa tragedia dell'infanzia (c’è un’eco di Alberto Savinio)  sanguinosa, infganzia   che continuamente ci viene raccontata, che continuamente para e fa parlare, scrivere, anzi  in questo libro ci viene raccontata con più precisione di fatti,  benché non necessariamente verità di fatti, inverificabili allo stesso autore - io-narrante,  perché non completa ( c'è sempre in agguato una “mancanza” originaria)
E lo dico in modo ancora più drastico: sembra che qua e là affiori un senso tellurico dell’ironia che trasmette una frase non detta che traduco così: “Non ne posso più della letteratura”.
Per uno come  Michele Mari la letteratura finisce per essere un “secondo super io”  esattamente opposto al super-io paterno, di cui qui racconta.  Meglio: non la leteratura, se questa fosse solo “scrittura privata”. Ma la letteratura così intima e necessaria e privata ha anche in sé il suo male inestirpabile, essa è “leggenda” : se lo latineggiamo, una cosa che va letta, che da leggere da parte altrui. E dunque fatta di editori,editor,  pubblico, generi, classificazioni ecc.
E quello che mi è sembrato quando verso la fine, quando nel raccontare l’ennesimo abuso-sopraffazione (quello del rimprovero della lettura di Mayonnaise così come scritto e non in francese)  la maionese mentale di Mari, sia impazzita,  quando Il padre gli dà uno scappellotto. Anche questa memoria è selettiva, certo, cancella anche le memorie positive .Nel racconto selettivo di Mari narratore, oggi, c’è però il riscatto ma anche appunto un “secondo  super io” del libro che si deve fare  (ecco le due voci che compaiono ogni tanto e lo sollecitano a scrivere “il romanzo” e che sembrano editor e editore).
Mari svicola,  in qualche modo fa altro, deborda verso altro - facendo sempre grande letteratura a modo suo e al tempo stesso, affida alle note a piè di pagina una via d'uscita: il desiderio di una immaginazione altra, pop, da un lato,che sembra dire,  basta cose serie, cazzeggio! (ricordando lo schiaffo, aggiungere che la maionese a lui poi è sempre piaciuta,  la Kraft) .

il Senhal, del desiderio di fuga, lo vedo quando Mari aggiunge che lo spot a noi noto (Kraft cose buone dal mondo) era con la voce del doppiatore di James Stewart,  rivelando una immaginazione che è  immersa in una dimensione sì forse letteraria, tanto ne è intrisa la lingua,  ma al tempo stesso completamente devota al mondo dei consumi,  all’immaginario (vintage certo) del consumismo (per il quale il padre lavorava e disegnava molto, pur essendo  certo undesigner-filosfo, fautore di un consumismo intelligente “ icui l’industria era inclusiva )
In ogni caso, parliamo dell’epoca d’oro del boom economico, Olivetti, Danese, Artemide ecc ma pur sempre industria e consumo. Quel consumismo c che per molti di noi è l'opposto della letteratura. Michele Mari ci racconta oggi, parlando di quell’episodio, che spremere un po' di quella maionese era come essere seduti a tavola con “ l'uomo che uccise Liberty Valance”  . E forse oggi raccontandoci dello schiaffo ma pure di quel ricordo della maionese industrile inventata in quell’epoca d’ora del boom, in cui il padre fu protagonista  – non solo della sua sanguinosa infanzia – Mari Michele si sta ricongiungendo a Enzo. Più che le psicologie private che sono affari loro, nella “leggenda” in ciò che affidandola a un editore e pubblicandolo, egli vuole che sia letto da noi.
Condividendola, si direbbe in facebook, dove abbonda molto  il privato-che-vogliamo-sia letto.

 Maionese, spot e western, è un ’ immaginazione  libera da un'imposizioni accademica (fli accademici evocati e fuggiti nel libro), è una spia mi fa pensare che in qualche modo Michele Mari abbia voluto scrivere e pubblicare  questo libro per necessità e in questo ci ha messo tutta la sua forza di scrittore ma al tempo stesso sia anche la dichiarazione di resa.

 “Sì alla vita”  sembra chiedere Mari, non più alla letteratura come terreno di scontro con la vita stessa, campo di battaglia con la vita stessa che ha significato per tutta la vita terreno di battaglia con suo padre e in misura diversa con sua madre o con i loro fantasmi,  benché i due siano ancora vivi.
Mi immetto arbitrariamente in una mente d’autore, e penso a cosa accadrà al Mari autore con la morte del Mari-padre-reale e fantasma, ma lo leggeremo o lo vedremo.
Poche pagine dopo l’episodio della Maionese, Mari nel libro scrive (laddove veniva identificato come stupido ancora una volta) che il suo impegno è stato questo, nella vita:  “non farmi trovare dove mi identificano”.
Le note, l’indulgere a altro, cinema, pop, al meno serio, evocato nelle note, sono uno sfiato, una via di fuga, più che il Padre, dall’Editore e il Pubblico, il suo  nuovo doppio super-io esigente. C’è del comico, uno scherzo del destino, Michele Mari è diventato un grande scrittore (e “grande” in generale”) e oggi i lettori chiedono a Enzo se sia il padre di Michele, non più a Michelino se fosse figlio di cotanto genitore.  MA neppure dai due super-io Gatto e Volpe Mari si fa prendere: inventare? neanche per sogno, scrive:  “il mio lievito romanzesco è nella forma, non nei fatti”.
Dunque chiudendo questo libro bellissimo, leggendo la leggenda, siamo invasi da tanta letteratura, forse “privati” di una verità sulla vita di Mari, che è sempre la “quota di mancanza” della vita, anche la più vera, ma che resta grande letteratura. Gli siamo grati per questo sacrificio.


lunedì 11 novembre 2019

MARIO BENEDETTI Tutte le poesie (versione lunga della recensione per Poesia del 2017)


Perché dobbiamo rileggere  l’intera opera poetica di Mario Benedetti in un unico volume (“Tutte le poesie”, Garzanti, p328, 16,00 Euro) ? non solo perché quella del poeta friulano  rappresenta di sicuro la voce più importante tra quelle delle generazioni del dopoguerra, capace di farsi stella polare anche per chi è nato ancora dopo e oggi scrive in un contesto in cui la poesia è indebolita presenza in una sua stessa condizione di posterità anche se con diffusa, vivace, proliferazione. Benedetti nato a Nimis in Friuli nel 1955 mostra un percorso singolare che partiva appartato, mentre si svolgevano sonore battaglie di poetica, alla fine degli anni 70 quando  la ricerca lirica si riappropriava anche della possibilità di un Io, seppur detronizzato, solo sembiante di un “soggetto-che-dice” che le avanguardie avevano destrutturato, quell’Io riprendeva corpo seppur tragicamente ferito e disperso. L’approdo è però ad una poesia che sembra parlare da posizione di estraneo e sradicato, proprio perché strenuamente conficcate in una heimat.  Storia e geografia dell’apprendistato poetico di Benedetti va proiettato sulla storia: in Friuli apprende della morte di Pasolini, friulano e espatriato, l’anno dopo si iscrive alla facoltà di lettere, nell’anno di uscita di “Somiglianze” di Milo De Angelis e del sisma nel Friuli. Un terremoto letterario e uno reale. La crepa di terra e anima lo riporta al vissuto minimo ed essenziale della  sua comunità, alla necessità della tenuta di una storia che  non solo cambiava antropologicamente, ma ora quella civiltà contadina crollava, seppellita in macerie. I detriti per lui sono reali, lo sono stati nel dopo terremoto infinito anche quando tutto è ricostruito per bene, sono realmente da qui puntellare, più ancora che in poeta metropolitano come De Angelis  ( non solo interpretazioni e  allegorie di una lacerazione interiore).

L’inzio della sua attività poetica, che poi confluirà in Umana Gloria del 2004, inizia negli anni 80 nel sodalizio di Scarto Minimo con Dal Bianco e altri.  La parola stessa li collega ad un “minimalismo” narrativo  che dominava nel cuore dell’impero letterario occidentale  (l’America di Carver), ma  nella poesia di Benedetti e dei sodali della rivista padovana ha diverso senso: è il passo corto di chi attraversa a piedi il paesaggio, senza che diventi la vastità convergente di  psiche e storia che c’era nel conterraneo Zanzotto (che plaude agli esordi di Benedetti) perché il dopostoria inaugurato negli anni ‘80 fu anche la fine delle grandi poetiche, non solo delle grandi narrazioni. Anche la poesia è investita di questo pauperismo privativo. Una poesia senza poetese, come lo chiamava l’avanguardista Sanguineti, anche se Benedetti lo fa proprio dalla riva della lirica o quel che ne rimane.

Non c’è nessun  deciso timbro di metro e ritmo, con versi lunghi a declinare verso la prosa, e poi verso la fine della lingua, un finisterre della langue.
 Come Benedetti  è oggi sospeso in una dimensione della malattia che non deve connotare il discorso di accenti postumi. Benedetti è un poeta contemporaneo è tra noi, e anche in questa dimensione di non scrittura del suo “adesso” possiamo leggere quel legame tra biografie e poesia, tra tempo e poesia che lo ha contraddistinto .

