lunedì 30 gennaio 2017

MINETTI/BERNHARD/HERLITZKA

qualche giorno fa ho visto all’Argentina “Minetti” di Thomas Bernard. Con un bravissimo Roberto Herlitzka. Il testo è dedicato dallo scrittore austriaco ad un grande attore (Bernhard Minetti che di Tomas Bernhard fu collaboratore e interprete di suoi testi teatrali famosi)
ma non è questo quello che vorrei dire - non di questo atto d’accusa verso il teatro, per uno scrittore che cercava un Verità cruda - e per il quale l'attore non poteva che rappresentare il fallimento o la decadenza (è un crudele “ritratto dell’artista da vecchio” un ritratto/autoritratto impietoso di fragilità di fronte alla morte, tanto che la vita diventa per forza occasione mancata)
quello che vorrei dire è invece la verità delle cose, empiriche, che osservavo distrattamente, in quella serata all'Argentina..
, e che curiosamente dava risalto alla verità di Bernahrd. Era una prima, una prima romana, il teatro bello e decaduto era vuoto o quasi nei palchi. Poco pubblico, pochi attori, poche persone giovani...
(ma almeno gli attori delle scuole! .c'andassero, .hanno lo sconto!)
In platea, la metà erano invitatati e imbucati - conoscevo alcuni di persona, il resto di vista, molti degli ospiti, " personalità del mondo della cultura" come si sarebbe detto un tempo.... li conosco per forza di cose,per lavoro e altro, sono 30 anni che li vedo, sempre alle prime, o altre occasioni... sempre più o meno immobili nella trasformazione. incontro lo scrittore, che in questi 30 anni non è più un promettente autore, ma è un consolidato nome, incontro il consolidato nome di 30 anni fa, ormai decrepito e solo, incontro il Maestro - anche lui dopo il fulgore, oggi più appartato, piegato dal tempo e dai lutti un pochino, incontro il capo della Cultura di 30 anni fa, ormai in pensione, un tempo potente, oggi un tranquillo pensionato che ogni tanto scribacchia piccoli pezzi, incontro chi ha fatto belle carriere, chi no.
Ma siamo diventati tutti vecchi.
Tutti sicuramente più vecchi , alcuni vecchi tout court. Solo capelli bianchi, teste spelacchiate, barbe d’argento, arie dimesse, di tutti generale - è anche Roma, la Roma depressa di questi tempi -, tristi, nemmeno più ciarlieri. La grande vecchiezza.
Ciarlieri ancor meno ancor meno all’uscita, perché il testo è una botta. Certo Herlitzka ci consola: uno che - dice lui - pur avendo “preso tante bastonate” ormai è sbocciato - ma alla soglia degli 80 anni quest’anno a ottobre! .
Questo pubblico che è sciamato sul dondolio di artrosi generali, età media over 60, pronto ad entrare nell’età della “riduzione” sul biglietto d’ingresso proprio ai teatri, incarnava quel “mondo pieno di esistenze artistiche distrutte” che Bernhard fa descrivere a Minetti nell’hotel dove ha un apuntamento con il direttore del teatro di Flensburg ma dove forse dove è capitato, forse lui stesso perduto….
E l’attore sul palco, lo era pure - allo steso modo imperfetto e dunque perfetto, con le sue incertezze, il dover essere acclamato e applaudito ora, che sta per abbandonare la scena primaria e invece gli tocca cercare l’applauso e la consacrazione sul bordo estremo dell'abisso, con un testo freddo e implacabile, di uno che scriveva in una lettera ad un amico “ho sempre scritto contro il pubblico”.
E infatti l’applauso alla fine è buono ma non quell’ovazione che ti aspetti, perché tutti raggelati da questa attesa di una verità che si manifesta...
e che tuttavia - proprio grazie al teatro e al testo e all’attore - è una verità che raggiungiamo - anche grazie a questo attore bravissimo nato solo sei anni dopo Bernhard..
.... una verità che gli viene forse proprio dal mondo dei vecchi, che conosceva intimamente, avendo - senza padre - vissuto molto insieme all’ amato nonno materno, lo scrittore Johannes Freumbichler e avendo - dopo gli anni del rigore e dell’abbandono materno - iniziato una relazione a 20 anni con Hedwig Stavianicek la compagna che ne aveva 30 anni di più ma con cui starà insieme fino alla morte.
Ecco, una verità che intimamente sapeva già da subito e che consegnò al suo primo romanzo del 1963, non a caso intitolato “Gelo”. Fuori dal Teatro Argentina, in una limpida serata romana di Gennaio, tutto era Gelo.

