domenica 21 marzo 2021

GIULIA CAMINITO "L'acqua del lago non è mai dolce" (Bompiani)

 INCANTO SENZA REDENZIONE


Quello che mi ha impressionato di più nel romanzo “L’acqua del lago non è mai dolce” (Bompiani) di Giulia Caminito, è la “voce” della protagonista. Dire voce, è metafora o concetto spesso usato, sta nella tessitura verbale di un romanzo in cui la protagonista sembra salire il dizionario come uno scalino, aggrega le parole, mette in un’esistenza grama, il linguaggio come sua unica proprietà. Leggendo a colpire è innanzitutto la tessitura verbale, la sintassi, le immagini scelte, poi il complesso della storia e come Caminito tratteggia i personaggi, il ritmo di una prosodia furiosa come la ragazza che racconta. Nella prima persona c’è tutto il talento di una scrittrice che al terzo romanzo decisamente si impone.

“L’acqua del lago ecc.” è ’ una storia di esistenze sommerse, come quelle della famiglia della protagonista che appartiene a quella socialità periferica, dentro la grande metropoli di Roma a cavallo del millennio,  che lotta per mantenere una sua dignità, ma decisamente scivola vero la marginalità. La famiglia ha al centro colei che dall’inizio alla fine sarà muro, architrave, ma anche diga nel bene e nel male: la madre Antonia, personaggio vivido e tridimensionale, quasi una sorta di Magnani/Onorevole Angelina, arguta, battagliera, dura, a volte, troppo dura per una bambina. Siamo nei primi anni Duemila e  la storia ci getta subito nei modi spicci di Antonia, quasi comici, con cui si danna per ottenere una casa popolare ATER, contro la burocrazia capitolina, quella che assegna quelle pubbliche. La spunterà, per una casa in cui però si sentirà fuori posto con quella famiglia sghemba – un fratello nato da una relazione precedente e dopo la protagonista, altri due gemelli, e quel marito padre disgraziato per un incidente, più peso che presenza. Ottenuta la casa, opterà per un cambio, un piccolo impiccio, uno scambio non legale, ottenendo da una conoscente la sua casa popolare al lago di Bracciano ad Anguillara. 

La protagonista e narratrice osserva la sua famiglia. La “giudica e non la perdona” come dice della madre nel primo capitolo,  ed è questo essere laterale, fuori posto psichica nel 'fuori posto' sociale, a costituire la specialissima prospettiva della Protagonista ( e della Scrittrice che le dà voce). Vede il mondo dalla prospettiva di una bambina prima e di una ragazza dopo, sempre in tensione con la madre, tra ammirazione e conflitto. Siamo tra quei “penultimi”  e senza classe, di cui molto si è parlato. La storia di una sofferente battaglia di vita dignitosa e poi riscatto nello studio  per la  Protagonista (la chiamo così, il nome è svelato solo in fondo ha un senso non rivelarlo)

Il lago sarà quell’accoglienza torbida e traditrice che è la vita, supposto amaro, forse però dolce, sempre guardato storto. Così La Protagonista cresce, viene poi mandata a scuola a Roma, perché migliore perché studiare sarà il riscatto.

 Inizia un’accumulazione di treni e letture, a partire dal Dizionario che le regala la madre (ha in comune con Maria Grazia Calandrone questa identificazione della Maternità col Linguaggio, a fronte di Padri assenti, deboli silenziosi, sarebbe quasi una decostruzione del conservatorismo di Lacan e di Recalcati).

Ma il libro è anche un racconto della materia del vivere, in un epoca inevitabilmente legata ai suoi beni, per la Protagonista sempre vissuto tra averli e non averli,  nello slittamento di senso che crea avere i soldi o non averli. La Protagonista soffre di una disparità sociale sempre patita (ma è un romanzo con sguardo tagliente mai patetico, anzi, l’asprezza di tramontana sbattuta in faccia regala una limpidezza allo sguardo della narratrice). La scuola le andrà bene, con buoni voti, ma la famiglia galleggia o forse rischia sempre di affondare, il salto sperato, l’ascensore sociale non c’è più, semmai, l’andare a fondo.

 Il mondo intorno è proprio questo lago incantato di luce, ma pericoloso, limaccioso come sarà il 2001 dell’11 settembre o dopo la crisi finanziaria del primo decennio, cercando di vivere come una normale adolescente ma sempre un po’ indietro. Mai poter avere un vestito di moda, ma sempre un po’ rimediato, mai con l’ultimo smartphone, ma con un normale vecchio Motorola a libretto, e pure cercando di vivere come tutti i suoi compagni o meglio sopravvivere, dentro inerzie che diventano drammi, una piccola ribellione di provincia tra furtarelli e notti spericolate, le amicizie spremute fino al dolore, le delusioni, gli amori, sbagliati, non capiti.

Tassello dopo tassello, immagine, scelte di parole ricche di riferimenti, allusioni allegoriche, lampi di poesia, tutto il romanzo è il racconto di una difficile conquista di un proprio spazio di una propria identità di una casa, intesa come luogo per sé, quello in cui è nessuno le ha chiesto se voleva abitarlo. In cerca anche di una condivisione, costruendo una comunità da zero. Su tutto svetta il continuo confronto con questa madre-diga , un Super-io di protezione e colpa, di repressione e argine verso gli sprechi. 