“E’ successo un tempo/ma è come se fosse adesso/ perché anche adesso è un tempo” sono versi di venti anni fa, ma sono versi di ora. E tuttavia Benedetti è anche un poeta che registra le onde di una Storia, ma in cui il versante della gloria sta nel lato opposto dell’oro dell’icona, dove si vede la traccia manuale del lavoro e quella umana della “fievole istoria” parole che chiudono il primo libro mondadoriano (siamo anche nel mondo degli strumenti umani di Sereni, con una “carrucola” anche Montaliana che compare).

Non a caso nella prima poesia di “Pitture  nere su carta” quattro anni dopo, c’è stato un terremoto ulteriore e la poesia coma la biografia di benedetti proseguono verso una ricerca di verità che sta nella lingua e spetta alla poesia, la verità di un esistenza in cui però il dire è assediato dal non senso, in cui la povertà delle cose materiali anche si riflette in un impoverito della lingua stessa e dei significati che circolano in una comunità, quel “noi nell’enigma” come dirà in uno scritto dei suoi dintorni, e verso  cui il poeta sempre si deve rivolgere, non per alimentarlo, ma per scioglierlo, scrivendo però nuova lingua inedita: le metafore a scarto del senso comune, le ellissi, sono chiarezza, perché non ridotte a banale dato didascalico. La comunicazione di Benedetti ci tiene sempre sull’orlo di precarietà esistenziali, afasie.

Il “ noi “ ritornerà, ma  con “Tersa Morte” (2013) dove la lingua più aperta è però dichiarazione di dismissione, una resa amara  più dura, amara, al limite del linguaggio e della poesia. Ci sarà lingua più aperta, diretta, soprattutto  nei pochi testi ultimi di “Questo inizio di noi” (Nuovi Argomenti, 2014). Cosa ci dice non tanto l’involontaria biografia del poeta che viene consegnato ad un mutismo dalla malattia, ma la sua elaborazione simbolica precedente, nel momento in cui con quella malattia si stava confrontando – ormai da dieci anni  - e che tuttavia proietta come sempre in Benedetti e nei grandi poeti a assoluta singolarità di uno sullo sfondo dei nostri destini generali?

Ci dice ciò che sta nel mezzo di questa storia, ovvero la grande sfida con la possibilità di dire la verità e trovarli una forma nella lingua della poesia che è “Pitture nere”: che l’orizzonte è del tremendo, che lo sforzo a ricomporre una sintassi del massacro è un umano che non resta nel sottofondo del minimo, ma in piedi affronta il  tremendo. Lo sforzo a ricomporre una sintassi del massacro. La morte, di sé, l’avvento di una malattia che già lo aggredisce, e quella dei propri cari, fa di “Pitture nere”  un libro che estrae senso proprio dal lutto. La voce dipinta su testo ha forma in sintassi sincopata, enumerativa, frammentata espressionista, seppur con scelta terminologica sempre legata ad un misto tra l’eredità culturale (con squarci di citazioni, descrizioni di dipinti) e il linguaggio assolutamente comune. La morte che attraversa ci investe dal mondo,  è il credito che il tempo, la storia, la biografia sua e di tutti, viene a riscuotere.

Benedetti dice come sia fondamentale – lo dice in un’intervista -  vedere “Il mondo attraverso me”. Biografia, certo ma oggi, dopo dieci anni da quel libro, lo rileggiamo mentre il mondo effettivamente  attraversa anche fisicamente, a piedi,  quel “noi” così importante per Benedetti – con una diversa “fuga di morte” che attraversa l’Europa che  beve ancora il Nero latte dell’alba dell’ amato Paul Celan, stavolta di lontano sangue di umani che ci attraversano..

Questa  poesia è nata all’incrocio tra le due mortalità - dell’io e del mondo, quello che muore trasformandosi, capoliena di ripartenze,  è anche allegoria triste di una biografia,  in cui gli umani, come le parole su carta, vagano come particelle . E tuttavia quello che Maria Grazia Calandrone definiva “un esodo continuo di parole-molecole che rifondano la massa evanescente di una stella nuova a bordo pagina” oggi possiamo staccarlo da questa dimensione fisica e metafisica e rileggerlo proprio come iconostasi  (parola chiave per Benedetti) di una Storia a noi contemporanea.

 La scelta della citazione di Goya nel titolo è importante, la sintassi che sottrae linearità, prospettive uniche, cattura lampi, di significato in un buio sullo sfondo di un secolo che si sperava d luce e invece precipitò nel sonno della ragione. La scrittura ad impulsi, l’abolizione di un flusso, procedendo per giustapposizioni di nuclei acuti, scrive il tracciato morse di un allarme al nostro tempo.
Il primo allarme è che non si può più dire con la lingua comune questa esperienza, la seconda è che forse è inutile, la terza è che pure la materia verbale e segnica si dispone davanti a noi, non tanto a mimare una realtà frammentata, quanto a dire un’unità diversa che rinasce da macerie. Ancora qui le macerie dopo tutto questo tempo….

 Per quanto disarticolata, la poesia di Benedetti tuttavia non è mai esplosa, non è relitto, ma raccolta di ciò che resta, sogno di figura. riemerge dal nero.

Come corpi affiorati nel mare, senza direzione.  Senza nome, lo avranno.Affrontare l’impegno della fine delle possibilità: eccom in fondo è un leopardiano, Mario Benedetti. Anche se con meno fiducia nella poesia approdando a  “Tersa morte” che è stato  nuovo inizio. Senza fine, in una fine-sospesa.

Siamo al  come dicevamo al finisterre, ma la scommessa è che il cammino continui, nella rimembranza, nello sguardo all’infinito, anche se fatto di silenzio vero. Benedetti naufragato nel suo privatissimo mutismo, ci ha consegnato la durezza della necessità del coraggio, ogni volta necessario, in ogni stringa storica a rinnovare quello che in  ciò che inferno cerca quello che inferno non è.


sabato 9 novembre 2019

teatro LA VALLE DELL'EDEN, di John Steinbeck, regia Antonilo Latella, Arena del Sole Bologna


Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; [4]anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, [5]ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. [6]Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? [7]Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo». (Genesi, libro 4)

La valle dell’Eden di John Steinbeick è un romanzo che ingaggia un corpo a corpo con la Bibbia. A partire dal titolo, perché “la terra a est dell’Eden è il Luogo in cui viene esiliato Caino. (East of Eden era il titolo originale del romanzo dello scrittore premio Nobel).
Antonio Latella ha fatto di questo spettacolo due cose fondamentalmente: una resa dei conti con il Maschile e una sorta di sfida interna all’idea stessa di teatro e spettacolo.
È una scelta coraggiosa e alta, di uno spettacolo bello d’una bellezza severa e simbolica, come di fronte a certe opere di Fontana, Rotchko, o forse meglio Louise Bourgeois, per quella forza enigmatica e intima della sua materialità.

Nella storia narrata in La valle dell’Eden, tra I tanti richiami il più evidente è subito il dualismo “Caino e Abele” che si rivive in Charles e Adam, due fratelli divisi da un padre adorato, temuto per il secondo, dittatore e ingannatore per il primo.
LA prima parte, anche dello spettacolo, si concentra sul percorso di vita di Adam Trask, costretto dal padre alla vita militare, in lotta col fratello Charles più forte che sta dal padre del padre Cyrus che ha però lasciato ai due una cospicua somma di denaro, morendo.
Adam decide di rompere con il luogo delle origini (un Eden che non era tale) e va a est, nella valle di Salinas, a cercare il SUO Eden, in California, con la moglie,  L’ambigua e dominante, unica donna in questa tragedia maschile tragedia, Cathy, da cui avrà due figli che poi Adam, abbandonato da Cathy, crescerà con l’aiuto di due amici,  il cuoco cinese Lee e Samuel Hamilton che danno vita in questa prima parte dello spettacolo a un dialogo sull’esistenza, sulla natura, sull’umanità che va verso la conclusione della prima parte, fermata al momento della nascita dei due gemelli di Adam (nonno di Steinbeck) – questa seconda parte con al centro la vicenda dei figli Caleb e Aaron è più o meno quella raccontata nel film di Kazan con James Dean.)

