Mi è capitato per caso di andare a vedere una mostra all’Hangar Bicocca, mostra del tutto trascurabile (Gian Maria Tosatti, con lastre di ruggine e oro troppo aderenti a topos pittorici già visti e lontani dal risultato notevole del Padiglione Italia alla Biennale Venezia).
domenica 30 luglio 2023
KIEFER E WENDERS. La luce della storia non illumina, è il fuoco dalle vite (e dell'arte) che bruciano
Mi è capitato per caso di andare a vedere una mostra all’Hangar Bicocca, mostra del tutto trascurabile (Gian Maria Tosatti, con lastre di ruggine e oro troppo aderenti a topos pittorici già visti e lontani dal risultato notevole del Padiglione Italia alla Biennale Venezia).
giovedì 27 luglio 2023
Le previsioni del clima sono l'utopia negativa del 900. "Everybody talks about weather", Venezia Fondazione Prada
C’è una bella mostra da vedere se capitate a Venezia, alla Fondazione Prada (aperta fino al 24 novembre) ed è ““Everybody Talks About the Weather”, negli spazi del palazzo storico di Ca’ Corner della Regina.
Più di inquanta opere di artisti contemporanei con un’idea già sperimentata da FP di una sorata di mostra-documentaria, in cui l’arte intreccia i suoi percorsi con la scienza (del resto biologia, fisica, neurologia e in questo caso climatologia, sembrano essere il background dell’estetica, scalzando la tradizionale filosofia ) seppure c’è un collegamento con l’arte del passato che proponeva gli effetti del clima sul mondo, pur dividendosi tra una suggestione romantico-progressista (Turner) e più direttamente sublime di fronte allo spettacolo catastrofico degli eventi naturali (Friederich).
Una decina di questi quadri sono riproposti in copie esatte dall'artista Pieter
Vermeersch ed è utile poterle rileggerli in chiave “climatica”, là dove un tempo
potevano esaltare una dimensione di sfida dell’uomo alla natura. Quella sfida
fu vinta, l’uomo ha piegato la natura ai suoi interessi, piegandola e
alterandola, senza capire – per eccesso di filosofia rispetto alla scienza –
che quella vittoria era esattamente il suo contrario, una sconfitto, per altro
mortale.
Oggi di fronte alla catastrofe la bellezza sposa una consapevolezza diversa –
così ai quadri su associano grafici di
metadati dedicati molte crisi climatiche , con didascalie e abbinati alle opere
d’arte. E’ la forza estetica del sapere scientifico e in qualche modo è “sublime”
anche lo sgomento non di fronte alla potenza della Natura ma lla strapotenza
distruttiva dell’Andros, di fronte alla fine del mondo naturale per opera
dell’era dell’Antropocene, arrivata ai
suoi ultimi giorni, specie se la calcoliamo come alcuni come iniziata con
l’epoca dell’Agricoltura tra i 20 e i 10 mila anni fa verso la fine del Paleolitico,
Curata da Dieder Roelstraete , la mostra alle opere
in mostra si affianca un ampio apparato informativo, la proposta di una
bibliografia – anch’essa esposta fisicamente con 500 volumi cartacei
consultabili – col fine di proporre una ricerca che esplori i rapporti tra tempo
meteorologico e arte visiva. “tutti parlano del tempo”, delle condizioni
atmosferiche: da chiacchiera disimpegnativa, si è trasformata in incubo che
nell’immediato del prossimo 30 anni potrebbe essere il contrappasso della
caduta delle Utopie del 900, in un azzeramento di futuro che collassa nel buco
nero dell’irreversibile catastrofe ambientale globale. Tra “tempo meteorologico”
e “clima” c’è una differenza, ma in qualche modo la mostra propone di
considerarli appaiati, perché per entrambi c’è una qualche forma di pensiero
del futuro. Tutti parlano del tempo, anche un pensiero democratico – o
intrattenimento.
Proprio il titolo richiama questa polarità tra il pensiero messianico
dell’utopia marxista e l’appiattimento sulla chiacchiera del tempo in ascensore
– Nel 1968, in Germania la Lega degli studenti socialisti tedeschi diffuse un
manifesto con le facce di Marx, Engels e Lenin, con uno slogan: “Tutti parlano
del tempo. Noi no”. Il messaggio era : mentre altri partiti politici erano
impegnati in futili chiacchiere “sul tempo” – ovvero
quisquilie – la pensava al lavoro, al salario, al futuro della città
socialista. Tutto giusto, ma pure una cecità ( Amitav Ghosh
La grande cecità , 2016) che non ha visto come la difesa del
lavoro diventava anche la difesa di un sistema industriale inquinante- Da
questo punto di vista la mostra ha un impianto che – con alcune ottime opere e
altre più deboli o scontate – di sicuro offre un’immersione nella questione più
radicale che la nostra epoca ci sta ponendo e a cui assistiamo con un misto di
abitudine intorpidita e paralisi, con molti materiali e approfondimenti
scientifici sviluppati in collaborazione con il New Institute Centre For
Environmental Humanities (NICHE) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Un po’ come quando guadiamo le “previsioni del tempo”,
ultimo scampolo di un’umanità che non sa pensare al futuro se non nell’arco
delle 24 ore, fidando che tutto sia prevedibile. Certo fino a pochi anni fa era
ancora la quisquilia vezzosa del cittadino felice consumista. Oggi non più (non
sappiamo però quanto le produzioni Prada siano sostenibili e se questa mostra
sia un green washing, nel caso certamente offre materiale di riflessione
proprio per mettere in discussione anche il lavaggio verde di istituzioni e
società del capitale globale come Prada)
Siamo accolti all’inizio da uno schermo che proietta tutte insieme i vari weather channel mondiali, tipologia usata da vari artisti anche in questa mostra, tra cui le finte previsioni meteo di Tiffany Sia di Hong Kong, che testimonia come questo brusio di fondo, mantra di un’ansia divinatoria per sapere che tempo che fa, è un'ansia globalizzata, in un mondo che – con la metà della popolazione residente in area urbana – ormai ha sempre meno a che fare con il clima per sapere destini della sua giornata.
Una serie di foto e citazioni di Beate Geisler e Oliver Sann
che da 25 anni lavorano proprio a promuovere la riflessione sull’Antropocene.
L’opera consiste in un contrappunto tra 37 citazioni tratte da libri di Science
Fiction del passato 900 in cui
incredibilmente si profetizzava con precisione (anno compreso) lo scenario attuale: basti il solo esempio del
romanzo di Richard Fleischer, I sopravvissuti del 1973 in cui si legge “Nel
2022 la sovrappopolazione, l’inquinamento e un’evidente catastrofe climatica hanno
causato una penuria di cibo acqua e alloggi in tutto il mondo”. A questa
carrellata di testi si uniscono foto di piante con strane propaggini
tecnologiche, quasi una cyborg-nature, dissimulata tra la bellezza degli
arbusti, mescolati a i fiori e foglie
I “Rain Studies” di jitish Kallat, che con un’idea
semplice crea opere suggestive, stendendo un pigmento su fogli bianchi e poi
lasciandoli esposti alle piogge monsoniche della sua città, Mumbai, capaci poi
di ricreare una sorta di volta celeste con vaghe stelle
Hitali Singh Soin, indiana figlia di esploratori e
naturalisti, ha ideato la mostra approdando la prima volta alle isole Svalbard,
unica persona di pelle scura, ha realizzato come si potesse connettere il dato
coloniale e di genere alla cultura della natura e dell’esplorazione. Da qui
nasce “we are opposite like that” in cui riflette con una serie di disegni d’epoca
e citazione come la cultura maschile bianca occidentale, protagonista delle
prime esplorazioni diffuse nell’800 e collegate all’espansione coloniale
avessero però creato un clima di terrore della natura, connesso certo al clima
di mistero dell’epoca vittoria, le minacce della vita moderna, la prima
letteratura fantastica o “gialla”, lo spiritismo, la passione per i fantasmi,
da cui l’idea che la natura stessa fosse
foriera di catastrofe avesse un natura di minaccia fantasmatica e di ignoto (in
fondo qualcosa che si ritrova anche in Leopardi con la Natura Matrigna, non a caso
donna -tra l’altro a margine sulla connessione tra esplorazione evoluzionismo e
idea della natura c’è il bellissimo libro di Antonella Anedda, ) più o meno
come la presenza di una persona “coloured” crea un senso di allarme in un
contesto bianco.