Siamo in piena era del consumo, per la Protagonista trovare una propria identità (femminile e sociale) è complicato. Lo si vede nel rapporto con il ragazzo benestante che frequenta,  e degli altri maschi che le sono intorno, con cui ingaggia una lotta di emancipazione paritaria che al tempo stesso diventa inevitabilmente rispecchiamento, sarà tutto studio e caccia, toccando l’acme in quel pomeriggio che per sfida col ragazzo al luna park sparando con il fucile a Pallini, la Protagonista butta giù tutti i barattoli fino a vincere un enorme orso che poi resterà come ingombrante simbolo di inutilità della forza. Una Diana che tuttavia preferirà le frecce di Mercurio alle sue. Anche se avrà occasione, insieme a Cristiano, amico-fratello, di mostrare un lato di gesti furibondi e non solo dolcezza, i suo lato di animale cacciato e predatore insieme.

Più tortuoso il rapporto con le altre ragazze, confrontandosi sull’identico di sé, Dove la conquista passa inevitabilmente  per le cose, tanto mancanti, rifiutate come per partito ideologico preso ma alla fine desiderate (capitoleranno anche per il televisore) specie se i beni voluttuari sono il corredo di un modello formativo delle bambine, da decenni e che questa giovane ragazza degli anni 2000 ha intorno a sé. Se ne emanciperà, non potendo, ma soprattutto non volendo farli propri, tuttavia non sarà facile essere continuamente laterale, di scarto, antagonista in una giovinezza che ha bisogno di comunità. Intorno a sé ha il piccolo gruppo di amiche e il desiderio comprendibile di abbandonarsi e far coincidere se stessa con questo dispiegamento consumistico delle apparenze.

A tutto questo La Protagonista si ribellerà, cercando di crescere e trovare una sua strada. Nella parabola tra infanzia e età adulta segnata da fratture di affetti e riconquiste, da una laurea  e da amarezza che ne seguirà, Caminito segue i suoi personaggi con empatia fortissima, ma senza il facile escamotage di uno stile sentimentale ed emotivo, riuscendo invece a dare con una precisa tecnica di scrittura ciò che si agita nelle correnti psichiche della Protagonista e non solo, nel limaccioso, opaco e poi luminoso (ma mai dolce) nella sua coscienza. Con una voce che Tiene dall'inizio, alla fine, che si affida a una sapiente orchestrazione metonimica delle scelte linguistiche, dei correlativi oggettivi per cui le parole diventano sostanza materica di un esistere gettato nel mondo, e al tempo stesso descrizione del mondo intorno, per cui Caminito si tiene con il suo realismo,  costantemente dentro una nuance poetica, un’indecidibile concettuale che trasmette con veemenza questa conquista del mondo a morsi che fa la Protagonista.

Il libro percorre la strada del romanzo di formazione, se guardiamo la progressione esistenziale, dall’infanzia all’università, ma  restituita nella frana e nella lotta costante per un posto che sia davvero casa: per la protagonista che abita una casa stretta, povera, dimessa, usare bildung per dire della sua storia sarebbe parola amara, dato che nel suo significato è anche ‘palazzo’. Nascere, crescere per la Protagonista è la dura consapevolezza non solo economica, ma psicologica dentro un mondo al trapasso (mi fa l’impressione, sarà questo vivere in povertà vintage della famiglia della Protagonista, che ci stia raccontando una storia molteplice e senza tempo, che va dagli anni ’60 al 2020: ad esempio quando vanno in cartoleria e le chiede una “Smemoranda” la madre risponde come la mia nata nel 1932 ai primi bagliori di consumismo a fine anni 70: che di devi fare e – qui vedo mia madre – “m’ha detto che con due quaderni di piccole dimensioni ce lo saremmo fatte da sole il diario. Bastava dividere la pagina a metà, scrivere il numero e il giorno, lasciare le righe per i compiti.” Non decrescere felici, ma non crescere, nell’infelicità con desideri repressi,  del non potere avere il feticcio-bene. Ma oggi quel non crescere, quell’infelicità ci sarà utile.

Il trapasso d’epoca è uno stare precari, e qui è generazionale, per la trentenne Caminito, stare tesi e sospesi tra “le dieci cose che non si è riusciti a fare” e “ le dieci che non si faranno mai”, come quelle che elencandole si scambierà con la sua più cara amica in lettere dolorose di maturazione e nostalgia rabbiosa, quando è troppo tardi o un incomprensibile non ancora o mai.

Caminito spicca per questa capacità di precisione nel descrivere lo stato d’animo. Si elogia tanto Sally Rooney, se Caminito fosse anglosassone oggi sarebbe un fenomeno internazionale.