Lo spettacolo è davvero bello, vi costringerà ad una tensione bifronte che poi si farà tutt’uno. Da un alto la parola  L’adattamento della drammaturga Linda Dalisi, costruito insieme a regista Antonio Latella, per cui emerge la volontà di lasciare spazio materico e scenico alla parola letteraria, drammatizzata certo ma in evidenza anche con una figura (significativamente femminile e che resta in scena a fare la maglia – del Narratore-Steinbeck (scena scarna, pochi oggetti un tavolo e delle sedie e soprattutto una parete (la quarta parete) che si cala fino lasciar intravedere solo le gambe e molte scene sono recitate addirittura dietro questo ingombro di una scena orizzontale come un quadro di Hopper, un occlusione che spinge lo spettatore alla sottrazione all’ovvia (andiamo a teatro)  ma non necessaria  spettacolarizzazione (compito dell’arte è mettere in discussione I luoghi comuni o anche certi postulati, dati, ma non universali. La messa in discussione dell’impianto del linguaggio e della metafisica nel 900 continua)

La parola letteraria (nelle intenzioni dichiarata te da Latella nelle sue note) deve essere restituita il più possibile come tale. Dall’altro lato, sul palco però il regista (che con coraggio fa un passo di lato rispetto alla  “spettacolare” e in senso buono riuscita del suo magnifico penultimo spettacolo, “Pinocchio”) scegliendo una soluzione scenografica che oltre alle cose già dette aggiunge una serie di soluzioni semplici e al tempo stesso fortissime sul piano simbolico, con l’uso di materiali primari – legno, pietra -  con alcuni scarti quasi onirici, come il vassoio che scorre in orizzontale ma tenuto da dietro il grande ingombro del sipario di legno che occupa la scena per metà spettacolo ecc.) così da restituire anche a fronte di una linearità della parola, un vertice allegorico, una disseminazione di simboli che richiamano un certo dialogo, come suggerivamo sopra,  con l’arte (povera) contemporanea (altro nome che mi viene in mente Penone, Kounellis).

Visto in scena emerge ancora di più come sia una resa dei conti col maschile. Lo è anche nella forza interpretativa, nei gesti improvvisamente violenti, scoppi di rabbia, sensualità, ma anche impotenza.
Una resa dei conti con un Dio/Padre creatore, che però ha generato la imperfezione che è l’uomo, e che nel romanzo sono i figli C. e A. – biblicamente: non solo Adamo e Eva, la nostra storia di dannazione umana, di caduta, viene soprattutto da Caino e Abele, I veri primi uomini (tra I quali si scatenerà una violenza per una scelta di rifiuto da parte del padre di accettare il dono di Caino. La sua offerta però non era un dono, ma una richiesta di restituzione: io ti dono, ma tu devi amarmi. Non era un dono incondizionato, per questo Dio lo rifiuta. Da qui nasce la violenza, da questo rancore di mancato riconoscimento, e l’assassinio, che è il vero elemento del male umano (diverso dalla seduzione del proibito di Eva con la mela, che con Adamo erano emanazione di creazione divina, mentre Caino e Abele sono partoriti, generati da Eva che con Adamo dopo la cacciata è solo “umana”)

 Il male dell’uomo inizia dunque con Caino, la sconfitta dell’umanità è all’origine dell’umanità stessa, la violenza (fratricida) è il suo atto fondativo. Lo è naturalmente anche la generazione materna.
E non a caso questo elemento enigmatico è stato il grande potere del femminile che l’uomo ha cercato in tutti I modi di ingabbiare.
 Latella mette in evidenza da un lato questo elemento agonico del maschile. L’accoppiamento robotico e rabbioso. Steinbeck fa di Cathy la donna che seduce e fugge, ha potere, ma subisce la violenza maschile.

Al tempo stesso in questo deserto spoglio come la scena, nella riduzione di Latella, in questa valle californiana, che non è così generosa e fertile come sembra, così come era petrosa e dura la terra dell’Est in cui sono cresciuti Adam e Charles, e in cui si muovono i protagonisti di questo secondo memento del romanzo, la sola possibilità di bilanciare questa potenza della creazione sia paterna che del femminile di Cathy, ai maschi inaccessibile, è con la Parola.

Del resto, la parola svolge nel racconto biblico una doppia funzione: dio disse, e fu la luce. E il Verbo era all’inizio di tutto, origine e motore di creazione del mondo. La parola però fu anche ciò che Dio diede all’uomo per nominare le cose (al Maschio ancora una volta). Il maschio figlio, poi cacciato e uomo, nomina, ma non genera. Sta nella sua imperfezione, e attraverso la parola sente la sua impotenza. Per questo, nel nome del padre, ma di fatto tradendolo, fonda la legge e l’atto di violenza che la garantisce – la condizione della punizione è la base stessa della istituzione della legge.
Adamo ancora in grazia di Dio nomina. Il poeta nomina. Tutti gli altri devono venire a patto con la legge.

l’uomo non riesce a creare come il Padre (Charles e Adam sono frustrati per come il padre sia riuscito a ingannare tutti con il suo eloquio) ma al tempo stesso la Parola riempie il vuoto di questa sconfitta e condanna che è l’esilio di Adam. Adam che si prepara a vivere la nuova frustrazione, con l’abbandono di Cathy, che lascia I due gemelli. Ma sulla scena c’è una coppia di uomini, di maschi, che daranno vita a una famiglia di fatto, e allargata: Lee e Sam – il cui tratto di tolleranza, apertura, ironia e sapere – tutte virtù della Parola – danno speranza di redenzione al maschile. Ma questa è la soglia della seconda arte che vedrò nei prossimi giorni.

mercoledì 6 novembre 2019

HELENA JANECZEK "Cibo" (Guanda, 2019)


La mia dieta è iniziata leggendo il libro “Cibo” di Helena Janeczek, ricevuto mesi fa, mi è sembrato un buon motivo per recuperare. Era stato già pubblicato nel 2002 da Mondadori e ora riedito da Guanda con un capitolo finale che proietta questi quasi venti anni di “civiltà del food” dentro una più ampia questione che riguarda la nostra identità culturale della stessa, proprio sulla scia storica di un’epoca che per qualcuno (le destre occidentali) è stata segnata dallo “scontro di civiltà “con l’Islam. Già da allora – ricorda Helena Janeczek nella postilla 2019 “Dalle torri, dalle cucine” alla nuova edizione Guanda – era iniziata anche la battaglia in favore della Polenta e contro il CousCous, approdando oggi all’apoteosi dell’identità vissuta come battaglia per il recupero di una sovranità nazionale, che è imparentata alla rivendicazione trentennale della Lega di una identità locale-regionale.

A mio parere – so che suona strano – ma la questione della rivendicazione “local” ha due volti, che in qualche modo inconsciamente si sono alimentati – meglio: hanno agito sullo stesso sentimento in parte dell’opinion pubblica: uno è quello della Lega di Bossi, la prima, l’altro volto è quello dello Slow Food di Carlo Petrini, l’anti-global della prima ora – e ai tempi, fine anni 90 c’erano medesimi fronti di protesta. Oggi la battagli anti-couscous si colora di nuovi casi, come quella contro il “tortello con il pollo” servito nelle scuole emiliane per far mangiare insieme musulmani e cattolici e visto come un’aberrazione, un cedimento della tradizione (ma ripeto: il purismo alimentare a me sembra figlio di slowfood, prima che di Bossi o Salvini).
Da vent’anni il cibo ha colonizzato l'inconscio occidentale, nella generale offerta di “godimento” di soddisfazione del desiderio che caratterizza il capitalismo del narcisismo di massa, il capitalismo capillare e consumista, in cui il prodotto soddisfa – e appena ne abbiamo voglia - il corpo e l’ego, in un processo di “rilevance” del soggetto che supplisce tutte le assenze per un io-minimo privato di storia, memoria, religione, potere, identità. E di qualcosa di primario, tendenzialmente “le cose buone di nonna” – in realtà è dall’epoca del Mulino Bianco 30 anni fa che è così, ma il processo di desertificazione dell’Italia contadina è stato lungo.

Nell’alleanza tra un edonismo diffuso e continuo e l’offerta povera dei migranti la cui prima chance è aprire un negozietto di cibo, da New York o Londra o Berlino per non parlare di Parigi che sicuramente già ricca di suo sia per la cucina locale che per quella integrata dalle colonie delle seconde e terze generazioni.
 Siamo sopraffatti anche dall'idea di gustarlo e di trovare nel  cibo la sublimazione di un piacere rizomatico, che ha fatto del “desiderio” – che  alla fine degli anni 70  doveva essere la pulsione destabilizzante dell’ordine borghese – la rivoluzione permanente circolare che tanto crea caos quanto usa il medesimo per rimodellare un capitalismo che ha saputo farsi malleabile e assorbire ogni urto critico eversivo trasformandolo in “diversivo” ennesimo capitolo di un infinito intrattenimento al consumo (e all’accettazione dello status quo necessario ad un consumo che nessuno, nemmeno il più radicale degli antagonisti riesce ad evitare perché  il pc con cui hackera, I jeans che indossa, I concerti che vede, il cinema o le serie tv, il cibo che consuma, I vestiti, tutto è inserito nel medesimo sistema di produzione e consumo capillare, sia I prodotti lowcost, che gli indie che il lusso.
se facciamo un parametro dantesco, su cui torneremo, abbiamo liberato i peccati di gola, tanto abbiamo irrigidito i peccati della carne e del sesso. 

