mercoledì 26 luglio 2023

La scienza affaccia la poesia sull'abisso: su "Camera sul vuoto" di Bruno Galluccio

 


Il libro di Bruno Galluccio “Camera sul vuoto” riprende il percorso dal debutto sorprendente di “Verticali” del 2009 e proseguito nel secondo “La misura dello zero” sempre per Einaudi, libri in cui, in modo assolutamente originale, Galluccio crea un impianto poetico considera nell’orizzonte del suo sguardo anche ciò che come matematico e fiso egli vede della realtà, un reale che in qualche modo potrebbe anche negare, mette in scacco la nostra tradizionale fenomenologia umanistica su cui è costruita la tradizone della poesia occidentale, avanguardie comprese.

Galluccio scrive al confine tra questa tradizione e il sapere scientifico, in particolare l’esattezza sconcertante dell’indeterminato a cui matematica e fisica ci costringono, un paradosso tuttavia reale e non astratto, che è la materia di cui è fatta la materia, la materia che siamo.




Galluccio ha esordito con i suoi libri prima dei successi editoriali di Carlo Rovelli, in qualche modo lo ha anticipato,  è un fisico e matematico di formazione come tale ha a lungo lavorato in questo campo, sa bene che solo la formula matematica dà conto compiuto ed esatto della materia, della sua meccanica molecolare, ma le cui conseguenze – frutto di complesse equazioni matematiche – sono impossibili da “tradurre” linguisticamente. Galluccio nei primi due libri è riuscito a trovare una sua sintesi, una sua possibile traduzione.
IN questi ultimi due anni ho letto diversi saggi scientifici: qualche libro sulla quantistica, i libri sui linguaggi delle piante, alcuni saggi di neuroscienziati, alcuni di evoluzionisti, studi su come possa essersi formata la facoltà del linguaggio e dell’astrazione nell’unica specie vivente capace di farlo. Oggi la nuova frontiera etica ed estetica, di rispecchiamento vortiginoso sarebbe l’Intelligenza Artificiale.
Tutto questo sapere ha rimesso in discussione in me l’impianto ontologico su cui, nel bene o nel male, mi ero formato, nella tradizione lirica come nella ricerca, Montale come Zanzotto, si è basata la poesia, e l’impianto era proprio quella soggettività, su cui ci si affanna nelle polemiche letterarie pro e contro “l’Io lirico”. La soggettività ( o una sorta di ontologia per quanto vuota)  a me sembra sia sempre in atto nel linguaggio, il poeta anche solo raccogliendolo lo chiude in un testo, il testo è una materia che – letta – alla fine ritorna a un Io, a una soggettività.

Ecco il sapere della poesia è dentro questa materialità del testo, ma anche dentro uno psichismo di ricezione che gli attribuisce un senso. Per quanto leggendo De Saussure, Freud e Lacan o Wittgenstein, Deleuze o chi volete,  siano stati i giganti che ci hanno costretto a vedere nel linguaggio una realtà oggettiva e fuori dalla nostra portata, una convenzione che articola e poi modifica il senso della nostra vita, mi è bastato affacciarmi da neofita sul mondo come lo sta studiando la scienza, su come lo possiamo riconsiderare attraverso ola meccanica quantistica, la biologia evolutiva, la paleontropologia,   che si sono scardinate in me le convinzioni acquisiti, per quanto io abbia cercato di aggiornarle, di arricchirle – è proprio un altro campionato e un altro sport. Ha messo da parte, in me,  come mera convenzione ogni impianto filosofico di tipo psicologico-fenomenologico-ontologico, aprendo però vastità di sapere, conseguenze di riformulazione del senso stesso di scrivere poesia. Fino al punto che mi fa immaginare dei radicalismi necessari che tendono – come già successo non a caso a inizio 900 con le arti, a mettere proprio da parte la parola come nell’arte fu messa da parte la figura, la rappresentazione. Tuttavia, come umani, il linguaggio ci è necessario, ma bisogna prendere atto delle conseguenze immaginative che il sapere scientifico apre dentro di noi.