 La Protagonista in cerca di una Grazia, ma sempre in lotta con la sfida con la Pesantezza, la materia o il mestiere di vivere che non si impara da ragazzi, quasi preferendo come Leopardi l’affondare (il naufragare dolce) Le acque infide della vita sono anche sfidate, il lago è  un buco spento, la sua acqua lucente è solo l’illusione che copre ciò che non è più. La lotta della Protagonista si svolge, proprio in un’era postuma, in cui la Storia sembra definitivamente spenta come il lago e con essa le lotte (anche quelle disperate e fuori tempo massimo del fratello antagonista che era andato a Genova 2001 e a nulla vale il suo intervento nella casa riconquista a Roma, alla fine)  sebbene le possibilità che in tutti gli altri romanzi di formazione (già quelli degli anni 60 e 70) un “protagonista” disagiato avrebbe avuto nel riscatto. Qui invece non c’è redenzione né riscatto.

Tutto è troppo tardi, la casa  fa acqua da tutte le parti.

sabato 20 marzo 2021

ANTONELLA LATTANZI "Questo giorno che incombe" (HarperCollins)

LA SCRITTURA PRIGIONIERA DELLA CASA


Ci sono degli elementi di pregio in “Questo giorno che incombe” ( HarperCollins Italia) di Antonella Lattanzi  –  sicuramente ben scritto e ben congegnato nel complesso -  e ce ne sono altre che non mi hanno convinto, la qualità della fattura non basta. Per lo meno non basta a me.

- In modo preliminare vorrei rimandare ad alcune questioni sollevate da Giulio Mozzi sulla differenza tra cosa è un capolavoro (lo trovate qui: Dieci ragioni per cui la letteratura anglosassone sforna capolavori e noi no)

Lo cito per autodenunciarmi: ho studiato all’università, ho fatto una tesi sulla poesia italiana degli  anni 70, considero Gadda il più grande scrittore del 900, ma insieme a Ortese e Morante e sul mondo anglosassone guardo a Roth, considero Virginia Woolf la più grande di tutti, pure più di Proust, mi intrippo con Beckett e trovo, per parlare di capolvari anglosassoni recenti, acclamaticome tali,  Rooney e Cusk  poco significativi, una letteratura post-letteraria, non so però a cosa possa servire. intrattiene certo. In ogni caso mi serve per dire che in quel che segue c’è un mio vizio di origine, ma ogni lettore è un’identità a sé.)

Detto questo, proprio in forza di quelle differenze sottolineate da Mozzi, penso che se questo libro fosse stato scritto negli Stati Uniti, sarebbe un successo internazionale, quindi faccio tutti i miei auguri a Antonella per questo.

Quel che vado a dire è frutto una relativa differenza di prospettiva, nessuna assoluta, nessuna vincente, io scrivo e sono frutto di una storia – di lettore e di recensore o di intervistatore in trent’anni.  

Sembra quasi un classico del vezzo dire “preferisco la prima fase” quando si parla di una produzione artistica, ma nel mio caso per ora è così. Ho amato “Devozione” e “Prima che tu mi tradisca” (anzi quel secondo romanzo di AL nella sua prima parte e sfolgorante, poi si sente che l’editor einaudiano deve aver messo un freno al travolgente talento dell’autrice)

C’è qualcosa in questo romanzo (che ripeto funziona) che mi restituisce ancora quel “frenato” o ingabbiato. Per mia personale inclinazione, laddove a molti piace la struttura di genere (e ancora i più il genere stesso) che Lattanzi usa, quello di un thriller psicologico, con sottofondo noir (mi piace anche Stephen King citato in ex ergo ma non è il primo romanziere che andrei a cercare, sullo scaffale americano, per capirci, dove ahimè cerco Roth o Oates). Credo che proprio questa ben congegnata struttura limiti il talento di Lattanzi anziché farlo sfogare.

Paradossalmente il romanzo stesso è proprio la storia di una casa che da sogno diventa incubo asfissiante per una giovane donna che deve scrivere un suo libro e si ritrova in dentro una vicenda inquietante, in un condominio che sembrava così bello e invece è sinistro, con una vicenda dolorosa e terribile come cuore pulsante che coinvolge tutto il caseggiato e stravolgerà la vita della protagonista.

La parabole di “Questo giorno che incombe” è a suo modo classica e artistica, la storia che va dall’ heimlich all’ unheimlich, dal familiare al non-familiare o perturbante come nella traduzione ortodossa freudiana. Ciò che è straniante che costituisce sia il funzionamento del nostro cervello quando non funziona o quando chiede di funzionare in maniera diversa lasciando emergere qualcosa dall'inconscio. E qui famiglia è il nucleo generatore dell’estraneazione interna sé stessa.  

Al centro della vicenda c’è come dicevo Francesca, una disegnatrice e creatrice di storie,  che vive a Milano con suo marito Massimo, che fa il ricercatore universitario in ambito scientifico e con il quale ha due figlie, una piccola che ancora non parla vivace e terribile, Emma e una un po’ più grande, dall’intelligenza tagliente, un po’ introversa, Angela.  La famiglia si trasferisce ad abitare a Roma per favorire la carriera del marito, e Francesca lascia il suo lavoro in casa editrice, sperando che libera e facendo solo la mamma potrà anche realizzare il suo sogno, disegnare e scrivere  la storia per bambini che ha in mente, intitolata “Prima del buio”. L’appartamento è in un conglomerato leggermente discosto, autonomo, con un grande cortile, recintato, nella periferia sud- ovest della Capitale, verso il mare, chiuso in sé, perfetto, si chiama Casa Giardino. 