Le ossessioni per il cibo il biologico prima e ora vegano stanno conquistando i nostri scaffali dei supermercati consumato anche dai non vegani. La proliferazione per il cibo va di pari passo con la paranoia per tanti cibi, dallo zucchero ala carne per non dire le “intolleranze” che sono veramente democratiche. Sulla sponda opposta, ovviamente le ossessioni per la forma fisica.
  Quello di Helena è un romanzo a due voci, di fatto, in cui la protagonista, Elena, decide di fare massaggi per aiutare il suo tentativo di dimagrimento o contenimento, e a Daniela, l’estetista che la manipola, confida I suoi problemi e la sua educazione alimentare tra Germania e l’Italia, dove era arrivata più che ventenne. A sua volta Daniela confida alla cliente I suoi problemi col peso, con il cibo e tra le due nasce un’amicizia sul filo dello scambio di ricette, aneddoti, consigli, e soprattutto tanti racconti di vita delle due donne alle prese con una non facile esistenza, ognuna delle due per motivi diversi. Dolci e cibi tedeschi, poi italiani, questo I terreno comune e per entrambi la passione di un gusto speciale, poi ricordi del cibo ebraico della famiglia di Elena.

La Germania dei ricordi di infanzia – ovvero per ogni persona il paradise lost del proprio gusto, è lo stesso luogo in cui – in casa del carnefice – s’era rifugiata la famiglia della protagonista, come anche dell’autrice.
 E il carnefice a un certo punto compare nel libro in poche righe poi scompare di nuovo, tra i ricordi infantili, Hitler che amava il suo cane e era vegetariano, aveva un'infinità di problemi col cibo (qui viene in mente per collegamento un altro libro, sempre legati al cibo e all’epoca nazista, le assaggiatrici)
Hitler aveva un rigido regime alimentare, afflitto da mille problemi di ulcere e cattiva digestione. Ma la dieta di per sé è definita “un regime” alimentare, ovvio, ma c'è qualcosa nelle diete che richiama proprio una dittatura con la contraddizione che oggi, ci sono due regimi che si scontrano apparentemente è un po' come il totalitarismo occidentale e il totalitarismo nazista o comunista, c’è il regime delle diete, per noi occidentali sovrappeso, ma c'è anche il regime pervasivo e totalizzante del cibo offerto ovunque.

Nei ricordi di Elena non c’è solo l’aneddotica di gusti perduti, la memoria infantile e adolescenziale affonda in quelli di una generazione nata negli anni Sessanta, figlia di quella che era adolescente durante la guerra e che ha fatto la fame. Nel riscatto della ricostruzione finì anche l’ipernutrizione dei figli, ma no solo.
Le dinamiche del cibo aprono a sofferenze che però guarda caso non riescono mai ad essere generazionali (mentre invece per la droga c’ sempre una Christiane F. da raccontare, un’epopea giovanile. Elena ritorna invece a memori di dolore legate a bulimia e anoressia, quest’ultima un inferno, ma anche la prima lo è, sebbene oggi chi divora cibo sia annoverato tra I malati psichici, mentre per Dante erano peccatori e li ficcava all’Inferno, anche loro. I disturbi della psiche legati al cibo fanno parte di una storia di emancipazione dolorosa di una generazione che è cresciuta a cavallo con genitori piantati con la testa nell’800 e un futuro completamente diverso di cui la generazione nata negli anni 60 fu la cerniera tra la fine del vecchio mondo e le incognite del nuovo, con l’aggravante che – come I genitori di Elena/Helèna – parte di quella generazione soffrì della stessa sofferenza di Dante, l’esilio, fu “displaced People”, profugo, ramingo. Si portò dietro il sapore suo o la mancanza d’esso. Fossimo stati all’oggi magari avrebbe aperto un fornaio di pane sciapo a Ravenna. Proprio come ora I mangiatori di cous cous vengono a insidiare la polenta aprendo mille attività di facile presa, quelle culinarie.

Un destino, ammalarsi col cibo, anche per Ruzena divisa tra occidente e oriente, esule da Praga a cui sempre sarebbe voluta tornare, di cui sempre ricordava sapori e profumi. La Storia sembra penetrare le esistenze sul filo dei ricordi di cibi e viceversa, è la memoria alimentare – nel suo classico micro choc involontario – a generare ricordi, da quelli di Franco Montesimone o Teresa Aiace, nei dettagli seguiti su un filo narrativo continuo e irregolare, in ci tutti I frammenti si ricompongono, come nella bellissima e malinconia storia dell’amica etiope campagna di scuola in Germania, scomparsa troppo giovane, rievocata nelle memorie di  una sorellanza fatta amicizia,  nel nome di una cultura per entrambe egemone, prevaricatrice o coloniale, se osservata col taglio dei dominanti e dominati, ma pure sentita come propria intimamente da due ragazze tedesche, europee, che amavano Bruckner, Shakespeare, Bach così come amavano I cibi delle loro radici.
Così il nostro mondo sta cercando di cancellare le sue memorie future, anche se più nega legittimità ai cibi di altre culture, più ogni città – complice il desiderio, lo stesso che ci fa essere consumisti - è contaminata o meglio: integrata, innestata, con cibi di tutto il mondo. Che sia reale integrazione o facciata, preso dirlo (lo stesso accadeva con la cultura greca a Roma o quella black-afro negli Stati Uniti o quella ebraica un po’ dovunque – e arabo-turca, allo stesso modo.

Una cultura che assorbe e ingloba l’altra, il processo si ripete. Ha il simbolo proprio nelle Torii Gemelle, e nelle sue cucine cui Janeczek dedica il capitolo conclusivo. Il World Trade Center, simbolo del commercio mondiale, della dominazione globale delle big company soprattutto per lo sfruttamento alimentare (si parla molto di data Facebook e Google, ma non si parla mai abbastanza della borsa di Chicago, delle quotazioni dei mercati globali delle materie prime alimentari a partire dall’acqua, vere dominazioni globali). Nel world trade center però la cucina corrispondeva - nella sua molteplicità di culture e di lavoratori addetti - alla varietà di culture e tradizioni culinarie delle molte etnie del personale che lavorava nelle torri, delle bocche da sfamare. Un dato che sono solo annullava le differenze o meglio le faceva convivere così che da un lato contraddiceva la tendenza all’omologazione che avrebbero le big company del food, magar iper far consumare a tutti gli stessi alimenti, così da risparmiare nella diversificazione. E questo un dato che non sarebbe piaciuto ai big boss del WTC, ma pure non sarebbe piaciuto agli integralisti islamici, che avevano puntato alle torri come simbolo di un dominio occidentale che schiacciava le differenze, mentre il suo ventre profondo, che si rivelava in quello che veniva cucinato e da migliaia di bocche veniva ingerito fatto di tutte le culture, un world food center. Tutti I sapori del mondo. cucine e ristoranti, che rappresentavano proprio quelle culture alimentari che il WTC ogni giorno contribuiva ad impoverire.  


martedì 29 ottobre 2019

TOMMASO GIARTOSIO "come sarei felice" (Einaudi)


“Sei tornato. Non eri mai davvero morto” inizia così il pometto “le notti bianche, una delle sezioni di questa raccolta di poesie di Tommaso Giartosio  “Come sarei felice”(Einaudi)  il cui sottotitolo “Storia con padre” già allude al suo carattere narrativo, di confronto, ma come in un abbraccio, con la figura dell’Altro-Padre. Un doppio ritratto di sé narciso, inevitabilmente narciso ( questo siamo, chiunqe di noi riflette su sé,  specchiandosi in sé o in una pagina di libro, letta o scritta).

Giartosio è uno scrittore originale, i suoi libri singolari, colti e preziosi ( sempre a cavallo tra autobiografia saggio e letteratura “Doppio ritratto”, per l’appunto - e non a caso Fazi aveva posto in copertina il Narciso di Caravaggio oppure “ la O di Roma” per Laterza) e negli anni ha alternato a questi,  molti e significativi studi sulla letteratura e cultura omosessuale, una questione a cui Giartosio si è dedicato anche con sua personale militanza, cosa che traspare anche in un libro di poesie come questo, in cui a un certo punto la realtà biografica entra con un segno non grammaticale, letterale.

Anche Narciso si riaffaccia sulla soglia in questo libro in cui “ la Storia” quella generale della società tutta, nell’elaborazione di un lutto per la morte del padre, include proprio la sua figura, la include potremmo dire alla lettera e oltre la lettera. 
Se la mitologia psicoanalitica misura la distanza e spesso la nostra esperienza pure la vive irriducibile, qui il padre compare, dentro l’ambivalenza di quel “con” del sottotitolo. La bellezza mortale nella leggenda di Narciso – che in Giartosio si colora di una delicata ironia alludendo al fatto, pare “ che il suo viso/ nella fonte riflesso/ fosse brutto lo stesso// questo pare l’abbia ucciso” –  viene posta a specchio della bellezza del caro defunto, del padre, di cui vediamo la sua allegria giovane e spavalda in un piccolo ritratto  (una piccola foto nel libro a marcare una “tessera” di verità dentro una scrittura che si misura sempre con la possibilità che tutto sia mitopoiesi, finzione, invenzione) . la foto sigillo di verità per la sentenza dei due versi centrali di una poesia posta nella prima parte: “Penso, tutto ciò che non si rivedrà mai/ abita gli specchi”.

