domenica 30 luglio 2023

KIEFER E WENDERS. La luce della storia non illumina, è il fuoco dalle vite (e dell'arte) che bruciano


 Mi è capitato per caso di andare a vedere una mostra all’Hangar Bicocca, mostra del tutto trascurabile (Gian Maria Tosatti, con lastre di ruggine e oro troppo aderenti a topos pittorici già visti e lontani dal risultato notevole del Padiglione Italia alla Biennale Venezia).
Per compensare la delusione, sono passato per la centomillesima volta a vedere le Torri di Anselm Kiefer nell'ala permanente dell'Hangar.
Da lì a due ore avrei visto poi l’anteprima all'Anteo di Milano del film di Wim Wenders, “Anselm”.
L’opera di Kiefer ti riconcilia con il mondo dell’arte, sottoposto al predominio del mercato. Kiefer, sicuramente uno dei più grandi – per me il più grande - di questo scorcio di epoca a cavallo di secolo XX e XXI, oppone una sua personale resistenza da dentro quel sistema. Kiefer è certamente uno degli artisti più pagati e ricchi, al momento, ma le sue opere non vanno alle fiere d’arte.
Durante una lezione agli studenti dell’Academia di Brera a Milano (racconta in un volumetto “Kiefer” edito da Rosenberg & Sellier) l’artista tedesco invita gli studenti a “imparare a attendere” e coltivare ricordi e indagare la stratificazione. L’esempio è lo stesso Kiefer, se pur – al contrario di un ventenne di oggi – carico fino allo sfinimento di memoria.
Wenders nato come Kiefer nel 1945, aveva da molti anni incontrato l’arte del suo fratello di rovine, Kiefer e i due si erano detti di fare un progetto assieme già forse più di vent’anni fa.
L’occasione è arrivata solo adesso, il risultato è un’immersione non solo storica, ma anche empatica e tecnica (l’uso del 3D come per l’altro film biopic, “Pina”) nell’opera di un artista che a sua volta fa della matericità, dello sfondamento del piatto della tela – che è più un ammasso di materiali e colori che non un “dipinto” - uno dei suoi tratti caratteristici.
Wenders lo segue, lo riprende, lo ascolta, ne rievoca con materiali d’archivio e con sprazzi di invenzione, la vita. Ma lo fa con un tocco di densità biografica, di fratellanza che dà ancora più valore a un film molto bello, di un maestro del cinema che ritrae un grande artista dell’epoca contemporanea: nelle parti di ricostruzione, infatti i Kiefer bambino è Anton Wenders, nipote del regista e nei panni del giovane Kiefer c’è il corpo del figlio di Anselm.
"Anselm" è una biografia di come la storia incida sulla biografica. E’ un viaggio sospeso tra passato e presente, Storia e Mito, Kiefer recuperato negli archivi e che scava nei suoi stessi archivi degli immensi atelier che contengono la sua opera tra Francia ( l’atelier-museo di Barjac nel sud della Francia è davvero grandioso e solo il cinema poteva restituirne la documentazione adeguata) e la nativa Germania.
Come depositi dove si accumulano le macerie stesse della storia, gli atelier di Kiefer ripresi da Wenders diventano caverne vulcaniche di creazione, dei veri e propri set, e qui la grandezza delle opere di Kiefer trova nell’occhio cinematografico un valido sostegno allo sguardo semplicemente umano di noi che possiamo aggirarci magari nel Palazzo Ducale o al Grand Palais di Parigi per la sua bellissima mostra su Paul Celan.
Wenders placca l’artista da vicino, ci porta dietro il suo braccio, dietro i suoi occhiali, di fianco a lui quando legge Celan.
Wenders ha la capacità di far sentire la "voce di dentro" di Kiefer.
Il regista si ricollega al suo proprio racconto storio, quello del passaggio della Germania con il “cielo diviso” verso la fine della Storia, e sopra la Berlino del 1987 che aboliva il Muro grazie al volo trasparente dei suoi intellettuali-angeli, eterei ma con i cappottoni pesanti, che empatizzavano con l’umanità ferità della metropoli della fine storia, preannunciava quel che sarebbe successo da lì a due anni attorno a quel cielo e attorno a quel muro.
Wenders va indietro, con Kiefer, al 1945, quando i muri erano tutti crollati sotto le bombe alleate, e attorno a loro due, Wim e Anselm bambini, in quegli anni la “distruzione” di cui parlerà Sebald in un celebre libro.
C’era solo macerie e tanto silenzio colpevole. Entrambi si portano nel cuore quella “stanza vuota “ dell’infanzia (Wim filma Anselm nella sua cameretta, insieme a al nipote di Wenders che gli legge poesie).
Cresceranno, giovani ventenni e utopisti, con Kiefer già talentoso artista al liceo, attorno ai primi anni ’60 con la Germania in ripresa, ma ancora chiusa nel silenzio.
E sono negli anni in cui Paul Celan andrà a chiedere a Martin Heidegger nel suo rifugio nella Selva Nera una parola sul perché abbia aderito al nazismo. Heidegger, così fondamentale come filosofo per Celan, quella parola non la dirà mai, lasciando nello sconforto Celan.
Kiefer non fa che indagare questo peso di cenere, distruzione, colpe e silenzi, ferite e illuminazioni, guardando al percorso di Paul Celan come uno spirito guida. Continuamene riannesso a quel passato nero, Kiefer ne interpreta il carico di violenza e metamorfosi necessaria, così da poter liberarsi di quel passato, rinunciando anche al futuro che è stato.
“Noi siamo futuro, quando possiamo rinunciare ad esso” ha detto Kiefer citando il giovane Hegel, perché il suo futuro come quello di Wenders è stato quello di essere figli del nazismo, per Kiefer lo fu alla lettera (il padre di Anselm fu un soldato nazista, e da giovane l'artista alle prima opere performative, scandalizzò la Germania – fino a passare per filo nazista – perché citava proprio quel passato su cui era calato il silenzio.
Di quel passato che è divenuto futuro, Kiefer continua a fare arte, connettendo il nostro presente a quel passato, consapevole che porta sempre su di sé ferita di memoria o dolore dell’oblio, papavero e memoria, per citare la più nota poesia di Celan. E come il poeta ebreo e tedesco di lingua, ma non tedesco come il tedesco, Kiefer usa la vita per comporre la sua arte consapevole che la luce della vita non illumina se non quando brucia.
Il territorio bruciato di una memoria viva e preziosa frammista all’oro, ci dice come fa l’arte a sopravvivere alla sue rovine e mantenersi arte. E’ un arte a rilascio lento, ancora pone domande a quel 1945 e in questo Kiefer non poteva trovare migliore fratello alleato di Wenders. Come se l’interrogazione di Kiefer non approdasse mai alla pace, sempre attendendola, da quei gironi di pace mortale del ’45.
Kiefer attende, alza torri, sono muri che allungano le ombre sul terreno marcito e fangoso a conservare la fiamma gelata che ci ammala da bambini. In questo Kiefer parla moltissimo a noi boomer, a chi come noi è impastato di 900 fino al midollo.
Noi che siamo stati cresciuti nella speranza di quel nascere negli anni ’60, tra oblio e visione della Luna come orizzonte, la speranza di non vedere più “quel “ passato, magari dimenticandolo nell’euforia del consumo capitalista, oggi che vediamo più vicina la morte, ci troviamo nell’Europa del risorgere dei fascismi 2.0.
E di fronte a questo, proprio Noi per primi -di dice Kiefer - saremo futuro solo quando potremo rinunciare ad esserlo, da figli di un passato che non passa.

giovedì 27 luglio 2023

Le previsioni del clima sono l'utopia negativa del 900. "Everybody talks about weather", Venezia Fondazione Prada

 



C’è una bella mostra da vedere se capitate a Venezia, alla Fondazione Prada (aperta fino al 24 novembre) ed è ““Everybody Talks About the Weather”, negli spazi del palazzo storico di Ca’ Corner della Regina.
Più di inquanta opere di artisti contemporanei con un’idea già sperimentata da FP di una sorata di mostra-documentaria, in cui l’arte intreccia i suoi percorsi con la scienza (del resto biologia, fisica, neurologia  e in questo caso climatologia, sembrano essere il background dell’estetica, scalzando la tradizionale filosofia ) seppure c’è un collegamento con l’arte del passato che proponeva gli effetti del clima sul mondo, pur dividendosi tra una suggestione romantico-progressista (Turner) e più direttamente sublime di fronte allo spettacolo catastrofico degli eventi naturali (Friederich).

 
Una decina di questi quadri sono riproposti in copie esatte dall'artista Pieter Vermeersch ed è utile poterle rileggerli in chiave “climatica”, là dove un tempo potevano esaltare una dimensione di sfida dell’uomo alla natura. Quella sfida fu vinta, l’uomo ha piegato la natura ai suoi interessi, piegandola e alterandola, senza capire – per eccesso di filosofia rispetto alla scienza – che quella vittoria era esattamente il suo contrario, una sconfitto, per altro mortale.

 
Oggi di fronte alla catastrofe la bellezza sposa una consapevolezza diversa – così  ai quadri su associano grafici di metadati dedicati molte crisi climatiche , con didascalie e abbinati alle opere d’arte. E’ la forza estetica del sapere scientifico e in qualche modo è “sublime” anche lo sgomento non di fronte alla potenza della Natura ma lla strapotenza distruttiva dell’Andros, di fronte alla fine del mondo naturale per opera dell’era dell’Antropocene, arrivata  ai suoi ultimi giorni, specie se la calcoliamo come alcuni come iniziata con l’epoca dell’Agricoltura tra i 20 e i 10 mila anni fa verso la fine del Paleolitico,

Curata da Dieder Roelstraete , la mostra alle opere in mostra si affianca un ampio apparato informativo, la proposta di una bibliografia – anch’essa esposta fisicamente con 500 volumi cartacei consultabili – col fine di proporre una ricerca che esplori i rapporti tra tempo meteorologico e arte visiva. “tutti parlano del tempo”, delle condizioni atmosferiche: da chiacchiera disimpegnativa, si è trasformata in incubo che nell’immediato del prossimo 30 anni potrebbe essere il contrappasso della caduta delle Utopie del 900, in un azzeramento di futuro che collassa nel buco nero dell’irreversibile catastrofe ambientale globale. Tra “tempo meteorologico” e “clima” c’è una differenza, ma in qualche modo la mostra propone di considerarli appaiati, perché per entrambi c’è una qualche forma di pensiero del futuro. Tutti parlano del tempo, anche un pensiero democratico – o intrattenimento.