Tra altre opere la forse ingenua, ma suggestiva nella sua
forza vitale e tutto sommato allegra di “tsunami” del Kenyota Richard Onyango o Thomas Ruff un
fotografo-senza-camera, che lavora sull’ingrandimento di immagini da internet ma
stampate e ingrandite ad alta risoluzione – ma che ovvio si disgregano in
quadrati pixel perché sono riprese da immagini Jpeg di bassa qualità – cercando fotografie di
catastrofi o eventi estremi del clima, con un effetto straniante di questo
“googlism” in cui la presenza massiccia di immagini a disposizione finisce per
renderci “ciechi” di fronte alla natura – e Ruff in qualche modo ce le sbatte
in faccia in formato gigante, come una tempesta che spira non dal paradiso, ma
dal futuro, indietro al baratro in cui non possiamo più dominare né il tempo
storico, né il tempo naturale.
Basti pensare che Il nome in codice "Trinity" era stato assegnato da J. Robert Oppenheimer , il direttore del Los Alamos Laboratory , ispirato alla poesia di John Donne,. E Oppenheimer era lo scienziato che lavorava con il padre immaginario di Bobby Western, il protagonista – di nuovo - de “il passeggero” di McCarthy.
Se Manglano-Ovalle vorrebbe richiamare il passato nucleare come storia di una catastrofe possibile – certo ancora possibile – dal futuro altre Plume si riconnettono alla loro esattezza semiotica, sono forme estreme di fenomeni climatici che ci avvertono di un’altra “bomba” naturale, pronta ad esplodere sebben lentamente, ma da qui a 30 anni, che rispetto a tutta la storia dell’Antropocene, potrebbe essere una sorta di Apocalpise now, dell’adesso, del oggi o al massimo, domani.
Direi che come argomenti impliciti di una banale conversazione in ascensore sul tempo ce ne sono abbastanza.
mercoledì 26 luglio 2023
La scienza affaccia la poesia sull'abisso: su "Camera sul vuoto" di Bruno Galluccio
Il libro di Bruno Galluccio “Camera sul vuoto” riprende il percorso dal debutto sorprendente di “Verticali” del 2009 e proseguito nel secondo “La misura dello zero” sempre per Einaudi, libri in cui, in modo assolutamente originale, Galluccio crea un impianto poetico considera nell’orizzonte del suo sguardo anche ciò che come matematico e fiso egli vede della realtà, un reale che in qualche modo potrebbe anche negare, mette in scacco la nostra tradizionale fenomenologia umanistica su cui è costruita la tradizone della poesia occidentale, avanguardie comprese.
Galluccio scrive al confine tra questa tradizione e il sapere scientifico, in particolare l’esattezza sconcertante dell’indeterminato a cui matematica e fisica ci costringono, un paradosso tuttavia reale e non astratto, che è la materia di cui è fatta la materia, la materia che siamo.
Galluccio ha esordito con i suoi libri prima dei successi editoriali di Carlo Rovelli, in qualche modo lo ha anticipato, è un fisico e matematico di formazione come tale ha a lungo lavorato in questo campo, sa bene che solo la formula matematica dà conto compiuto ed esatto della materia, della sua meccanica molecolare, ma le cui conseguenze – frutto di complesse equazioni matematiche – sono impossibili da “tradurre” linguisticamente. Galluccio nei primi due libri è riuscito a trovare una sua sintesi, una sua possibile traduzione.
IN questi ultimi due anni ho letto diversi saggi scientifici: qualche libro sulla quantistica, i libri sui linguaggi delle piante, alcuni saggi di neuroscienziati, alcuni di evoluzionisti, studi su come possa essersi formata la facoltà del linguaggio e dell’astrazione nell’unica specie vivente capace di farlo. Oggi la nuova frontiera etica ed estetica, di rispecchiamento vortiginoso sarebbe l’Intelligenza Artificiale.
Tutto questo sapere ha rimesso in discussione in me l’impianto ontologico su cui, nel bene o nel male, mi ero formato, nella tradizione lirica come nella ricerca, Montale come Zanzotto, si è basata la poesia, e l’impianto era proprio quella soggettività, su cui ci si affanna nelle polemiche letterarie pro e contro “l’Io lirico”. La soggettività ( o una sorta di ontologia per quanto vuota) a me sembra sia sempre in atto nel linguaggio, il poeta anche solo raccogliendolo lo chiude in un testo, il testo è una materia che – letta – alla fine ritorna a un Io, a una soggettività.
Ecco il sapere della poesia è dentro questa materialità del testo, ma anche dentro uno psichismo di ricezione che gli attribuisce un senso. Per quanto leggendo De Saussure, Freud e Lacan o Wittgenstein, Deleuze o chi volete, siano stati i giganti che ci hanno costretto a vedere nel linguaggio una realtà oggettiva e fuori dalla nostra portata, una convenzione che articola e poi modifica il senso della nostra vita, mi è bastato affacciarmi da neofita sul mondo come lo sta studiando la scienza, su come lo possiamo riconsiderare attraverso ola meccanica quantistica, la biologia evolutiva, la paleontropologia, che si sono scardinate in me le convinzioni acquisiti, per quanto io abbia cercato di aggiornarle, di arricchirle – è proprio un altro campionato e un altro sport. Ha messo da parte, in me, come mera convenzione ogni impianto filosofico di tipo psicologico-fenomenologico-ontologico, aprendo però vastità di sapere, conseguenze di riformulazione del senso stesso di scrivere poesia. Fino al punto che mi fa immaginare dei radicalismi necessari che tendono – come già successo non a caso a inizio 900 con le arti, a mettere proprio da parte la parola come nell’arte fu messa da parte la figura, la rappresentazione. Tuttavia, come umani, il linguaggio ci è necessario, ma bisogna prendere atto delle conseguenze immaginative che il sapere scientifico apre dentro di noi.
Questa lunga digressione mi è sembrata necessaria per aprire
il discorso su “Camera sul vuoto” di Galluccio, perché mi sembra che questo
libro, rispetto alla tenuta metaforica dei precedenti, sembra accumulare poesia
dopo poesia, la consapevolezza che neppure quella fuzione tra poetico e
scientifico serve, può essere una inesattezza.
Galluccio in queto nuovo libro segue i passaggi di una riflessione precisa, lo
fa mutando la sua scrittura precedente verso – mi si perdoni il paragone – la forma
di un poema naturalista settecentesco, quasi sottraendosi agli stilemi della
lirica, non confondendosi con nessun illusione ottica di poesia, lirica,
sperimentale o di ricerca, riducendo la concessione al tasso figurativo, facendosi
più asciutto e seguendo più un filo di ragionamento sugli orizzonti di
coscienza che apre il sapere della fisica e della matematica.
La portata di rivoluzione di parametri del reale che queste scienze consegnano
all’umanità è così profonda che incide nel paradigma conscio/inconscio nella
metaforizzazione, così come ce lo consegna la consuetudine; lo stesso per l’idea di tempo e di spazio, l’idea di noi
stessi, nella definizione di che-cosa-è- questo mondo che si dispiega
attorno a noi. Fa vedere in una ottica diversa – e forse li cancella - gli
strumenti tradizionali di ciò che si è data - nella stratificazione anche novecentesca –
come una sintesi di ciò che è la percezione per un poeta, che è basata sul solo
linguaggio. Qui la scienza potrebbe far sebrare tutto obsoleto.