Per questo la storia dell’io che scrive non può che tenere dentro, includere il padre, fuori dall’ambivalenza invisibile della scrittura, con la sua foto e la sua bellezza, il padre solo il padre, il suo corpo- padre.
Solo questo osso di vero rende possibile il confronto e la distanza, lo sdoppiamento, la necessaria separazione di narciso da sé, e dunque rendere non mortale la sua bellezza, la bellezza in cui Narciso-figlio se si riflette muore, per il suo non essere.
 Il padre è l’altro, ma io posso essere egualmente io, se l’altro è diverso ma è con me, dentro una storia in cui anche il conflitto e la differenza ci tiene assieme. Lo spazio delle dinamiche dell’inconscio non è tutto interiore al soggetto, ma è nello spazio che separa ma tiene in un medesimo campo di tensione, il mio volto e il tuo.

L’amore sembra sempre essere il tentativo di pace tra due che si fanno per natura la guerra. La ricomposizione procede nei frammenti di esistenza delle poesie recuperando le memorie nell’atto del “formarsi del ricordo/prima e dopo la realtà” come se il confronto dell’oggi, riposizionando la coscienza un “allora ora” con la pratica della memoria. LA rielaborazione memoriale, l’elaborazione, dovrebbe emancipare ma al tempo stesso ribaltare I poteri, mantenendo un doppio legame nell’età finalmente adulta (“Padre ti ho concepito come tutti/ I figli” e nell’enjambement Giartosio lascia sospesa l’ambivalenza di questa affermazione seguita subito da un sintagma adulto, ma detto tipicamente dai bambini (“sono grande adesso”). 

Il bilancio del consuntivo tra errori e sbagli reciproci trascrive nei testi questo esercizio di collocazione spazio-temporale dentro una Storia. Le poesie si fanno tentativi di mappatura di un’esistenza ereditata nella trasmissione della morte del padre che lascia in eredità la sua storia al figlio, inevitabilmente – e in modo ingombrante, sempre, anche quando non voluta o non condivisa- ma non la sua identità, seppure tenga in sé la sua immagine. E’ tutta dentro questo triangolo la vicenda, ma pure il modello dell’amore. Se il figlio elaborando il lutto genera, concepisce, suo padre, dall’altra si appropria di questa storia tradendola, e la tempo stesso portandola avanti dentro quella rottura di un patto che forse andava ben oltre l’amore singolare di un padre e di un figlio.

Qui il nodo lessicale, biografico, quindi poetico, si trasposta ancora una volta nella storia più generale con uno slittamento interessante che ci porta anche alle scelte biografiche e pubbliche di Giartosio.
  “figlio di una scrittrice” anche così viene definito questo padre dall’ io-che-scrive, padre che a tavola ingaggia col figlio lotte nel nome di qualcosa ovvero un duello sui nomi, sui  lemmi, duello di erudizione verbale che finiva arbitrato dalla Treccani. Ed è lì che nel suo turno di sfida il figlio scende, coi lemmi della poesia tra I lemmi nel ricordo, termini che il padre nelle sfide della disquisizione egli “abbaiava”. Questi ricordi sono le scende di una divisione, lancinante, lacerante tra questo alto ufficiale di marina e il figlio che sta compiendo il suo percorso di identità, rivelando in sé la sua omosessualità “scendevo in quella patria di voci, verso I miei termini che tu abbaiavi sfidandomi a penetrarli” (c’è tutta forse anche troppo sovrabbondante tra patria, lingua madre e penetrazione, una inevitabile rifrazione nelle parole usate) e quali erano quei termini dilanianti? Ovviamente “ ‘invertito, ‘sodomita’ e ‘ pederasta’ ”. Ora però che la morte ha sigillato il conflitto l’io scrive “mi alzo ogni mattina con la paura di non avere figli tuoi padre unico come un figlio, schiattato come tutti i padri” È l’impossibile tradizione, traduzione di padre in figlio, di geni in geni lo snodo.

Qui dobbiamo portare nell’analisi del testo una vicenda biografica – del resto autorizzata criticamente dalla posizione di una tessera-reale della foto del padre, dentro il testo letterario, alla maniera del maestro implicito di Giartosio che mi sembra sia GW Sebald ( e spero che l’autore non storcerà il naso, per l'incursione biografica,  nel nome della nostra conoscenza trentennale).

 Tommaso – racconto ciò che è già noto, e si trova in rete,  anche per la cronaca di una battaglia civile di cui s’è fatto portatore a partire dalla propria esperienza personale - è padre di due bambini con (il termine “con” che ritorna indica che è una paternità anche con) suo marito Gianfranco Goretti (sposato già dal 1998 negli Stati Uniti e ora finalmente anche riconosciuto in Italia e con esso, appunto, la paternità dei due figli a entrambi i genitori) .
 I figli avuti grazie alla “gestazione per altri”, in questo caso un’infermiera canadese che i piccoli (ora di 13 e 10 anni) conoscono e a cui vogliono bene, secondo quanto raccontato in interviste da Giartosio, che è stato ed è ancora militante e responsabile comunicazione per l’Associazione delle Famiglie arcobaleno.

Di questa vicenda storica, sociale e biografica, ci sono rifrazioni naturalmente nel libro, e ne aumentano lo spettro di sentimenti, che approfondiscono la portata e danno certo il segno di un conflitto tra concezioni della famiglia e della sessualità, che però nel nodo di affettività private, la poesia mette in luce quale travaglio emotivo, di concezione identitaria sia aver fatto una scelta di rottura.
Ecco che però al padre “schiattato” (il termine è germanico, Sclatha, vuol dire stirpe, nella morte si sancisce la discendenza, nella morte l’albero della genealogia fruttifica) si contrappone il fatto che - scrive il poeta - provo per questa sua schiatta  “amore” e che – chiosa -  “per me si eredita”.

La ricomposizione è dunque dopo il conflitto, e con la morte.  E’ pur sempre nell’apparato genitale, biologico che si compie la filiazione ulteriore del padre attraverso il figlio e oltre, che rinnova la sua schiatta, seppure per diverse scelte laterali di concepimenti. Oggi geneticamente qiuel padre militare e distante ufficialmente e biologicamente  ha anche lui ha un nipote, seppur non nato da atto erotico genitale, e tuttavi da geni e in quel nuovo nato avrà continuazione. (ho rirato dentro l'elemento biografico, ma come per i romanzi , anche in poesia vale la profezioa del filosofo americano Emerson, siamo arrivati a quel punto in  cui nel futuro, scrisse un secolo e mezzo fa, ci sarà solo letteratura autobiografica, memorialistica, personale).

La letteratura serve però a  moltiplicare i significati a costrure un diorama di senso e dsentro quello si mantengono anche non detti, non tutto si appiattisce al discorso: "tutti I miei segreti morti con te/non sono mai esistiti. Sapevi/ tenerli. Non li sapevi” ma in questo gioco ambivalente una certezza che “solo questi segreti/ si tramandano/ tra le righe di un testamento” ma che proprio per questo figlio-poeta-figlio eredita ma dicendo “non ti tradirò mai abbastanza”.


Telemaco qui, contrarimente al mito, aspetta Ulisse per ucciderlo, e diventare re nel suo nome. La biografia di un padre ufficiale di marina trasporta la proiezione di un ripensamento nel cuore del mito omerico. Come si diventa eredi giusti? Uccidendo, come Edipo, che conosce il conflitto con il padre beneficamente traumatico? O restando fermo all’immagine giovane di sé e del padre, interrompendo la differenza tra le generazioni – e di conseguenza il flusso storico di eredità. 

La storia ha bisogno di procedere, Giartosio individua un percorso di riesumazione dopo la morte, di riconciliazione con il fantasma che deve passare per una guerra con la persona reale. È un Telemaco diverso da quello di Recalcati, un Telemaco che si traveste da Edipo prima, sarà poi il lutto a rendere vivo il loro rapporto. Se il Telemaco usato da Recalcati per spigare l'assenza di conflitto col padre tipico della nostra epoca, è un Telemaco conservatore, politicamente,  che in nome della sua identità e nel nome del padre, lo aspetta  per ristabilitre la legge nel regno, il personaggio-poeta-figlio di Giartosio separa amore dalla legge, nel volto del padre si, nel nome del padre no.