Questa lunga digressione mi è sembrata necessaria per aprire il discorso su “Camera sul vuoto” di Galluccio, perché mi sembra che questo libro, rispetto alla tenuta metaforica dei precedenti, sembra accumulare poesia dopo poesia, la consapevolezza che neppure quella fuzione tra poetico e scientifico serve, può essere una inesattezza.
Galluccio in queto nuovo libro segue i passaggi di una riflessione precisa, lo fa mutando la sua scrittura precedente verso – mi si perdoni il paragone – la forma di un poema naturalista settecentesco, quasi sottraendosi agli stilemi della lirica, non confondendosi con nessun illusione ottica di poesia, lirica, sperimentale o di ricerca, riducendo la concessione al tasso figurativo, facendosi più asciutto e seguendo più un filo di ragionamento sugli orizzonti di coscienza che apre il sapere della fisica e della matematica.

La portata di rivoluzione di parametri del reale che queste scienze consegnano all’umanità è così profonda che incide nel paradigma conscio/inconscio nella metaforizzazione, così come ce lo consegna la consuetudine; lo stesso  per l’idea di tempo e di spazio, l’idea di noi stessi, nella definizione di che-cosa-è- questo mondo che si dispiega attorno a noi. Fa vedere in una ottica diversa – e forse li cancella - gli strumenti tradizionali di ciò che si è data -  nella stratificazione anche novecentesca – come una sintesi di ciò che è la percezione per un poeta, che è basata sul solo linguaggio. Qui la scienza potrebbe far sebrare tutto obsoleto.  

Per questo credo che Galluccio con  “Camera sul vuoto”  abbia scelto d sottrarsi più possibile al “poetico” per portare al massimo livello in poesia ciò che si apre come nuovo orizzonte di conoscenza.

Naturalmente, il linguaggio essendo la convenzione con cui si giocano le esistenze   degli umani, fa si che la poesia continui a giocare questo gioco di nessun valore, con cui cerchiamo sempre un fodamento invisibile un non-fondamento, un vuoto che si tiene su di sé, senza più alcuna dialettica ontologica. Carlo Rovelli nel suo “Helgoland” affronta questo tema e trova un sostegno alla vertigine di vuoto che apre la quantistica, nel filosofo indiano del secondo secolo Nagarjuna che elabora i l concetto del sunyata.

Galluccio, con i presupposti che ho spiegato sopra, riparte dal concetto del vuoto, sempre nel tentativo di portare il linguaggio poetico a poter, se non altro, far concepire quel vuoto che non è il niente, ma il campo di tenzione della materia di espansione di trasformazione e  dove non c’è assoluto e nucleo, fondamento del reale. E lì forse non ci possono essere più nemmeno metafore.

L’importanza di questo libro sta nel fatto che Galluccio mostra le possibilità del “pensiero” anche nel ritirarsi del “poetante” a cui tendiamo a riferirci, da Leopardi a Celan, lavorando sulla materia retorica della poesia, facendo prevalere la concettualità delle scienze, che esse stesse sono vertiginose, un-heimlich,  perturbanti, sono esse lo  scarto dalla norma che si è sempre cercato nell’infra-ordinario del Linguaggio.

E’ come se Galluccio alludesse, facendo ancora versi certo, al fatto che il nucleo della questione oggi non sta più nel linguaggio, che sono utili per un’archeologia del nostro sapere ma non è più lo strumento con cui – tra poesia e filosofica – possiamo basare le nostre conoscenze. Per questo Galluccio porta all’estremo il suo esperimento poetico, proprio disidratando di figuralità metaforiche.
Entriamo nelle varie sezioni del libro.

1.

 “un punto che non ha una posizione
 un inizio che non è un inizio
 perché non esisteva un prima”

Questo è l’incipit di “Camera sul vuoto” – senza il maiuscolo, come in tutto il libro e senza punteggiatura, scelta compensata da un versificare metrico libero ma con molti residui di misura, ma soprattutto da una sintassi chiara, seppur con concetti vertiginosi, una sorta di assertività , l’ "adserere" verbo latino, ma senza la particella “ad” solo il darsi del  “sérere” (altro verbo latino per “intrecciare” e figurativamente “discorrere” “asserire”).

Non si afferma, è la materia che è data noi siamo parte della materia che cerchiamo di conoscere impossibile ogni discorso soggettività/oggettività –
 Galluccio prova un estremo tentativo di trascrizione linguistica per mostrare come la treccia – per riprendere il latino serere -  sia da considerare  già “trecciata” dal nostro stesso osservarla essendo noi stessi la treccia, l’intrecciamento accade per i nostri sguardi, diremmo poeticamente.
non ci sono certamente – in questo galluccio è l’erede ultimo di Lucrezio - entità (né la divina, né l’umana dell’osservatore o del soggetto dicente) che possano creare o porsi fuori dall’intrecciamento.