A cambiare il tono dei giorni, a far passare al perturbante sarà un “incidente”. Lo spoiler è diventato un tabù che rispetterò mal volentieri (sorta di dittatura dei lettori). Diciamo che il suo ruolo lo capiamo subito la presenza, anche se non specificato, nelle prime pagine di prologo in cui A.L. parla di un “fatto orribile” accaduto nel palazzo in cui la stessa Narratrice aveva vissuto da bambina. Ora, nel trascinarsi dietro a quel ricordo, che spinge  alla narrazione romanzesca che si avvia dopo il prologo, emerge già il primo tema: come un luogo possa essere abitato da fantasmi, da voci, danneggiare le persone, avere  una sua energia negativa. L’Overlook Hotel di Shining, ad esempio, ma in generale tutte le “villette” degli orrori della nostra cronaca di provincia. “Casa Giardino” è un luogo solare ma che si rivelerà denso di ombre.

Il passaggio verso lo straniante si consuma sul corpo e nella psiche di Francesca, nel suo progressivo de-lirare, uscire dal seminato tranquillo e regolare che si era data, deragliando in modo inquietante perché capisce che il “fatto orribile” sta rivelando qualcosa di ancora peggiore, uno scatenamento collettivo di malvagità. Francesca più cerca di mantenersi lucida, più delira o si sente tale. Colpe, accuse sotterrane, angosce del vivere quotidiano nell'essere madre e affaticata da questo ruolo, il trasformarsi della relazione col marito, i ruoli maschio-femmina, i dubbi sulla propria vita e sulle scelte. Tutto è deformato da qualcosa di maligno, un 'aura nera.
 La conseguenza è però il destrutturarsi psicologico di Francesca, che è reso da Lattanzi con grande maestria, empatia, con una attenzione al dettaglio di una vita, come se fosse esattamente coincidente col suo personaggio e con un ritmo di scrittura coinvolgente e asfissiante al punto giusto.

Rabdomante del dolore altrui, Lattanzi connota con un suo particolare monologo interiore, elettrico e sconnesso, che rimbalza dal bianco al nero come pallina di flipper, il dialogo intrapsichico è reso con un ‘inquietante dialogo con “la casa” (un topos classico dei thriller) come fosse un'entità magica – o forse è solo un super-io. La fantasticheria  si genera dal ritmo di una sintassi emotiva, in un fraseggio molto efficace. La capacità stilistica di Antonella Lattanzi è proprio qui, nel fraseggio e si sente, qualsiasi genere di musica suoni. 

La struttura di romanzo thriller non sarebbe un problema, ma ho l’impressione che anche li ci sia una concessione a punti acuti ma tipici, un certo acme emotivo in salita e poi in discesa e poi di nuovo in salita 8si direbbe: andatura da “puntate” di serie tv). C’è qualche scena fin troppo tirata o con una drammatizzazione che sembra un sovrappeso (non posso fare esempio pe non creare lo spoiler anche se devo dire che purtroppo è diventato il nuovo tabù insopportabile della dittatura dei lettori e spesso  non si riesce a fare una critica dimostrando le cose). Diciamo che verso l’ultima parte del libro e anche nell’ultima pagina ci sia qualcosa di dissonante anche rispetto al meccanismo di genere scelto, un sovraccarico di sapore in un piatto già saporito. 

Le cose buone sono, oltre che nel monologare interiore di Francesca, nella cornice del Condominio, il Moloch ballardiano del vivere metropolitano rispetto alla villetta americana o di provincia italiana. Il Genius Loci negativo, la Sibilla malefica, il lago d’Averno. E’ questo contesto a generare una sua forza, così come ciò che smargina, la città e il suo non essere più città ma nemmeno suburra, a corrispondere un inquietante abitare contemporaneo. Casa Giardino è un non-luogo, una palus putredinis di negatività altro elemento di bravura è nel creare un campo magnetico con questa cornice, che si sente,  nel vuoto che c'è intorno a questo conglomerato, questo satellite staccato della città. La Roma che c'è intorno - che pure non viene descritta moltissimo – fa sentire la sua presenza, è il fantasma nero della città (lo apparento a Lagioia, che ha recensito Lattanzi e tutte e due sono di Bari ma trapiantati nella capitale: che rabdomanzia c’è in queste menti di Levante, cosa captano?) . La città non parla, come fa la casa di Francesca, ma va per cenni (scriveva Barthes che solo due entità fanno accadere cose senza linguaggio, ma solo per cenni: gli angeli e i gangsters, ecco Roma si percepisce come organismo angelico e criminale insieme, omertoso e mafioso che sta intorno, col suo respiro roco e malato, coi suoi incendi come infiammazione del suo polmone marcio).