Proprio il titolo richiama questa polarità tra il pensiero messianico dell’utopia marxista e l’appiattimento sulla chiacchiera del tempo in ascensore – Nel 1968, in Germania la Lega degli studenti socialisti tedeschi diffuse un manifesto con le facce di Marx, Engels e Lenin, con uno slogan: “Tutti parlano del tempo. Noi no”. Il messaggio era : mentre altri partiti politici erano impegnati in futili chiacchiere “sul tempo” –  ovvero  quisquilie – la pensava al lavoro, al salario, al futuro della città socialista. Tutto giusto, ma pure una cecità (  Amitav Ghosh  La grande cecità , 2016) che non ha visto come la difesa del lavoro diventava anche la difesa di un sistema industriale inquinante- Da questo punto di vista la mostra ha un impianto che – con alcune ottime opere e altre più deboli o scontate – di sicuro offre un’immersione nella questione più radicale che la nostra epoca ci sta ponendo e a cui assistiamo con un misto di abitudine intorpidita e paralisi, con molti materiali e approfondimenti scientifici sviluppati in collaborazione con il New Institute Centre For Environmental Humanities (NICHE) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Un po’ come quando guadiamo le “previsioni del tempo”, ultimo scampolo di un’umanità che non sa pensare al futuro se non nell’arco delle 24 ore, fidando che tutto sia prevedibile. Certo fino a pochi anni fa era ancora la quisquilia vezzosa del cittadino felice consumista. Oggi non più (non sappiamo però quanto le produzioni Prada siano sostenibili e se questa mostra sia un green washing, nel caso certamente offre materiale di riflessione proprio per mettere in discussione anche il lavaggio verde di istituzioni e società del capitale globale come Prada)

 


Siamo accolti all’inizio da uno schermo che proietta tutte insieme i vari weather channel mondiali, tipologia usata da vari artisti anche in questa mostra, tra cui le finte previsioni meteo di Tiffany Sia di Hong Kong, che testimonia come questo brusio di fondo, mantra di un’ansia divinatoria per sapere che tempo che fa, è un'ansia globalizzata, in un mondo che – con la metà della popolazione residente in area urbana – ormai ha sempre meno a che fare con il clima per sapere destini della sua giornata.



Altre opere significative: Un video del gruppo indiano Raqs Media Collective con “Deep Breath” un film di 25 minuti in cui alcuni sub si immergono nel Mar Egeo alla ricerca di un’iscrizione sui pericoli dell’Oblio. Si tratta di una finzione iscritta su un naufragio reale (da cui furono estratti molti manufatti e opere d’arte ,tra cui “la macchina di Anticitera” ovvero un calcolatore analogico, il più antico mai ritrovato. Nel film il collettivo indiano invece immagina si vada alla cerca di un’iscrizione sull’ “oblio dell’aria”, che in realtà è un titolo di un libro di Luce Irigaray dedicato a Heidegger (The Forgetting of Air) ma l’idea è davvero suggestiva. Forse perché avevo appena finito di leggere “il passeggero” di McCarthy, col suo immergersi in una vastità onirica dell’anima così come del pianeta, forse perché siamo usciti non da molto dal pericolo dell’aria con “il fiato del covid”, forse perché la corsa fino all’ultimo respiro per fare in tempo a d evitare la catastrofe forse perché l’autorità toglie il respiro in modo mortale  (I can’t Breathe, diceva George Floyd steso a terra prima di morire) ma mi è sembrata un’idea semplice e bella, specie per degli artisti indiano che vivono a New Delhi, dove la qualità dell’aria è pessima. Cos’ ci dimentichiamo dell’aria, mentre respiriamo, il respiro come il cuore è una delle poche attività neuro-muscolari che va in automatico, ma ce ne ricordiamo, come adesso quando stiamo per rimanere senza.

Una serie di foto e citazioni di Beate Geisler e Oliver Sann che da 25 anni lavorano proprio a promuovere la riflessione sull’Antropocene. L’opera consiste in un contrappunto tra 37 citazioni tratte da libri di Science Fiction del passato 900 in cui  incredibilmente si profetizzava con precisione (anno compreso)  lo scenario attuale: basti il solo esempio del romanzo di Richard Fleischer, I sopravvissuti del 1973 in cui si legge “Nel 2022 la sovrappopolazione, l’inquinamento  e un’evidente catastrofe climatica hanno causato una penuria di cibo acqua e alloggi in tutto il mondo”. A questa carrellata di testi si uniscono foto di piante con strane propaggini tecnologiche, quasi una cyborg-nature, dissimulata tra la bellezza degli arbusti, mescolati a i fiori e foglie

I “Rain Studies” di jitish Kallat, che con un’idea semplice crea opere suggestive, stendendo un pigmento su fogli bianchi e poi lasciandoli esposti alle piogge monsoniche della sua città, Mumbai, capaci poi di ricreare una sorta di volta celeste con vaghe stelle

Hitali Singh Soin, indiana figlia di esploratori e naturalisti, ha ideato la mostra approdando la prima volta alle isole Svalbard, unica persona di pelle scura, ha realizzato come si potesse connettere il dato coloniale e di genere alla cultura della natura e dell’esplorazione. Da qui nasce “we are opposite like that” in cui riflette con una serie di disegni d’epoca e citazione come la cultura maschile bianca occidentale, protagonista delle prime esplorazioni diffuse nell’800 e collegate all’espansione coloniale avessero però creato un clima di terrore della natura, connesso certo al clima di mistero dell’epoca vittoria, le minacce della vita moderna, la prima letteratura fantastica o “gialla”, lo spiritismo, la passione per i fantasmi, da cui l’idea che  la natura stessa fosse foriera di catastrofe avesse un natura di minaccia fantasmatica e di ignoto (in fondo qualcosa che si ritrova anche in Leopardi con la Natura Matrigna, non a caso donna -tra l’altro a margine sulla connessione tra esplorazione evoluzionismo e idea della natura c’è il bellissimo libro di Antonella Anedda, ) più o meno come la presenza di una persona “coloured” crea un senso di allarme in un contesto bianco.

Tra altre opere la forse ingenua, ma suggestiva nella sua forza vitale e tutto sommato allegra di “tsunami” del Kenyota Richard  Onyango o Thomas Ruff un fotografo-senza-camera, che lavora sull’ingrandimento di immagini da internet ma stampate e ingrandite ad alta risoluzione – ma che ovvio si disgregano in quadrati pixel perché sono riprese da immagini Jpeg  di bassa qualità – cercando fotografie di catastrofi o eventi estremi del clima, con un effetto straniante di questo “googlism” in cui la presenza massiccia di immagini a disposizione finisce per renderci “ciechi” di fronte alla natura – e Ruff in qualche modo ce le sbatte in faccia in formato gigante, come una tempesta che spira non dal paradiso, ma dal futuro, indietro al baratro in cui non possiamo più dominare né il tempo storico, né il tempo naturale.

E proprio dal passato invece soffia il vento che porta le nuvole ritratte in “Plume” foto di Inigo Manglano-Ovalle , uno degli artisti concettuali che con video,  foto e scultura dai primi anni 90 lavora sulle intersezioni di sistemi culturali, come il modernismo, con la politica, la scienza e la natura. Da molti anni si interessa alle nuvole che qui però hanno la forma di funghi atomici  (anche il climatologo di “Tasmania” di Paolo Giordano, si interessava alle nuvole - altro libro che dialogherebbe benissimo con questa mostra). Questa serie è stata fotografata  in questa forma, in un luogo chiamato  “Trinity” nel deserto della Jornada del Muerto a 50 km da Socorro, nel New Mexico. E’ il posto in cui fu fatta la prima  esplosione nucleare,  16 luglio 1945, tre settimane prima di quella fatale a Hiroshima e poi Nagasaki. E come il libro di Giordano si conclude proprio in Giappone, riconnettendo il senso di un destino in pericolo dei cambiamenti climatici con il pericolo della bomba atomica, anche Manglano-Ovalle lo fa.
Basti pensare che Il nome in codice "Trinity" era  stato assegnato da J. Robert Oppenheimer , il direttore del Los Alamos Laboratory , ispirato alla poesia di John Donne,. E Oppenheimer era lo scienziato che lavorava con il padre immaginario di Bobby Western, il protagonista – di nuovo -  de “il passeggero” di McCarthy.
Se Manglano-Ovalle vorrebbe richiamare il passato nucleare come storia di una catastrofe possibile – certo ancora possibile – dal futuro altre Plume si riconnettono alla loro esattezza semiotica, sono forme estreme di fenomeni climatici che ci avvertono di un’altra “bomba” naturale, pronta ad esplodere sebben lentamente, ma da qui a 30 anni, che rispetto a tutta la storia dell’Antropocene, potrebbe essere una sorta di Apocalpise now, dell’adesso, del oggi o al massimo, domani.
Direi che come argomenti impliciti di una banale conversazione in ascensore  sul tempo ce ne sono abbastanza.

mercoledì 26 luglio 2023

La scienza affaccia la poesia sull'abisso: su "Camera sul vuoto" di Bruno Galluccio

 


Il libro di Bruno Galluccio “Camera sul vuoto” riprende il percorso dal debutto sorprendente di “Verticali” del 2009 e proseguito nel secondo “La misura dello zero” sempre per Einaudi, libri in cui, in modo assolutamente originale, Galluccio crea un impianto poetico considera nell’orizzonte del suo sguardo anche ciò che come matematico e fiso egli vede della realtà, un reale che in qualche modo potrebbe anche negare, mette in scacco la nostra tradizionale fenomenologia umanistica su cui è costruita la tradizone della poesia occidentale, avanguardie comprese.

