foto @Luigi De Palma |
La famiglia Weston si ritrova a casa, in Oklahoma, terra magnifica selvaggia e dura, nella contea di origine in occasione del funerale del suo patriarca. Inizia da qui quella che diverrà una intensa e incessante battaglia di odii e risentimenti, dolori e segreti combattuta nel campo instabile di una casa da tutti il resto dei componenti (madre, figlie, zii, fidanzati, mariti, nipoti). E’ “Agosto ad Osage County” del drammaturgo e attore americano Tracy Letts, nuova produzione del Tetro Stabile di Torino-Teatro Nazionale con la regia di Filippo Dini e che ha debuttato al Teatro Carignano dove resterà fino al 4 giugno. Il patriarca, in realtà assai riluttante, assente e alcolizzato, è il poeta Beverly (Fabrizio Contri). Perno del dramma, Beverly appare solo nella prima scena, come prologo, mentre parla con una giovane nativo-discendente, Joanna (Valentina Spaletta Tavella ) che sta assumendo come governante per prendersi cura della moglie malata. Beverly in realtà ha un piano: andarsene, morendo in mare, suicida. Da qui si innesca la spirale drammatica, un carillon di crudeltà che mostra le rovine della famiglia Weston che – contrariamente T.S. Eliot poeta amato da Beverly che era stato poeta a sua volta, prima di decadere nell’alcol e nella sua trista vita da docente di provincia - non è più possibile puntellare.
Scomparso il maschio, sono le femmine a dispiegare egoismi, durezze, segreti, a volte saputi da alcuni e non detti. Una guerra di rancori incrociati, a partire da quella tra la vedova Violet (Giuliana De Sio), arcigna e fragile, malata, impasticcata di psicofarmaci che alterna depressione strascicata e violenza cinica verso tutti, e la figlia maggiore, Barbara (Manuela Mandracchia), combattiva ma pur ella con un fondo di rabbia verso quei genitori disastrosi e ingombranti. Le altre sorelle avevano già gettato le armi: Karen (Valeria Angelozzi) andandosene in Florida e Ivy (Stefania Medri) soccombente, ma con un suo segreto che esploderà alla fine, rimasta ad accudire i genitori, ma che rinfaccerà alle altre due una verità chiave di questo testo: i legami di sangue non esistono (anche se a lei toccherà una via d’uscita paradossale da quei legami).
Le donne di questo vaudeville di rivelazioni delle miserie avvelenate di questo
gruppo di parenti
serpenti, hanno scelto a loro volta uomini passivi,
intimiditi o loschi : la sorella di Violet, Mattie Fae (Orietta Notari) col
marito Charlie (Adrea Di Casa) e il figlio succube, Charlie Piccolo (Edoardo Sorgente); Barbara con Bill (interpretato dallo stesso
Filippo Dini), con cui forma una coppia estinta e disgregata, perché l’egoista Bill
ha un’amante giovane, di pochi anni più grande della loro figlia Jean (Caterina
Tieghi). Karen con il laido fidanzato erotomane Steve (Fulvio Pepe) che proverà
ad abusare della figlia di Barbara.
Quello di Letts è una affilata, amara ma inevitabilmente divertente critica al
patriarcato fatta attraverso una feroce satira oltre che della famiglia, anche del
matriarcato, che ne fa le veci e ne è specchio, perché anche esso potere. È evidente,
oltre che in Violet, in sua sorella Mattie Fae, irruenta e malmostosa e che
sembra vivere per vessare e soffocare marito e figlio. Le due sorelle incarnano
una generazione che va verso la vecchiaia e che ha sofferto per tirare su una
famiglia in un posto orrendo, ma che pretende asservimento, non amore.
Da qui
il rancore per chi hanno generato, aggrovigliato da segreti e ipocrisie, da violenze
subite o agite. Le tre giovani sorelle
Weston (a differenza delle cechoviane) più che disilluse, sono certo vittime di
questa oppressione, ma anche complici della ferocia sotterranea familiare (che
esploderà nel pranzo dopo il funerale).
Per questo, se il testo (scritto nel 2007,
che vinse il Pulitzer, poi trasformato in film nel 2013) ha certamente a
modello il dramma borghese novecentesco da Cechov o ibsen a Tennessee Williams
o Shepard e (specie nella vivacità e gestualità tutta mediterranea data da Dini
e dal suo cast, l’accentuazione grottesca e comica da ta da Dini) anche ai
drammi di Eduardo. Tutti molto bravi gli attori e lasciando scatenare gli
attori (tutti molto bravi, con una menzione speciale per De Sio, Mandracchia e Notari,
davvero notevoli e trascinanti, in un testo che certo sembra scritto proprio
per esaltare la bravura degli attori).
Alla fine del sangue resta solo polvere.
O cenere, e non di pentimento. Il mescolamento del comico al tragico del drama
soffocante, lo sposta sulla riva mediterranea del dramma, ma la presenza di
Joanna, silenziosa, erede di quelle tribù native a cui la terra è stata strappata
con violenza carica il dramma in un interno di un sostrato antropologico e storico.
Se a famiglia è una terra desolata e violenta, lo è la storia tutta, che forza
gli uomini in quello “scandalo” di sopraffazioni in cui la casa e la famiglia
non sono un rifugio, ma un labirinto in cui sta il fantasma dell’amore, come un
minotauro ambivalente. Le mura della casa nella scenografia di Gregorio Zurla
sono mobili, ma via via si fanno imbuto dove finisce tutto il groviglio
psicologico la cui radice è un’ombra ontologica: ogni legame è un dispositivo
di potere. Una visone radicale, non so quanto con spiraglio di indulgenza, come
Dini afferma nelle note di regia. Per Tess non si salverebbero forse neppure le
nuove famiglie, “Arcobaleno” o “Queer” che siano. Ogni famiglia infelice, sembra dirci, è
infelice perché famiglia.
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