Qui Lattanzi come per la psiche di Francesca dà il suo meglio, a suo agio nello sfidare draghi di plaude. Paradossalmente il rapporto tra la libertà e il condizionamento e poi tutta dentro la storia anche di Francesca e la sua aspirazione professionale a realizzarsi a produrre a partorire questo libro a cui sta lavorando, si scontra con le difficoltà di essere madre, quindi due parti precedenti che condizionano il terzo parto, a cui si affianca un desiderio erotico e di liberazione. L'eros di Francesca è  restituito al significato greco di conoscenza, di capacità di penetrare la profondità dell'essere umano. Dall’altra parte tira invece quella che Francesca dice essere la “ schiavitù dell'amore di madre” o il super-io della Casa e in questo ritrarre la fragilità di una madre dei nostri tempi c’è un bel tratto del romanziere classico che è sempre un po’ segretamente sociologo ma per analisi singolari.  

In qualche modo Antonella Lattanzi scrittrice la sento come Francesca, cioè la sento alla ricerca di una libertà di scrittura di espansione senza limiti della forza di percezione e di espressione, ma al tempo stesso il suo tra virgolette “amore di madre” per il romanzo, per il mestiere, per il bene dei suoi lettori, la “costringe” a stare dentro dei confini più familiari, ma credo che il talento di Antonella Lattanzi  sia per tutto ciò che è irregolare, opaco, un ribollire psichico e la sua capacità è quella di essere e far sentire l lettore disposto a seguirla fuori dai margini del consueto, in prossimità dell' inavvicinabile, in prossimità del dolore, che è il nucleo del suo talento di scrittrice da sempre.

Qui c’è il meccanismo rassicurante del genere, che forse non lo fa esplodere a pieno, lascia cariche esplosive altrove, portando a quella finale, ma ho dubbi anche su questa strategia.  Forse un po’ l’orientamento arriva dalla scrittura per cinema/serie tv (con cui oggi la letteratura e soprattutto i letterati che scrivono oggi, sono sempre più spinti a fare, anche per mestiere oltre che per adesione convinta a diverso registri e mezzi narrativi. Del resto il monumento vivente di questo crossing è Stephen king per l’appunto il nume tutelare qui).

La qualità letteraria del genere sta nel fatto di abbracciare alcuni elementi ricorrenti e poi saper praticare dentro questi una libertà di invenzione. Sicuramente Antonella Lattanzi lo fa, sono diverse le libertà dentro questo romanzo , pur dentro a quella struttura,  che ha sue leggi narrative già definite. In queste libertà da lettore amante dell’irregolare e del deragliamento del 900, del perturbante e scarto dalla norma,  senza redenzione, vado a cercare la  Antonella Lattanzi migliore.


giovedì 18 marzo 2021

MARIA GRAZIA CALANDRONE "Splendi come vita" (Ponte alle Grazie)

 

LA VITA SPLENDE, NEL LIBRO SENZA GENERE

 

“Splendi come vita” (Ponte alle Grazie) il nuovo libro di Maria Grazia Calandrone è oggetto anomalo. Se per giudicare ci si aiuta comparando, difficilmente si può accostare al resto della narrativa di questo anno – ma più in generale degli anni – perché si tratta di una prova in prosa di un poeta ma forse “narrativa” è categoria stretta.

 La storia è a suo modo “romanzesca”, per chi non la conoscesse (ma Calandrone già in poesia aveva molti riferimenti al vissuto, anche nell’ultimo libro di versi  “Giardino della gioia” Mondadori) ma ora si dispiega in modo più diretto, in libro felicemente inclassificabile. I due fuochi centrali sono sia l’abbandono della madre biologica, sia il rapporto con la madre adottiva, ma siamo in altro territorio rispetto all’ autofiction.

È biografia esplicita: dalla copertina e soprattutto dalla prima pagina, siamo in media res, non con incipit di scrittura ma con un trafiletto di cronaca, da Paese Sera del 1965 in cui si parla della “bambina abbandonata” Maria Grazia che è stata “affidata” ai signori Ione e Giacomo Calandrone. Orfana, perché la mamma biologica si era suicidata (ragazza madre di paese, non resse alla vergogna nell’Italia ancora più bigotta, allora). Giacomo ex operaio, combattente in Spagna, ora deputato comunista; Iode, anche lei comunista, colta, insegnante, bella, bionda.
Libro anomalo, potrebbe anche essere un canzoniere d’amore che tuttavia risale come anguilla alla sua radice amorosa. Canzoniere di Amore e tormento, nella misura in cui tutti i canzonieri sono formazione di vite nove, cioè definizioni dell’Io nel desiderio e dunque nella mancanza dolorosa dell’Altro. La sorgente primaria è qui nel Luogo del Materno. Qui si compie un distacco, per Maria Grazia doppio: prima dal corpo stellare unico di chi l’ha generata e nutrita nei primi istanti, poi da chi l’ha curata e cresciuta. La prima è detta “Mamma”, la seconda è “Madre” (anche se per poco anch’essa è Mamma)  . Il secondo abbandono sarà a quattro anni, quando Madre Adottiva rivela alla bambina MG chi ella è, ovvero chi non è. Si genera qui un distacco ctonio. L’infanzia splenderà di una consuetudine quotidiana di mille episodi, canzoni, fiabe, pettini, patatine, foto, vestiti, dettagli, notazioni che nella prima parte del libro sono il racconto dell’Incanto.