Per questo credo che Galluccio con “Camera sul vuoto” abbia scelto d sottrarsi più possibile al “poetico”
per portare al massimo livello in poesia ciò che si apre come nuovo orizzonte
di conoscenza.
Naturalmente, il linguaggio essendo la convenzione con cui
si giocano le esistenze degli umani, fa
si che la poesia continui a giocare questo gioco di nessun valore, con
cui cerchiamo sempre un fodamento invisibile un non-fondamento, un vuoto che si
tiene su di sé, senza più alcuna dialettica ontologica. Carlo Rovelli nel suo “Helgoland”
affronta questo tema e trova un sostegno alla vertigine di vuoto che apre la
quantistica, nel filosofo indiano del secondo secolo Nagarjuna che elabora i l
concetto del sunyata.
Galluccio, con i presupposti che ho spiegato sopra, riparte
dal concetto del vuoto, sempre nel tentativo di portare il linguaggio
poetico a poter, se non altro, far concepire quel vuoto che non è il niente,
ma il campo di tenzione della materia di espansione di trasformazione e dove non c’è assoluto e nucleo, fondamento del
reale. E lì forse non ci possono essere più nemmeno metafore.
L’importanza di questo libro sta nel fatto che Galluccio mostra le possibilità
del “pensiero” anche nel ritirarsi del “poetante” a cui tendiamo a
riferirci, da Leopardi a Celan, lavorando sulla materia retorica della poesia,
facendo prevalere la concettualità delle scienze, che esse stesse sono
vertiginose, un-heimlich, perturbanti,
sono esse lo scarto dalla norma
che si è sempre cercato nell’infra-ordinario del Linguaggio.
E’ come se Galluccio alludesse, facendo ancora versi certo, al fatto che il
nucleo della questione oggi non sta più nel linguaggio, che sono utili per un’archeologia
del nostro sapere ma non è più lo strumento con cui – tra poesia e filosofica –
possiamo basare le nostre conoscenze. Per questo Galluccio porta all’estremo il
suo esperimento poetico, proprio disidratando di figuralità metaforiche.
Entriamo nelle varie sezioni del libro.
1.
“un punto che non ha una posizione
un inizio che non è un inizio
perché non esisteva un prima”
Questo è l’incipit di “Camera sul vuoto” – senza il maiuscolo, come in tutto il
libro e senza punteggiatura, scelta compensata da un versificare metrico libero
ma con molti residui di misura, ma soprattutto da una sintassi chiara, seppur
con concetti vertiginosi, una sorta di assertività , l’ "adserere" verbo latino, ma
senza la particella “ad” solo il darsi del “sérere” (altro verbo latino per “intrecciare” e
figurativamente “discorrere” “asserire”).
Non si afferma, è la materia che è data noi siamo parte della materia che
cerchiamo di conoscere impossibile ogni discorso soggettività/oggettività –
Galluccio prova un estremo tentativo di trascrizione
linguistica per mostrare come la treccia – per riprendere il latino serere
- sia da considerare già “trecciata” dal nostro stesso osservarla
essendo noi stessi la treccia, l’intrecciamento accade per i nostri sguardi,
diremmo poeticamente.
non ci sono certamente – in questo galluccio è l’erede ultimo di Lucrezio - entità
(né la divina, né l’umana dell’osservatore o del soggetto dicente) che possano
creare o porsi fuori dall’intrecciamento.
I fenomeni, ci dice la fisica quantistica, sono azioni di una parte del mondo
naturale su un’altra parte, non c’è punto di vista, né gerarchia e non ha più
senso negare un “io” come si affanna a
fare l’antilirica, tanto quanto non ne ha affermarlo, perché partire, in teoria
(ma il linguaggio è una memoria evolutiva e poi storica difficile da
scardinare), da un vocabolario in cui è inesistente o tolta la stessa parola, “soggetto”.
Dovremmo, come suggerisce Wittgenstein, evitare “le domande mal poste”. Tuttavia,
noi continuiamo nell’ “azzardo di creare spazio e tempo” nel flusso di un
testo, là dove la fisica li ha rivoluzionati, abolendo di fatto il secondo, nel
concetto di espansione della materia.
La mente non c’entra, tutto è interazione di questa materia.
Si parte da una parete verticale senza
appigli. Qui mi pare – nel punto di incontro di un grande poeta e di un fisico –
sia la preziosa occasione che ci consente l’opera di Bruno Galluccio, di ribaltare
il tavolo di tutte le nostre chiacchiere 900 e postmoderne.
Il libro è composto da nove “sezioni” (mi chiedo se per un matematico come
Galluccio abbia senso la numerologia, per i poeti sì, e nove è numero
dantesco). Nella prima Galluccio dismette ogni premessa, la riduce , di fronte
all’ “universo” che “potrebbe essere nato dal nulla” o da un “disequilibrio
fluttuante di u instante”. Ogni presupposto è in realtà misero esercizio balbettante
: “siamo ancora qui a formulare congetture”.
Tuttavia la poesia si attesta su queste congetture, a volte
cerca un0imamgine per simbolizzarla oppure costruisce una forma di linguaggio
come se possa darsi in esso una fenomenologia alternativa, ma alal fine non può
più permettersi fraintendimenti letterari se ambisce al sapere.
penso ad alcune scritture, la mia stessa, a tutto l’universo diversamente “lirico-assertivo”
per usare la formula di classificazione dell’opera di Laura Pugno, oppure diverse, quella di autori che apprezzo,
come Mazzoni, Policastro o Bortolotti per citare quelle più si collocano fuori
dai canoni ricorrenti della letteratura poetica – ebbene, Galluccio ci porta
in dote la scienza e ci affaccia sull’abisso. Non è il linguaggio il piano del
gioco del sapere.
Siamo tuttavia umani che usano il linguaggio. per
chi prende la parola – nonostante i suoi
limiti di capacità di conoscenza, rispetto ad algoritmi equazioni ecc. – proprio
questo dire in parole è l'unico modo che si dà per una misura scambievole (tra chi ha le competenze e chi no) di ciò che siamo, piccolissimi e speciali,
unici, nel formulare un linguaggio di astrazione (qui entrerebbero in campo anche
le ipotesi della paleontologia e delle neuroscienze, vedi ad esempio Tattersall
e Damasio) e se
abbiamo potuto concepire “la misura
dello zero” per riprendere un titolo precedente di Galluccio.
Si innesta qui il ruolo del linguaggio, Galluccio è – mentre scrive – poeta,
non sta traducendo formule matematiche, anche se ce ne dà il concetto e anche
suo è l’azzardo, nella necessità di utilizzare la materia di tropi esistenti,
per cui in una poesia scrivendo di
questo “ammasso di particelle” che fu il non-inizio dell’universo, le cui
“tracce” “noi possiamo cogliere “ lo definisce con una metafora tutto sommato
semplice, come “bambino”.
Ecco, l’azzardo è qui per me: da una dimensione di sapere vertiginoso, approdare a una
metafora semplice e umana, inevitabile,
perché alla fine il ruolo che ha la poesia è permettere un’interazione di
significati. Ma non c’è bisogno di sperimentare con il linguaggio, l’approdo alla
conoscenza è sulle rote scientifiche. Il resto – il linguaggio – lo usiamo per una
traduzione e tutto sommato possiamo anche essere convenzionali. Così, in un altro
passaggio, Galluccio scrive che nell’universo ci sono “semi” delle “future
galassie”, anche qui metafora semplice.