I fenomeni, ci dice la fisica quantistica, sono azioni di una parte del mondo naturale su un’altra parte, non c’è punto di vista, né gerarchia e non ha più senso negare un “io” come si affanna  a fare l’antilirica, tanto quanto non ne ha affermarlo, perché partire, in teoria (ma il linguaggio è una memoria evolutiva e poi storica difficile da scardinare), da un vocabolario in cui è inesistente o tolta la stessa parola, “soggetto”. Dovremmo, come suggerisce Wittgenstein, evitare “le domande mal poste”. Tuttavia, noi continuiamo nell’ “azzardo di creare spazio e tempo” nel flusso di un testo, là dove la fisica li ha rivoluzionati, abolendo di fatto il secondo, nel concetto di espansione della materia.

La mente non c’entra, tutto è interazione di questa materia. Si parte da una  parete verticale senza appigli. Qui mi pare – nel punto di incontro di un grande poeta e di un fisico – sia la preziosa occasione che ci consente l’opera di Bruno Galluccio, di ribaltare il tavolo di tutte le nostre chiacchiere 900 e postmoderne.

Il libro è composto da nove “sezioni” (mi chiedo se per un matematico come Galluccio abbia senso la numerologia, per i poeti sì, e nove è numero dantesco). Nella prima Galluccio dismette ogni premessa, la riduce , di fronte all’ “universo” che “potrebbe essere nato dal nulla” o da un “disequilibrio fluttuante di u instante”. Ogni presupposto è in realtà misero esercizio balbettante : “siamo ancora qui a formulare congetture”.

Tuttavia la poesia si attesta su queste congetture, a volte cerca un0imamgine per simbolizzarla oppure costruisce una forma di linguaggio come se possa darsi in esso una fenomenologia alternativa, ma alal fine non può più permettersi fraintendimenti letterari se ambisce al sapere.
penso ad alcune scritture, la mia stessa, a tutto l’universo diversamente “lirico-assertivo” per usare la formula di classificazione dell’opera di Laura Pugno,  oppure diverse, quella di autori che apprezzo, come Mazzoni, Policastro o Bortolotti per citare quelle più si collocano fuori dai canoni ricorrenti della letteratura poetica – ebbene, Galluccio ci porta in dote la scienza e ci affaccia sull’abisso. Non è il linguaggio il piano del gioco del sapere.

Siamo tuttavia umani che usano il linguaggio.  per chi prende la parola –  nonostante i suoi limiti di capacità di conoscenza, rispetto ad algoritmi equazioni ecc. – proprio questo dire in parole è l'unico modo che si dà per una misura scambievole (tra chi ha le competenze e chi no) di ciò che siamo, piccolissimi e speciali, unici, nel formulare un linguaggio di astrazione (qui entrerebbero in campo anche le ipotesi della paleontologia e delle neuroscienze, vedi ad esempio Tattersall e  Damasio)  e  se abbiamo potuto concepire  “la misura dello zero” per riprendere un titolo precedente di Galluccio.

Si innesta qui il ruolo del linguaggio, Galluccio è – mentre scrive – poeta, non sta traducendo formule matematiche, anche se ce ne dà il concetto e anche suo è l’azzardo, nella necessità di utilizzare la materia di tropi esistenti, per cui  in una poesia scrivendo di questo “ammasso di particelle” che fu il non-inizio dell’universo, le cui “tracce” “noi possiamo cogliere “ lo definisce con una metafora tutto sommato semplice, come “bambino”.
Ecco, l’azzardo è qui per me: da una dimensione di sapere vertiginoso, approdare a una metafora  semplice e umana, inevitabile, perché alla fine il ruolo che ha la poesia è permettere un’interazione di significati. Ma non c’è bisogno di sperimentare con il linguaggio, l’approdo alla conoscenza è sulle rote scientifiche. Il resto – il linguaggio – lo usiamo per una traduzione e tutto sommato possiamo anche essere convenzionali. Così, in un altro passaggio, Galluccio scrive che nell’universo ci sono “semi” delle “future galassie”, anche qui metafora semplice.

A fronte di questo ricorrere a tropismi di comunità, sta il sapere invece vertiginoso e inafferrabile, a cui le asserzioni di Galluccio di questa prima sezione rimandano che partendo da matematica strumento base della meccanica quantistica e i principi della relatività portano alla “sfida ulteriore” che “insidia le certezze/ pone alee nel corpo della conoscenza”. È una poesia che oscilla sempre tra la composizione di un “essere-al-mondo” umano e l’indicazione di una verità ulteriore che non risiede affatto nella storia della cultura così come l’abbiamo conosciuta fino ad ora.

