giovedì 24 maggio 2018

MARCO BALZANO "Resto qui" (Einaudi)


Finito di leggere  il romanzo di Marco Balzano “Resto qui” rimangono  impresse le due linee di sviluppo di questa storia, che forse non va sciolta, il suo tema è proprio continuare a vivere insieme ad una rimozione,  a come si sopravvive se il nostro fondamento scompare.
Il romanzo nasce da una storia vera e ci interroga anche per il presente – questo fanno i buoni libri, anche se nella forma del romanzo  – per vicende di stretta attualità, in Italia  e non solo.

Ambientato in una in una zona di confine e  ispirato alle storie vere degli abitanti di un villaggio della Val Venosta, tra prima e dopo la seconda guerra mondiale,  in Sud Tirolo, “Resto qui” è un romanzo a cerchi concentrici nella sua simbologia: nel cuore centrale ha la  storia intima di Trina, il romanzo ce la presenta ormai vecchia, mentre scrive  quel che leggiamo come romanzo, ovvero una lunga lettera a sua figlia sparita quand’era bambina, meglio : strappata  via dagli zii durante la guerra - o forse andata via lei stessa con loro,  seppur bambina, di sua volontà.

Sullo sfondo ci sono le vicende storiche  del paese di Curon, tedesco, austroungarico prima, strappato con violenza alla sua culla linguistica dopo la prima guerra mondiale, strappato poi della sua lingua dal regime fascista che impose l’italiano e poi infine strappato ancora e fisicamente dalla sua terra, raso al suolo per far posto alla diga di Resia, della Montecatini, poi Edison che ancora oggi è incuneata nella valle.
 Curon è uno di quei luoghi di confine dove la Storia abita solo come un vento ghiacciato che divide il cielo.
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 Trina è maestra e non ha paura. Quando Mussolini decide di abolire nelle scuole il tedesco, lei diventa una “piccola maestra clandestina” che fa scuola nelle stalle e nei campi per mantenere lingua e identità. Col marito, nonostante il dolore per la perdita della bambina, sarà in prima fila per protestare contro la costruzione della diga, prima coi fascisti, poi con la Repubblica Italiana.

E’ una storia che si proietta sull’oggi in modo limpido: non si può non pensare da un lato a tutta la complessa vicenda della Ricostruzione del dopo- terremoto dall’Abbruzzo all’Umbria alle Marche. E in particolare il pensiero di Curon si proietta su quello di Castelluccio di Norcia,  dove stanno per realizzare un complesso turistico che con la sua colata di cemento sfregia per sempre il paesaggio…

Così come,  leggendo la storia della costruzione come la racconta Balzano -  che usa dosi di fiction,  ma in una storia che è calco di  quella vera, della diga, dell’allagamento mortale di Curon  - si può pensare alla TAV che attraversa la Val Di Susa (  dove Marco Balzano, non è un caso, è stato chiamato a fare la prima presentazione)
Anche quella di Curon, di Resia e della Val Venosta è storia di una “grande opera”, che nel nome del progresso, nel nome delle necessità economiche, forse anche del miglioramento della vita delle persone – elettricità, treni oggettivamente lo soso stati per la società di massa del 900)  sono stati fatti dei sacrifici, paesaggistici e umani, cancellate vite, distrutti paesaggi…

Essere antimoderni non sarebbe corretto, chi ha abitato case dei nonni senza fogne ed elettricità, chi doveva camminare a piedi per arrivare in paese a trovarli, come chi vi scrive ora nato a metà degli anni 60,  sa che la modernità ha fatto molto bene alla vita delle persone.
Il progresso tuttavia, o quelle Grandi Imprese chiamate a interpretarlo, non è sempre lineare. La Olivetti non fu la Montecatini, impresa di stato che poi divenne Montedison, e nel 900 con le sorelle SEDA, ENI fu tra le grandi imprese che emergono sempre dalle acque torbide delle trame nere, emergono dalel carte delle indagini su stragi, catastrofi naturali, complotti, colpi di stato, impianti petrolchimici, ecc. Sono le imprese che non considerano comunità.

Per paradosso, tuttavia, il Progresso divora sé stesso, tanto che come oggi il TAV è ritenuto dai tecnici superato, così anche la centrale del lago che sommerse Curon oggi produce pochissima energia , ed è la stessa Trina a raccontarlo alla figlia perché “ costa molto meno comprarla dalle centrali francesi”.

Una lunga digressione, storica politica e ambientale, necessaria per capire meglio il contesto del romanzo, ma va detto che “Resto qui” è soprattutto il racconto di una storia intima e personale . Quello di Trina che resiste e al tempo stesso si adegua al progresso, di come la lingua e la scrittura siano armi di resilinenza, di come però  la Storia decide e completa o spezza le vie individuali, come per Trina e suo marito Erich, battagliero contadino che lotterà fino all’ultimo per opporsi alla cancellazione del paese e del paesaggio..
E forse il paesaggio, come la lingua – e la scrittura – è il protagonista immateriale del libro di Balzano.  Questa  diga che ha ferito, che ha creato un tragico muro tra il prima e il poi, muro e ferita nella terra, sommersa dall'acqua , è andata poi a ricreare un paesaggio che è diventato oggi - per paradosso – un’attrazione per turisti , e bello - turisti che non sanno, né la storia e forse nemmeno si accorgono della diga…invece è un “paesaggio secondo”, un paradiso artificiale 

…se non fosse per quel monumento funebre, quel memento mori che campeggia anche in copertina, il campanile  della vecchia Curon, unico edificio rimasto in piedi prima che l’area venisse allagata e sommersa dal lago fatto per la diga..Era questo il senso della storia, che non si può arrestare né far deviare di corso…col suo carico di ferite, violenza della storia lutti. Come quelli privati di Trina ed Erich, una famiglia che si divide, si lacera si perde, una terra che scompare anche se c’è. Una figlia, dissolta.

il romanzo di Marco Balzano come dicevamo, è in forma di lunga lettera che la madre scrive molti anni dopo alla figlia, raccontandole la storia in cui lei non c'è stata, raccontando di come al lutto bianco per la perdita della figlia si sommò  nella storia della sua famiglia un lutto bianco collettivo, la perdita progressiva della pace, del paesaggio e della stessa casa..
Trina mette su carta il sommerso della sua memoria,  tutto quello che è accaduto quasi per riempire un vuoto -  sicuramente un vuoto della figlia, per una  storia che lei non ha mai vissuto e  di cui non sa nulla. Come i turisti guardando il lago “come se sotto l’acqua on ci fossero le radici dei nostri larici, le fondamenta delle nostre case”. MA ciò che salda questo nuovo paesaggio alla coscienza di Trina e anche a quella della figlia è comportarsi “come se la storia non fosse esistita”.