A fronte di questo ricorrere a tropismi di comunità, sta il
sapere invece vertiginoso e inafferrabile, a cui le asserzioni di Galluccio di
questa prima sezione rimandano che partendo da matematica strumento base della meccanica
quantistica e i principi della relatività portano alla “sfida ulteriore” che
“insidia le certezze/ pone alee nel corpo della conoscenza”. È una poesia che
oscilla sempre tra la composizione di un “essere-al-mondo” umano e
l’indicazione di una verità ulteriore che non risiede affatto nella storia
della cultura così come l’abbiamo conosciuta fino ad ora.
2.
Se la poesia è sta sempre uno scarto linguistico dalla norma, Galluccio porta
la poesia a interrogarsi come il sapere
della scienza del 900 di cui forse solo ora comprendiamo meglio la radicalità,
sia esso stesso il nuovo scarto che dà scacco a quello che filosofi e poeti
hanno cercato dentro il linguaggio anche il più rivoluzionario e poetico.
La scienza ci conferma che si fluttua in un ‘alea, ci restituisce incertezze
impensate. La poesia di Galluccio prova una sua meccanica di probabilità:
nella combinazione di linguaggio comune e conclusioni che scardinato i
fondamentali, si attiva un rinnovamento di combinazioni che formino nei
meccanismi della mente un altro scenario.
In fondo, proprio alla vigilia del Novecento, nel 1897 Mallarmé scriveva “Un
coup de dés jamais n’abolira le hasard” che sembra essere l’avvertimento che ci
danno gli scienziati (e Galluccio tra i poeti): poggiamo sul vuoto, sulla
vacuità, il numero che esce a dadi fermi è una condensazione di probabilità
impreviste che accadono senza legge fissa, né certezze che accada, benché
accadano.
La stessa grammatica, col suo procedere logico e per come è
formata rivela un percorso evolutivo che incide poi sulla prefigurazione di un
principio che in realtà non c’è, ma “la
mente umana tende a uniformare il molteplice/ forse per un bisogno estetico”
scrive Galluccio col suo andamento di poesia in un certo senso leopardiano. Là
dove il conte Giacomo alla fine dei suoi giorni, nella Napoli in cui è nato e
vive Galluccio, vedeva la implacabile
dissoluzione evolutiva della storia, che rende cenere ciò che era gloria,
Galluccio è come se sostituisse il pulviscolo dei quanti a destabilizzare anche
quel patto linguistico che abbiamo fatto come “social catena” di resistere ( oggi la
scienza lo ha ribattezzato oltretutto come il distruttivo Antropocene).
La pluralità indeterminabile deve
diventare il nostro scenario concettuale. È il riflesso di “grandi mutamenti di
scenario” – scrive Galluccio sempre in questa prima sezione introducendo “il
formarsi di particelle elementari” e di “ammassi di galassie”.
in questa innegabile immensità, alla conoscenza tuttavia la duplice condizione
di alea e al tempo stesso di una certa implicita forza di questa specie vivente
singolare che è il Sapiens: “noi siamo
riusciti a ricostruire questa storia/nell’arco di pochi millenni” rispetto ai
miliardi di anni della materia e le centinaia di milioni di anni della
formazione della vita sul pianeta terra. Vivente tra i viventi, la singolarità
di questa evoluzione è pari alla magnificenza di quella dell’universo. [1]
3.
L’azzardo, il salto, lo strappo del velo: le teorie cercando di “eludere”
l’ostacolo che impedisce di vedere l’inizio-che-non- c’è, è “un limite prima
del quale non ci è consentito spiare” , ma la conoscenza sviluppata anche con
quella espansione dei sensi molto criticata che è la Techné (pensiamo a tutte
le obiezioni umanistiche di Heidegger) noi cogliamo
“la radiazione cosmica di
fondo quel mare di fotoni
originati quando l’universo era giovane e rovente”
scrive Galluccio, utilizzando sempre le sue comparazioni naturali e semplici
per teorie niente affatto semplici.
Si può far fatica a sopravvivere a pensare
in questo capogiro di numeri e galassie
Così Galluccio che sembra comprendere come lo choc di
conoscenze che oggi la scienza dà genera in noi una paralisi:
potremmo aver voglia di regredire in uno stato fetale
in cui non sapere più nulla né cercare
ma l’evoluzione ha intrapreso la via
di incoraggiare questa continua ansia di scoprire.
Quel che c’è da dire, lo dico così come è. Il poeta arriva
alla rastremazione assoluta del suo linguaggio che procede tuttavia pensante.
Solo che è il pensiero della vertigine del vuoto.
Lo stesso “vuoto” che compare come lemma sulla copertina bianca del libro di
galluccio, innesca in noi rimandi a sintagmi culturali, ma quel vuoto in realtà (ed è la realtà reale oserei dire oltre la realtà che vediamo) è materia in espansione che “crea spazio e tempo aggiuntivo”. La materia crea
il suo spaziotempo. Galluccio, a fronte di un sapere che si presta ad essere
una rivoluzione concettuale epocale per l’umano
di cui non abbiamo ancora idea, dopo un secolo di scoperte.
Erede di Lucrezio con suo De Rerum Natura, Galluccio affida
ai versi la possibilità di invitare a disimparare ciò che sappiamo, per
lasciare spazio vuoto alla conoscenza del nuovo.
La “Sezione 2” riconnette la storia alla struttura percettiva: “le colonne di
Atene vanno/ ad allinearsi nella nostra
mente”. Sono “ostie della carne” “profondamente calate nella storia” a fronte
di queste coordinate fenomenologiche sta un sapere che sembra mettere in scacco
tutto.
L’aleatorietà in cui ci getta il precipizio delle particelle
che collassano “alla nostra osservazione” e misurazione – una delle teorie più
affascianti e sfuggenti della quantistica, l’entanglement - “non è decadimento o perdita/ ma il
passaggio da una nuvola di possibili”. Ci dovrebbe essere quasi consolazione,
come una beatitudine di apertura verso “infiniti futuri” che possono nascere da
questa condizione che Galluccio riporta continuamente a misura di un quotidiano.
I “segnali” sorprendenti che arrivano dall’universo “come le
voci umane che giungono da una camera adiacente” sono un ascolto che “richiede
tutto l’impossibile” di chi deve assumere la relativa posizione con immediati
risvolti di disinnesco ontologico : “ciascuno va avanti ancora per poco/ e sa
che non potrà conoscere risposte/ ai quesiti che lascerà in sospeso”.
Sempre in quello smottamento, nel bradisismo della grammatica che rivela il suo esser cava di fronte all’insensatezza di “soggetto-oggetto” a cui ci ha abituato la filosofia millenaria (“le regole grammaticali distrutte nell’incendio/ lo sforzo mentale e il disordine ridotto in polvere”) fanno delle poesie di Galluccio una sorta di sconvolgimento allucinatorio reso con il rigore del ragionare da scienziato, sebbene il risultato possa ovviamente farci sentire in una dimensione che – per fare un paragone – ci può dare la terza serie di Twin Peaks in cui l’eterno ci guarda dormire sognando di osservare la tv in cui una storia sfida ogni possibile soluzione.
“lascio il mio giardino verso l’origine del mio giardino
niente fiori ma solo
nome dei fiori
nessuna passeggiata ma solo l’intenzione”
Sapere è stare e non stare, in una “pre-forza che sovrasta il progetto” e
dunque ci rivela che non c’è nessun progetto e nessun architetto. Come possiamo
vivere così? Se è dentro un esperimento (quello della “doppia fenditura” che fa
apparire la luce sia come corpuscolo se osservata tramite la rilevazione sullo
schermo , sia ondulatoria se registrato il suo movimento di passaggio delle
fenditure dello stesso schermo) ci spiazza e dilania nell’indeterminato tra più opzioni. Concepito questo, venuti a conoscenza di questo, Galluccio avverte: poi “bisognerà ricominciare/
con i gesti rallentati della sera”.
E’ verso questo quotidiano che vira poi “Camera
sul vuoto”, come vedremo.