2.

Se la poesia è sta sempre uno scarto linguistico dalla norma, Galluccio porta la poesia a interrogarsi come il sapere  della scienza del 900 di cui forse solo ora comprendiamo meglio la radicalità, sia esso stesso il nuovo scarto che dà scacco a quello che filosofi e poeti hanno cercato dentro il linguaggio anche il più rivoluzionario e poetico.
La scienza ci conferma che si fluttua in un ‘alea, ci restituisce incertezze impensate. La poesia di Galluccio prova una sua meccanica di probabilità: nella combinazione di linguaggio comune e conclusioni che scardinato i fondamentali, si attiva un rinnovamento di combinazioni che formino nei meccanismi della mente un altro scenario.
In fondo, proprio alla vigilia del Novecento, nel 1897 Mallarmé scriveva “Un coup de dés jamais n’abolira le hasard” che sembra essere l’avvertimento che ci danno gli scienziati (e Galluccio tra i poeti): poggiamo sul vuoto, sulla vacuità, il numero che esce a dadi fermi è una condensazione di probabilità impreviste che accadono senza legge fissa, né certezze che accada, benché accadano.

La stessa grammatica, col suo procedere logico e per come è formata rivela un percorso evolutivo che incide poi sulla prefigurazione di un principio che in realtà non c’è, ma  “la mente umana tende a uniformare il molteplice/ forse per un bisogno estetico” scrive Galluccio col suo andamento di poesia in un certo senso leopardiano. Là dove il conte Giacomo alla fine dei suoi giorni, nella Napoli in cui è nato e vive Galluccio,  vedeva la implacabile dissoluzione evolutiva della storia, che rende cenere ciò che era gloria, Galluccio è come se sostituisse il pulviscolo dei quanti a destabilizzare anche quel patto linguistico che abbiamo fatto come “social catena” di resistere ( oggi la scienza lo ha ribattezzato oltretutto come il distruttivo Antropocene).

 La pluralità indeterminabile deve diventare il nostro scenario concettuale. È il riflesso di “grandi mutamenti di scenario” – scrive Galluccio sempre in questa prima sezione introducendo “il formarsi di particelle elementari” e di “ammassi di  galassie”.  
in questa innegabile immensità, alla conoscenza tuttavia la duplice condizione di alea e al tempo stesso di una certa implicita forza di questa specie vivente singolare  che è il Sapiens: “noi siamo riusciti a ricostruire questa storia/nell’arco di pochi millenni” rispetto ai miliardi di anni della materia e le centinaia di milioni di anni della formazione della vita sul pianeta terra. Vivente tra i viventi, la singolarità di questa evoluzione è pari alla magnificenza di quella dell’universo. [1]

3.

L’azzardo, il salto, lo strappo del velo: le teorie cercando di “eludere” l’ostacolo che impedisce di vedere l’inizio-che-non- c’è, è “un limite prima del quale non ci è consentito spiare” , ma la conoscenza sviluppata anche con quella espansione dei sensi molto criticata che è la Techné (pensiamo a tutte le obiezioni umanistiche di Heidegger) noi cogliamo
“la radiazione cosmica di fondo quel mare di fotoni
originati quando l’universo era giovane e rovente”

scrive Galluccio, utilizzando sempre le sue comparazioni naturali e semplici per teorie niente affatto semplici.

Si può far fatica a sopravvivere a pensare
in questo capogiro di numeri e galassie

Così Galluccio che sembra comprendere come lo choc di conoscenze che oggi la scienza dà genera in noi una paralisi:

potremmo aver voglia di regredire in uno stato fetale
in cui non sapere più nulla né cercare
ma l’evoluzione ha intrapreso la via
di incoraggiare questa continua ansia di scoprire.

Quel che c’è da dire, lo dico così come è. Il poeta arriva alla rastremazione assoluta del suo linguaggio che procede tuttavia pensante. Solo che è il pensiero della vertigine del vuoto.

Lo stesso “vuoto” che compare come lemma sulla copertina bianca del libro di galluccio, innesca in noi rimandi a sintagmi culturali, ma quel vuoto in realtà (ed è la realtà reale oserei dire oltre la realtà che vediamo) è materia in espansione che “crea spazio e tempo aggiuntivo”. La materia crea il suo spaziotempo. Galluccio, a fronte di un sapere che si presta ad essere una rivoluzione concettuale epocale per l’umano  di cui non abbiamo ancora idea, dopo un secolo di scoperte.
Erede di  Lucrezio con suo De Rerum Natura, Galluccio affida ai versi la possibilità di invitare a disimparare ciò che sappiamo, per lasciare spazio vuoto alla conoscenza del nuovo.