La lettera è una resa dei conti che Trina fa con la propria memoria, con le colpe: il cuore anche tragico, ma  sommesso, sussurrato e discreto come i caratteri di questa gente tenace delle  Alpi, è un macigno sempre sospeso sulla testa dei protagonisti, che si sforzano e negano a sé stessi di pensare a quella bambina fuggita e per questo ripudiata – ma chissà se era vero..

Lo stile di Marco Balzano, come già ci aveva abituato nei libri precedenti,  è teso, ma fugge ogni facile commozione,  presta la sua scrittura limpida a questa donna dall’esistenza semplice, innamorata anche dell’Italiano, in cui confluiscono le tradizioni di chi racconto questioni private e grande storia: da Calvino del sentiero dei nidi di ragno ,  a Fenoglio, a Bianciardi  fino ad arrivare ad autori come Edoardo Nesi . Anche la scrittura è parte del castello narrativo, diventando l’attività preferita di Trina tra italiano e  tedesco, … E se da una lato narra le vicende di contadini che si oppongo alla Storia che li seppellirà, narra di sé e di suo marito, che psicologicamente si aggrappano forse a questa battaglia per non essere sommersi e cancellati, ma con un segreto contrario: perché loro stessi  portano una privata cancellazione  e sommersione, nell’oblio, quella della loro figlia. Questo contrasto tra il dolore privato e la battaglia pubblica dà verità a questo libro.

 L’acqua non deve sommergere il paese, i loro morti – e invece la loro figlia, dopo quella lettera maledetta, fu sommersa nella dimenticanza. Anche questa è una forma di violenza che si fa alla propria storia per andare avanti. Ma è quello che forse ha fatto la comunità della Val Venosta, e che somiglia al processo raccontato da Almudena Grandes per la storia del franchismo, dopo il ritorno alla democrazia del 1975 "dimenticare per andare avanti”  questo è il patto, usato proprio con questo slogan, per convivere tra ex franchisti e nuove generazioni…così la piccola comunità di Curon. Trina lo dice “dopo la guerra, insieme ai morti, bisogna seppellire tutto quello che si è visto e che si è fatto, scappare a gambe levate prima di diventare noi stessi macerie. Prima che gli spettri diventino l’ultima battaglia”. E questo romanzo ci consegna anche la sofferenza di un territorio di confine che contrariamente ad altri, non si arricchisce della molteplicità, ma viene schiacciato da un continuo reprimere o cancellare identità: prima austroungarici, poi italiani e senza lingua madre,  poi annessi al Reich, poi cancellati dal territorio e riannessi, vincitori ma vinti, alla Repubblica italiana. Erich muore anche di questo dolore perché “la vita, quando non la riconosci, ti stanca in fretta”.

Qualcosa di analogo lo racconta  W.G. Sebald in “Storia naturale della distruzione” – parlando di come in Germania la distruzione totale della guerra non fu tematizzata come tale, ma i qualche modo esibita e al tempo stesso rimossa, proprio come il campanile di Curon.  A Francoforte, racconta Sebald, si vendevano cartoline con due foto, una con la città rasa al suolo, l’altra per come appariva nel 1997 e e Sebald scrive  “”la distruzione totale non si presenta quindi come il terrificante esito di un processo di pervertimento collettivo, ma come il primo stadio di una ricostruzione pienamente riuscita”.
 L’amnesia collettiva che oggi permettere di vivere  del turismo e delle attività agricole in Val Venosta basa la sua ricchezza su quel seppellire la memoria, relegarla a segreto di famiglia – come il lungo racconto di Trina che ora Marco Balzano, da “straniero” è venuto a disseppellire, perché questo fanno gli scrittori. MA forse anche per i tirolesi e per il loro benessere, in particolare per questa valle, si può dire quel che Enzensberger(citato da Sebald)  scrisse dei tedeschi, i tedeschi ricchi e di nuovo potenti economicamente dopo la guerra: che è impossibile capire “la loro misteriosa energia, se rifiutiamo di ammettere che essi hanno sublimato il loro difetto facendone virtù. Il loro non voler prendere coscienza fu il presupposto del loro successo”. Quelle fondamenta sotto l’acqua sono la forza di chi riesce come Trina, come una ginestra che cresce sulla lava e fiorisce nonostante il vulcano , che riesce a guardare con coraggio a tutti i precipizi e le mancanze della propria storia.


Scrive Trina/Balzano "nessuno può capire cosa c'è sotto le cose" Non c'è tempo per fermarsi e dolersi di quello che è stato quando non c'eravamo. Andare avanti come diceva Ma', è l'unica direzione concessa. Altrimenti Dio ci avrebbe messo gli occhi di lato. Come i pesci"





GIUSI MARCHETTA, "Dove sei stata" (Rizzoli)