Nella poesia di Galluccio, insomma - provo a dirlo forzando naturalmente, trattandosi di temi cruciali in questo passaggio d'epoca - non è più il piano del linguaggio a
rappresentare in qualche modo una mimesi di una forma di sguardo, di esistenza
in vita e psichica, ma è proprio in una poesia che tenga presente le teorie scientifiche, il contenuto stesso di quel sapere che esercita la sorpresa, lo scarto. Resta però il valore della torsione del linguaggio che
opera Galluccio per contenere in esso quel sapere, a generare una grammatica
di scarto in una diversa forma di
sperimentazione con la materia delle parole (con la sua astrazione neuronale, il linguaggio e il suo "salto " speciale nel corso dell'evoluzione merita un capitolo a parte, qui lo lasciamo sullo sfondo).
Venendo all'accenno al quotidiano della vita di tutti, come si diceva, il libro via via che procede verso le sezioni finali sembra tornare più il primo livello di realtà, “l’ambiente” col suo “stato di abbandono” coi suoi “messaggi terrestri”
graffiato sui muri. E’ l’ordinario il ciò che appare allo sguardo. Al suo
opposto, la vertigine dello “sviluppo del vuoto/ visto dalla camera chiara” perché
l’ottica fisica delle nostre esistenze cerca “la dimensione dell’universo che
manca” ma ancora una volta il vuoto è ciò che viene creato dalla nostra espansione
di conoscenza che ci permette di superare la nostra “dimensione insondata del
non sentire”.
E’ come se improvvisamente verso la
fine, l’esistenza assediasse questa camera
sul vuoto, riportasse a paure, cattiverie, schiacciasse il soggetto fino
alla cancellazione (“non resta niente di
me”) una “traccia oscura”, un passaggio di spettro confinante tra ombra e
invisibile, che “ha negato il giusto
posto alla parola”, chiuso in una corazza, “l’angustia delle cose” del mondo, il
“freddo disperatamente vero” della realtà, fatta di insufficienze, mancati
arrivi, mancata luce delle parole, lo stesso cielo è “il lato oscuro di un soffitto” su cui pesa il carico dei “secoli”.
Spira improvvisamente
un vento di pesanteur senza
grazia dei giorni: “resta sempre meno da dire” scrive Galluccio, in una delle
tanti notazioni in apparenza tra malinconia e pessimismo, ma a questo punto non siamo più nell'ordine della psicologia o della fenomenologia esistenziale, nella filosofia.
Chi sta, che lo si chiami "io" o una particella, il cosmo, sta nella materia e nel tempo che non esiste come spiega da un secolo la quantistica, il suo stare è la metamorfosi, in una espansione infinita.
Sia presa come reliquia filosofica, questo termine, pesanteur: pesa
il “paesaggio angusto” di quella che resta la vita umana nella storia, su cui
incombono i “morti” che “sanno molte cose di noi che non ammettiamo” e
improvvisamente la visione del libro sembra una sentenza di condanna allo
scacco, nella dimensione di camere come piantate nella terra, nel profondo di un
Ade del quotidiano: “Si ignora gran parte dell’universo da questa prospettiva/gli
occhi non usano andare in cielo/ inutili adesso le stesse le galassie”: come se
tutto quel che è stato fato crollasse in questo qui ed ora dove “è imbrogliata
la nostra sopravvivenza”.
La scena del testo si affolla di parole
come “carenza” e “demoni” come se il poeta parlasse da una posizione
sprofondata per una “sconosciuta forza gravitazionale”.
Come
se qui sapere scientifico e dettato (sottratta ogni possibile metafora) coincidessero
a rendere la poesia uno spettro, la possibilità stessa della poesia una delle
tante minime entità, nessuna speciale di fronte al cosmo :
“ e d’altra parte
sappiamo
che è la massa oscura a tenere assieme l’universo
e l’energia oscura
che lo porta a disperdersi”.
Lo scacco certo è tra l’immensità del campo da esplorare e la forza del singolo
che conosce. Ma pure l’esistenza ci fa
vivere lutti, dolori, scomparse: “io sono testimone della mia mancanza” e della
“mancanza del mondo” e mentre “il morente/ ha lasciato le sue note minuziose”
queste minime pratiche sulla soglia tra la vita e la morte - sebbene i sapere a cui si attinge non ragioni più in termine di vita e morte, tutto è materia in trasformazione.
Anche per questo il peso: si spalanca un vuoto
denso, cupo, in cui “la materia ritorna materia” in una sorta di lotta che si
svolge tra il corpo, l'omeostasi dei viventi con le nostre emozioni, chi è sul “letto
della morte” e dall'altro il corpo di chi è “accanto” e che sente la precarietà e il
desiderio di uscire da quella gabbia di esistenza che è il nostro granello di polvere evolutivo.
Alla fine, quel tempo “solenne” dell’evoluzione del cosmo studiata in teorie
precipita nella semplicità del “momento” , l'estremo a cui nonostante la scienza
non si sfugge: la morte. E' proprio questo il punto drammatico: la morte noi la ereditiamo dai nostri morti, ci siamo nati, siamo stati formati in quella dialettica di confine.
Se la coscienza il sapere, la scienza ci prono a nuovi parametri, quell'eredità rimane. Parafrasando un titolo del libro di Anselm Kiefer che pure ha dialogato con questi temi, tra evoluzionismo e Celan, la morte sopravviverà alle sue rovine e così fa la poesia che cerca da sempre di affrontarne il limite.
Accade questo, almeno in questa fase d'era antropocenica, poi chissà: la conoscenza ci sta aiutando a pensare diversamente, ad abbandonare i vecchi saperi anche quelli più nobili, ci aiuta a capire come si possa dire che non
muore mai la nostra materia (quel famigerato "nulla si distrugge se nulla si è creato,") ma la
morte resta nelle nostre mani come ci è stata consegnata da chi non c'è più, come un mistero.
Resta ciò che era, resta il senso del sacro, e un senso del tragico:
così la morte appare a Galluccio “un agguato fin dal primo respiro”.
È dunque leopardianamente, in questo scacco da
sempre che è l’esser nati, nella morte e nella solitudine del morte, che si consuma la sfida tra scienza e senso
del destino dentro la nostra psiche, la cameretta del poeta, la camera sul vuoto, la cella da dove noi tutti siamo e nasciamo, affacciati sull’abisso.
NOTE DI ANALISI ULTERIORE
Aggiungo qui materiali di analisi, più dettagliata di alcuni testi, per chi voglia approfondire
In un testo come “hospice” passano come fantasmi i degenti “emergono dalle pareti uomini senza dolore” anche essi in una dimensione senza tempo e spazio di “geometrie disinfettate”. Ecco che come osservando l’ignoto dell’universo, quelle presenze ci affidano “notizie sul proprio freddo” i “i proprio frammenti della memoria/ affinché non vadano perduti” e questo contatto cerca proprio nell’indefinibile della conoscenza della fisica un proprio correlativo concettuale più che oggettivo o linguistico : così di fronte a questi segnali dall’ ospizio “rimaniamo in uno stato imprecisato/ come nella nuvola quantistica/ dove un evento può essere vero e non vero/ nel medesimo istante presente/ o nel medesimo futuro”.
La
psicologia cerca alternative a sé stessa, chiamando in causa proprio l’alea di
tempi e spazi inesistenti, le “nuvole dei possibili “ che si aprono dentro la
psiche in cui abitano le “storie impossibili”- ora, rispetto all’immaginazione,
ma non negandola anzi utilizzandola, sono gli stessi esperimenti di fisica che
rivelano l’impensato: “i campi di forze
di cui è disseminato il mondo/
influenzano il tuo cammino” dice Galluccio fisico a Galluccio poeta.
Le
“scomposizioni spettrali” sono in lotta con la ricerca di “teoria unificante”. Questo però non è solo un problema
filosofico-scientifico, apre un capovolgimento, un sovvertimento, un’afasia:
“quelli che neutri nel giorno separato parlavano/ e piegavano soffermandosi sui
dettagli del mondo/ ora non hanno più fiato per la molteplicità dei quark”.