Galluccio scrive al confine tra questa tradizione e il sapere scientifico, in particolare l’esattezza sconcertante dell’indeterminato a cui matematica e fisica ci costringono, un paradosso tuttavia reale e non astratto, che è la materia di cui è fatta la materia, la materia che siamo.




Galluccio ha esordito con i suoi libri prima dei successi editoriali di Carlo Rovelli, in qualche modo lo ha anticipato,  è un fisico e matematico di formazione come tale ha a lungo lavorato in questo campo, sa bene che solo la formula matematica dà conto compiuto ed esatto della materia, della sua meccanica molecolare, ma le cui conseguenze – frutto di complesse equazioni matematiche – sono impossibili da “tradurre” linguisticamente. Galluccio nei primi due libri è riuscito a trovare una sua sintesi, una sua possibile traduzione.
IN questi ultimi due anni ho letto diversi saggi scientifici: qualche libro sulla quantistica, i libri sui linguaggi delle piante, alcuni saggi di neuroscienziati, alcuni di evoluzionisti, studi su come possa essersi formata la facoltà del linguaggio e dell’astrazione nell’unica specie vivente capace di farlo. Oggi la nuova frontiera etica ed estetica, di rispecchiamento vortiginoso sarebbe l’Intelligenza Artificiale.
Tutto questo sapere ha rimesso in discussione in me l’impianto ontologico su cui, nel bene o nel male, mi ero formato, nella tradizione lirica come nella ricerca, Montale come Zanzotto, si è basata la poesia, e l’impianto era proprio quella soggettività, su cui ci si affanna nelle polemiche letterarie pro e contro “l’Io lirico”. La soggettività ( o una sorta di ontologia per quanto vuota)  a me sembra sia sempre in atto nel linguaggio, il poeta anche solo raccogliendolo lo chiude in un testo, il testo è una materia che – letta – alla fine ritorna a un Io, a una soggettività.

Ecco il sapere della poesia è dentro questa materialità del testo, ma anche dentro uno psichismo di ricezione che gli attribuisce un senso. Per quanto leggendo De Saussure, Freud e Lacan o Wittgenstein, Deleuze o chi volete,  siano stati i giganti che ci hanno costretto a vedere nel linguaggio una realtà oggettiva e fuori dalla nostra portata, una convenzione che articola e poi modifica il senso della nostra vita, mi è bastato affacciarmi da neofita sul mondo come lo sta studiando la scienza, su come lo possiamo riconsiderare attraverso ola meccanica quantistica, la biologia evolutiva, la paleontropologia,   che si sono scardinate in me le convinzioni acquisiti, per quanto io abbia cercato di aggiornarle, di arricchirle – è proprio un altro campionato e un altro sport. Ha messo da parte, in me,  come mera convenzione ogni impianto filosofico di tipo psicologico-fenomenologico-ontologico, aprendo però vastità di sapere, conseguenze di riformulazione del senso stesso di scrivere poesia. Fino al punto che mi fa immaginare dei radicalismi necessari che tendono – come già successo non a caso a inizio 900 con le arti, a mettere proprio da parte la parola come nell’arte fu messa da parte la figura, la rappresentazione. Tuttavia, come umani, il linguaggio ci è necessario, ma bisogna prendere atto delle conseguenze immaginative che il sapere scientifico apre dentro di noi.

Questa lunga digressione mi è sembrata necessaria per aprire il discorso su “Camera sul vuoto” di Galluccio, perché mi sembra che questo libro, rispetto alla tenuta metaforica dei precedenti, sembra accumulare poesia dopo poesia, la consapevolezza che neppure quella fuzione tra poetico e scientifico serve, può essere una inesattezza.
Galluccio in queto nuovo libro segue i passaggi di una riflessione precisa, lo fa mutando la sua scrittura precedente verso – mi si perdoni il paragone – la forma di un poema naturalista settecentesco, quasi sottraendosi agli stilemi della lirica, non confondendosi con nessun illusione ottica di poesia, lirica, sperimentale o di ricerca, riducendo la concessione al tasso figurativo, facendosi più asciutto e seguendo più un filo di ragionamento sugli orizzonti di coscienza che apre il sapere della fisica e della matematica.

La portata di rivoluzione di parametri del reale che queste scienze consegnano all’umanità è così profonda che incide nel paradigma conscio/inconscio nella metaforizzazione, così come ce lo consegna la consuetudine; lo stesso  per l’idea di tempo e di spazio, l’idea di noi stessi, nella definizione di che-cosa-è- questo mondo che si dispiega attorno a noi. Fa vedere in una ottica diversa – e forse li cancella - gli strumenti tradizionali di ciò che si è data -  nella stratificazione anche novecentesca – come una sintesi di ciò che è la percezione per un poeta, che è basata sul solo linguaggio. Qui la scienza potrebbe far sebrare tutto obsoleto.  

Per questo credo che Galluccio con  “Camera sul vuoto”  abbia scelto d sottrarsi più possibile al “poetico” per portare al massimo livello in poesia ciò che si apre come nuovo orizzonte di conoscenza.

Naturalmente, il linguaggio essendo la convenzione con cui si giocano le esistenze   degli umani, fa si che la poesia continui a giocare questo gioco di nessun valore, con cui cerchiamo sempre un fodamento invisibile un non-fondamento, un vuoto che si tiene su di sé, senza più alcuna dialettica ontologica. Carlo Rovelli nel suo “Helgoland” affronta questo tema e trova un sostegno alla vertigine di vuoto che apre la quantistica, nel filosofo indiano del secondo secolo Nagarjuna che elabora i l concetto del sunyata.

Galluccio, con i presupposti che ho spiegato sopra, riparte dal concetto del vuoto, sempre nel tentativo di portare il linguaggio poetico a poter, se non altro, far concepire quel vuoto che non è il niente, ma il campo di tenzione della materia di espansione di trasformazione e  dove non c’è assoluto e nucleo, fondamento del reale. E lì forse non ci possono essere più nemmeno metafore.

L’importanza di questo libro sta nel fatto che Galluccio mostra le possibilità del “pensiero” anche nel ritirarsi del “poetante” a cui tendiamo a riferirci, da Leopardi a Celan, lavorando sulla materia retorica della poesia, facendo prevalere la concettualità delle scienze, che esse stesse sono vertiginose, un-heimlich,  perturbanti, sono esse lo  scarto dalla norma che si è sempre cercato nell’infra-ordinario del Linguaggio.

E’ come se Galluccio alludesse, facendo ancora versi certo, al fatto che il nucleo della questione oggi non sta più nel linguaggio, che sono utili per un’archeologia del nostro sapere ma non è più lo strumento con cui – tra poesia e filosofica – possiamo basare le nostre conoscenze. Per questo Galluccio porta all’estremo il suo esperimento poetico, proprio disidratando di figuralità metaforiche.
Entriamo nelle varie sezioni del libro.

1.

 “un punto che non ha una posizione
 un inizio che non è un inizio
 perché non esisteva un prima”

Questo è l’incipit di “Camera sul vuoto” – senza il maiuscolo, come in tutto il libro e senza punteggiatura, scelta compensata da un versificare metrico libero ma con molti residui di misura, ma soprattutto da una sintassi chiara, seppur con concetti vertiginosi, una sorta di assertività , l’ "adserere" verbo latino, ma senza la particella “ad” solo il darsi del  “sérere” (altro verbo latino per “intrecciare” e figurativamente “discorrere” “asserire”).

Non si afferma, è la materia che è data noi siamo parte della materia che cerchiamo di conoscere impossibile ogni discorso soggettività/oggettività –
 Galluccio prova un estremo tentativo di trascrizione linguistica per mostrare come la treccia – per riprendere il latino serere -  sia da considerare  già “trecciata” dal nostro stesso osservarla essendo noi stessi la treccia, l’intrecciamento accade per i nostri sguardi, diremmo poeticamente.
non ci sono certamente – in questo galluccio è l’erede ultimo di Lucrezio - entità (né la divina, né l’umana dell’osservatore o del soggetto dicente) che possano creare o porsi fuori dall’intrecciamento.

I fenomeni, ci dice la fisica quantistica, sono azioni di una parte del mondo naturale su un’altra parte, non c’è punto di vista, né gerarchia e non ha più senso negare un “io” come si affanna  a fare l’antilirica, tanto quanto non ne ha affermarlo, perché partire, in teoria (ma il linguaggio è una memoria evolutiva e poi storica difficile da scardinare), da un vocabolario in cui è inesistente o tolta la stessa parola, “soggetto”. Dovremmo, come suggerisce Wittgenstein, evitare “le domande mal poste”. Tuttavia, noi continuiamo nell’ “azzardo di creare spazio e tempo” nel flusso di un testo, là dove la fisica li ha rivoluzionati, abolendo di fatto il secondo, nel concetto di espansione della materia.

La mente non c’entra, tutto è interazione di questa materia. Si parte da una  parete verticale senza appigli. Qui mi pare – nel punto di incontro di un grande poeta e di un fisico – sia la preziosa occasione che ci consente l’opera di Bruno Galluccio, di ribaltare il tavolo di tutte le nostre chiacchiere 900 e postmoderne.

Il libro è composto da nove “sezioni” (mi chiedo se per un matematico come Galluccio abbia senso la numerologia, per i poeti sì, e nove è numero dantesco). Nella prima Galluccio dismette ogni premessa, la riduce , di fronte all’ “universo” che “potrebbe essere nato dal nulla” o da un “disequilibrio fluttuante di u instante”. Ogni presupposto è in realtà misero esercizio balbettante : “siamo ancora qui a formulare congetture”.

Tuttavia la poesia si attesta su queste congetture, a volte cerca un0imamgine per simbolizzarla oppure costruisce una forma di linguaggio come se possa darsi in esso una fenomenologia alternativa, ma alal fine non può più permettersi fraintendimenti letterari se ambisce al sapere.
penso ad alcune scritture, la mia stessa, a tutto l’universo diversamente “lirico-assertivo” per usare la formula di classificazione dell’opera di Laura Pugno,  oppure diverse, quella di autori che apprezzo, come Mazzoni, Policastro o Bortolotti per citare quelle più si collocano fuori dai canoni ricorrenti della letteratura poetica – ebbene, Galluccio ci porta in dote la scienza e ci affaccia sull’abisso. Non è il linguaggio il piano del gioco del sapere.