Questa è la storia di un doppio salvataggio potremmo dire così.
Il protagonista di “Dove sei stata” è Mario, trentenne, avvocato a Torino che torna a casa dopo dieci anni. La sua casa è speciale perché è figlio di un custode della Reggia di Caserta, e Mario è nato e cresciuto nel “Bosco”, ovvero una parte della Reggia di Caserta, un vero un bosco, con annesso un piccolo villaggio e una corte, una fontana, una statua di lavandaia..sono abitazioni che furono dei servi dei Borbone e poi passate ai dipendenti statali che lavorano nella Reggia. Il Capitano, così tutti chiamano il padre di Mario, è uno di questi, anzi, il capo dei custodi.
Non ha un carattere facile il Capitano. Padre e figlio sono divisi da un solco, una ferita, l’abbandono, meglio la fuga della madre,  Anna, giovane e bella moglie del Capitano, quando Mario era bambino. Mario non ha mai saputo il perché, né dove sia andata, tra padre e figlio è calato il silenzio di due maschi che non sanno maneggiare il dolore.
Ora è tempo per Mario di tornare, perché il Capitano sta male. Dopo 10 anni è finita forse anche la sua di fuga,al nord,  è tempo anche di sapere, di affrontare quel dolore, quell’assenza, la ferita. E tornare in un luogo dell'annima, che è anche uno dei protagonisti del romanzo: il Bosco, e poi il cortile, il cancello che separa il parco dalla città, lì dove ha visto sua madre l’ultima volta. Il luogo è denso di fantasmi, di ricordi, flash, apparizioni, memorie, forse invenzioni ricostruite intorno al vuoto largo che ha lasciato la madre.
Rivive nella memoria i dettagli, ma gli manca la chiave per leggere la sequenza di memorie, che sono frammentarie e ancora angoscianti. Fare i conti con il tempo significa poterlo raccontare, ma se mancano pagine è impossibile..
Nel bosco oltre le case dei custodi c’è un convento e c’è Suor Marta una cara amica anche della madre che aveva la stessa età, che come lei era cresciuta anche in quel posto, tutte e due molto amiche, poi divise perché Marta è diventata suora e l'altra ha compiuto la sua storia di donna si è sposata giovanissima e Ha avuto il figlio. Marta che è ancora lì, lo accoglie e lo conosce come un figlio – Adesso il convento è stato trasformato in casa-famiglia per bambini con problemi e per donne che hanno subito violenze domestiche.
questa trasformazione del convento è un elemento importante per comprendere anche il senso di questo romanzo, così come anche personaggi secondari ma sempre significativi, come il dottore che aveva curato la madre di Mario nelle sue crisi, nella sua "malattia" depressiva di giovane donna imprigionata nel bosco e Esterina, donna che ha subito violenza e che è ospite del convento, dove si è rifugiata, che Mario sceglierà come aiuto domestico per il padre, e che porterà altri elementi al tempa della cura e della maternità.
Tra i bambini della casa famiglia, ora c’è Gianluca un bambino che ha visto Forse la madre uccisa dal marito, dal padre. La sua famiglia è quella che spaventa perché è il clan di camorra che fa legge nell’universo casertano. Ma Gianluca va salvato, Marta ancora una volta con sentimento filiale, vorrebbe affidarlo ad altri, ma servirebbe un avvocato non ci sono soldi. E così Mario si ritrova a doversi confrontare con un bambino interrotto, in cui rispecchia quella parte di sé interrotta anche essa nell’infanzia. Inchiodata ad un trauma. Marta chiede a Mario di seguire la sua pratica di affido, insieme all’assistente sociale. Non è un compito facile, il padre che reclama Gianluca e la nonna hanno potere e avvocati esperti.
Per Mario non sarà solo un dovere e un favore che non può rifiutare. Sarà anche una sfida per riparare una ingiustizia insanabile, ma almeno ricucire quello strappo con un affetto sereno. E’ quello che Mario vorrebbe per sé anche se il vuoto di una madre fuggita davanti agli occhi del figlio forse è più incolmabile di quello lasciato da chi muore. Chi muore non ha colpe, chi se ne va e abbandona forse si. Ma il percorso del romanzo sarà anche quello di una riflessione sul senso di appartenenza, sulla possibilità di riconoscere che l’amore per un figlio è anche una conquista e una scelta di libertà. E Mario deve farlo attraverso il riconoscimento che non c'è solo una madre che il figlio desidera veder tornare, ma c'è anche la scelta di una donna e quella scelta va compresa e quella donna è una persona e come tale va "lasciata andare" anche in questo strano non-lutto che Mario non ha ancora elaborato, perché forse come Giancluca, è rimasto anche lui un bambino interrotto, dentro di lui qualcosa è rimasto inchioddato a quell'immagine della madre con la valigia che attraversa il cancello e se ne va.
La madre è un fantasma, ma alla fine è per chi legge una presenza, forse il personaggio-non personaggio a cui si pensa di più. Così come personaggio è anche il Bosco, con le sue presenze immaginarie per la mente di un bambino e che Mario ritrova dentro sé.
Ho già detto troppo della storia, quello che però non viene rovinato, pur sapendone la tramam è la scrittura di Giusi Marchetta che costruisce una tessitura raffinata di questa storia, distribuendo indizi, immagini, dettagli, costruendo si una trama ma soprattutto  un flusso interiore del protagonista, attraverso piccole invenzioni e un 'abilità "poetica" (non è un aggettivo a caso,  Marchetta è raffinata lettrice di poesia, virtù di pochi autori italiani)  E' questo puzzle di rimandi, apaprizioni, sensazioni sfiorate e riaffiorate, che creano un 'atmosfera sospesa che alla fine ne fanno quasi un giallo psicologico con un segreto da sciogliere - e un segreto non solo del passato ma anche del presente.
Ricordi come barbagli di Memorie involontarie di Madeleine potremmo dire, come la scena iniziale con la madre e il figlio fermi nella notte .
un altro elemento importante e bello del libro è come il dolore, la perdita e i rapporti con Anna madre e Anna giovane donna vengano percepiti e ricostruiti nella coscienza non solo di un figlio ma di un giovane maschio: con una parola antica della psicoanalisi ma anche (non casualmente) del femminismo, quello di Mario è un percorso di autocoscienza. Mario è un trentenne di questi primi anni del millennio, quindi è nato a metà degli anni '70, quando per le donne non c'era libera scelta della maternità. E nel dolore del ricordo, nelal volontà di sapere,  nasce anche però un confronto con Anna come donna prima che come madre.
sarà proprio la necessità di trovare un'altra famiglia a Gianluca il bambino di cui Mario si trova ad occuparsi l'occasione per ripensare alal sua storia, ma anche quella per ripensare ai legami naturali con i nostri genitori.
Mario - e grazie alla capacità della scrittura di Giusi Marchetta anche il lettore con lui - si affida innanzitutto all'empatia con Gianluca e con sé stesso, arrivando ad una maturazione della scelta quando scoprirà riuscirà a riscotruire insistendo con i diversi personaggio che conoscevano sua madre, i pezzi di storia che mancano.
E raccontare è la vera cura che non sana l'assenza, ma può dare un senso a quel che pensavamo una colpa, trasformarlo in una storia.Nelle storie cerchiamo sempre una "verità, vi prego, sull'amore" ma impariamo forse che non solo non c'è una verità, ma che l'amore - di coppia, filiale, materno e paterno, è fatto di paradossi edebolezze, è sempre storto e squilibrato, ma è l'umano di cui dobbiamo farci carico.
C'è una frase che la madre Anna dice a Mario da bambino, poco tempo prima di abbandonalrlo, mentre osservano il bosco: " non guardarti mai alle spalle anche se senti un rumore... Non ti girare" ...gli insegnava un paradosso della vita e dell'amore, rievocando un mito antico, inconsapevolemnte, e aggiungeva " Perché il bosco è pieno di cose che ti vengono dietro ma che non ti fanno niente dice La madre vogliono solo vedere chi sei poi ti lasciano andare"
Vedere chi sei, lasciar andare.
Non ti voltare sappiamo dal racconto mitico, è l'imperativo che gli Dei di ed ero ad Orfeo in cambio della possibilità di recuperare dalla morte dagli inferi Euridice ...Torna a prenderla,dicono gli dei, poi guidala verso l'esterno, fuori dall'Ade, ma mentre cammini Non ti voltare, Non ti voltare a guardare se sta venendo...chiedono a Orfeo una grandissima fiducia, ma è come se da questo racconto - come da quello ancora rinnovato nel romanzo di Giusi Marchetta - comprendessimo che l'amore Sarà sempre questo sbilanciamento irreparabile, sarà sempre in questo rischio, sarà sempre un paradosso: quello di creare uno iato mentre si pensa di ricongiungersi, così divide dove si pensa di essere uno.
Chi ti ama (Euridice nel caso del mito) ti segue, ma pensa, perché non ti volti, perché non mi guardi?" e dall'altro lato c'è l'altro (Orfeo nel mito) che sa che deve rischiare, perché deve fare qualcosa di ambiguo, che non sarà compreso dall'altro e in apparenza sarà visto come una colpa, "non ti sei voltato" ...o come per la madre di Mario, te ne sei andata... Orfeo lo fa, si volta, e quello è il momento in cui perderà Euridice per sempre. Quando si volta, Orfeo è sopraffatto dal suo amore, lo fa "per amore" ma voltarsi finisce per essere il gesto contrario l'amore perché la fa tornare indietro....il paradosso dell'amore che è sempre sbilanciato che è sempre una ferita.
E questo vale per l'amore primario che c'è tra genitore e figlio madre ma anche padre e poi è una replica che continua in tutti gli amori che pretendiamo equilibrati e non lo possono essere mai in qualche modo almeno questo è quello che dici Poi c'è l'affetto c'è la razionalità. c'è il Logos che ci insegna un'altra Via dell'Amore c'è l'insegnamento, ci sono molte altre forme d'amore per sciogliere questa potenza indomabile..e c'è il racconto, perché il racconto "conta".
la conquista del racconto è nel non porsi più le domande su che cosa abbia fatto Anna, perché l'abbia fatto se abbia una colpa o no.. attendere l'altro, desiderare l'altro,maanche essere attesi, vedere non più con gli occhi del proprio desiderio l'altro, ma per quello che realmente è, quel che ralmente l'altro desidera.E questa  la vera posta in gioco, nella vita come nei romanzi. E in questo "Dove sei stata" Giusi Marchetta riesce a fonderlo nel racconto benissimo, pur lasciando aperte molte risposte, ma anche questo è il bello della vita e dei romanzi.