Tutto ciò ci getta in una condizione di nuovo Geworfenheit, un essere-gettati “nudi/ come ritornati all’inizio del mondo”. Ricorda la scena di fuga mentale nelle galassie che chiude 2001 odissea nello spazio, un impero della mente inesplorato ma che non è “nella” mente, la mente è parte di questo universo, che ci guarda quanto noi lo guardiamo, che “è” tale perché lo guardiamo, semmai abbia senso dire osservazione, forse è più giusto dire interazione, relazione, la sostanza che la materia tutta è.
La luce e suoi corpuscoli avanzano ma sono “oltre la nostra limitata comprensione” nonostante la “fatica dei calcoli”. Tutto è cieco, forse la luce stessa oltre che noi, “la cecità avanza sull’asse/perpendicolare al vuoto”. Questa è la condizione esistenziale con cui dobbiamo misurarci, a fronte non di assenza di fondamenti, ma a fronte di una rivoluzione (scientifica) degli stessi (e forse neppure la metafora fondamento ha senso).
Qui
Galluccio pare connettere quei frammenti ai “residui dei nostri frammenti
desideranti” e in un doppio movimento quasi mistico, se volessimo ragionare con
categorie antiquate, quei frammenti “si
arrendono al proprio desiderio/ sono perduti”. Si tratta, chiudendo la “Sezione
3” di fare i conti con la portata di questo vuoto in cui si cade.
Non bastano
più le pur ampie possibilità dell’immaginazione (“una borgesiana promessa/ di
archivi e di specchi”): l’avventura della conoscenza sperimentale “a via
Mezzocannone sedici” (Napoli, l’indirizzo del Università Federico II, dove è
iniziata la formazione di fisico del poeta)
aprono forme di conoscenza dalla concettualità vertiginosa. Così “il
gabinetto di Faraday” porta insieme “esperimenti di elettrostatica e destino”
che non lasciano illesi o cambiano la risoluzione mentale delle immagini dello
sperimentatore.
Siamo sulla frontiera di “pensieri
collimati” di un poeta come Paul Celan a cui Galluccio dedica una poesia.
L’autore tedesco forzava ogni elemento della lingua nella sua sperimentazione
con il tedesco della vittima che si generasse autonomo dalla lingua
apparentemente identica dei carnefici e i in cui potessi sopravvivere
l’impossibile di chi è stato fatto polvere, dissolto nel nulla dei campi di
sterminio, così come “il laser”
scandaglia la materia “per ricomporre l’integrità sulla retina/ i possibili
prima che diventino reali”. In questa apertura di irrealtà manifesta, Galluccio
conduce il suo percorso in cui poesia e fisica cercano un’alleanza .
Stanno su una frontiera dove combaciano punti, come scrive Galluccio nella
poesia successiva (“frontiere”) e sono ”due punti uguali ma irrimediabilmente
incompatibili” eppure sono la frontiera.
E’ la scienza che disinnesca il rischio
orfico della lirica, senza però cancellare la sfida dell’inconosciuto perché la
scienza nel 900 ha soprattutto imparato rendere parte del proprio processo e
delle proprie conclusioni anche l’indeterminato, la probabilità, il non
(ancora) conosciuto che va inteso come sondabile.
L’immagine
della “sonda” chiude la Sezione 4, come “amo ai limiti dell’universo”, il
“satellite” nella sua doppia funzione di trasmettitore dal cosmo e osservatore
della nostra condizione terrena. Lo stesso fa lo sguardo di Galluccio che vira
verso l’orizzontale di alberi stazioni,
riprende forza la coscienza emozionale (“cerchi di assuefarti al timore dei
giorni a venire”) gli ambienti domestici ma il senso delle parole cercato “da
un’altezza nuova” si “inceppa” e le regole grammaticali “distrutte
nell’incendio” e così il microcosmo personale delle “ore nei letti/
regrediscono alle svolte millenarie” come se il paesaggio onirico mentale del
singolo potesse connettersi con la svolta della rivoluzione cognitiva
testimoniata da “incisioni rupestri” (che sono molto più di elementari disegni
di un’umanità bambina e testimoniano di attività profonde e complesse,
testimonianza di un fenomeno enorme che è l’insorgere di una capacità di
astrazione sempre maggiore).
Anche se si è stati “in disparte” ogni singolo
uomo ha attraversato la storia, il tempo in una solitudine connessa al
“passaggio verso universi paralleli” come quando un transito sul “ponte della
tangenziale” coglie nelle incrinature del cemento “salti di qualità verso
dimensioni che non sapevi” un “aprire porte all’infinito”. Ecco, possiamo
misurare il tempo dell’infinito, partendo dal topos leopardiano del nostro
canone, misurando ora la vertigine potremmo dire anche solo al di qua della
siepe.
E’ un
infra-infinito dell’ordinario, quello che si apre nel microcosmo della materia
studiato ad esempio dalla fisica quantistica. Stavolta è la scienza, è
“l’esperimento” che svolge la funzione
di innesco dell’immaginazione, la siepe è nel laboratorio. Sono gli stesi
scienziati a chiedere alla poesia quasi un esercizio di pensiero laterale che
spesso è utile per le scoperte che necessitano di immaginare il non conosciuto,
l’aldilà oltre la siepe.
[1] Confesso che sia per le conseguenze
della teorie della fisica quantistica sull’aspetto evolutivo di tutta la matria
compreso la vivente, sia per le ridefinizioni del percorso evolutivo negli
studi ultimi della paleoantropologia (Ian Tattersall e il suo “primate
pensante” nonché quel che abbiamo di comune e diverso nella struttura
percettivo-neuronale tra specie (vedi Antonio Damasio “Sentire e conoscere”)
per cui ad un certo punto diventano “omeostasi” anche le costruzioni del
linguaggio immaginative, che pure provocano sentire e sono forma del conoscere
(e il conoscere è l’evoluzione di quelle soluzioni alla necessità di
sopravvivenza per cui tutte le forme viventi hanno un “ethos” comportamento e
il comportamento è già un linguaggio)
tutto questo fa pensare alla specificità di questo vivente tra i viventi che si
è certo arrogato la pretesa di dominare il mondo, come Prospero nella Tempesta
di Shakespeare, ma che lo ha fatto anche grazie a questa che non c’è dubbio sia
una capacità eccezionale di cui parla Galluccio: saper ricostruire e narrare
una storia di milioni di anni, possedere il linguaggio e il pensiero astratto.
Il precipizio e il volo infinito del primate-sapiens stanno in questo “salto”
come lo ricostruisce Silvia Ferrara ne
“Il salto. Segni, figure, parole: viaggio all'origine dell'immaginazione” . In
fondo l’antropocene inizia in quel salto, in quel vuoto superato.
sabato 15 luglio 2023
GILDA POLICASTRO, "LA DISTINZIONE" (Forse è il male di vivere? Chiedi a Google)
Personalmente credo che sempre sia una poesia dell’io, per quanto certo anche un Io che decide di abolirsi oppure, meno radicalmente, di farsi mezzo d’eco che viene attraversato da un ça parle collettivo, resta nei dettagli come Dio.
Lo penso anche per questa nuova raccolta di Gilda Policastro, dove “ il più lurido di tutti i pronomi” (Gadda) ci aspetta addirittura sulla soglia, ovviamente per negarsi in copertina a dire che “io, forse, non sono nemmeno qui ad ascoltare”.
“La distinzione” pubblicato da Giulio Perrone Editore, è il quarto libro di poesie di Gilda Policastro, che viene dopo un suo importante saggio (“Ultima poesia”. Scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo novecento ad oggi”, Mimesis, 2021) e mi pare di poter dire che c’è una mutazione anche nello stile di Policastro, in cui forse il soggetto si rende invisibile facendosi ascolto, accentuando l’accoglienza di una pluralità di voci, del reale, in cui non c’è più distinzione tra la voce del poeta e le altre voci.