La “Sezione 2” riconnette la storia alla struttura percettiva: “le colonne di Atene vanno/ ad allinearsi  nella nostra mente”. Sono “ostie della carne” “profondamente calate nella storia” a fronte di queste coordinate fenomenologiche sta un sapere che sembra mettere in scacco tutto.

L’aleatorietà in cui ci getta il precipizio delle particelle che collassano “alla nostra osservazione” e misurazione – una delle teorie più affascianti e sfuggenti della quantistica, l’entanglement  - “non è decadimento o perdita/ ma il passaggio da una nuvola di possibili”. Ci dovrebbe essere quasi consolazione, come una beatitudine di apertura verso “infiniti futuri” che possono nascere da questa condizione che Galluccio riporta continuamente a misura di un quotidiano.

I “segnali” sorprendenti che arrivano dall’universo “come le voci umane che giungono da una camera adiacente” sono un ascolto che “richiede tutto l’impossibile” di chi deve assumere la relativa posizione con immediati risvolti di disinnesco ontologico : “ciascuno va avanti ancora per poco/ e sa che non potrà conoscere risposte/ ai quesiti che lascerà in sospeso”.

Sempre in quello smottamento, nel bradisismo della grammatica che rivela il suo esser cava di fronte all’insensatezza di “soggetto-oggetto” a cui ci ha abituato la filosofia millenaria (“le regole grammaticali distrutte nell’incendio/ lo sforzo mentale e il disordine ridotto in polvere”) fanno delle poesie di Galluccio una sorta di sconvolgimento allucinatorio reso con il rigore del ragionare da scienziato, sebbene il risultato possa ovviamente farci sentire in una dimensione che – per fare un paragone – ci può dare la terza serie di Twin Peaks in cui l’eterno ci guarda dormire sognando di osservare la tv in cui una storia sfida ogni possibile soluzione.

“lascio il mio giardino verso l’origine del mio giardino
niente fiori ma solo nome dei fiori
nessuna passeggiata ma solo l’intenzione”

 Sapere è stare e non stare,  in una “pre-forza che sovrasta il progetto” e dunque ci rivela che non c’è nessun progetto e nessun architetto. Come possiamo vivere così? Se è dentro un esperimento (quello della “doppia fenditura” che fa apparire la luce sia come corpuscolo se osservata tramite la rilevazione sullo schermo , sia ondulatoria se registrato il suo movimento di passaggio delle fenditure dello stesso schermo) ci spiazza e dilania nell’indeterminato tra più opzioni. Concepito questo, venuti a conoscenza di questo,  Galluccio avverte: poi “bisognerà ricominciare/ con i gesti rallentati della sera”.
E’ verso questo quotidiano che vira poi “Camera sul vuoto”,  come vedremo.

Nella poesia di Galluccio, insomma - provo a dirlo forzando naturalmente, trattandosi di temi cruciali in questo passaggio d'epoca - non è più il piano del linguaggio a rappresentare in qualche modo una mimesi di una forma di sguardo, di esistenza in vita e psichica, ma è proprio in una poesia che tenga presente le teorie scientifiche, il contenuto stesso di quel sapere che esercita la sorpresa,  lo scarto. Resta però il valore della torsione del linguaggio che opera Galluccio per contenere in esso quel sapere, a generare una grammatica di scarto in una  diversa forma di sperimentazione con la materia delle parole (con la sua astrazione neuronale, il linguaggio e il suo "salto " speciale nel corso dell'evoluzione merita un capitolo a parte, qui lo lasciamo sullo sfondo).

Venendo all'accenno al quotidiano della vita di tutti, c
ome si diceva, il libro via via che procede verso le sezioni finali  sembra tornare più il primo livello di realtà,  “l’ambiente” col suo “stato di abbandono” coi suoi “messaggi terrestri” graffiato sui muri. E’ l’ordinario il ciò che appare allo sguardo. Al suo opposto, la vertigine dello “sviluppo del vuoto/ visto dalla camera chiara” perché l’ottica fisica delle nostre esistenze cerca “la dimensione dell’universo che manca” ma ancora una volta il vuoto è ciò che viene creato dalla nostra espansione di conoscenza che ci permette di superare la nostra “dimensione insondata del non sentire”.