POSTORINO, JANECZEK, GRANDES, tre scrittici da leggere

ho avuto il piacere di presentare a Torino Almudena Grandes e  il suo nuovo romanzo "I pazienti del dottor Garcìa" #guanda  È un libro molto bello, ed è bello tanto quanto altri due libri che ho letto di recente, e tutti e tre ognuno a suo modo, ma con tante coincidenze raccontano la storia, la grande storia del 900. Non mi piace dire che ci sia una scrittura femminile, se pure è necessario - come è successo e sta succedendo con le scrittrici del Fantasy di cui ho appreso molte cose in un incontro di ieri. Ma anche ieri emergeva che la scrittura di autrici donne di questa tipologia di narrativa cambia trasforma la visione del narrato, la struttura, il senso. E nasce da un diverso pensiero Del mondo, da un ragionamento è da un posizionamento che la soggettività storica femminile possiede e condivide per la stessa storia di partecipazione "alla grande storia".

In questo caso non c'è solo al coincidenza dei periodi storici che mi colpisce / questi magnifici complessi "anni 30" --
nel libro di Rosella Postorino c'è la storia tedesca durante Hitler, così come c'è in quello di Helena Janeczek tra Germania anni 30 e Guerra civile spagnola così come quello di Almudena Grandes il cui grande affresco spazia tra la guerra civile degli anni 30, la guerra in Europa, i nazisti del dopoguerra che si rifugiano proprio in Spagna e Argentina e segue queste vicende di questa caccia ai criminali nazisti da parte di quel che rimane della struttura della Repubblica in esilio nel tentativo - vano per il "tradimento" americano - di far cadere la dittatura di Franco, sotto una spinta di condanna della comunità internazionale per la Spagna fasciata che invece non ci fu.
Dei libri di Rosella e Helena ho già detto, vi consiglierei di leggere in sequenza questi tre libri, perché hanno un tratto comune e insegnano a rivedere La Storia partendo da come finanche nei corpi, così come nella battaglia del privato, si svolga la battaglia della
storia.. e le medesime donne con la loro attività - fotografa assaggiatrice, donne comuniste e falangiste - partecipino al cambiamento
Della storia.
Roland Barthes diceva che nel dover raccontare la storia, lo storico la sorvola con la mongolfiera, dall alto di uno sguardo generale.
I romanzieri raccontano la storia i attraversandola a cavallo.
Ecco lasciatevi trascinar nelle storie dentro "la Storia" con il passo orizzontale diretto, individuale, documentato, di queste scrittici che hanno il dono di fare grande narrativa e al tempo stesso illuminare con una diversa prospettiva la storia.
È proprio una rilettura delll'archeologia di una cultura che iniziò con pensatori come Foucault e approda oggi ad una maturazione acquisita di consapevolezza dei "dispositivi" che agiscono e condizionano la storia che trova interpreti migliori - nonostante anche un autore come Arbamburo sia della partita - proprio nelle scrittrici.

Amsterdam, casa di Anne Frank

Non ce li porta il caso
........ "tra le nove/
e le dieci d'una domenica mattina/
svoltando a un ponte, uno dei tanti, a destra/
lungo il semigelo d'un canale"