Siamo tuttavia umani che usano il linguaggio.  per chi prende la parola –  nonostante i suoi limiti di capacità di conoscenza, rispetto ad algoritmi equazioni ecc. – proprio questo dire in parole è l'unico modo che si dà per una misura scambievole (tra chi ha le competenze e chi no) di ciò che siamo, piccolissimi e speciali, unici, nel formulare un linguaggio di astrazione (qui entrerebbero in campo anche le ipotesi della paleontologia e delle neuroscienze, vedi ad esempio Tattersall e  Damasio)  e  se abbiamo potuto concepire  “la misura dello zero” per riprendere un titolo precedente di Galluccio.

Si innesta qui il ruolo del linguaggio, Galluccio è – mentre scrive – poeta, non sta traducendo formule matematiche, anche se ce ne dà il concetto e anche suo è l’azzardo, nella necessità di utilizzare la materia di tropi esistenti, per cui  in una poesia scrivendo di questo “ammasso di particelle” che fu il non-inizio dell’universo, le cui “tracce” “noi possiamo cogliere “ lo definisce con una metafora tutto sommato semplice, come “bambino”.
Ecco, l’azzardo è qui per me: da una dimensione di sapere vertiginoso, approdare a una metafora  semplice e umana, inevitabile, perché alla fine il ruolo che ha la poesia è permettere un’interazione di significati. Ma non c’è bisogno di sperimentare con il linguaggio, l’approdo alla conoscenza è sulle rote scientifiche. Il resto – il linguaggio – lo usiamo per una traduzione e tutto sommato possiamo anche essere convenzionali. Così, in un altro passaggio, Galluccio scrive che nell’universo ci sono “semi” delle “future galassie”, anche qui metafora semplice.

A fronte di questo ricorrere a tropismi di comunità, sta il sapere invece vertiginoso e inafferrabile, a cui le asserzioni di Galluccio di questa prima sezione rimandano che partendo da matematica strumento base della meccanica quantistica e i principi della relatività portano alla “sfida ulteriore” che “insidia le certezze/ pone alee nel corpo della conoscenza”. È una poesia che oscilla sempre tra la composizione di un “essere-al-mondo” umano e l’indicazione di una verità ulteriore che non risiede affatto nella storia della cultura così come l’abbiamo conosciuta fino ad ora.

2.

Se la poesia è sta sempre uno scarto linguistico dalla norma, Galluccio porta la poesia a interrogarsi come il sapere  della scienza del 900 di cui forse solo ora comprendiamo meglio la radicalità, sia esso stesso il nuovo scarto che dà scacco a quello che filosofi e poeti hanno cercato dentro il linguaggio anche il più rivoluzionario e poetico.
La scienza ci conferma che si fluttua in un ‘alea, ci restituisce incertezze impensate. La poesia di Galluccio prova una sua meccanica di probabilità: nella combinazione di linguaggio comune e conclusioni che scardinato i fondamentali, si attiva un rinnovamento di combinazioni che formino nei meccanismi della mente un altro scenario.
In fondo, proprio alla vigilia del Novecento, nel 1897 Mallarmé scriveva “Un coup de dés jamais n’abolira le hasard” che sembra essere l’avvertimento che ci danno gli scienziati (e Galluccio tra i poeti): poggiamo sul vuoto, sulla vacuità, il numero che esce a dadi fermi è una condensazione di probabilità impreviste che accadono senza legge fissa, né certezze che accada, benché accadano.

La stessa grammatica, col suo procedere logico e per come è formata rivela un percorso evolutivo che incide poi sulla prefigurazione di un principio che in realtà non c’è, ma  “la mente umana tende a uniformare il molteplice/ forse per un bisogno estetico” scrive Galluccio col suo andamento di poesia in un certo senso leopardiano. Là dove il conte Giacomo alla fine dei suoi giorni, nella Napoli in cui è nato e vive Galluccio,  vedeva la implacabile dissoluzione evolutiva della storia, che rende cenere ciò che era gloria, Galluccio è come se sostituisse il pulviscolo dei quanti a destabilizzare anche quel patto linguistico che abbiamo fatto come “social catena” di resistere ( oggi la scienza lo ha ribattezzato oltretutto come il distruttivo Antropocene).

 La pluralità indeterminabile deve diventare il nostro scenario concettuale. È il riflesso di “grandi mutamenti di scenario” – scrive Galluccio sempre in questa prima sezione introducendo “il formarsi di particelle elementari” e di “ammassi di  galassie”.  
in questa innegabile immensità, alla conoscenza tuttavia la duplice condizione di alea e al tempo stesso di una certa implicita forza di questa specie vivente singolare  che è il Sapiens: “noi siamo riusciti a ricostruire questa storia/nell’arco di pochi millenni” rispetto ai miliardi di anni della materia e le centinaia di milioni di anni della formazione della vita sul pianeta terra. Vivente tra i viventi, la singolarità di questa evoluzione è pari alla magnificenza di quella dell’universo. [1]

3.

L’azzardo, il salto, lo strappo del velo: le teorie cercando di “eludere” l’ostacolo che impedisce di vedere l’inizio-che-non- c’è, è “un limite prima del quale non ci è consentito spiare” , ma la conoscenza sviluppata anche con quella espansione dei sensi molto criticata che è la Techné (pensiamo a tutte le obiezioni umanistiche di Heidegger) noi cogliamo
“la radiazione cosmica di fondo quel mare di fotoni
originati quando l’universo era giovane e rovente”

scrive Galluccio, utilizzando sempre le sue comparazioni naturali e semplici per teorie niente affatto semplici.

Si può far fatica a sopravvivere a pensare
in questo capogiro di numeri e galassie

Così Galluccio che sembra comprendere come lo choc di conoscenze che oggi la scienza dà genera in noi una paralisi:

potremmo aver voglia di regredire in uno stato fetale
in cui non sapere più nulla né cercare
ma l’evoluzione ha intrapreso la via
di incoraggiare questa continua ansia di scoprire.

Quel che c’è da dire, lo dico così come è. Il poeta arriva alla rastremazione assoluta del suo linguaggio che procede tuttavia pensante. Solo che è il pensiero della vertigine del vuoto.

Lo stesso “vuoto” che compare come lemma sulla copertina bianca del libro di galluccio, innesca in noi rimandi a sintagmi culturali, ma quel vuoto in realtà (ed è la realtà reale oserei dire oltre la realtà che vediamo) è materia in espansione che “crea spazio e tempo aggiuntivo”. La materia crea il suo spaziotempo. Galluccio, a fronte di un sapere che si presta ad essere una rivoluzione concettuale epocale per l’umano  di cui non abbiamo ancora idea, dopo un secolo di scoperte.
Erede di  Lucrezio con suo De Rerum Natura, Galluccio affida ai versi la possibilità di invitare a disimparare ciò che sappiamo, per lasciare spazio vuoto alla conoscenza del nuovo.

La “Sezione 2” riconnette la storia alla struttura percettiva: “le colonne di Atene vanno/ ad allinearsi  nella nostra mente”. Sono “ostie della carne” “profondamente calate nella storia” a fronte di queste coordinate fenomenologiche sta un sapere che sembra mettere in scacco tutto.

L’aleatorietà in cui ci getta il precipizio delle particelle che collassano “alla nostra osservazione” e misurazione – una delle teorie più affascianti e sfuggenti della quantistica, l’entanglement  - “non è decadimento o perdita/ ma il passaggio da una nuvola di possibili”. Ci dovrebbe essere quasi consolazione, come una beatitudine di apertura verso “infiniti futuri” che possono nascere da questa condizione che Galluccio riporta continuamente a misura di un quotidiano.

I “segnali” sorprendenti che arrivano dall’universo “come le voci umane che giungono da una camera adiacente” sono un ascolto che “richiede tutto l’impossibile” di chi deve assumere la relativa posizione con immediati risvolti di disinnesco ontologico : “ciascuno va avanti ancora per poco/ e sa che non potrà conoscere risposte/ ai quesiti che lascerà in sospeso”.

Sempre in quello smottamento, nel bradisismo della grammatica che rivela il suo esser cava di fronte all’insensatezza di “soggetto-oggetto” a cui ci ha abituato la filosofia millenaria (“le regole grammaticali distrutte nell’incendio/ lo sforzo mentale e il disordine ridotto in polvere”) fanno delle poesie di Galluccio una sorta di sconvolgimento allucinatorio reso con il rigore del ragionare da scienziato, sebbene il risultato possa ovviamente farci sentire in una dimensione che – per fare un paragone – ci può dare la terza serie di Twin Peaks in cui l’eterno ci guarda dormire sognando di osservare la tv in cui una storia sfida ogni possibile soluzione.

“lascio il mio giardino verso l’origine del mio giardino
niente fiori ma solo nome dei fiori
nessuna passeggiata ma solo l’intenzione”

 Sapere è stare e non stare,  in una “pre-forza che sovrasta il progetto” e dunque ci rivela che non c’è nessun progetto e nessun architetto. Come possiamo vivere così? Se è dentro un esperimento (quello della “doppia fenditura” che fa apparire la luce sia come corpuscolo se osservata tramite la rilevazione sullo schermo , sia ondulatoria se registrato il suo movimento di passaggio delle fenditure dello stesso schermo) ci spiazza e dilania nell’indeterminato tra più opzioni. Concepito questo, venuti a conoscenza di questo,  Galluccio avverte: poi “bisognerà ricominciare/ con i gesti rallentati della sera”.
E’ verso questo quotidiano che vira poi “Camera sul vuoto”,  come vedremo.

Nella poesia di Galluccio, insomma - provo a dirlo forzando naturalmente, trattandosi di temi cruciali in questo passaggio d'epoca - non è più il piano del linguaggio a rappresentare in qualche modo una mimesi di una forma di sguardo, di esistenza in vita e psichica, ma è proprio in una poesia che tenga presente le teorie scientifiche, il contenuto stesso di quel sapere che esercita la sorpresa,  lo scarto. Resta però il valore della torsione del linguaggio che opera Galluccio per contenere in esso quel sapere, a generare una grammatica di scarto in una  diversa forma di sperimentazione con la materia delle parole (con la sua astrazione neuronale, il linguaggio e il suo "salto " speciale nel corso dell'evoluzione merita un capitolo a parte, qui lo lasciamo sullo sfondo).