 E’ come se improvvisamente verso la fine,  l’esistenza assediasse questa camera sul vuoto, riportasse a paure, cattiverie, schiacciasse il soggetto fino alla cancellazione (“non  resta niente di me”) una “traccia oscura”, un passaggio di spettro confinante tra ombra e invisibile,  che “ha negato il giusto posto alla parola”, chiuso in una corazza, “l’angustia delle cose” del mondo, il “freddo disperatamente vero” della realtà, fatta di insufficienze, mancati arrivi, mancata luce delle parole, lo stesso cielo è “il lato oscuro di un  soffitto” su cui pesa il carico  dei “secoli”.

 Spira improvvisamente un vento di pesanteur  senza grazia dei giorni: “resta sempre meno da dire” scrive Galluccio, in una delle tanti notazioni in apparenza tra malinconia e pessimismo, ma a questo punto non siamo più nell'ordine della psicologia o della fenomenologia esistenziale, nella filosofia.

Chi sta, che lo si chiami "io" o  una particella, il cosmo, sta nella materia e nel tempo che non esiste come spiega da un secolo la quantistica,  il suo stare è la metamorfosi, in una espansione infinita. 
Sia presa come reliquia filosofica, questo termine, pesanteur:  pesa il “paesaggio angusto” di quella che resta la vita umana nella storia, su cui incombono i “morti” che “sanno molte cose di noi che non ammettiamo” e improvvisamente la visione del libro sembra una sentenza di condanna allo scacco, nella dimensione di camere come piantate nella terra, nel profondo di un Ade del quotidiano: “Si ignora gran parte dell’universo da questa prospettiva/gli occhi non usano andare in cielo/ inutili adesso le stesse le galassie”: come se tutto quel che è stato fato crollasse in questo qui ed ora dove “è imbrogliata la nostra sopravvivenza”.

La scena del testo si affolla di  parole come “carenza” e “demoni” come se il poeta parlasse da una posizione sprofondata per una “sconosciuta forza gravitazionale”.
Come se qui sapere scientifico e dettato (sottratta ogni possibile metafora) coincidessero a rendere la poesia uno spettro, la possibilità stessa della poesia una delle tante minime entità, nessuna speciale di fronte al cosmo :

“ e d’altra parte sappiamo
che è la massa oscura a tenere assieme l’universo
e l’energia oscura che lo porta a disperdersi”. 


Lo scacco certo è tra l’immensità del campo da esplorare e la forza del singolo che conosce. Ma pure l’esistenza  ci fa vivere lutti, dolori, scomparse: “io sono testimone della mia mancanza” e della “mancanza del mondo” e mentre “il morente/ ha lasciato le sue note minuziose” queste minime pratiche sulla soglia tra la vita e la morte - sebbene i sapere a cui si attinge non ragioni più in termine di vita e morte, tutto è materia in trasformazione.
Anche per questo il peso: si spalanca un vuoto denso, cupo, in cui “la materia ritorna materia” in una sorta di lotta che si svolge tra il corpo, l'omeostasi dei viventi con le nostre emozioni,  chi è sul “letto della morte” e dall'altro il corpo di chi è “accanto” e che sente la precarietà e il desiderio di uscire da quella gabbia di esistenza che è il nostro granello di polvere evolutivo.

Alla fine, quel tempo “solenne” dell’evoluzione del cosmo studiata in teorie precipita nella semplicità del “momento” , l'estremo a cui nonostante la scienza non si sfugge: la morte. E' proprio questo il punto drammatico:  la morte noi la ereditiamo dai nostri morti, ci siamo nati, siamo stati formati in quella dialettica di confine.
Se la coscienza il sapere, la scienza ci prono a nuovi parametri, quell'eredità rimane. Parafrasando un titolo del libro di Anselm Kiefer che pure ha dialogato con questi temi, tra evoluzionismo e Celan, la morte sopravviverà alle sue rovine e così fa la poesia che cerca da sempre di affrontarne il limite.