come scriveva di sé nella poesia "Amsterdam" e mentre va a passeggio L 'io- poeta, Vittorio Sereni
No, ce li portano questi mille e più di mille i Tours delle agenzie turistiche, per via dell'iterazione moltiplicata di una catena di "must", devi andare, e segue il senso di colpa condiviso, come gesto non come sostanza. Qui ce li porta una leggenda, un film un ricordo della scuola. Ce li Porta tutto ció che memoria non è, ma che funziona come esercito di occupazione efficientissimo: La " società dello spettacolo " che è una cosa più sottile della genetica spettacolarizzazione. Ce li porta i migliaia che affluiscono a questa porta per farsi una foto, L industria del turismo è una delle esperienze variegate dell intrattenimento.
C'è soldout. Tutti biglietti venduti per giorni.
Bene,possiamo dire da un lato, c'è coscienza e conoscenza del nazismo e dei suoi orrori.
È importante che siano qui anche se non c è scritto con solennità
"questa è LA casa" ma - come osservava in questa poesia che sto citando di Vittorio Sereni - quella casa semplice si trova ancora là con quel cartello in cui, su una porta qualsiasi e ...
"-mille volte già vista-" si legge su quell'ancora "..cartello dimesso:Casa di Anna Frank”.
"Chi? Ah si, Cosa ha fatto? Chi era ?" Dicono in molti interrogati su Anna...In molti il ricordo è vago. Una storia triste della guerra..... bho... nessun problema, tanto Tutto intorno, mentre si visita, è volto a sollevare i nostri pensieri ed occupare quello spazio con un tour organizzato -"che spiega tutto" ..a noi serve solo partecipare, non trattenere il sapere, nemmeno lo spiegato.
"Io ci sono stato" e farsi i selfie immancabili : esserci nel
Luogo, questo conta, per cancellare tuttavia la memoria reale, che necessita risposte (che farei io? Aiuterei Anne?) per seppellirla in un semplice "me-che-ci-sono-stato" da esibire, in una giostra di sentimenti corretti, di frasi già mille volte sentite e sentimenti provati "per la circostanza", partecipati come in un teatro interattivo della coscienza che dura solo per la durata dello spettacolo....
Una coscienza che così è non solo di uno, ma è una coscienza collettiva, e dunque Messina singola coscienza è tenuta a prendersi la colpa su di sé ( il sé è per i selfie ), colpa tanto sentita solo per il tempo necessario della visita al
Museo.
Museo di casa, cose e memorie, oggetti da cui è stata cancellata la persona a cui sono appartenute,quelle cose.... lei erosa dall esistere anche solo come corpo. In fumo.
Né Salma tomba un luogo, sepoltura.
Niente foscolismi, ci restano cose una casa una scrittura. Un libro dal Diario.
E Milioni di letture di quel libro ma in tanti non resta memoria effettiva, resta solo alla scarsa minoranza che a scuola leggeva libri e che ancora ricorda ciò che ha letto e si preoccupa del fascismo....
Ma in fila per vedere la casa di Anne Frank c'è anche chi è tra i molti, i
Più che in questa Europa di turisti e cittadini "a casa loro" poi invece votano sempre più in maggioranza per orban le pen o il PVV olandese al potere, o da noi Salvini - omagari il Di Maio e Raggi ( si quelli , che in maniera fascista chiudono un'altra Casa (ma cambia tanto?) ovvero la Casa delle Donne a Roma -
In fila c è anche il vasto ceto medio cheelegge macron renzi la merkel, o L egoista middleclass inglese si conserva con la may. Sono Moderati, conservatori ma non fascisti o autoritaristi ma Anche loro incapaci Di produrre la forza culturale che argini davvero un 'onda come quella che travolse Anna e altri sei milioni.
Che Per ora non accade e forse non riaccadrà con la stessa crudeltà.
Accadrà in noi e tra noi, che si arriverà però cancellare la gravità cancellare la memoria e dunque la coscienza che ci sono ancora tanti inermi, vittime,private in altri modi di tutto quel che hanno,come Anna e come Anna rinchiusi in campi e cancellati come corpi e come nomi.
Solo rinchiusi è dimenticati.
E anche noi dimenticheremo la gravità di quel che accade dentro democrazie intontite o democrazie falsate - quelle da Erdogan a Putin tanto per dire
- che il
Mondo assiste e tace su tutto. La Cina - gli Arabi, il conflitto di Israele - è il
Mondo Di guerre, carestie migranti povertà. Profughi bambini, ora come allora.
Di tutto questo si ha coscienza collettiva ma debole - sempre più prevale indifferenza, che nasce proprio dalla mancanza di un coscienza - e per quelli che ne hanno avuta una, ora è solo emozione che prende solo durante la visita turistica in una casa di una bambina profuga e derelitta che abitava l'Europa ma ora è più lontana da noi di quanto lo sia L uomo di simulaum.

mercoledì 9 maggio 2018

GUILLERMO ARRIAGA "Il selvaggio" (Bompiani)