Il titolo della raccolta
cita esplicitamente quello del famoso libro del 1963 del sociologo Pierre Bordieu,
che analizzava le distinzioni di gusto tra le vare classi sociali. Policastro
in qualche modo ne ribalta il senso: non c’è più una specificità, un patrimonio
culturale che distingua innanzitutto il poeta dal resto della società
(opposizione romantica sopravvissuta anche nelle avanguardie) né, più in
generale, tra chi legge libri e chi no, essendo il gusto medio ormai dilagante,
pervasivo, ma essendoci anche contaminazioni e trasversalità sociali, tanto che
nessuna classe è più definibile con una sua cultura e valori.
Il poeta, che non è persona distinta dalle altre, come tutte è immersa in una
nuvola gassosa del linguaggio, LaLangue la chiamava Lacan. Policastro
rende concreto, con un modo diverso di fare poesia narrativa, questo stare immerso, collocando l’io-che-ascolta in alcuni
ambienti (strada, bolle sociali, dispositivi e soprattutto l’universo
medico-farmacologico-ospedaliero).
Con “La distinzione” Policastro porta il testo dentro questa nube o pulviscolo
di segni che è il mondo circostante, reale e storico, di oggi ma nella sua
inattuabilità, con riferimenti in presa diretta, di comunicazioni, frasi, locuzioni,
slogan, luoghi comuni, il ça parle del parlato, il disincanto fonico (parafraso
qui perché siamo agli antipodi, il titolo dell’ultimo libro di Mariangela Gualtieri)
del nostro tempo che abita il mostruoso linguaggio collettivo che
dall’inconscio palustre si è trasferito nei social network. Tutto ciò ha modificato
l’appercezione di una soggettività che non può che riconoscersi nella
disseminazione che mette su carta Policastro, in cui non-è-più-niente. Per
dirlo in una battuta, Policastro porta la tradizione millenaria del trobar
clus lirico, dentro una sorta di trobar cloud.
L’apertura forse proprio per questo è collocata in un testo agli albori
dell’era social, del 2011, nella sezione “Antefatto”, in cui Policastro rimette
in scena con “Precari” un trauma, un dolore, la ferita di una perdita – la
morte della madre – con una forma dialogica e invocativa della poesia in cui
alla madre (è ancora Mater linguae ?) il poeta che-sebbene-dica-io, racconta una condizione di instabilità
economica generale, di volatilità lavorativa (se va bene mi rinnovano il contratto/ ma
devo sorridere carina e ben vestita”, anche se il contratto è da “ricercatrice”; di statuto del poeta (che
può essere anche “un idiota qualunque”
dice ancora in un verso lapidario) che è anche un resoconto amaro dell'essere-stati-gettati(la poeta, noi tutti) nel mondo dalle madri.
La poesia apre il volume e ricollega a toni e forme di libri precedenti, mostrando anche lo
stacco dalla forma della voce di questo libro in cui mi pare di
rintracciare un più marcato pluri-linguismo, se possibile, rispetto agli altri facendosi qui a suo modo forma teatrale.
Sicuramente c'è la continuità - che Policastro adopera anche nei romanzi, Il Farmaco su tutti - del conglomerato allegorico dell’Ospedale e più in generale
dell’universo medico, sintomatico e curativo ( topos che pure attraversa il 900 dalla tisi di Mann
e Kafka alle poesie ospedaliere di Rosselli e Anedda). Anche la medicina ha una
sua letteratura come menzogna, come è noto se il suo testo collaterale è
chiamato “bugiardino”.
Policastro lo interpreta a suo modo, mescolando molta ironia, fino
a punte di amara comicità, racconto in presa diretta di una corsia ospedaliera
e i modi bruschi del trattamento dei corpi internati (si veda un testo come
“Disfagia”) citazioni, modi di dire, già
nella sezione “Sala d’attesa” come un personaggio multiplo che di volta in
volta prende l’open-mic dell’Io e dice dal centro del corpo: ”sono morta
cercando le malattie di cui potevo morire” e in cui anche questo limine che si
riempie di ansie ipocondriache, le uniche visioni del futuro in un tempo di
utopie raggelate e mondo a scadenza (il 2050 in cui tutti moriremo avvelenati).
Essere forse questa fenomenologia del sintomatico in cui Policastro smembra
ogni oggettivazione del soggetto, trasforma la precarietà fragile del corpo in
una tensione viva del tempo, seppur sospeso e incerto, che fa esistere un
noi/voi in questa terra di mezzo: “io sono già morta ma voi non siete più vivi”,
citazione ribaltata della biografia di Philip Dick scritta da Carrére che si
può forse leggere come un segnale di questa incessante Autobiologia
poetica che è “La distinzione”. Forse l’autrice non sarà d’accordo, ma in
questi testi io sento molto più Giudici (e certo Magrelli ipocondriaco nel condomionio del corpo) che Balestrini – sia chiaro: il paragone
serve più come chiave di senso che non come reale trasposizione stilistica.
Non c’è più distinzione tra verso e prosa (o prosa in prosa ) là dove
sopravvive l’andatura versificatoria ha il ritmo largo del narrativo, sebbene
interrotto da subordinate, parentesi, e con l’introduzione della costante del
parlato. Lacerti che immettono sangue vivo, affermazione di una vita generale,
fatta di molte vite che non sono la vita del poeta. Qua e là un
soggetto che parla c’è, anche se dice che “se d’amore si muore/ io vivo d’amore/ per la
morte”.
Il tempo della poesia di Policastro è l’intermedio, lo stare tra il non-più e il
non-ancora di morte-e-vita. Lo straniamento è agito continuamente, non c’è più
bisogno di creare dei dispositivi allegorici di linguaggio, opere d'arte, so called.
Un sotto-esistere che si manifesta continuamente nella vita-sopra. Non è un
caso che si colloca a metà libro nella sezione
dal titolo Intermezzo, una “Suite
depressiva” in nove movimenti, quasi un racconto a sé, in cui la condizione di
percezione distorta che il depresso ha del mondo quel suo dire “io no” poi
diventi una raffigurazione totalizzante che nella sua “preoccupazione totale”
di essere toccato da tuto e tutto non essere di suo interesse (il depresso non
distingue), nel vivere i giorni tra “crisi
di pianto al mattino” e “ansia la sera” compone un puzzle di rispecchiamento
inevitabile in cui il mondo del depresso legge il nostro mondo come ridicolo: “ti
fa difetto la volontà/ dove gli altri spingono” ma quel non-fare mette alla
berlina che tutto quello spingere è un vuoto ancor più depressivo, volendo.
il tempo intermedio dell’universo salute/malattia/cura che emerge da “La
distinzione” è fatto di attese o non-tempi ( Attesa della diagnosi, fatale).
L’attesa è però una forma di vigilanza, una non-speranza, dubbio sulla cura, che
diventa una forma diversa di quello che Heidegger chiamava “essere per la morte”,
che cui interessa più come un frattempo – sale d’attesa, ambienti del pronto soccorso – in cui gli
umani tutti stanno in una condizione di “promiscuità” vera livella di fratellanza
inevitabile.
Si veda il bel testo “Un nome che può essere Salim” in cui Policastro avvia
proprio quella versificazione polifonica, fino all’ingresso del romanesco – un
pasticcio dal sapore letterario-gaddiano, inevitabilmente che assume valenza
universale come lingua concentrazionaria (ma col “tu democratico” usato dal personale
sanitario con i pazienti)
Così l’ospedale è luogo separato, ortus
conclusus ma contenitore globale di umanità, allegoria per interpretare il
mondo e a sua volta mondo. Uno “spazio che ci contiene/ insieme al tempo che
non passa” e dove c’è sempre un simil-Io
della prima persona ( “scrollo le poesie del poeta operaio”) ma che ascolta,
trascrive, si fa interprete di una social catena di umani nel
“girotondo” del pretrattamento di ricovero “Siamo in quattro, guardiamo un po’
in aria/ un po’ ci sorridiamo”.