 Accade questo, almeno in questa fase d'era antropocenica, poi chissà: la conoscenza ci sta aiutando a pensare diversamente, ad abbandonare i vecchi saperi anche quelli più nobili, ci  aiuta a capire come si possa dire che non muore mai la nostra materia (quel famigerato "nulla si distrugge se nulla si è creato,")  ma la morte resta nelle nostre mani come ci è stata consegnata da chi non c'è più, come un mistero. 
Resta  ciò che era, resta il senso del sacro, e un senso del tragico: così la morte appare a Galluccio “un agguato fin dal primo respiro”.  
È dunque leopardianamente, in questo scacco da sempre che è l’esser nati, nella morte e nella solitudine del morte,  che si consuma la sfida tra scienza e senso del destino dentro la nostra psiche, la cameretta del poeta, la camera sul vuoto, la cella da dove noi tutti siamo e nasciamo, affacciati sull’abisso.

 

NOTE DI ANALISI ULTERIORE

Aggiungo qui materiali di analisi, più dettagliata di alcuni testi,  per chi voglia approfondire 

In un testo come “hospice” passano come fantasmi i degenti “emergono dalle pareti uomini senza dolore” anche essi in una dimensione senza tempo e spazio di “geometrie disinfettate”. Ecco che come osservando l’ignoto dell’universo, quelle presenze ci affidano “notizie sul proprio freddo” i “i proprio frammenti della memoria/ affinché non vadano perduti” e questo contatto cerca proprio nell’indefinibile della conoscenza della fisica un proprio correlativo concettuale più che oggettivo o linguistico : così di fronte a questi segnali dall’ ospizio “rimaniamo in uno stato imprecisato/ come nella nuvola quantistica/ dove un evento può essere vero e non vero/ nel medesimo istante presente/ o nel medesimo futuro”. 

La psicologia cerca alternative a sé stessa, chiamando in causa proprio l’alea di tempi e spazi inesistenti, le “nuvole dei possibili “ che si aprono dentro la psiche in cui abitano le “storie impossibili”- ora, rispetto all’immaginazione, ma non negandola anzi utilizzandola, sono gli stessi esperimenti di fisica che rivelano l’impensato:  “i campi di forze di cui è  disseminato il mondo/ influenzano il tuo cammino” dice Galluccio fisico a Galluccio poeta.

Le “scomposizioni spettrali” sono in lotta con la ricerca di “teoria unificante”.  Questo però non è solo un problema filosofico-scientifico, apre un capovolgimento, un sovvertimento, un’afasia: “quelli che neutri nel giorno separato parlavano/ e piegavano soffermandosi sui dettagli del mondo/ ora non hanno più fiato per la molteplicità dei quark”.

 Tutto ciò ci getta in una condizione di nuovo Geworfenheit, un essere-gettati “nudi/ come ritornati all’inizio del mondo”. Ricorda la scena di fuga mentale nelle galassie che chiude 2001 odissea nello spazio, un impero della mente inesplorato ma che non è “nella” mente, la mente è parte di questo universo, che ci guarda quanto noi lo guardiamo, che “è” tale perché lo guardiamo, semmai abbia senso dire osservazione, forse è più giusto dire interazione, relazione, la sostanza che la materia tutta è.

 La luce e suoi corpuscoli avanzano ma sono “oltre la nostra limitata comprensione” nonostante la “fatica dei calcoli”. Tutto è cieco, forse la luce stessa oltre che noi, “la cecità avanza sull’asse/perpendicolare al vuoto”. Questa è la condizione esistenziale con cui dobbiamo misurarci, a fronte non di assenza di fondamenti, ma a fronte di una rivoluzione (scientifica) degli stessi (e forse neppure la metafora fondamento ha senso).

Qui Galluccio pare connettere quei frammenti ai “residui dei nostri frammenti desideranti” e in un doppio movimento quasi mistico, se volessimo ragionare con categorie antiquate,  quei frammenti “si arrendono al proprio desiderio/ sono perduti”. Si tratta, chiudendo la “Sezione 3” di fare i conti con la portata di questo vuoto in cui si cade.

Non bastano più le pur ampie possibilità dell’immaginazione (“una borgesiana promessa/ di archivi e di specchi”): l’avventura della conoscenza sperimentale “a via Mezzocannone sedici” (Napoli, l’indirizzo del Università Federico II, dove è iniziata la formazione di fisico del poeta)  aprono forme di conoscenza dalla concettualità vertiginosa. Così “il gabinetto di Faraday” porta insieme “esperimenti di elettrostatica e destino” che non lasciano illesi o cambiano la risoluzione mentale delle immagini dello sperimentatore.