Guillermo Arriaga Lo conosciamo come autore delle sceneggature dei tre fil detti "Trilogia sulla morte" del regista Alejandro González Iñárritu: (Amores perros, 21 grammi e Babel) quella rafinata tecnica narrativa e il saper mescolare durezza delle vite, violenza, amore, raffinata poesia meditativa lo si trova anche nelal sua narativa, compreso questo ultimo "Il selvaggio"
È una storia che ci riporta in Messico, Alla fine degli anni 60. Arriaga ci mette molto del suo mondo, dei posti e delle persone con qui è cresciuto...
Città del Messico, un barrio popolare, dove si mescolante storie, intrecciate nei vicoli e con i ragazzi che vivono sopra i tetti saltando da un palazzo all’altro….
Fin dalla prima infanzia Juan Guillermo sa di che sangue è fatto: un sangue che già sa di morte e di battaglia, sangue che più volte perderà da abbondanti ferite, sangue che dovrà pulire appena nato e dopo con molti generosi donatori, sangue che lo abiterà e con esso persone, fantasmi, primo tra tutti il fratello..la battaglia di sopravvivenza fu quella fatta tra lui e un fratello gemello nato morto: i due hanno lottato per la conquista dell’unico spazio disponibile – e ha vinto Juan Guillermo, anche se tutta la famiglia ne sarebbe uscita devastata e Guillermo avrebbe vissuto per molto tempo in una stanza con due culle, e Juan Josè - aveva già pronto un nome - sarebbe esistito e non esistito, un’ombra di morte nella sua anima. La prima di tante.
Guillermo ha invece nell'altro fartello più Carlos, un punto di riferimento. Carlos - come il padre e cpome il fratello più piccolo, adora i libri, la musica rock, è curioso intelligente, a scuola è un ribelle. Il barrio fa sentire le sue leggi anche se il suo branco è di ragazzi di cuore, leali. E però bisogna rimediare anche un po di Pesos, che non ce ne sono, poi siamo alla fine degli anni 60 e si comincia a "viaggiare" con le droge - si fanno Trip e così Carlos lascia il suo allevamento di Cincillà sui tetti e si dedica con amici fidati in un business, insieme con l’espatriato Sean, ad un business che va nel senso contrario di que lche conosciamo: importare droga dall’America. La droga a quei tempi non era ancora - o non solo - la droga dei narcos e la cocaina, ma era sinonimo di libertà, certo anarchica. Ed eccoli a farsi la loro piccola piazza di spaccio di LSD..
ma c’è la polizia, più corrotta che efficace, c’è anche un branco di esaltati cattolici che si riveleranno una sorta di mix tra Drughi di Arancia Meccanica e talebani, pronti a uccidere i diversi a freddo, nel nome di dio. E i destini del quartiere si incrociano. Morità Carlos e poi distrutti dal dolore, moriranno anche i genitori, non molto tempo dopo. NEssuno spoile: scoprirete questo a pagina e del romanzo.
Ma la bravura di Arriaga è poi di portarvi in un turbillon di narrazione..
Guillermo rimane solo. La morte lo divora e lui la combatte, prede con sé un cane dei vicini, loro lo vogliono abbattere, lui è stanco di morti, anche se è troppo feroce, un cane lupo all’apparenza. In realtà è un lupo, lo prende con sé, lo chiamerà Colmillo in onore di Jack London, sarà il suo dio, da assoggettare in servo, da domare.
A fargli compagnia, Chelo, una ragazza che ha molte ferite e che ama la vita, della vita ama anche il sesso, molto è più grande di Guillermo è anche più libera. Pian piano verrò a galla anche il giro di affari del fratello, grazie agli amici leali, e il pensiero di Guillermo è per la vendetta.
Da qui parte la sua caccia. E la caccia è un tema importantissimo, nel libro tanto che c’è un romanzo-gemello nel libro, ma stavolta va a cercare un abbraccio dopo tante pagine. Dal principio in questa storia parallela troviamo nel nord del Canada Amaruq a caccia di un lupo maestoso e feroce, NUJUAQTUTUQ, che nella lingua Inuit significa proprio “il selvaggio”… la storia di questo inseguimento, di come finirà l’inseguimento di Amaruq e inizierà quello di un gringo e dove porterà tutta questa storia, lo scoprirà il lettore.
così c0me scoprirà in che modo, anche questo avventurosa, Guillermo cercherà di vincere i suoi fantasmi, di domare il ruggito dei suoi lutti così’ come tenterà di domare il lupo Colmillo, di come si vendicherà e al tempo stesso sarà una vendetta verso il destino più che verso gli uomini, perché il destino è come la foresta, lo si accetta, ma la vera arte è sopravvivere.
Questo è un romanzo in cui il tema del selvaggio investe anche la sua forma. Cresce rigoglioso, intreccia narrazioni, microstorie tanti personaggi, è irruento. Nel tenere le due storie usa una tecnica di fusione e non di alternanza tra i capitoli, inserisce lacerti di leggende sui morti e notazioni di antropologia, quasi per sottolineare che il racconto del mito non è solo quello antico che si rinnova, ma la mitologia è ancora possibile nelle strade del nostro tempo…
E’ esperienza epica di narrazione, quasi una narrazione selvaggia, nel suo procedere e per spezzoni per quadri per incastri, con un montaggio – come del resto abbiamo conosciuto Arriaga per gli incastri delle storie dei film con Ignarritu, che avevano nella forza narrativa uno dei punti più importanti… (e qui torna il tema del cane, dell’animale e la sua forza vitale). Il doppio romanzo è esso stesso traccia di un tema del gemellare e del doppio ricorrente.
Un altro dei punti più importanti e la lotta contro la morte, la sconfitta della morte, attraverso l’amore incondizionato – e quindi nella memoria… nonostante nella vita di Guillermo arrivi tanta morte della più terribile il fratello ucciso i genitori morti arriva in realtà anche una di sfidare questa morte di sfidarla come fosse una bestia vorrebbe ucciderci anche se la bestia – ce lo insegnava anche Caproni nel “Conte di Kevenhuller” siamo noi. E naturalmente Dio, un Dio nascosto e selvaggio che non sembra seguire una logica quando dispone le sue volontà.
Da cui la “caccia” di Guillermo sarà una catena del domino, nell’innescare un piano che lo metterà in salvo e al tempo stesso sarà la sa rivincita.
Azione e reazione, come anche nell’idea di Jung, sono i due gemelli che dominano la nostra vita, sono fratelli, ma sono anche il cacciatore e la bestia. Così come la Natura che sembra catturarci e la libertà che dobbiamo conquistare, quando, vinta la bestia, scopriamo che abbiamo sconfitto la bestia se abbiamo salvato la nostra libertà dalla sua natura.. libertà dalla morte, libertà dai fantasmi e anche dalla necessità – la natura non è solo caso è necessità – di dover lottare per vivere

mercoledì 2 maggio 2018

STEFANO RAIMONDI "Il cane di Giacometti" (Marcos y Marcos)


 C'è una differenza tra la scultura dell'uomo che cammina di Giacometti e la scultura del cane anch’esso in cammino. L’uomo, nella solidità del ferro dà  l'idea di un’ombra che si allunga sul nostro simile cammino, per il cane invece   non c’è tanto l'idea di ombra e di serenità, ma di una nervosa,  Vitale, fame, che il cane attraversa, ansimando indifferente alla carestia . Il cane di Giacometti non è una presenza muta come le sculture filiformi a guisa umana.
E’ un cane magro che ha fame, ma che pure se ne va con una sua insondabile  baldanza.
L’ombra degli umani è il nostro infinito, il cane è una conformazione che dal ferro spinge a movimento. Il cane resta vivo resta concreto.
 La solitudine della figura umana nella sua ombra in Giacometti ci parla dell'abbandono, dell’essere  abbandonati. MA pure dell’essere situati in una miseria in cui, pur rimanendo un filo, stanno nella resistenza di un’indivisibilità del bronzo.
 Il passo guizzante e leggero  del cane, colto nel suo scatto affamato, ci parla anche diversamente. Con la figura umana condivide un moto istintivo, quasi di organismo irriducibile - è l’essere vivente che cammina, si muove - ma il cane è anche qualcosa in più: è un essere vivente in sé, senza linguaggio,  del quale possiamo tagliar fuori dinamiche soggettive, di coscienza. Esso vive per sé, siamo noi che lo abbandoniamo, ma esso non è – non si sente – abbandonato, se non quando entra in relazione con un umano.
Attenzione, non sto negando i sentimenti all’animale, sto solo dubitando di tutti quelli che etologia e filosofia attribuiscono loro, dubitando se on siano antropomorfici.


Diverso è consideralo un vivente: come noi, in solitudine, anch’esso sta nel mondo al di là dell’ “essere con
l’altro “ o no. Scrive Giacometti della sua scultura – e Stefano Raimondi pone la citazione all’inizio del libro:
“il cane mi pare adesso disegnato come spettro armonico, la linea della schiena che risponde alla linea delle zampe, spettro che sa essere l’esaltazione suprema della solitudine ”.