Venendo all'accenno al quotidiano della vita di tutti, c
ome si diceva, il libro via via che procede verso le sezioni finali  sembra tornare più il primo livello di realtà,  “l’ambiente” col suo “stato di abbandono” coi suoi “messaggi terrestri” graffiato sui muri. E’ l’ordinario il ciò che appare allo sguardo. Al suo opposto, la vertigine dello “sviluppo del vuoto/ visto dalla camera chiara” perché l’ottica fisica delle nostre esistenze cerca “la dimensione dell’universo che manca” ma ancora una volta il vuoto è ciò che viene creato dalla nostra espansione di conoscenza che ci permette di superare la nostra “dimensione insondata del non sentire”.

 E’ come se improvvisamente verso la fine,  l’esistenza assediasse questa camera sul vuoto, riportasse a paure, cattiverie, schiacciasse il soggetto fino alla cancellazione (“non  resta niente di me”) una “traccia oscura”, un passaggio di spettro confinante tra ombra e invisibile,  che “ha negato il giusto posto alla parola”, chiuso in una corazza, “l’angustia delle cose” del mondo, il “freddo disperatamente vero” della realtà, fatta di insufficienze, mancati arrivi, mancata luce delle parole, lo stesso cielo è “il lato oscuro di un  soffitto” su cui pesa il carico  dei “secoli”.

 Spira improvvisamente un vento di pesanteur  senza grazia dei giorni: “resta sempre meno da dire” scrive Galluccio, in una delle tanti notazioni in apparenza tra malinconia e pessimismo, ma a questo punto non siamo più nell'ordine della psicologia o della fenomenologia esistenziale, nella filosofia.

Chi sta, che lo si chiami "io" o  una particella, il cosmo, sta nella materia e nel tempo che non esiste come spiega da un secolo la quantistica,  il suo stare è la metamorfosi, in una espansione infinita. 
Sia presa come reliquia filosofica, questo termine, pesanteur:  pesa il “paesaggio angusto” di quella che resta la vita umana nella storia, su cui incombono i “morti” che “sanno molte cose di noi che non ammettiamo” e improvvisamente la visione del libro sembra una sentenza di condanna allo scacco, nella dimensione di camere come piantate nella terra, nel profondo di un Ade del quotidiano: “Si ignora gran parte dell’universo da questa prospettiva/gli occhi non usano andare in cielo/ inutili adesso le stesse le galassie”: come se tutto quel che è stato fato crollasse in questo qui ed ora dove “è imbrogliata la nostra sopravvivenza”.

La scena del testo si affolla di  parole come “carenza” e “demoni” come se il poeta parlasse da una posizione sprofondata per una “sconosciuta forza gravitazionale”.
Come se qui sapere scientifico e dettato (sottratta ogni possibile metafora) coincidessero a rendere la poesia uno spettro, la possibilità stessa della poesia una delle tante minime entità, nessuna speciale di fronte al cosmo :

“ e d’altra parte sappiamo
che è la massa oscura a tenere assieme l’universo
e l’energia oscura che lo porta a disperdersi”. 


Lo scacco certo è tra l’immensità del campo da esplorare e la forza del singolo che conosce. Ma pure l’esistenza  ci fa vivere lutti, dolori, scomparse: “io sono testimone della mia mancanza” e della “mancanza del mondo” e mentre “il morente/ ha lasciato le sue note minuziose” queste minime pratiche sulla soglia tra la vita e la morte - sebbene i sapere a cui si attinge non ragioni più in termine di vita e morte, tutto è materia in trasformazione.
Anche per questo il peso: si spalanca un vuoto denso, cupo, in cui “la materia ritorna materia” in una sorta di lotta che si svolge tra il corpo, l'omeostasi dei viventi con le nostre emozioni,  chi è sul “letto della morte” e dall'altro il corpo di chi è “accanto” e che sente la precarietà e il desiderio di uscire da quella gabbia di esistenza che è il nostro granello di polvere evolutivo.

Alla fine, quel tempo “solenne” dell’evoluzione del cosmo studiata in teorie precipita nella semplicità del “momento” , l'estremo a cui nonostante la scienza non si sfugge: la morte. E' proprio questo il punto drammatico:  la morte noi la ereditiamo dai nostri morti, ci siamo nati, siamo stati formati in quella dialettica di confine.
Se la coscienza il sapere, la scienza ci prono a nuovi parametri, quell'eredità rimane. Parafrasando un titolo del libro di Anselm Kiefer che pure ha dialogato con questi temi, tra evoluzionismo e Celan, la morte sopravviverà alle sue rovine e così fa la poesia che cerca da sempre di affrontarne il limite.

 Accade questo, almeno in questa fase d'era antropocenica, poi chissà: la conoscenza ci sta aiutando a pensare diversamente, ad abbandonare i vecchi saperi anche quelli più nobili, ci  aiuta a capire come si possa dire che non muore mai la nostra materia (quel famigerato "nulla si distrugge se nulla si è creato,")  ma la morte resta nelle nostre mani come ci è stata consegnata da chi non c'è più, come un mistero. 
Resta  ciò che era, resta il senso del sacro, e un senso del tragico: così la morte appare a Galluccio “un agguato fin dal primo respiro”.  
È dunque leopardianamente, in questo scacco da sempre che è l’esser nati, nella morte e nella solitudine del morte,  che si consuma la sfida tra scienza e senso del destino dentro la nostra psiche, la cameretta del poeta, la camera sul vuoto, la cella da dove noi tutti siamo e nasciamo, affacciati sull’abisso.

 

NOTE DI ANALISI ULTERIORE

Aggiungo qui materiali di analisi, più dettagliata di alcuni testi,  per chi voglia approfondire 

In un testo come “hospice” passano come fantasmi i degenti “emergono dalle pareti uomini senza dolore” anche essi in una dimensione senza tempo e spazio di “geometrie disinfettate”. Ecco che come osservando l’ignoto dell’universo, quelle presenze ci affidano “notizie sul proprio freddo” i “i proprio frammenti della memoria/ affinché non vadano perduti” e questo contatto cerca proprio nell’indefinibile della conoscenza della fisica un proprio correlativo concettuale più che oggettivo o linguistico : così di fronte a questi segnali dall’ ospizio “rimaniamo in uno stato imprecisato/ come nella nuvola quantistica/ dove un evento può essere vero e non vero/ nel medesimo istante presente/ o nel medesimo futuro”. 

La psicologia cerca alternative a sé stessa, chiamando in causa proprio l’alea di tempi e spazi inesistenti, le “nuvole dei possibili “ che si aprono dentro la psiche in cui abitano le “storie impossibili”- ora, rispetto all’immaginazione, ma non negandola anzi utilizzandola, sono gli stessi esperimenti di fisica che rivelano l’impensato:  “i campi di forze di cui è  disseminato il mondo/ influenzano il tuo cammino” dice Galluccio fisico a Galluccio poeta.

Le “scomposizioni spettrali” sono in lotta con la ricerca di “teoria unificante”.  Questo però non è solo un problema filosofico-scientifico, apre un capovolgimento, un sovvertimento, un’afasia: “quelli che neutri nel giorno separato parlavano/ e piegavano soffermandosi sui dettagli del mondo/ ora non hanno più fiato per la molteplicità dei quark”.

 Tutto ciò ci getta in una condizione di nuovo Geworfenheit, un essere-gettati “nudi/ come ritornati all’inizio del mondo”. Ricorda la scena di fuga mentale nelle galassie che chiude 2001 odissea nello spazio, un impero della mente inesplorato ma che non è “nella” mente, la mente è parte di questo universo, che ci guarda quanto noi lo guardiamo, che “è” tale perché lo guardiamo, semmai abbia senso dire osservazione, forse è più giusto dire interazione, relazione, la sostanza che la materia tutta è.

 La luce e suoi corpuscoli avanzano ma sono “oltre la nostra limitata comprensione” nonostante la “fatica dei calcoli”. Tutto è cieco, forse la luce stessa oltre che noi, “la cecità avanza sull’asse/perpendicolare al vuoto”. Questa è la condizione esistenziale con cui dobbiamo misurarci, a fronte non di assenza di fondamenti, ma a fronte di una rivoluzione (scientifica) degli stessi (e forse neppure la metafora fondamento ha senso).

Qui Galluccio pare connettere quei frammenti ai “residui dei nostri frammenti desideranti” e in un doppio movimento quasi mistico, se volessimo ragionare con categorie antiquate,  quei frammenti “si arrendono al proprio desiderio/ sono perduti”. Si tratta, chiudendo la “Sezione 3” di fare i conti con la portata di questo vuoto in cui si cade.

Non bastano più le pur ampie possibilità dell’immaginazione (“una borgesiana promessa/ di archivi e di specchi”): l’avventura della conoscenza sperimentale “a via Mezzocannone sedici” (Napoli, l’indirizzo del Università Federico II, dove è iniziata la formazione di fisico del poeta)  aprono forme di conoscenza dalla concettualità vertiginosa. Così “il gabinetto di Faraday” porta insieme “esperimenti di elettrostatica e destino” che non lasciano illesi o cambiano la risoluzione mentale delle immagini dello sperimentatore.

 Siamo sulla frontiera di “pensieri collimati” di un poeta come Paul Celan a cui Galluccio dedica una poesia. L’autore tedesco forzava ogni elemento della lingua nella sua sperimentazione con il tedesco della vittima che si generasse autonomo dalla lingua apparentemente identica dei carnefici e i in cui potessi sopravvivere l’impossibile di chi è stato fatto polvere, dissolto nel nulla dei campi di sterminio,  così come “il laser” scandaglia la materia “per ricomporre l’integrità sulla retina/ i possibili prima che diventino reali”. In questa apertura di irrealtà manifesta, Galluccio conduce il suo percorso in cui poesia e fisica cercano un’alleanza .
Stanno su una frontiera dove combaciano punti, come scrive Galluccio nella poesia successiva (“frontiere”) e sono ”due punti uguali ma irrimediabilmente incompatibili” eppure sono la frontiera.
 E’ la scienza che disinnesca il rischio orfico della lirica, senza però cancellare la sfida dell’inconosciuto perché la scienza nel 900 ha soprattutto imparato rendere parte del proprio processo e delle proprie conclusioni anche l’indeterminato, la probabilità, il non (ancora) conosciuto che va inteso come sondabile.