La voragine sottile come un capello, si andrà amalgamando alla materia psichica dell’adolescente in crescita: Maria Grazia in cerca di sé – non trovando però un volto materno come “vero” (non era più MammaVera), dovrà cercarlo nell’ombra,  un’origine che tuttavia non è quel vissuto di incanto che è stato. Neppure è origine.

La Mamma biologica si pone come l’ombra irrisolta, ma la Madre non si mostra da meno nel suo progressivo cambiare, da incanto dell’infanzia a tormento di un disagio anche psichico che acuirà il conflitto tra la donna e la ragazzina. Costruire scalando macerie, puntellando frammenti. Maria Grazia adolescente si espande verso la libertà adolescente che la fa essere, e si scontra con la Madre rimasta sola, figura normativa e via via sempre più assurdamente anaffettiva, con tratti paranoici, ossessivi. Era malattia era forse depressione. Ma certo lasciava in quel terremoto anche riemergere l’ombra della Mamma dell’abbandono, come un’impronta fossile lasciata sulla roccia di un animale estinto, o come l’ombra sulle scale ad Hiroshima di persone vaporizzate dalla bomba atomica, resta a una evocazione sorda. Essa stessa si identifica con quell’ombra di bambini polverizzati dalla Storia. La bambina legge (in una casa di comunisti e di persone colte) il libro “Il gran sole di Hiroshima” Karl Bruckner e comprende che "non vuole crescere", restare piccola come le ombre dei bambini fissati dal Sole Atomico, nzi forse essere ombra. Maria Grazia si sottrae alla realtà, scivolando nell’immaginazione di sé. Diventerà consapevolezza dello strappo. Amore è sempre de lohn, ma quanto più l’Io cerca di costituirsi nella restituzione da parte del Tu, tanto più quel volto-altro è distruttivo, ferisce in una lotta ( che costituisce tuttavia la forma futura di sé e che cerca l'approdo ad un amore che non sia possesso dell'altro, che sia generosa distanza, alterità non conflittuale). 

La rivelazione fatta alla figlia era mossa da un disagio, da una mancanza o una colpa interiorizzata e preventiva della stessa Madre adottiva (la paura che Maria Grazia scoprendo la verità da adulta si allontanasse da loro o addirittura si togliesse la vita)- Quello svelamento genera però la confusione di verità.  La Madre si disgiunge dal suo essere anche Mamma, la voragine deflagra a 11 anni, quando finirà con un altro terremoto l’infanzia: è la morte dell’amato Padre, uomo fascinoso come Gianmaria Volontè,  assente per il suo impegno politico, in tanti viaggi, ma che portava il mondo in forma di regalini a ogni ritorno. Da lì in poi sarà la Seconda Ferita a misurare lo spazio del materno che non sarà più tale. E con esso il disegno di sé. Foglio e matita saranno il primo piano di rispecchiamento.

Accade alla fine degli anni 70,  Maria Grazia entra con la psiche nella storia, sperimenta l’altro, si veste da maschio, assorbe il conflitto di piombo bombe politica paura, si getterà poi nella Roma dei primi 80, delle Estati Romane, del carnevale, della piazza. Sempre in cerca di un centro,  un posto dove stare, sarà il disegno lo strumento poi la poesia le parole, troverà a un certo punto anche più avanti un Sole surrogato in una Stella del cinema ma soprattutto del fotoromanzo (d’amore ovviamente) Ornella Muti (sono belle pagine di adolescenziale, folle coraggio ) e poi però anche finendo nei labirinti di Scientology.

Indaga disperata il trauma, resterà sempre in cerca di una “latenza di un generare immenso” (come scriverà poi Calandrone in un verso de La scimmia randagia) che tuttavia è irrecuperabile, troppi sono i riflessi, cercati nel florilegio linguistico. E la lingua della poesia sarà in qualche modo l’esercizio spirituale della restituzione all’infinito naufragare in un mare d’amore, che è abbandono, consustanziale.

 Non sé, non-Io, se non molteplice e alla molteplicità sarà devota Maria Grazia Calandrone come autrice poetica, potremmo dire alla Moltitudine di sé, mancando il centro di un Io, ma abbracciando un’orchestra di presenze e ombre in sé. Di questa polifonia è traccia proprio lo stile adottato da Maria Grazia Calandrone in questo libro anfibio, una scrittura che usa l’ellissi, la spezzatura metonimica, la simbologia, un certo afflusso di immagini rigoglioso, eccedente lessicalmente, la spezzatura che diventa enjambement improvviso della prosa, anche del corpo tipografico (un procedimento adottato anche da Anne Carson in Autobiografia del rosso). Come autobiografia del “molto”, o del troppo,  dovremmo dire qui, del polifonico, pur concentrato nel corpo-a-corpo duale dell’Amore.