E’ dunque un cane situato in questa  solitudine, cane randagio, e questo stato è una posizione nel mondo. Dice bene Pusterla nell’avviare la lettura con la nota del libro che Raimondi che “l’esplorazione dell’abbandono (..) apre a luce incerta.” Raimondi  sceglie questa scultura come titolo del suo nuovo libro per indagare una possibile nuova armonia che si ritrova dopo la frantumazione, il taglio, lo iato. Armonia presuppone un accordo, presuppone una costellazione o quanto meno due note all’unisono.

L’armonia di Stefano Raimondi è sempre quella paradossale della lirica, nonostante tutta la sua posterità del XXI secolo: è un’armonia di assolo.
E’ magari non canonica, anzi di certo unica, assoluta,  come tutta la vera  poesia lirica che mai esegue melodie predefinite, ma  sempre ricerca altro. Atonale, irregoalre, verso la prosa, post-poetica. Ma lirica è nel ferro ritto di una solitudine.

Giacometti nelle sculture delle figure umane, ferme in un’attesa o nella posa del cammino, aveva scolpito una permanenza muta dentro un diapason dolente di spazio che proprio per questo si rivela misera, disperazione. Queste poesie di Raimondi partono dall’esprimere un acuto di dolore per una separazione. Sarà come vedremo una separazione che apre tuttavia verso una diversa solitudine. Una separazione senza mancanza. Lo spazio intorno è un vuoto in cui non si precipita. E' lo spazio che da sempre la poesia "apre" all'altro anche nell'assenza.

La voce della poesia di Raimondi parte dall’abbandono ma non scava in quello: agisce verso una costruzione che non sia ri-costruzione dei frammenti, ma come se nascesse da un’azione del pregresso, della memoria, del lampo, della traccia fisica di un passato, come premonizione di un futuro. E' quel che fa la forma della lirica, è que lche fa l'io-poetica di questa "situazione" lilrica.

  
L’io che attraversa spazi, che li occupa, ne cerca nuovi, cammina nella città, cerca un suo nuovo spazio fosse anche quello precario degli angoli di una città distrutta, di una discarica di uno squarcio periferico di notte -  che sono i tipici spazi dove abitano i cani randagi e quelli frequentati dagli  uomini che se ne sono andati .
  In quest’alterità stanno i cani che per il poeta “non sono gli amici più fedeli dell'uomo, almeno per me (.) mai accarezzati, mai portati in giro”.  
Sono il volto o il muso che guarda e che tiene a bada l'io dell'abbandono. Da qui inizia il poeta con il suo scavo in “abbandoni” che non si collocano in un precipizio perché “da lì/ iniziano le vie gli incontri”. Il punto di partenza è collocato in una vicenda che parte da un quadro di affettività personale, amorosa, terminata. L’abbandono dell’altro e al tempo stesso quel momento successivo “quando si ritorna/ a prendere le cose della casa/ i vestiti, il silenzio dopo l’esplosione”. L’io che cammina in questo “circondario di colpa” viene proiettato in una dimensione nuova “come fossimo noi persiane/ appena aperte, sole appena entrato/ di mattina per dire: “non è vero,/ non è successo mai”:

 Lutto, cancellazione dell’altro dall’orizzonte, miseria degli strumenti umani inadatti (“non esiste una parola sola/ che possa salvare in tempo”) ma pure sopravvivenza (“si scappa tutti dalla parte/ dove il sole entra nelle case”) come le figure filiformi di Giacometti l’io che sopravvive al disastro, fioco e sfiatato, che nelle poesie di Raimondi sta in uno sfarfallio allusivo, in un dettato che sceglie astrazione e concretezza, che sembra il ritorno alla realtà dopo un’operazione o un incidente. Sottili percezioni, vaghe premonizioni: “ le ore della purezza/ lo stordimento della luce./ La fragilità dell’abbandono./ il Taglio di un nome”.

Cosa ci dice Raimondi? ci porta - prendendo a misura allegorica una condizione postuma di vita affettiva interrotta, di nuovo inaspettato inizio dopo lo tsunami della separazione - dentro una dimensione di immobilità implacabile, nel lamento di un destino che ogni poeta poi proietta come altra allegoria, quella  di una condizione comune, anche collettiva:  siamo situati in uno spazio ma sono andate in frantumi tutte le geometrie, la traccia di un “noi” s’è fatta polvere (la parola ‘noi’ infatti non compare mai ) ma alla fine come dalla infinita polvere che si accumulava nello studio di Giacometti, emerge una figura, si staglia nella desolazione,  dove ancora si insiste sul fatto che non possono bastare le parole per raccontarci storie vere.

La storia si fa strada da cunicoli simbolici eppure veri, siamo nella tradizione lombarda delle cose: il dolore e la malattia di una città, che ancora una volta è vera, è Milano che appare però come un “corpo che si svuota senza impronte” in cui “si sta soli”, abitata da uomini esausti, consunti e vecchi salutato da “cori nei tombini”. Immagine che resta appesa in una dimensione tra fantasy e realtà, se la pensiamo come traccia di un umanità-calibano che si muove nella “vita rasoterra” o nel sottosuolo, come i bambini di Bucarest o immigrati invisibili, come una minaccia o una promessa per “inizi d imprevedibili distanze” che si aprono in una città-paesaggio (che per Raimondi era invece forse più chiusa in interni, in chiostri di “balconi e cortili” dove restano tracce archeologiche o fossili di un passato fantasmatico, ormai).

Stefano Raimondi oscilla tra i versi liberi una tradizione della post-lirica che nasce da Sereni o Caproni, fino al Milo De Angelis di “Quell’andarsene nel buio dei cortili”, figura-emblema che in Raimondi, poeta anch’egli milanese e dunque di interni, utilizza, insieme a cantine, orti, cunicoli.

La poesia però attenua la sua tradizione, il passato stesso è “una gloria sperduta”. L’uso di un tasso lessicale tenuto nel registro comune, così come la figuralità ha occorrenze che si aggregano intorno a poche invenzioni, fino all’ uso della prosa: su tutto, come sulla poesia, piove un’ombra di sconfitta.