Singoli sparuti “fermi in questo spazio che ci contiene “ tra non comunicazione
e boatos della langue-social. Al somalo “che non ha capito /che deve togliersi
la giacca// glielo mimo pensando al cianciare brutto/ di ogni Facebook sui
cosiddetti #migranti”.
Come si vede l’immersività nella lingua della poesia di ciò che poesia non è
(ma come si fa a distinguere, appunto?) viene continuamente agita da Policastro,
introiettata e fatta introiettare dal testo, la langue è anche il cianciare, è la fabbrica
dei cosiddetti, è proliferazione di hashtag. Su tutto sta, come grande produttore di
significati pret-a-porter, l’Impero-Google che è la
vera macchina verbigerante di conoscenze.
Policastro lo usa, dichiarato, con un curioso impasto di meta-letterarietà: da un lato (vedi la poesia “Gerd”, acronimo inglese per il
disturbo del reflusso) ancora una volta l’io, attraversato (come se ingoiasse)
da molte voci, è alle prese con un sintomo e usa il motore di ricerca per sapere tutto dei
sintomi possibili di quel male, dalla cura alla diagnosi online.
Dall'altro c'è il richiamo al googolism è
una delle pratiche poetiche del contemporaneo, soprattuto in ambito anglosassone, analizzate da Gilda Policastro come critico (ma
citato più volte anche ne “La distinzione”) che si basa proprio su una sorta di
scrittura automatica ma non di tipo psicologico, bensì algoritmico, fornita dai vari tipi di software interrogati (e ora dal
Chat Gtp, dall’Intelligenza Artificiale, a cui Policastro, che già anticipava
con intelligenza un tema ora diventato quasi-chiacchiera, e a cui dedica diverse poesie nella sezione
“Dispositivi”).
Siamo sempre dentro il corto circuito del Pharmakon la parola greca che significa “veleno” ma anche “medicinale” e che Platone usò per definire
metaforicamente la Scrittura (il filosofo Derrida dedica uno dei suoi più importanti libri a questa non-origine della scrittura come farmaco). Tuttavia, nel tempo di esaurimento delle grandi narrazioni, della critica, delle poetiche, ci resta una possibilità sconfinata di fare poesie plurali senza più poter distinguere cosa è poesia. Policastro pratica
una sua poesia ultimativa che riprende – di tutte le ascendenze
dichiarate del 900 - la lezione di Sanguinetiche la incardinò in un verso-sentenza: “Oggi il
mio stile è non avere stile”.
Tuttavia Policastro non si ferma al negativo. Il territorio dove si colloca la poesia de "La distinzione" è al tempo stesso
radicalmente originale e radicalmente creative common.
E’ nuovo là dove pratica anche
tecniche e filosofie di composizione sperimentali, attingendo direi
meritoriamente anche ai linguaggi artistici extra letterari (la Stessa Gilda Policastro
guarda ad una delle artiste più importanti degli ultimi decenni, Jenny Holzer,
artista concettuale americana che iniziò alla fine degli ni 70 e poi divenne
celebre a metà degli anni ‘90 con un’opera “Truism” progetto iniziale ma
reso interattivo per il Web e che poi Holzer
ha trasformato, utilizzando frasi che oscillano dal verso poetico alla sentenziosità,
toccando il luogo comune o spesso alterandolo impercettibilmente, sempre
collocando parole e frasi in genere su supporti digitali luminosi, collocati in
uno spazio pubblico).
Allo stesso “La distinzione” si immerge
nel common sense con l’accumulazione
di sintagmi discorsivi con la tecnica che
la stessa Policastro ha illustrato nei suoi studi, diffusa in area
anglosassone, chiamata “eaves-dropping”
un lasciar cadere le frasi come foglie,
su un testo, aprendo continuamente degli slittamenti di senso, delle
variazioni, innesti, cortocircuiti. Foglie che cadono a creare un “cloud” o un
più novecentesco “collage”. L’accumulazione genera la assonanza/dissonanza di
cui sempre la poesia si nutre, la sua polisemanticità. Così la poesia è il rielaborazione
di un collettivo spoken word.
Gilda Policastro ascolta e non dice (ma poi ovviamente
scrive). Non vuole porre in dichtung, in funzione fàtica un Io, ma lascia accumulare su pagina ciò che il modo (si) dice, annotazioni che come sempre – ah l’Io che
ritorna – non saranno mai casuali e finiscono poi per avere un suo implicito (conscio/inconscio)
montaggio del discorso. A quel punto non c’è nessuna distinzione tra l’io del
poeta e il noi che leggiamo, sulla pagina col paradosso che si ribalta: l’io
passivamente ascolta proprio noi, il noi-collettivo che invece afferma, parla,
sproloquia. Frasi che come nella sezione Inattualissime galleggiano nello spazio bianco: “Sono molto
preso male, introspettivo” “sembra vecchio perché cià un sacco di peli
ovunque” - frasi captate e alienate, che
stanno in una loro risonanza, come le frasi della cassiera al microfono: “uno
storno alla cassa quattro” pronunciata nel tempio del consumo con un “riverbero
robotico” e il “lieve scazzo della divinità lontana” e che assumono forma di
ieratica comicità, come un ermetismo dell’assurdo quotidiano (“E’ morto Giulio
Giorello, lo incontravo ogni tanto al bancomat”). A me ricorda in qualche modo
Arbasino e immagino le poesie di Policastro lette da Franca Valeri.
Quella di Policastro “La distinzione” (ma anche in altri esempi dei libri
passati) resta però, scremata l’ironia, una poesia umanissima e dolorosa, se pur all’opposto
del confessional e dell’intimismo, attraversata da un sentimento ironico
e lieve della fragilità.
Disseminando le proliferazioni di voci specialmente attorno al tema del corpo,
del sintomo, della malattia (fantasmatica o reale) Policastro percorre strade
diverse e ultime per rifiutare ogni stile, qui forse anche quello della
tradizione dell’avanguardia, perché per quanto “novo” ogni stile è già maniera
nel momento della sua riconoscibilità. Utilizzando i topos del dolore, della
malattia, della morte, Policastro tenta di percorrere la necessità di
affrontare il sentimento del dolore sfuggendo alla sua falsificazione retorica.
L’antidoto alla falsità del sentire è sia denunciarla ironicamente (la
poesia “Blurb” è un concentrato di
sarcasmo verso l’editoria, ma tuttala sezione “Libri (anche poesie) l’ironia
spazia anche verso gli slam o la
Facebook poetry) sia sfuggirla. La via
di Policastro è un iperrealismo che dissezione il discorso pubblico, mettendo
in modo originale non l’io ma ciò che è corpo-dell’io come un test rivelatore
di quell’accumulo di parole, restituito con eguale accumulo di dettagli di
realtà, cruda, diretta, spesso dichiaratamente e ironicamente a-poetica (“nessuno
ha mai detto stipsi in una poesia”).
Policastro mette in mostra pezzi di vita sfuggendo al rischio di autofiction con l’opposto
dell’io: un noi collettivo, un affollamento delle voci cosicché la poesia
risulta “parlata” da una situazione. Sono dunque “le voci degli altri” che parlano in poesia e semmai Policastro sta
– e ci pone, ci ritrae tutti - nella
posizione dell’agente della DDR che ascoltava le vite degli altri
nell’omonimo film. Ma nessuno può dire: la mia, la nostra vita: ognuno se ne sta,
sospeso e in attesa, come detto da tutti, fatto di parole non nostre, spossessato
anche della sua propria solitudine.
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