E vuole un’altra legge, una diversa legge della paternità, innanzitutto.
Qui – come abbiamo detto sopra – mito e storia continuano a dialogare. La paternità è uno specchio da infrangere e poi un ritratto da ridipingere, a memoria. Questo in sintesi, il passaggio duplice che la soggettività definita dal “romanzo familiare” contenuto in  “Come sarei felice”.
Al padre l’Io si rivolge:   “ah quanto mutato da prima della tua morte io sono” e poi constatando “è stupefacente il mondo/ che si è ricomposto senza di te”. Giartosio eredita una linea di pietas verso questa figura di pare “disperso” che in poesia ricorda anche quella di Maurizio Cucchi, quella figura non predominante, sfuggente, debole, traditrice delle aspettative eppure amata, sconfitta e  demitizzata (”non eri davvero/ tu quello che comandava le navi”) . Tuttavia proprio in questa essenza/assenza,  che viene prima della sua divisa da padre, “la primavera della tua preistoria”  è il luogo in cui figlio e padre possono ricomporsi . E addirittura il figlio si fa “portavoce del silenzio” del padre e nel sogno la fusione arriva alla ricomposizione anche erotica, che sublima tutte le seduzioni, i desideri, la volontà di generare un figlio dal padre, e viceversa (“papà t’avessi incontrato in treno/ e accompagnato ai gabinetti (..) “  in un approccio erotico che avrebbe azzerato le ipocrisie ( “le balle che ci siamo detti”)  in una fusione tra il ragazzo  adeso il di allora, bello, che era il padre e il poeta che scrive ora che ha l’età che avrebbe avuto il padre “quella di quando mi hai fatto” dice il figlio-poeta. UN incontro e un intrigo erotico che naturalmente non genera, non può generare. E’ questo limite invalicabile dell’amore omoerotico, della non fecondazione, ora passato per aggiramento culturale e tecnologico, ed è il nodo cruciale del libro. In ogni caso è quella impossibilità che fa da misura di tutto il resto,  che però è possibile. L’amore innanzitutto. Ma anche la genitorialità.

. EDIPO Può generare con il corpo di sua madre, Elettra con quello del padre. In questo caso il confronto erotico sostituisce il conflitto di Edipo, ma non può generare, quindi resta sospeso dissonante – se non che è quell’Eros a poter generare  simbolicamente: “sarebbe stato tutto stupendo, pur non sapendo/ chi in quel momento stesse venendo/ e chi venisse al mondo” questa complicità è chiesta anche nel poemetto “le stelline”(“pur disapprovando/ dovresti tacere”) diventa  il cuore di un testo-cerniera nel libro.

In  “Le stelline”  Giartosio modula in pieno anche il cuore stilistico della sua scelta di poesia narrativa scendendo in “ipogei” biografici del padre morto, in versi liberi ma sempre su quel filo di una rivelazione che nasce dal clinamen del linguaggio, fino ad arrivare in sequenze lessicali analogiche, come a inanellare nell’omofonia un punto di rottura rispetto al sottinteso segreto, la paura dell’io narrate, l’omofobia. Il lapsus come forma di  coming out, del resto.
Oltre al verso libro, ma misurato, alle ampie strofe che lo iscrivono nella linea della poesia narrativa, il libro è pieno di una trama lessicale di fitti rimandi sonori simbolici, come anche a misurare una storia del lapsus o deone di analogia. Ed èqeusta la caratteristica saliente a livello formale del libro, ma non lo è per pura casuallità o gioco.

 La scelta dei versi in questa raffinata penetrazione delle pieghe riposte dell’animo paterno entro la sua storia è perché “non sta scritto da nessuna parte/ il senso della nostra morte, tranne che in poesia” ma se poi la sequenza dei versi si fa emersione di umanità, al tempo stesso è il rischio di perderlo: “quando il padre sarà stato analizzato/ e spiegato cosa resta  del figlio?”. Così il racconto più si dispiega più resta inspiegabile e senza un lemma che lo inchiodi questo rapporto a due, che è sempre un doppio ritratto, mai ritratto di un doppio.

 Partendo da un fermo immagine di un video porno in cui due uomini fanno sesso, da un attimo di ilarità e gioco, non previsto nel canovaccio di quella  finzione-vera di quel sesso esposto commerciale per consumo cinematografico, con quel momento di gioco tra I due che diventa “metafora estrosa” per spiegare come anche in un rapporto improntato alla finzione e forse all’ipocrisia tra un padre alto ufficiale, militare e borghese e un figlio fuori dai suoi schemi mentali e culturali, sia esistita poi la scintilla,  la stellina,  il dettaglio rivelatore di una verità dell’amore, perché l’amore è “beneficio di innocenza"  che si dà all’altro che si ama anche quando si “disapprova” il suo comportamento. 

Così il poemetto è una resa dei conti amorosa e biografia sommaria di un padre distante e vicinissimo, puro e al tempo stesso uomo d’ordine e “ufficiocasachiesa”, e come le parole nel loro cielo  sonoro fanno sovrapporre significati in antitesi, così Giartosio crea anche un interessante stratificazione di piani immaginativi e memoriali e reali. Così ecco l’analogia tra una stellina nera tatuata sulla natica del porno attore, in un video che l’io-poeta guarda, e che fa scattare il piano del ricordo (anche in modo ironico, irriverente) e si sovrappone alla “stellina” o stelletta di ufficiale, la “prima confitta al petto” giovane del padre, inizio di una carriera di uomo d’ordine, ma con dentro al cuore forse un caos che ora lo rende dopo morto più vicino, nella distanza siderale che hanno sempre I padri.

La storia tutta quella sociale , è una costellazione borghese di "stelle e strisce/ e di Plaris, l’Autosole, le star/ il brodo Star, il cristo superstar” ma per un padre che amava anche un altro ordine, che baluginava nel  “luccichio dei giochi di parole/le fusa di un antico endecasillabo/ (non rattoppato come il mio riciclo/ creativo costellato di  decenza”). 
E’ su questa scelta di caos come diverso ordine che la poesia analizza un altro senso nella relazione di finzione padre-figlio, finzione sociale che tuttavia sottende amore, come I sottintesi di parole, I non detti, il silenzio e  il poeta-figlio ammette “non so dire/ meglio del tuo silenzio/ per moti anni a venire, ciò che avvenne” anche se poi “trovami un poeta che sciolga/ ogni filo del legame tra I suoi/ genitori”. Il verso però serve a dire che oltre le stelle c’era “anche luna,  cruna, lacuna/il meato in te celato; / era vano varco, venia ventata” insomma l’accesso dentro la piega, senza necessità di spiegarla, esattamente come fanno versi, le costruzioni fonosintattiche, le  catene fono-simboliche di associazioni.

 E segreti, come l’ultimo post mortem, scoperto dai figli, grugando,  che rivela appunto come questo padre dell’autorità e dell’ordine “mortale” sia invece poi passato per un suo passaggio segreto ad un “caos celestiale” attraverso forse una decostruzione di quell’ordine, in cui l’ambiguità dell’eros – nella rivelazione della foto trovata dopo la morte nel suo portafoglio di una “ragazzetta sudamericana” -  si rivela ancora una volta portatrice di bene e di amore.

Le sezioni che seguono si nutrono di quella distanza. Ma nell’elaborazione I “viaggi immaginari” (titolo della terza sezione) diventano la misura della morte del padre che diventa “fatto della vita”. E a partire da questa oggettività “la distanza accelera/ finché gli intervalli formano la vera storia” e negli intervalli ci sono viaggi, dislocazioni interiori derivata dalla lettura e dalla scrittura. Una ridefinizione della propria posizione nel mondo, un desiderio di fuga. Un desiderio tout court.
non a caso, l’ultima sezione viene annunciata ancora dal tema del desiderio (“dall’amato dipende/ la soddisfazione dei desideri/ ma dal padre il desiderio”). E così già dal titolo (“Trovare” che come dalla spia in ex ergo che cita Arnault Daniel, va intesa nel senso poetico provenzale della lirica amorosa) esplicitando ancora una vota la relazione erotica nel doppio maschile, trasferendo il confronto immaginario con la figura del padre amato sulla figura dell’amato-compagno. E’ tuttavia una tradizione che ha poca e nulla lingua o codice, quella della “poesia / d’amore d’un uomo a un uomo” (il vero esperto in questo campo è Gartosio stesso)  nell’ombra de “l’affascinante/ adolescenziale bugia dei pronomi/ di seconda persona” e di tutti gli altri accorgimento per confondere le acque –  precedente più noto, quello di Shakespeare , aiutato dall’inglese dove non c’è la declinazione femminile o maschile dei pronomi, degli aggettivi ecc.).

 E’ una sfida seducente per un poeta questo nascondersi, dissimulare (“sedotto dai tranelli meticolosi” della lingua per “assecondare l’indistinto del desiderio”. Il destino e forse l’origine dell’amore è un lutto, è la mancanza è il perdersi. È qui che il poeta chiude un cerchio metaforico, nella circolarità della mancanza come dogma del desiderio, specialmente nella poesia che al centro ha il sentimento dell’amore: “prevedo, vedi, di perderti. E di accoglierti/ insieme, nel profondo di me, come /quello che non si perde”.  E neppure la morte “normale” del padre lla fine oggetto di discorsi ripetitivi, tanto da essere “un dolore infarinato di noia”, è più fondamentale, il cerchio si chiude di fronte la rispecchiamento ultimo, della morte con la morte. “oggi il dolore non c’entra con lui. / E’ solo paura per la propria morte” questa nostra morte “così fragile. Di cui dobbiamo prenderci cura” – per trasmetterla “pura ai nostri figli/come l’abbiamo avuta/ dai nostri genitori”. E il cerchio della vita, difronte alla morte trasmessa, può ricominciare.