Forse proprio questa incertezza, se da un lato è condizione di chi fa passo dopo passo, in un tempo non figurabile, dall’altro fa emergere un limite di queste poesie, come se togliesse l’azzardo immaginativo ad una parola che ha ancora fiducia in sé stessa.
 Un’ambivalenza tuttavia comprensibile e condivisibile. C'è dolore nelle nostre vite, e la poesia, anche quando come questa de “il cane di Giacometti” sembra imprigionata in una strozza di gola, chiede di uscire, uscire fisicamente anche dal quadrato della propria consuetudine immaginativa di poeta: “sappimi dire tutta la storia vera, quella che dalla casa, dalla stanza esce”. E quella storia vera fatta di chi come il poeta sta in una “evidenza testarda del dolore” Raimondi l’ha raccontata in un altro libro ("Soltanto vive" (Mimesis) , 59momologhi di donne che hanno subito violenza) – e di una presenza narrativa è densa la terza sezione di questo libro, fin dal titolo (“il pianista zoppo e la gobba claudicante”)

La storia fa dunque irruzione nei cortili, negli interni. Non c’è – fortunatamente  - scampo a questa catastrofe, che investe uomini che camminiamo sempre solitari. Le loro voci che si moltiplicano sono un coro dissonante di io-isolati, quali siamo noi, perché l’unicità dell’Io è ora quella di essere minimizata a  io singolare proprio mio, per dirla con Patrizia Cavalli. E cito non a caso un’autrice distante forse da Raimondi , am pure protagonista di un’antilirica per diminutio, che per certi versi aleggia in questo libro, autrice che va considerata come pietra miliare di un’età del narcisismo singolare che paradossalmente ha aumentato il bisogno di poesia come espressione, ma ha ridotto al minimo quello della poesia medesima come identificazione. Soggetti parlanti ma sordi, questo siamo. Parlanti incessantemente allo specchio.

Raimondi certo, prevalentemente,  si colloca ancora sul versante di una tradizione di un soggetto che vuole abbracciare il mondo ancheannaspando, una poesia di espressione del sé ma non quella che promuove a quarti di nobiltà fenomeni poco più che pop e snob al tempo stesso come certe semplicistiche prove di poesia della minuzia, elevate a lirica.
Raimondi è collocato sul versante della responsabilità e del fallimento di una parola chiamata a cucire una frattura e una fragilità che hanno a che fare con una condizione di destino generale. (“sembrano on bastare più le parole per raccontarci storie vere”). Ma ricordandosi sempre che il tragico e il fallimento sono una ferita individuale, sempre.

 Il dolore accumuna e rimette di fronte sia  chi ha di colpe, sia chi le ha subite. In un’afasia comune e in un ottuso comportarsi muto come un animale   (“ correre Alla Tana più che puoi battere le mani sopra il muro gridare capire che è tutto finito”). La responsabilità è dell’altro, la pone sempre davanti l’altro che pronuncia delle parole, in un incontro, laddove chi-dice-Io in questo testo non aveva fatto altro che lamentarsi dell’insufficienza delle stesse, pur continuando a scrivere. Il lacerto di risposta è sferzante:
“ tu che mi hai detto/ Fai che la mia vita sia / tutt'altro che un brano strappato / e riletto intero e per domani fai / che possa rincontrarti e riconoscerti e dirtelo/ ancora come salvarmi come/ perdonarmi per il niente, per l'abiura”.

Insomma al dire si oppone un “fai”, quasi  come quell’invito agli innamorati (che diventa anche una diversa impostazione della poesia lirica che sull’amore modula da sempre tutto il suo senso universale di conoscenza del mondo) di Biancamaria Frabotta nella prima poesia del suo recente e inedito “La materia prima” contenuto in “Tutte le poesie” : “non ci si può limitare/ a guardare quello che succede”scrive Frabotta. Etica e poetica insieme,binomio che sfiora anche Raimondi, seppur sul versante ancora una volta della frattura.
C’è ne “il cane di Giacometti”  l’ombra di un patto rotto come trauma carsico del libro. C’'è uno strappo, un breve foglietto archiviato. (amori e desideri “che passano” e il cerchio che era di un abbraccio diventa “il cerchio del vaso coi fiori lasciati ad appassire”). All’io non resta che il realismo (“non ci sono mai cerchi chiusi/ abbastanza bene, mai/ abbracci dati una volta sola”). il “sempre” era un luogo minacciato da ombre e notti. Nelle promesse c’è sempre un buio vicino che le inficia, un’ombra. Ora “il vero ci porta via “come un nuovo tsunami, silenzioso.
Anche Gli addii si dimenticano con i desideri, che si fanno ingrati. La posizione dell’Io che sta dopo questa rottura è l’allegoria di una condizione storica dopo la catastrofe. Passato lo tsunami, restano tracce di un passato in cui individuiamo la premonizione di un futuro di catastrofe  (“come quando si aspetta l’ultimo rumore sordo del chiodo che si spezza” e l’acuto della stortura era già “nel martello” ).
Come un amuleto o un feticcio anticipatore di tutte le catastrofi, il poeta porta nel suo testo questi frammenti come Robinson sull’isola.  E’ una flebile traccia di ciò che è stato, la catastrofe qualcosa che resta “fino a trovarti” e ti ritrova in quelle “poche cose, in quello che tieni / stretto tra le mani e non c'è già più / davvero”. Feticcio di una perdita non investito però di Eros una traccia essiccata priva di voce.
Anche se in parallelo, nel corsivo dell’ultima poesia le “bugie, storture/tagli” che sono stati possono essere ricomprati (“dimmi cosa spendere”) in questa economia del desiderio dissipato, ma di un bene accumulato, è anche questa la possibilità di una diversa etica cui il vero può spingere: la catastrofe c’è stata ma pure è stata vita, e un’altra vita è possibile. Dunque “si fanno provviste inutili dentro/ queste mura” ma si fanno. Inutili, certo, ma la possibilità è in sentimento che sembra anche essa  depotenziare ogni poesia dell’amore: “volerci bene”.  Raccogliere le macerie, ricomprarle addirittura per farne la base di un bene possibile.

Il "cuore atlante" (titolo dell'ultima sezione) dei bambini definisce lo spazio di possibilità che sembrano infinite . a loro – e forse anche a noi che le sappiamo cicliche, ma in questa ciclicità di giorni, stagioni, epoche, sta la loro immortalità, il loro essere per lo stare insieme dei giochi, del nome pronunciato oppure lo spavento notturno, il mostro. Il sogno raccontato non è ancora una storia, ma sono le storie a tenere, a tenere anche le parole mozzate dei versi, incompiute, inavverate. Nella poesia di Raimondi si avverte il fantasma del desiderio di tanti poeti, sempre più pressante il fantasma di un romanzo, o meglio di storie. Perché Le parole non salvano, a meno che non facciano coro, tutte insieme a formare una storia.

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...