La Storia di sé, prendendo corpo alla fine degli anni 70, comincia tra canzoni e bombe, comunità amicali e P38, ma più nel nome dell’amore (1977, per i (noi) tredicenni dell’epoca era “Ti amo” di Umberto Tozzi che Calandrone cita - e volutamente anche ‘canta’ nell’audio libro che lei stessa ha registrato, autrice polifonica)

Per Madre Adottiva, tuttavia, il piombo è la depressione, l’angoscia che prende spazio, sarà “l’inferno” (titolo del capitolo) di malattie e colpe immaginarie che addossa alla  figlia, grumo di amore e dolore, e che sfociano in repressione che da privatissima non può che farsi storica. (anche il Canzoniere di Petrarca era storico, seppur nella semplice scansione dei testi “in vita” e poi “in morte). Sarà collegio, listello di legno per punire, isolamento, addirittura insulti (tra cui il termine “villana” riandando all’origine di sua Mamma biologica)

Il romanzo-Canzoniere di Calandrone chiama in causa il processo di identificazione per l’individuazione di sé. Il linguaggio si assembla come una macchina celibe a dire però tanto afasicamente quanto poi verbigerante un impossibile “io” anche perché bisognava arretrare, sottrarsi all’imprinting del linguaggio che era stato di Madre, che è stata “parola” e insegnava le poesie alla figlia (e in quell’episodio del rifiuto di recitare alla zia “Pianto Antico” di Carducci non c’è solo l’intuizione di grumo di dolore genitoriale, c’è anche la ribellione dell’Anti-Edipo alla koinè femminile, là dove Madre era colei che dettava dentro parole, linguaggio istituito nel Nome della Madre). Allo strappo doloroso della Madre, Maria Grazia reagisce colmandolo di disegni prima (altra sottrazione al Linguaggio) e poi di suoi pensieri e sue altre parole, sarà la poesia della propria voce, non il dolore falso di Pianto Antico.

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Ecco, parole e concetti,  riportate dall’autrice nel libro,  da uno scritto di quegli anni difficili, un “trattatello” in cui definisce l’autoconsapevolezza: “ Chi diventa adulto accanto a un Grande Amato che come contraccambio gli inietta nelle vene il veleno glaciale del Disamore” lo getta nel “disincanto”. Punta al centro, con la Scrittura che tuttavia per paradosso – complice il tempo storico o le “sciccherie  nietzschiane” come le definisce l’autrice -  non può che essere una decostruzione dell’Io o una sua metamorfosi in una polifonia rizomatica, sempre per dirla col vocabolario del 1977. Che è dunque un modo per sfuggire al centro, questo “sfondare il guscio” che “contenendo ci divide” e arrivare “al cuore radiale della vita, all’infinito dentro le persone”.

 

LO STILE

Infinito e polifonia. Rigoglioso verbigerare rizomatico. Lo stile del romanzo è selva di linguaggi.  Un Io che tuttavia si rende coro nel non chiudersi in un rispecchiamento e chiusura di sé – a cui non Una ma Due fantasmi del materno-femminile la spingevano -  smontando il Due e smontando Sé nel linguaggio, sperimentando una propria decostruzione.

 Questo stile ha portato Calandrone in questa sua prosa, certo ammorbidendolo rispetto alla prolifica ricchezza della poesia (o sua “estrosa abbondanza” per dirla con Anne Sexton).  Qualcosa c’è forse qua e là di eccedente, nella ricerca di immagini, parole che dispieghino sentimenti (laddove, per fare un piccolo esempio,  per l’appunto quel desiderio di ricerca “dell’infinito nelle persone” – scrive a un certo punto Calandrone parlando del suo gettarsi nella scrittura – e che già basterebbe di per sé, come definizione aggiunge una più indistinta, Whitmaniana o vitalistica ricerca definita “ eternità barbara e incandescente delle stelle” (col rischio di un registro iperletterario)  : ecco l’uso delle immagini, di una ricchezza lessicale petrosa, colorata,  è la forza e al tempo stesso il continuo clivo ascensionale a rischio frana della Scrittura di Maria Grazia Calandrone che può arrivare a una con-fusione dell’eccedente. C’è da dire che da sempre tutta la critica – e concordo su questo  – vede questa mancanza di misura, lo spiazzante del suo stile, come un prendere-o-lasciare della poesia di Calandrone, e la usa anche qui, con sua coerenza.

 Chi conosce i suoi versi ritrova, con una alternanza che mi sento di sottolineare, all’inizio proprio in coincidenza con la fase più bambina, un punto di vista non-adulto, con registro del meraviglioso e se dovessi fare poi un riferimento al mondo della poesia vicino a Maria Grazia Calandrone, mi era sembrato quasi un tono che mi richiamava Vivian Lamarque (il tono anche se diverso il registro) di   “Il Signore d'oro” o “Teresino”. Lamarque che con Maria Grazia Calandrone condivide il destino delle “due madri” esplicitato ancora di più nel libro di Lamarque “Madre d’inverno”, ma se Lamarque è contraddistinta da un’ironica commozione controllata, Calandrone sceglie toni con dolenza e violenza drammatiche ma pure con toni che strappano anche riso (“il riso degli Abbandonati”). Man mano che la vicenda procede, seguendo prima la crescita a scuola, poi il collegio, poi le fughe a Milano poi i ritorni, si arriva a maggior compimento di tutto il libro, Qui raggiunge i suoi momenti più intensi più dolorosi più partecipati.