 Siamo sulla frontiera di “pensieri collimati” di un poeta come Paul Celan a cui Galluccio dedica una poesia. L’autore tedesco forzava ogni elemento della lingua nella sua sperimentazione con il tedesco della vittima che si generasse autonomo dalla lingua apparentemente identica dei carnefici e i in cui potessi sopravvivere l’impossibile di chi è stato fatto polvere, dissolto nel nulla dei campi di sterminio,  così come “il laser” scandaglia la materia “per ricomporre l’integrità sulla retina/ i possibili prima che diventino reali”. In questa apertura di irrealtà manifesta, Galluccio conduce il suo percorso in cui poesia e fisica cercano un’alleanza .
Stanno su una frontiera dove combaciano punti, come scrive Galluccio nella poesia successiva (“frontiere”) e sono ”due punti uguali ma irrimediabilmente incompatibili” eppure sono la frontiera.
 E’ la scienza che disinnesca il rischio orfico della lirica, senza però cancellare la sfida dell’inconosciuto perché la scienza nel 900 ha soprattutto imparato rendere parte del proprio processo e delle proprie conclusioni anche l’indeterminato, la probabilità, il non (ancora) conosciuto che va inteso come sondabile.

L’immagine della “sonda” chiude la Sezione 4, come “amo ai limiti dell’universo”, il “satellite” nella sua doppia funzione di trasmettitore dal cosmo e osservatore della nostra condizione terrena. Lo stesso fa lo sguardo di Galluccio che vira verso l’orizzontale di alberi  stazioni, riprende forza la coscienza emozionale (“cerchi di assuefarti al timore dei giorni a venire”) gli ambienti domestici ma il senso delle parole cercato “da un’altezza nuova” si “inceppa” e le regole grammaticali “distrutte nell’incendio” e così il microcosmo personale delle “ore nei letti/ regrediscono alle svolte millenarie” come se il paesaggio onirico mentale del singolo potesse connettersi con la svolta della rivoluzione cognitiva testimoniata da “incisioni rupestri” (che sono molto più di elementari disegni di un’umanità bambina e testimoniano di attività profonde e complesse, testimonianza di un fenomeno enorme che è l’insorgere di una capacità di astrazione sempre maggiore).

 Anche se si è stati “in disparte” ogni singolo uomo ha attraversato la storia, il tempo in una solitudine connessa al “passaggio verso universi paralleli” come quando un transito sul “ponte della tangenziale” coglie nelle incrinature del cemento “salti di qualità verso dimensioni che non sapevi” un “aprire porte all’infinito”. Ecco, possiamo misurare il tempo dell’infinito, partendo dal topos leopardiano del nostro canone, misurando ora la vertigine potremmo dire anche solo al di qua della siepe.

E’ un infra-infinito dell’ordinario, quello che si apre nel microcosmo della materia studiato ad esempio dalla fisica quantistica. Stavolta è la scienza, è “l’esperimento”  che svolge la funzione di innesco dell’immaginazione, la siepe è nel laboratorio. Sono gli stesi scienziati a chiedere alla poesia quasi un esercizio di pensiero laterale che spesso è utile per le scoperte che necessitano di immaginare il non conosciuto, l’aldilà oltre la siepe.



[1] Confesso che sia per le conseguenze della teorie della fisica quantistica sull’aspetto evolutivo di tutta la matria compreso la vivente, sia per le ridefinizioni del percorso evolutivo negli studi ultimi della paleoantropologia (Ian Tattersall e il suo “primate pensante” nonché quel che abbiamo di comune e diverso nella struttura percettivo-neuronale tra specie (vedi Antonio Damasio “Sentire e conoscere”) per cui ad un certo punto diventano “omeostasi” anche le costruzioni del linguaggio immaginative, che pure provocano sentire e sono forma del conoscere (e il conoscere è l’evoluzione di quelle soluzioni alla necessità di sopravvivenza per cui tutte le forme viventi hanno un “ethos” comportamento e il comportamento è già un linguaggio)
tutto questo fa pensare alla specificità di questo vivente tra i viventi che si è certo arrogato la pretesa di dominare il mondo, come Prospero nella Tempesta di Shakespeare, ma che lo ha fatto anche grazie a questa che non c’è dubbio sia una capacità eccezionale di cui parla Galluccio: saper ricostruire e narrare una storia di milioni di anni, possedere il linguaggio e il pensiero astratto. Il precipizio e il volo infinito del primate-sapiens stanno in questo “salto” come lo ricostruisce  Silvia Ferrara ne “Il salto. Segni, figure, parole: viaggio all'origine dell'immaginazione” . In fondo l’antropocene inizia in quel salto, in quel vuoto superato.

 

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