FERNANDO CORATELLI "Alba senza giorno" (ed. Italo Svevo)


La realtà è satura di realismo. I quotidiani si fanno sempre più palpitanti di letteratura, nel tentativo di farsi prossimi alla realtà, trascurando I fatti (e mostrando subito un paradosso che ogni lettore deve tenere presente: realtà e realismo non sempre coincidono, e i fatti spesso scompaiono tra le due rive della narrazione corrente pubblica).
Le parole scritte dell’informazione, agonizzanti ormai per autorevolezza sociale, relegate all’angolo del mercato, hanno abdicato al loro compito e tentano di inseguire l’intensità emotiva di ciò che brutalmente si impone come fruizione del vero – e che non lo è - : le serie tv o le fake news.
Si impone “Come “ vero, ma appunto non lo è. Lettori inseguiti con folgorazioni sintattiche e iperrealiste, grondanti tanto di sangue quanto di sentimenti, al limite del trash per captare l’attenzione dell’utente medio-dei-media, altrimenti volto con le sue sinapsi emotive a ciò che lo droga con più piacere: I frenetici impulsi percettivi delle visualizzazioni di una foto ogni 0,3 secondi scorrendo Instagram. Con la stessa rapidità si scelgono le partner su Tinder. Per non parlare delle urla che dal verba dei social “volant” a quelle della vecchia Tv, che per tutti gli ultimi venti, trenta anni ha preparato il terreno a questa fame di reality di cui tuttavia ci stupiamo perché ci sembra irreale. 

cosa può fare il romanziere? Scavare. E scrivere. 

E sottrarre e sottrarsi questo trucco facile.
Scavare per rimuovere I detriti di una narrazione generale della realtà che si allontana da essa se non altro per il rischio di sovraccaricarla di drammatizzazione – è quello che fa mediamente un servizio televisivo che sia delle Iene o di piazza pulita che volete voi).

 La drammatizzazione è spesso non solo nel canovaccio della notizia ma negli orpelli stilistici usati che la sovraccaricano. NE fanno sempre una scena. Una scena del delitto. Il cadavere è proprio la realtà o meglio sono I fatti.
Fernando Coratelli, nel suo nuovo romanzo “Alba senza giorno” (Italo Svevo editore) ci racconta una storia (che è fatta dell’intreccio di tre sotto-storie) rappresentativa dei nostri tempi. Lo scrittore qui fa però l’operazione opposta della pessima paraletteratura giornalistica: scava per tentare di eliminare il sovraccarico, l’”effetto di realtà” che di solito vediamo sovrapporre al racconto di questo tipo di fatti. Una storia che racconta di Rom, di gente arrabbiata, di n’ndrangheta.
Come se puntasse a una nuda azione. Liberare in uno stile limpido la realtà dei fatti, cercando una nuova realtà e un nuovo realismo, che certo è anche un ritorno alla stessa pratica. In qualche modo in un mondo di giornalisti aspiranti scrittori, agli scrittori conviene trovare una via letteraria per farsi ultimi cronisti. E proprio dalla cronaca Coratelli attinge, restituendoci un romanzo civile: ecco la storia di Stoian e Stephka, due giovani sposi Rom della Bulgaria, che dal loro paesino sperduto viaggiano, attraverso la Germania prima e poi in Italia, nel tentativo difficile di trovare un lavoro, o  in quello disperato di rimediare soldi suonando il violino, e poi in quello impossibile di convincere gli altri che non tutti rom sono zingari bastardi delinquenti, anzi la gran parte non lo è e lavora. All’opposto, c’è quella di Tonino Cortale, un bravo papà di famiglia che fa la ninna ai figli tutte le sere in un appartamento della periferia milanese, ma è anche un sicario della ndrangheta e deve uccider I figlio di un traditore della cosca, a Milano. E mentre li bacia I figli nel letto pensa al piano migliore per l’agguato mortale. E infine c’è quella di Roberta e di Martina sua figlia e la nipotina, Alice. Due donne, due madri, alle prese con la loro storia normale, di periferia, con padri assenti e mariti distratti o sempre davanti alla tv e in cui nell’angoscia di doversela cavare ogni giorno con il lavoro che non c’è e I soldi che non bastano, e che si lasciano andare dalla normalità alla ferocia, quando nel quartiere l’amministrazione comunale decide di trasferire, in un campo attrezzato, alcune famiglie rom, sgombrate da un palazzo che occupavano abusivamente. Da qui sale la protesta, l’odio cresce, contro I rom e contro I politici, mentre I due sposi rom nel frattempo si arrabattano a Berlino, mentre in un paesino sperduto della Calabria si decide la morte. Storie che conosciamo ma che hanno bisogno forse di essere narrate con altro sguardo. E la letteratura serve a questo.
 Fernando Coratelli intreccia queste vicende con un doppio passo: da un alto fa risuonare la campana del destino, nella scansione temporale e incastrata dei capitoli (“un anno prima, maggio”..”tredici giorni prima, 13 maggio” e così via) segno che esiste un ineluttabile, un tremendo, una beffa della vita, un tragico, che incalza e che sfocerà nelle ultime pagine.
Dall’altro segue con uno sguardo limpido e slow, gli aspetti minimi dell’esistenza di queste persone. Lo fa con l’attenzione umana del documentarista. La ripresa scorre con piccoli piani sequenza nelle varie scene, restituendoci dettagli che fanno di una storia come la nostra, una normalità pacifica, che tuttavia a un certo punto genera l’odio o che incappa in quello, in modo ineluttabile. Qui il romanzo, con la sua costruzione formale ci esprime quale destino, secondo il romanziere, attende la nostra vita.
 L’alba è senza giorno, I nostri giorni sono senza innocenza. Vite che sono la nostra e non sono quelle degli altri, di cui non ci importa nulla, finiscono inevitabilmente invece per scontrarsi e cambiare in quello scontro, anche minimo, la nostra. Spesso leggiamo nella cronaca: I rom, I cittadini, la ‘ndrangheta. Nell’impersonalità c’è lo stereotipo. Coratelli la usa, la fa sua, quella tipicità, in questo c’è una scelta di opporsi da romanziere civile alle narrazioni correnti del reale. Lo fa scegliendo dei personaggi nell’atto di compiere ciò di cui leggiamo tutti I giorni o vediamo (I rom mendicare, le signore arrabbiarsi e protestare, I criminali della mafia uccidere).  Ma il realismo che voglia essere non il solito effettacci che parla alla pancia del lettore, è pur sempre quello che Walter Siti definisce “lo strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale”. E se I realismo è quella forma di narrazione, quell’organizzazione tecnica della disposizione delle sequenze verbali, che – ancora Siti -  “coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà”, Coratelli sceglie di farlo, guidandoci con mano attenta, dentro stanze, baracche, appartamenti, vagoni della metro, bar uffici, con lo sguardo che penetra I dettagli come fossero indizi. Ma indizi di cosa? Certo noi lettori, Per certi aspetti sappiamo e intuiamo che una tragedia incombe. Più del kairos del destino, più del punto finale in cui le storie vanno a parare o la sorpresa che il narratore ci ha preparato, ci deve sorprendere come persone, come coscienze, quello sguardo. Che sembra dirci: è   dunque dentro questa banalità della vita che sta il male? L’odio sociale? Il tragico? Il malvagio senza scrupoli? La paura? Tutto ciò che sappiamo essere intorno a noi, lo leggiamo nella storia di questi cinque personaggi principali, così simile alla nostra normalità. E quel tamburo battente che prepara l’ineluttabile, abita sempre ogni istante della loro vita. Dunque, attenzione lettore: può abitare ogni istante della nostra e non lo sappiamo.
 Come il precedente “La resa”, questo nuovo romanzo di Fernando Coratelli è ambientato nelle nostre città in fiamme. Se quello del 2013 che aveva in qualche modo anticipato gli attentati islamisti del 2014 e 2015 cogliendo l’aspetto di una conflittualità che era tutta interna al nostro modo e si intrecciava nelle nostre vite, non veniva da lontano, ma era nato tra noi, così questo “Alba senza giorno” è un romanzo in cui le fiamme poi non divampano in attentati, ma sono le vite bruciate a bassa intensità, dall’atrofia del bene.
I personaggi si muovono dentro le loro emozioni ma come se le emozioni non gli appartenessero più. Anche la decisione di tenere questo sguardo di oggettività, non psicologico, è il modo con cui Coratelli che strappa il velo della nostra quotidianità (e di quella “rappresentata” dalle tante narrazioni di realismo dopato, come la tv, ma anche I nostri social lo sono, noi stessi cela raccontiamo deformatala nostra vita, falsata) e lo fa  non mostrandoci un mostruoso” ma mostrando che semplicemente il mostruoso dell’odio e del male è esattamente quella normalità, è lì, è nelle sue pieghe, come nei dettagli sta la divinità del destino, che strangola l’innocenza. Sta anche al lettore aggiungere pensieri, psicologia, morale, perché non c’è nessun sottosuolo dove abita l’odio ma esso sta esattamente dove sta la tenerezza per I figli, le piccole beghe, gli amori, le faccende di ogni giorno. Il giorno come I nostri, tutti uguali, che non hanno alba, che non hanno redenzione.



lunedì 28 ottobre 2019

DURS GRUNBEIN A MILANO. Un discorso.