In ogni caso, è naturale che un libro così singolare, a suo modo sperimentale, abbia delle alternanze, con parti  che forse chiedono aggiustamenti, o tagli. Qualcosa invece è mancato (quindi si doveva abbonare)  nelle parti più brevi, in ogni caso, sono  imperfezioni necessarie (ed  un bene che compaia un libro così in un panorama che spesso lamenta anche un certo appiattimento sulla “medietà” linguistica e stilistica da parte della narrativa).

 

 

 

Appendice

IL ROMANZO COME BIOGRAFIA, NELLA STORIA E NEL PRESENTE SOCIAL

“Splende come vita” racconta questo usando una biografia unica e reale una storia  singolare, che - per citare il famoso aforisma incipit di Tolstoj – è infelicità a modo suo, singolare e assoluta che poi genera romanzo, che genera a sua volta anche la sua necessità di essere ascoltato.

In questa seconda appendice vorrei dire qualcosa sulla ricezione di questa storia assoluta e singolare, ma che diventa universale, nel forte riscontro di successo tra il pubblico che nella pagina social Maria Grazia Calandrone riporta con storie e restituzioni di esperienze familiari, se non simili altrettanto intense, pensando però che è fenomeno che ormai è costitutivo della presenza del libro sulla scena pubblica.

 La necessità di essere raccontata era  ovviamente anche psicologica in primis dell'autrice che l'ha portata a emergere in una sola estate dopo tanto tempo. Da lì in poi  il testo si pone – ma come capita sempre più spesso -  in una dinamica di continuo accrescimento extra testuale, in dialogo con i lettori mediato dalla stessa autrice (formalmente l’analisi testuale distingue tra Voce Narrante e Autore/Autrice esistente, ma sta accadendo che – complice i social – questa distinzione che era della semiologia o dello strutturalismo, salti). Dopo il testo finito, c’è una vita del libro al confine tra testo e soglia. Non solo  il coagulo di tante storie di vita, ma anche il compimento di ricongiungimenti e ritrovamenti della vicenda originaria della “bambina abbandonata”, con trasmissioni televisive in cui il sindaco del paese del Lazio da dove veniva la Mamma Biologica, ricorda a nome di tutto quella ragazza. Non entro nel merito di come la TV possa rischiosamente trattare “il caso Maria Grazia”, lo cito solo perché se la prima pagina del libro ospita il trafiletto di cronaca in qualche modo l’ipertesto dello stesso romanzo, la sua coda, più che soglia d’uscita,  non può che essere la di nuovo la cronaca, stavolta in TV. È un elemento – l’ipertesto-della-cronaca – che si pone spesso e di recente per più di un romanzo italiano.
Una storia umana toccante e che di sicura va oltre il libro, il riscontro che ha il libro naturalmente risente anche e soprattutto della sua materia narrata. Cercheremo di restare anche alla materia scritta per questo  bildungsroman, romanzo di formazione di un’autrice che è già poeta riconosciuta e molto apprezzata e in cui tuttavia sia la Storia che la dominante autobiografica sono state sempre presenti.  

 Questo vale anche per altri libri usciti di recente. Non solo il Caso Carrére  che scrive un libro che viene tagliato,  per una polemica con causa in tribunale, della ex moglie ivi descritta, ma lo stesso era accaduto all’ultimo dei sei libri della autobiografia  sterminata di Knausgaard.  

Siamo in un’epoca in cui l'autore è presentissimo continuamente gli occhi dei suoi lettori ,specie con i social e in generale grazie al digitale (oggi molti incontri zoom). Questo è un aspetto che sta forse incidendo (me lo chiedo non so la risposta esatta) il presente storico della letteratura mondiale, perché l'autore non è più semplicemente quel nome che sta dietro una storia. E in qualche modo poteva essere la storia che lo identifica oggi, l'autore ha una sua specifica presenza di ‘personaggio’ può fare il Giullare su Facebook e poi scrivo dei libri serissimi. In che modo le due cose interagiscano e anche si condizioni è tutto da vedere.

Resta un libro che probabilmente, anche Maria Grazia questo interesse per la vicenda la porterà molti lettori che amano queste storie a confrontarsi con un linguaggio che attingendo all’elaborazione poetica è sempre ‘ sperimentale’ anche quando recupera stilemi lirici. Lo stile di Calandrone si ripresenta con i suoi elementi di rottura dei limiti e di eccedenza, appunto, chi sta sperimentando la macchina di un linguaggio che vuole dire l’eccedente per eccellenza ovvero il mancante. In questo paradosso anche laddove sembra scritto troppo, sempre probabilmente è troppo poco, mai l’origine ha un centro specie se in questo caso paradossalmente i centri sono due, uno in luce l’altro in ombra. Libro inusuale e prezioso per il tempo presente della narrativa l’urgenza e il desiderio hanno dettato 8lo dice la nota finale) una storia che si è gettata, diciamo qualche modo sulla pagina. Indubbiamente una scommessa di coraggio stilistico che è duplice di tirar fuori una storia difficile personale farla diventare narrazione e scriverla però con uno stile così personale poetico e che possa dare conto proprio della complessità della storia che si sta raccontando.

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...