L’immagine della “sonda” chiude la Sezione 4, come “amo ai limiti dell’universo”, il “satellite” nella sua doppia funzione di trasmettitore dal cosmo e osservatore della nostra condizione terrena. Lo stesso fa lo sguardo di Galluccio che vira verso l’orizzontale di alberi  stazioni, riprende forza la coscienza emozionale (“cerchi di assuefarti al timore dei giorni a venire”) gli ambienti domestici ma il senso delle parole cercato “da un’altezza nuova” si “inceppa” e le regole grammaticali “distrutte nell’incendio” e così il microcosmo personale delle “ore nei letti/ regrediscono alle svolte millenarie” come se il paesaggio onirico mentale del singolo potesse connettersi con la svolta della rivoluzione cognitiva testimoniata da “incisioni rupestri” (che sono molto più di elementari disegni di un’umanità bambina e testimoniano di attività profonde e complesse, testimonianza di un fenomeno enorme che è l’insorgere di una capacità di astrazione sempre maggiore).

 Anche se si è stati “in disparte” ogni singolo uomo ha attraversato la storia, il tempo in una solitudine connessa al “passaggio verso universi paralleli” come quando un transito sul “ponte della tangenziale” coglie nelle incrinature del cemento “salti di qualità verso dimensioni che non sapevi” un “aprire porte all’infinito”. Ecco, possiamo misurare il tempo dell’infinito, partendo dal topos leopardiano del nostro canone, misurando ora la vertigine potremmo dire anche solo al di qua della siepe.

E’ un infra-infinito dell’ordinario, quello che si apre nel microcosmo della materia studiato ad esempio dalla fisica quantistica. Stavolta è la scienza, è “l’esperimento”  che svolge la funzione di innesco dell’immaginazione, la siepe è nel laboratorio. Sono gli stesi scienziati a chiedere alla poesia quasi un esercizio di pensiero laterale che spesso è utile per le scoperte che necessitano di immaginare il non conosciuto, l’aldilà oltre la siepe.



[1] Confesso che sia per le conseguenze della teorie della fisica quantistica sull’aspetto evolutivo di tutta la matria compreso la vivente, sia per le ridefinizioni del percorso evolutivo negli studi ultimi della paleoantropologia (Ian Tattersall e il suo “primate pensante” nonché quel che abbiamo di comune e diverso nella struttura percettivo-neuronale tra specie (vedi Antonio Damasio “Sentire e conoscere”) per cui ad un certo punto diventano “omeostasi” anche le costruzioni del linguaggio immaginative, che pure provocano sentire e sono forma del conoscere (e il conoscere è l’evoluzione di quelle soluzioni alla necessità di sopravvivenza per cui tutte le forme viventi hanno un “ethos” comportamento e il comportamento è già un linguaggio)
tutto questo fa pensare alla specificità di questo vivente tra i viventi che si è certo arrogato la pretesa di dominare il mondo, come Prospero nella Tempesta di Shakespeare, ma che lo ha fatto anche grazie a questa che non c’è dubbio sia una capacità eccezionale di cui parla Galluccio: saper ricostruire e narrare una storia di milioni di anni, possedere il linguaggio e il pensiero astratto. Il precipizio e il volo infinito del primate-sapiens stanno in questo “salto” come lo ricostruisce  Silvia Ferrara ne “Il salto. Segni, figure, parole: viaggio all'origine dell'immaginazione” . In fondo l’antropocene inizia in quel salto, in quel vuoto superato.

 

sabato 15 luglio 2023

GILDA POLICASTRO, "LA DISTINZIONE" (Forse è il male di vivere? Chiedi a Google)

 


Personalmente credo che sempre sia una poesia dell’io, per quanto certo anche un Io che decide di abolirsi oppure, meno radicalmente, di farsi mezzo d’eco che viene attraversato da un ça parle collettivo, resta nei dettagli come Dio.
Lo penso anche per questa nuova raccolta di Gilda Policastro, dove “ il più lurido di tutti i pronomi” (Gadda) ci aspetta addirittura sulla soglia, ovviamente per negarsi in copertina a dire che “io, forse, non sono nemmeno qui ad ascoltare”.  

“La distinzione” pubblicato da Giulio Perrone Editore, è il quarto libro di poesie di Gilda Policastro, che viene dopo un suo importante saggio (“Ultima poesia”. Scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo novecento ad oggi”, Mimesis, 2021) e mi pare di poter dire che c’è una mutazione anche nello stile di Policastro, in cui forse il soggetto si rende invisibile facendosi ascolto, accentuando l’accoglienza di una pluralità di voci, del reale, in cui non c’è più distinzione tra la voce del poeta e le altre voci.


Il titolo della raccolta  cita esplicitamente quello del famoso  libro del 1963 del sociologo Pierre Bordieu, che analizzava le distinzioni di gusto tra le vare classi sociali. Policastro in qualche modo ne ribalta il senso: non c’è più una specificità, un patrimonio culturale che distingua innanzitutto il poeta dal resto della società (opposizione romantica sopravvissuta anche nelle avanguardie) né, più in generale, tra chi legge libri e chi no, essendo il gusto medio ormai dilagante, pervasivo, ma essendoci anche contaminazioni e trasversalità sociali, tanto che nessuna classe è più definibile con una sua cultura e valori.

Il poeta, che non è persona distinta dalle altre, come tutte è immersa in una nuvola gassosa del linguaggio, LaLangue la chiamava Lacan. Policastro rende concreto, con un modo diverso di fare poesia narrativa, questo stare  immerso, collocando l’io-che-ascolta in alcuni ambienti (strada, bolle sociali, dispositivi e soprattutto l’universo medico-farmacologico-ospedaliero).
Con “La distinzione” Policastro porta il testo dentro questa nube o pulviscolo di segni che è il mondo circostante, reale e storico, di oggi ma nella sua inattuabilità, con riferimenti in presa diretta, di comunicazioni, frasi, locuzioni, slogan, luoghi comuni, il ça parle del parlato, il disincanto fonico (parafraso qui perché siamo agli antipodi, il titolo dell’ultimo libro di Mariangela Gualtieri) del nostro tempo che abita il mostruoso linguaggio collettivo che dall’inconscio palustre si è trasferito nei social network. Tutto ciò ha modificato l’appercezione di una soggettività che non può che riconoscersi nella disseminazione che mette su carta Policastro, in cui non-è-più-niente. Per dirlo in una battuta, Policastro porta la tradizione millenaria del trobar clus lirico, dentro una sorta di  trobar cloud.

L’apertura forse proprio per questo è collocata in un testo agli albori dell’era social, del 2011, nella sezione “Antefatto”, in cui Policastro rimette in scena con “Precari” un trauma, un dolore, la ferita di una perdita – la morte della madre – con una forma dialogica e invocativa della poesia in cui alla madre (è ancora Mater linguae ?) il poeta che-sebbene-dica-io,    racconta una condizione di instabilità economica generale, di volatilità lavorativa (se va bene mi rinnovano il contratto/ ma devo sorridere carina e ben vestita”, anche se il contratto è  da “ricercatrice”; di statuto del poeta (che può essere anche “un  idiota qualunque” dice ancora in un verso lapidario) che è anche un resoconto amaro dell'essere-stati-gettati(la poeta, noi tutti) nel mondo dalle madri.
La poesia apre il volume e  ricollega a toni e forme di libri precedenti, mostrando anche lo stacco dalla forma della voce di questo libro in cui mi pare di rintracciare un più marcato pluri-linguismo, se possibile, rispetto agli altri facendosi qui a suo modo forma teatrale.

Sicuramente c'è la continuità - che Policastro adopera anche nei romanzi, Il Farmaco su tutti - del conglomerato allegorico dell’Ospedale e più in generale dell’universo medico, sintomatico e curativo ( topos  che pure attraversa il 900 dalla tisi di Mann e Kafka alle poesie ospedaliere di Rosselli e Anedda). Anche la medicina ha una sua letteratura come menzogna, come è noto se il suo testo collaterale è chiamato “bugiardino”.
Policastro lo interpreta a suo modo,  mescolando molta ironia, fino a punte di amara comicità, racconto in presa diretta di una corsia ospedaliera e i modi bruschi del trattamento dei corpi internati (si veda un testo come “Disfagia”) citazioni, modi di dire,  già nella sezione “Sala d’attesa” come un personaggio multiplo che di volta in volta prende l’open-mic dell’Io e dice dal centro del corpo: ”sono morta cercando le malattie di cui potevo morire” e in cui anche questo limine che si riempie di ansie ipocondriache, le uniche visioni del futuro in un tempo di utopie raggelate e mondo a scadenza (il 2050 in cui tutti moriremo avvelenati).

Essere forse questa fenomenologia del sintomatico in cui Policastro smembra ogni oggettivazione del soggetto,  trasforma la precarietà fragile del corpo in una tensione viva del tempo, seppur sospeso e incerto, che fa esistere un noi/voi in questa terra di mezzo: “io sono già morta ma voi non siete più vivi”, citazione ribaltata della biografia di Philip Dick scritta da Carrére che si può forse leggere come un segnale di questa incessante Autobiologia poetica che è “La distinzione”. Forse l’autrice non sarà d’accordo, ma in questi testi io sento molto più Giudici (e certo Magrelli ipocondriaco nel condomionio del corpo) che Balestrini – sia chiaro: il paragone serve più come chiave di senso che non come reale trasposizione stilistica.