Il grande poeta tedesco Durs Grunbein (1962) è stato di recente a Milano dove ha ritirato una pergamena di rinoscimento del Comune (preludio a una laurea onoris causa che gli verrà conferita nel 2020) e ha tenuto un bel discorso, sulla speranza che, in un’epoca di opacità e assenza di punti di riferimento in questo spazio tempo così ampio da immobilizzarci, può arrivarci dalla memoria.questo spazio tempo così ampio da immobilizzarci, può arrivarci dalla memoria. (la memoria è un deitemi chiave della sua poetica insieme alle esperinze concrete, a ciò che las cienza ci dice dell'esperienza del nostro corpo, lo si ritrova anche nei saggi recenti "I bar di Atlantide" (Quodlibet)
Forse il “principio speranza” può essere attinto di nuovo, re-innestato in noi, non tanto dal passato in sé come una banale nostalgia (se fosse così sarebbe un erorre non era idillio quello) ma a tornando a quel momento di passato in cui - pur avendo reali e concrete difficoltà,  muri reali e duri, davanti ai nostri occhi, per la gran parte di noi figli, bambini negli anni 60, a est come ovest,  di operai, di classi di un ceto medio popolare senza una storia di istruzione in famiglia, vivevamo  quel tempo trascinati  da una tensione di fiducia nel futuro che oggi potrebbe fare da germinazione di una Utopia ridisegnata, re-immaginata.



Grunbein è partito nel suo discorso su memoria, storia e tempo, dalla città di Milano, legandola a questa “’ immaginazione del futuro” da ritrovare.
Ha raccontato che la città di Milano, meglio il suo mito, la sua generazione imprigionata oltre cortina, l’ha conosciuta viaggiando col cinema. “Teorema” di Pasolini e “La notte” di Antonioni, tra tutti. Nell’oscurità delle sale cinematografiche della Germania dell'est, dove il regime di solito opprimente nel controllo delle “vite degli altri”,  sbadatamente e per ignoranza, tollerava, sottovalutandolo, il cinema straniero che circolava.
 In quelle visioni i giovani dell’est avevano una finestra verso l'esterno e questo, dice Grunbein ,  vale per la dimensione spaziale e per quella temporale. “Vediamo più di quanto comprendiamo e  sviluppiamo una sensibilità per luoghi dove non siamo mai stati” ha detto il poeta tedesco,  e così Milano  è diventata per lui anche la Milano degli autori che ha letto e conosciuto, da Manzoni a Gadda, fino a Milo De Angelis (che certo è con lui oggi uno dei maggiori poeti europei)

I legami con le città possono essere immaginari, come i nomi i nomi di città che si intrecciano tra loro, quando in una specifica città troviamo nelle vie i nomi delle altre, oppure in tante  troviamo sempre il nome uguale di una via, di solito la principale e spesso nomata “via Roma” (e qui G. ha letto una sua poesia scritta a Roma, in Corso Trieste, con la memoria a Trieste, dove aveva trovato altre vie con città italiane ecc)
“La letteratura è il commercio spirituale tra i vivi e morti” ha detto ancora Grunbein , la letteratura trascende tutti confini quelli temporali come quelli spaziali “ in questo i contemporanei con la loro presenza fisica si danno sempre troppa importanza”
E’ stato un discorso in cui Grunbein ha elogiato la possibilità dunque di scardinare - come lo spazio, attraverso il viaggio-cinema-immaginario - anche  il tempo. L’arte deve e può rompere i suoi assi culturali come fa la fisica moderna, che anzi addirittura ha “abolito” il tempo come lo conosciamo noi (vedi Rovelli), riducendolo a mera convenzione.  Il tempo non esiste nella sua linearità, matematica, aritmetica che va dalle ore zero alle ore 24. Il tempo è una presenza simultanea di dimensioni spaziali, dove avviene una trasformazione della materia, questo è il tempo dunque anche se non è applicabile alla lettera. Nessuno vuole cancellare il passato o il futuro, ma è possibile che la speranza per il futuro, oggi, vada rintracciata nella memoria, nel passato, in altre parole nel momento in cui abbiamo iniziato a sperare.

Questo per Grunbein come per la mia generazione, era qualcosa che accadeva prima della caduta del muro, negli anni 70 e in quel momento e in quella dimensione senza tempo che l'utopia, essa stessa cosa senza tempo, può ritrovare il suo stesso discorso.
In qualche modo si può dire con Grunbein: “Ci sono alcune idee che noi idealisti speravamo non sarebbero mai venute meno” e  questo è vero.
Oggi ci dobbiamo misurare invece con una trasformazione una di queste idee: ad esempio la  democrazia e  libertà, che cedono il passo all’egoismo, ad un individualismo che non era quello che allettava i giovani della Germania dell’Est come Grunbein negli anni 80, la libertà di poter essere sé stessi, l’individualismo della libertà nelle società capitaliste, in cui - nella disuguaglianza - ciò che attirava era però un forte desiderio di poter dire “io sono mio” (lo dico volutamente calcando lo slogan femminista perché la rivoluzione alla fine degli anni 70 fu una rivoluzione culturale che ha segnato con molte contraddizioni anche un’ auto-riforma del capitalismo che si è fato “capitalismo dell’immaginario e del desiderio” disinnescando e inglobando quella rivoluzione molecolare dei Movimenti del 77)

LA libertà delle idee oggi si è trasformata nello spettacolo dell'economia e nello spettacolo delle idee. Quella libertà che gli insorti della Germania dell'est salutavano nell’89,  senza conoscerla immaginandola da lontano ( erano gli eredi delle illusioni del socialismo corrotto ) era qualcosa per cui valeva la pena di morire. Oggi, ha detto Grunbein, tutto è stato spazzato via e il credo del progresso e del progressismo di quel capitalismo che è andato in frantumi, più del  muro di Berlino- la libertà deve essere sempre la possibilità che si possa trasformare il mondo e che ci sia uno spazio per questo agire libero, quella è l'utopia di un “luogo ulteriore,  spazio interiore e mentale per poter concepire un mondo nuovo e uno spazio per poterlo generare. Questa possibilità spazio-temporale è venuta meno.

Non è un caso se oggi tutte le idee di tempo corrono nella direzione contraria, narrazioni di retrotopia o distopia che diventano predominanti, che è però un segno di crisi, ma nasconde la trappola di una regressione.
E allora importante poter andare a rintracciare il “principio speranza” nel luogo anch’esso ormai immaginario, del passato e andare a recuperarlo come se non fosse ancora vissuto.
E’ un lavoro sulla memoria e un lavoro sulla e il  tempo mostrato nella sua tensione di mutazione che aveva,  di metamorfosi continua. Non bisogna tornare al passato (anche se molto passato e memoria c’è nei discorsi e nelle poesie di Grunbein ma del passato è l'attenzione al futuro che ci interessa a ricordare. Rivivere una memoria identificativa empatica massima, quella tensione al futuro ridiventa nostro  presente perché appunto non essendoci più  un tempo lineare, la poesia o l’arte elaborano questa sintassi delle copresenze parallele, un ossimoro multipli dei tempi, in cui non conta appunto quella razionalità sequenziale di cui  nella normalità del discorso quotidiano dobbiamo per forza tenere conto, ma va al cuore attraverso proprio una trasformazione della grammatica metaforica, nella narrazione a-temporale, di un cubismo temporale come quello che pratica Grunbein, che ci riporta al “principio speranza” così come esso genera e si è generato e si continua a generare (potrebbe, la sfida della poesia è questa dalla sua invisibilità sociale in cui è del tutto impotente al livello politico immediato)  al di fuori di quella che è la misurazione dei giorni e degli anni. Così è quella Milano che cancella le tracce del fascismo nato qui, che confonde la sua brillantezza culturale con il cinismo finanziario, questa Milano che è oggi dentro una sovrapposizione di memorie che Grunbein ci sollecita, che è rimasta nella sua memoria, cinematografica letteraria come “ la metropoli più moderna di Europa” definizione che il poeta ha trovato in un quotidiano del 1962 l'anno in cui lo stesso Grunbein è nato, il 1962, come dire: c'è una tensione al futuro che ci precede, nel passato.





"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...