domenica 29 gennaio 2017

PATERSON, TRA FILM E POEMA DI W.C. WILLIAMS

Ho visto il film “Paterson” di Jim Jarmush, ma prima vorrei dire due cose sull’opera poetica di William Carlos Williams a cui il film è direttamente ispirato – o meglio come ne fosse uno spin-off cinematografico.. ”Paterson”-poema è l’epopea di un luogo (la cittadina omonima del new jersey) che dovrebbe rappresentare l’America , lo fa partendo dai suoi angoli più remoti, cercando il guizzo di poesia, il lampo di gioia in un mondo apparentemente dimesso, anonimo.
Intuire la possibilità di creare il massimo, in quella capacità del minimo – o del “minimal” per introdurre un altro cantore di un “ground zero” americano della provincia,Raymond Carver delle poesie... con aree che sono talvolta depresse “waste land” – e dico gioia, perché W.C. Williams rimproverava la visione “negativa” di T.S. Eliot.
WC Williams è un santo povero, visse tutta la vita devoto alla poesia, alla medicina e a sua moglie, ma cercava (da bravo americano, figlio di un inglese e di una portoricana quindi tipico americano ) il suo sogno, la sua pepita d’oro o talvolta gioielli minimi e oscuri, come la cascata di Paterson, dentro quel mondo piatto…. come la superficie appena increspata delle sue acque sociali tranquille…
Questo grandioso poema epico di una realtà così minuscola può dare un senso ad un pese che ci sembra di conoscere ma di fatto non conosciamo a fondo (vedi le ultime lezioni) e davanti al quale sostiamo in osservazione a bocca sempre aperta, osservando il divario combaciante tra – da un alto - quel “great” delle sua ambizioni, realizzate, quel great che piace evocare a Trump, quella grandezza di chi ama sentirsi “gigante” e giganteggia anche nei suoi oggetti – e dall’ altro, un paese pieno di gente che difende il suo “orto “ o “backyard” (NIMB) la sua piccola comunità, il suo villaggio, un paese che non è altro immenso arcipelago di small villages…. (qui mi viene in mente tra i recenti, Gilead della Robinson o il minimo Missouri dell’altro Willliams, John Edward, dove abita Stoner, altro eroe minimo, altro “idiota” dostoevskijano devoto alla religione della letteratura…..ma ne potremmo aggiungere centinaia, tra cinema e letteratura, anche perché “Paterson” –Film forse è anche implicitamente un omaggio a quel passaggio di testimone tra letteratura e cinema – e ora serie-tv – nel raccontare l’America che, come scriveva Williams “non è una realtà che si scopre, l’America è una realtà che si parla”. O si filma, ora.
Questa epica non rutilante, ma sommersa – Kent Haruf sarebbe della partita - ricorda più il senso della poesia giapponese: la rana di Basho che si tuffa, unica minima variazione nella natura viva ma ”still” ferma e immobile nella sua perfezione…in realtà perfezione non c’è: e la poesia ha il compito di dare corpo a questa increspatura inquietante del minimale e del tranquillo….Scrive Willam C. Willams della scrittura poetica: “ nel verso, perché esso viva, qualcosa deve essere infuso che abbia il colore stesso dell’instabile, qualcosa nella natura di una impalpabile rivoluzione”.
Impalpabile rivoluzione.
Il film di Jarmush cerca di ridare questa idea, ma non ci riesce fino in fondo perché poi ci sono silenzi che solo le parole sanno dire-senza-dire.. Il silenzio al cinema, specie un cinema che guarda alla letteratura, a volte sempre più una mancanza.
un film che paga un prezzo per questo uso dell’immutabile e del silenzio, che non manca di poesia, di fascino, di calore, ma forse c’è una certa eccessiva lentezza, devo dire complice un doppiaggio italiano come al solito superficiale, inadatto e smorzante, – forse mezz'ora in meno gli avrebbe giovato molto. In ogni caso da vedere. L’alone di disagio dolce che lascia vale il biglietto.
PS
a margine, ma solo per poeti e lettori di poesia, mi chiedo se “Paterson”-poema non possa essere di nuovo un modello da riprendere. Un conglomerato, ma meno frazionato in una sperimentazione, un Filò, ma che parli l’Idioma della “pianura” non necessariamente il magma dell’ sub-Io..
Vittorio Sereni – che Williams fece pubblicare e che tradusse con Cristina Campo - scriveva “Paterson è una città, ma anche un uomo, il pensiero dell’uomo, il rapporto tra uomo e donna, così che attraverso le sillabe quella particolare città si sarebbe rivelata nella propria essenza, riprendendo a vivere in altra forma, nelle parole, per essere sé stessa e nel medesimo tempo simile a qualunque altra città del mondo”. Mi fa venire in mente un modo di rileggere la “biografia sommaria “ di Milo De Angelis e oggi la poesia di Stefano Raimondi di Gianluca D'Andrea (di cui scriverò avanti) costruire un poema-luogo, un poema-città-paese-memoria, un poema in cui l’io lirico c’è ma si annulla a beneficio degli altri, un poema del noi, l'io disperso in un noi e in un "nostos".

"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica

 Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curio...