Non c’è più distinzione tra verso e prosa (o prosa in prosa ) là dove sopravvive l’andatura versificatoria ha il ritmo largo del narrativo, sebbene interrotto da subordinate, parentesi, e con l’introduzione della costante del parlato. Lacerti che immettono sangue vivo, affermazione di una vita generale, fatta di molte vite che non sono la vita del poeta. Qua e là un soggetto che parla c’è, anche se dice che  “se d’amore si muore/ io vivo d’amore/ per la morte”. 
Il tempo della poesia di Policastro è l’intermedio, lo stare tra il non-più e il non-ancora di morte-e-vita. Lo straniamento è agito continuamente, non c’è più bisogno di creare dei dispositivi allegorici di linguaggio, opere d'arte, so called.

Un sotto-esistere che si manifesta continuamente nella vita-sopra. Non è un caso che si colloca a metà libro nella  sezione dal titolo Intermezzo,  una “Suite depressiva” in nove movimenti, quasi un racconto a sé, in cui la condizione di percezione distorta che il depresso ha del mondo quel suo dire “io no” poi diventi una raffigurazione totalizzante che nella sua “preoccupazione totale” di essere toccato da tuto e tutto non essere di suo interesse (il depresso non distingue), nel  vivere i giorni tra “crisi di pianto al mattino” e “ansia la sera” compone un puzzle di rispecchiamento inevitabile in cui il mondo del depresso legge il nostro mondo come ridicolo: “ti fa difetto la volontà/ dove gli altri spingono” ma quel non-fare mette alla berlina che tutto quello spingere è un vuoto ancor più depressivo, volendo.
il tempo intermedio dell’universo salute/malattia/cura che emerge da “La distinzione” è fatto di attese o non-tempi ( Attesa della diagnosi, fatale).
L’attesa è però una forma di vigilanza, una non-speranza, dubbio sulla cura, che diventa una forma diversa di quello che Heidegger chiamava “essere per la morte”, che cui interessa più come un frattempo – sale d’attesa,  ambienti del pronto soccorso – in cui gli umani tutti stanno in una condizione di “promiscuità” vera livella di fratellanza inevitabile.
Si veda il bel testo “Un nome che può essere Salim” in cui Policastro avvia proprio quella versificazione polifonica, fino all’ingresso del romanesco – un pasticcio dal sapore letterario-gaddiano, inevitabilmente che assume valenza universale come lingua concentrazionaria (ma col “tu democratico” usato dal personale sanitario con i pazienti)
Così  l’ospedale è luogo separato, ortus conclusus ma contenitore globale di umanità, allegoria per interpretare il mondo e a sua volta mondo. Uno “spazio che ci contiene/ insieme al tempo che non passa”  e dove c’è sempre un simil-Io della prima persona ( “scrollo le poesie del poeta operaio”) ma che ascolta, trascrive, si fa interprete di una social catena di umani nel “girotondo” del pretrattamento di ricovero “Siamo in quattro, guardiamo un po’ in aria/ un po’ ci sorridiamo”.
Singoli sparuti “fermi in questo spazio che ci contiene “ tra non comunicazione e boatos della langue-social. Al somalo “che non ha capito /che deve togliersi la giacca// glielo mimo pensando al cianciare brutto/ di ogni Facebook sui cosiddetti #migranti”.

Come si vede l’immersività nella lingua della poesia di ciò che poesia non è (ma come si fa a distinguere, appunto?) viene continuamente agita da Policastro, introiettata e fatta introiettare dal testo,  la langue è anche il cianciare, è la fabbrica dei cosiddetti, è proliferazione di hashtag.  Su tutto sta, come grande produttore di significati pret-a-porter,  l’Impero-Google che è la vera macchina verbigerante di conoscenze. 
Policastro lo usa, dichiarato,  con un curioso impasto di meta-letterarietà: da un lato (vedi la poesia “Gerd”, acronimo inglese per il disturbo del reflusso) ancora una volta l’io, attraversato (come se ingoiasse) da molte voci, è alle prese con un sintomo e usa il motore di ricerca per sapere tutto dei sintomi possibili di quel male, dalla cura alla diagnosi online.
Dall'altro c'è  il richiamo al  googolism è una delle pratiche poetiche del contemporaneo, soprattuto in ambito anglosassone,  analizzate da Gilda Policastro come critico (ma citato più volte anche ne “La distinzione”) che si basa proprio su una sorta di scrittura automatica ma non di tipo psicologico, bensì algoritmico,  fornita dai vari tipi di software interrogati (e ora dal Chat Gtp, dall’Intelligenza Artificiale, a cui Policastro, che già anticipava con intelligenza un tema ora diventato quasi-chiacchiera,  e a cui dedica diverse poesie nella sezione “Dispositivi”).

Siamo sempre dentro il corto circuito del  Pharmakon la parola greca che significa  “veleno” ma anche  “medicinale” e che Platone usò per definire metaforicamente la Scrittura (il filosofo Derrida dedica uno dei suoi più importanti libri a questa non-origine della scrittura come farmaco). Tuttavia, nel tempo di esaurimento delle grandi narrazioni, della critica, delle poetiche, ci resta una possibilità sconfinata di fare poesie plurali senza più poter distinguere cosa è poesia. Policastro pratica una sua poesia ultimativa che riprende – di tutte le ascendenze dichiarate del 900 - la lezione di Sanguinetiche la incardinò in un verso-sentenza: “Oggi il mio stile è non avere stile”.

Tuttavia Policastro non si ferma al negativo. Il territorio dove si colloca la poesia de "La distinzione è al tempo stesso radicalmente originale e radicalmente creative common.
E’ nuovo là dove pratica anche tecniche e filosofie di composizione sperimentali, attingendo direi meritoriamente anche ai linguaggi artistici extra letterari (la Stessa Gilda Policastro guarda ad una delle artiste più importanti degli ultimi decenni, Jenny Holzer, artista concettuale americana che iniziò alla fine degli ni 70 e poi divenne celebre a metà degli anni ‘90 con un’opera “Truism” progetto iniziale ma reso  interattivo per il Web e che poi Holzer ha trasformato, utilizzando frasi che oscillano dal verso poetico alla sentenziosità, toccando il luogo comune o spesso alterandolo impercettibilmente, sempre collocando parole e frasi in genere su supporti digitali luminosi, collocati in uno spazio pubblico).
 Allo stesso “La distinzione” si immerge nel common sense  con l’accumulazione di sintagmi discorsivi con la tecnica che  la stessa Policastro ha illustrato nei suoi studi, diffusa in area anglosassone, chiamata  “eaves-dropping” un lasciar cadere le frasi come foglie,  su un testo, aprendo continuamente degli slittamenti di senso, delle variazioni, innesti, cortocircuiti. Foglie che cadono a creare un “cloud” o un più novecentesco “collage”. L’accumulazione genera la assonanza/dissonanza di cui sempre la poesia si nutre, la sua polisemanticità. Così la poesia è il rielaborazione di un collettivo spoken word.

Gilda Policastro ascolta e non dice (ma poi ovviamente scrive). Non vuole porre in dichtung, in funzione fàtica un Io,  ma lascia accumulare  su pagina ciò che il modo (si) dice,  annotazioni che come sempre – ah l’Io che ritorna – non saranno mai casuali e finiscono poi per avere un suo implicito (conscio/inconscio) montaggio del discorso. A quel punto non c’è nessuna distinzione tra l’io del poeta e il noi che leggiamo, sulla pagina col paradosso che si ribalta: l’io passivamente ascolta proprio noi, il noi-collettivo che invece afferma, parla, sproloquia. Frasi che come nella sezione Inattualissime  galleggiano nello spazio bianco: “Sono molto preso male, introspettivo” “sembra vecchio perché cià un sacco di peli ovunque” -  frasi captate e alienate, che stanno in una loro risonanza, come le frasi della cassiera al microfono: “uno storno alla cassa quattro” pronunciata nel tempio del consumo con un “riverbero robotico” e il “lieve scazzo della divinità lontana” e che assumono forma di ieratica comicità, come un ermetismo dell’assurdo quotidiano (“E’ morto Giulio Giorello, lo incontravo ogni tanto al bancomat”). A me ricorda in qualche modo Arbasino e immagino le poesie di Policastro lette da Franca Valeri.

Quella di Policastro “La distinzione” (ma anche in altri esempi dei libri passati) resta però, scremata l’ironia,  una poesia umanissima e dolorosa, se pur all’opposto del confessional e dell’intimismo, attraversata da un sentimento ironico e lieve della fragilità.
Disseminando le proliferazioni di voci specialmente attorno al tema del corpo, del sintomo, della malattia (fantasmatica o reale) Policastro percorre strade diverse e ultime per rifiutare ogni stile, qui forse anche quello della tradizione dell’avanguardia, perché per quanto “novo” ogni stile è già maniera nel momento della sua riconoscibilità. Utilizzando i topos del dolore, della malattia, della morte, Policastro tenta di percorrere la necessità di affrontare il sentimento del dolore sfuggendo alla sua falsificazione retorica.

L’antidoto alla falsità del sentire è sia denunciarla ironicamente (la poesia  “Blurb” è un concentrato di sarcasmo verso l’editoria, ma tuttala sezione “Libri (anche poesie) l’ironia spazia anche verso gli slam  o la Facebook poetry)  sia sfuggirla. La via di Policastro è un iperrealismo che dissezione il discorso pubblico, mettendo in modo originale non l’io ma ciò che è corpo-dell’io come un test rivelatore di quell’accumulo di parole, restituito con eguale accumulo di dettagli di realtà, cruda, diretta, spesso dichiaratamente e ironicamente a-poetica (“nessuno ha mai detto stipsi in una poesia”).
Policastro mette in mostra pezzi di vita  sfuggendo al rischio di autofiction con l’opposto dell’io: un noi collettivo, un affollamento delle voci cosicché la poesia risulta “parlata” da una situazione. Sono dunque “le voci degli altri”  che parlano in poesia e semmai Policastro sta – e ci pone, ci ritrae tutti -  nella posizione dell’agente della DDR che ascoltava le vite degli altri nell’omonimo film. Ma nessuno può dire: la mia, la nostra vita: ognuno se ne sta, sospeso e in attesa, come detto da tutti, fatto di parole non nostre, spossessato anche della sua propria solitudine. 

 

 

 

 

 

 

 

 


VOLLMANN E KUNDERA, QUELL' EUROPA CENTRALE CHE ANCORA CI INTERROGA

Qualche sera fa il grandissimo William T. Vollmann ha letto un suo testo a Letterature - Festival internazionale di Roma al Palatino. Si intitola "la memoria del mondo", un testo personale e bello aveva una sua cupezza malinconica adatta a un luogo di memorie e rovine. Mi ha ricordato nell’incedere della scrittura, qualcosa della “voce” dell’ultimo McCarthy. Magari è solo una suggestione comparativa tra due grandi scrittori americani.
Prendevo appunti per scrivere un post su questo intervento di Vollmann ed è arrivata la notizia della morte di Milan Kundera, lo scrittore di cui si è detto moltissimo sui giornali e in rete, il praghese, in fuga dal regime sovietico-cecoslovacco, che si era fatto parigino, anche nella scrittura, con un suo personale francese, e poi s’era fatto da parte, si era eclissato.
Da 40 anni non concedeva interviste, non faceva vita sociale, è sparito, ma facendo meno notizia di più celebri e americani scrittori, come Singer e Pynchon.
I pensieri su Kundera – di cui la mia generazione sentì parlare più grazie a D’Agostino che a Adelphi Edizioni che certo ha il grande merito di pubblicarlo – si si sono intrecciati così con gli appunti su Vollmann e il suo testo su "la memoria del mondo”.
I ricordi rincorsi dallo scrittore americano come monete dei suoi tanti viaggi che cadono dalle tasche, monete fuori corso – ma dal valore affettivo - piccoli ricordi umani dentro tutte le guerre che ha attraversato come cronista.

Anche Kundera era, nella sua scrittura, diversamente testimone, ma originale, di un tempo del totalitarismo novecentesco. Si è ritrovato nei primi anni ’80 (quando decide di sparire) nella post storia in un’epoca della trasparenza, non meno invadente nella vita intima e privata delle persone dei regimi che aveva conosciuto – e da qui la decisione di sparire, rifiutando interviste e ritirandosi nella usa casa di Parigi. E scrivendo appunto in francese.
Poi cade il muro e tutto diventa trasparenza globale (oggi al massimo grado dopo 35 anni).
In quella caduta del Muro le storie di Vollmann (americano di origini tedesche con il padre fuggito dalla guerra negli Usa) e di Kundera si intrecciano. Kundera è già a Parigi dal 1975, Vollmann segue la caduta del muro nel 1989.
L'altra sera, nel testo letto a Letterature ha evocato quel momento così:

“ Ricordo il popolo gioioso e impavido che spazzò via il muro di Berlino. Impresse nella mia memoria ci sono immagini agghiaccianti della Guerra che doveva mettere fine a tutte le guerre, e di tutte quelle che sono venute dopo. Ricordo le voci intente a giurare che avremmo molto presto salvato tutte le immagini semplicemente perché uno di noi le aveva create, avremmo apprezzato tutti i ricordi semplicemente perché erano reali, avremmo celebrato proprio quelle caratteristiche dell’altro che ci risultano più aliene. Ora quelle voci sono soltanto strani mormorii, come grilli in autunno. Non smetterò di provare a ricordarle.”
Parole che ci arrivano da quella Europa centrale attraversata da Vollmann, da Kundera in esilio, dai profughi dell’Ucraina, l’Europa centrale che ancor ci interroga che non smette di farci un continuo “scherzo della storia”, tragico, tuttavia.
Vollmann è autore di “Europe Central” che ci ricorda con i risvolti psichici e torbidi di quelle radici del totalitarismo europeo di cui Kundera scrisse con ironia – ed è anche un giornalista, reporter di new journalism, scrittore del mondo, scrittore di conflitti, povertà, guerre, dittature e altri regimi. Ogni tanto sparisce, ma solo per viaggiare e farsi inghiottire dal reale.
L’ultimo libro pubblicato in Italia da minimum fax è “l’Atlante “ è una composizione che mostra questa sua inquietudine erratica nel mondo.
Kundera è stato invece appartato e nell’ombra . Qualcosa della sua vita da invisibile è nel libro di indagine di Ariane Chemin, “Nome in codice: Elitar I “ (NR editore) In realtà questa sparizione potrebbe essere la quintessenza di una eterna migrazione, un dissolversi nell’assenza, nel pulviscolare della sua scrittura, in cui l’esilio vero è fratello della nostalgia, nel suo caso nostalgia dell’Europa, che oggi – con la sua morte – noi proviamo ancora di più.
Una sparizione che evidenzia (in absentia, ovvio) che uno scrittore – e con lui, forse nessuno – non ha una vera casa. Nel 1981, disse al New York Times che “la casa, in fondo, è un mito”.
Come con la casa, lo scrittore ci ricorda che nessuno possiede veramente un corpo. Il
Corpo nei suoi racconti è sempre in un circolo ridicolo e poetico  di amori e desideri.

Al tempo stesso (e forse per questo Suo essere libero e libertino) , proprio sul corpo pagò la sofferenza della persecuzione.
Del resto sul corpo agiscono e scrivono i regimi (il suo fratello praghese Kafka di “Nella Colonia Penale”  lo aveva avvertito ).
Il regime totalitario ti ricorda ad ogni passo che non possiedi te stesso ( e forse è un bene, se serve per difendersi dal dolore della perdita, dal dolore della nostalgia).
Kundera s’è ritrovato però nella società occidentale al suo declino, un “occidente prigioniero” non quella che mitizzava da giovane imprigionato nei confini cecoslovacchi. E’ l’Europa della “cultura del narcisismo” (1978, Lasch) che è diventata poi esposizione totale “dello sciame” ( Byung-Chul Han ).
Kundera si è tirato fuori dalla nube di puntini che sono i singoli me-stesso (un paradosso per lo scrittore che diceva di volersi proteggere “dall’overdose di me stesso” disse in un ‘intervista) vivendo invisibile nella Francia di Carrere e nell’occidente di Facebook, Instagram e del selfismo: ecco che l’esposizione del privato diventa l’ annullamento del privato, il racconto di sé una presunzione di essere esemplari. Così prevale il bisogno di esperienza di verità , di essere veri, quella del proprio io e del proprio corpo per primi.
In un’intervista con Philip Roth (ah quanto ci mancherà il 900) Kundera riassunse così il suo sentimento verso la democrazia della comunicazione: “La stupidità della gente deriva dall’avere una risposta per tutto. La saggezza del romanzo deriva dall’avere una domanda per tutto”. Dire che sapeva cosa fosse Facebook con decenni di anticipo.
Il pulviscolo dei milioni di occhi in cui ognuno è osservatore e osservato è facile associarlo a un totalitarismo gassoso di tanti piccoli grandi-fratellini. Aveva scritto: ''Di fronte a quell'ineluttabile sconfitta che chiamiamo vita, non ci resta che cerare di comprenderla. In questo risiede la ragion d'essere dell'arte del romanzo. L'Europa nella quale viviamo non cerca più la sua identità' nello specchio della filosofia e delle arti. Ma allora, dove è lo specchio? Dove trovare il nostro volto?''
Che cosa fa il romanzo di fronte a tutto lo sfacelo dei milioni di occhi che si specchiano reciprocamente in loro stessi da uno schermo luminoso? Un romanzo nato nell’epoca del Soggetto e dell’Individuo, come nel 900 cosa può fare?
In un bel post su Kundera, Matteo Marchesini in un passaggio evidenzia come l oscrittore praghese ci ricordi – che “anche il dominio più spietato, e l’io lirico più chiuso in sé, non possono abolire la realtà, cioè l’incontro quotidiano con il caso, con l’imponderabile, con la varietà dell’esistenza. E l’arte del romanzo si riassume appunto nella rappresentazione di questo incontro. La sua forma mobile e aperta nasce dall’“assenza del Giudice supremo”, dalla moderna “saggezza dell’incertezza”.
L’arte del romanzo, deduco io, allora ci mette in questa condizione di ironica incertezza, , anche se la persona "Milan K" si è sottratta all’arte dell’incontro.
Ecco il romanzo come forma di incertezza si pone di fronte a un mondo di miliardi di assertivi.
Ancora su Kundera, un altro tassello viene da Massimo Rizzante, uno scrittore e critico che conosce bene il franco-praghese e che in un articolo su Repubblica ha descritto quella sensazione di fascino spiazzante dei suoi libri che sfuggono da tutte le parti: l’ideale romanzesco di Kundera – scrive Rizzante – è "romanzo come poesia antilirica, roccaforte contro l’oblio e in cui non c’è una parola seria.” E aggiunge ancora Rizzante:
“le story? Che cosa si racconta in questo romanzo? Sembra che l’autore si sia ripromesso di rendere impossibile qualsiasi riassunto. Non è forse questo a cui dovrebbe tendere un vero romanzo della nostra epoca dominata dai mass media?”
Io risponderei: si. Perdersi nel romanzo. Se esso al suo meglio, nei sui esempi massimo come scriveva Moretti, è “opera-mondo”, allora penso che il lettore lo debba abitare come un nomade, un esiliato, un senza casa. Insomma, è così: un romanzo è quel che non puoi riassumere nella trama (come fa il 90% delle recensioni sui giornali). L'arte di Kundera era questo.
William T. Vollmann è un grande romanziere, ha una sua personale forma d'arte del romanzo, secondo me tra i viventi uno dei massimi, ma pratica molto anche la scrittura testimonianza – certo di sé nel mondo, ma sempre con un Sé molto presente nei suoi testi. Non so come sarà questo "Atlante" dia Minimumfax , mi affascina molto la sua struttura, così come la presenta la scheda editoriale, letta così penso possa avere qualcosa da dire anche sull’ "Arte del romanzo" del XXI secolo.
La incollo qui:
“I frammenti e i racconti sono organizzati in una struttura palindroma: il primo testo viene ripreso dall’ultimo, il secondo dal penultimo, e il racconto centrale contiene tutti gli altri, come una silloge ideale. Alcuni testi rappresentano una versione compressa dei libri che Vollmann al momento della pubblicazione aveva già scritto.”
La via più chiara è il labirinto. Se il romanziere crea una “ mappa per capire il mondo” questa mappa deve far perdere il lettore.
Insomma, fargli uno "scherzo", direbbe Kundera, come la vita fa con tutti noi.

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...