lunedì 1 febbraio 2021

FEDERICA SGAGGIO "L'eredità dei vivi" (Marsilio)


 “L’eredità dei vivi” di Federica Sgaggio (Marsilio) mescola (come accade sempre più spesso) le molte tipologie di generi a disposizione di chi scrive. In questo caso preponderante è la memoria: il libro, strutturato in 82 brevi capitoli, nube circolare di racconti, episodi che in modo rotatorio descrivono  una linea temporale, che è la vita di Rosa Sgaggio, la madre della narratrice, ma oltre quella si allunga su tutto il secolo XX. Il cuore pulsante di un legame amoros e psichico è pure motore immobile della Storia. 

"L'eredità dei vivi" lo fa mettendoci, come lettori, in una strana posizione: da un lato, tanto prossimi alla vita della famiglia Sgaggio, messa quasi a nudo col suo cuore sentimentale, ma dall'altra lasciandoci come dietro una parete di vetro. Tanta è la forza di evidenza con cui con cui Federica (co-protagonista, voce narrante  e autrice) ci mette tra le mani la sua storia, tanto alla fine percepisce un’impossibile immedesimazione totale, come da tradizione romanzesca, qui in qualche modo abolita. A noi è chiesto una solidarietà, ma dei testimoni, come nelle nozze. O quella di certi amici nei momenti difficili, ascoltare, anche se i dolori familiari sono infelicità assolutamente singolari e quasi ci imbarazza tanto è preciso il resoconto che ci brucia addosso.

Primo tra tutti c'è lo speciale rapporto d’amore filiale al centro di questo che continuerò a chiamare romanzo.  La sua condivisione necessaria converge anche  verso un punto in cui l’empatia richiesta si fa per contrario afasia. 

E quel punto è Francesco, il fratello della narratrice che, a causa di un  incidente in incubatrice, ha vissuto sempre con una forte disabilità, bisognoso di attenzioni e cure praticamente costanti. E’ lui che incontriamo nella dedica in esergo, Francesco è “l’origine” . Tuttavia se la sua presenza nella storia è magnete amuleto e divinità di costante tempesta di vita, va detto che questo libro ha al centro la figura di Rosa, la madre. E con lei, il secolo di cui “L’eredità dei vivi” ci racconta (in questo senso le infelicità collettive sono tutte somiglianti ). E tuttavia dall’afasia, sarà di nuovo una lotta per un cambiamento del linguaggio, una conquista di parole diverse da “mongoloide”, un percorso che porterà dalle lotte materne al giornalismo della figlia (e alla sua particolare cura e richiamo sull’accuratezza delle parole anche nel giornalismo)

Nata a Solofra, paese dell'Irpinia, prima della guerra, da famiglia contadina – ma come l’80% in Italia in quegli anni -  Rosa si trasferisce in Veneto alla fine degli anni 50,  a lavorare. E’ l’epoca della grande emigrazione dal sud al nord. Rosa Sammarco conoscerà Renzo Sgaggio, vicentino e impiegato di banca. Si sposano, hanno due figli Federica e – appunto -  Francesco. La nascita del maschio e le difficoltà di gestione fanno esplodere il malessere e Rosa, donna tenace, che non si arrende, ostinata ma generosa, sempre imprevedibile, decide per il divorzio (una conquista nei diritti da poco acquisita, con un referendum che – diranno poi le analisi storico-sociali a posteriori, fu dovuta al voto che proprio le tante donne del sud diedero a favore del divorzio, pere aver sul proprio corpo sofferto l’infermo di certi matrimoni).

Rosa decide di andare via di casa, con i figli,  affrontando le grandi difficoltà economiche soprattutto perché Francesco impone un sacrificio continuo impegno. Francesco sarà però la battaglia di Rosa, e attraverso lui di mille altre battaglie, la sua maturazione da contadina a cittadina, nel comprendere intimo il suo alfabeto di vita, si batte : fa politica, partiti, associazioni, movimenti, al centro la sua vita e destino, la lotta affinché egli possa ottenere diritti, una vita più dignitosa. Con lui anche lei, come donna, e anche La futura donna Federica.  Insomma della sua questione privata ne fa una questione politica. Rosa fa la Storia e al tempo stesso ne è plasmata (“non s’era goduta la vita bohemienne anni Settanta, ma di tutto il potenziale liberatorio che circolava nell’aria ne aveva fatto l’uso più generose che aveva potuto”). Dal dopoguerra e per gli anni 60 e soprattutto 70, la storia sarà come cavalcare una tigre e Rosa è al tempo stesso quella tigre. "La politica – scrive Sgaggio – è un modo di proteggere i nostri amori”

Lo è lei, come anche tanti, tutti quelli  che in quegli anni hanno partecipato nella proposta e richiesta di diritti e hanno piegato un paese verso la modernità delle conquiste e non solo quella del benessere materiale ( che tuttavia Rosa come tanti non disdegnava e in queste fughe verso il desiderio di abiti belli fino a concedersene uno ogni tanto, ci sono pagine di pura gioia nel rapporto madre figlia, che Sgaggio ci consegna anche come testimonianza che tutte le discussioni “alto e basso” della cultura, rapporto tra futilità e serietà, fossero questioni più complesse di come sono state lette in passato, un po’ troppo moralisticamente e ideologicamente. La letteratura, grazie a dio, serve a questo. Basti vedere il capitolo Breeze, quasi un’ode, epica, intima).


Tutte le tessere di questo libro fuoriescono però dal privato, dalla sofferenza di Federica e della madre per Francesco, per le discriminazioni, le prese in giro, le ingiustizie sentite e subite, anche dalla bambina che ha avuto nelle assemblee in sezione il suo doposcuola, le difficoltà e tanto altro - e virano ai grandi tempi collettivi. Il vero peso però per l’anima stava forse nella solidarietà di superficie verso Rosa o Federica,  perché lì emergeva l’incolmabile distanza di chi si proclamava vicino, come la maestra elementare dicendo “poverina” alla sorella del piccolo Francesco, consegnandola così ad una prigione di commiserazione che a volte a più male dell’indifferenza.

 Erano gli anni della politica praticata da tanti, dei partiti delle associazioni. Del Divorzio, dell’Aborto, di Basaglia, della scuola. Ma col passare degli anni, invecchiando assieme al paese che Rosa in qualche modo incarna, la madre sente la delusione la stanchezza, si ritira in casa, davanti alla TV che guarda (Costanzo, “l’unico che si interessava della poverinità” scrive Sgaggio) distrattamente (la tv commerciale nel frattempo invade l’inconscio nazionale)  e pur essendo ancora battagliera contro Berlusconi, la sua forza per niente tranquilla, la sua fede propulsiva nel futuro, si esaurisce fino a ritrovare anche accoglienza nella religione che aveva rigettato. Federica nel frattempo cresce diventa giornalista ha una sua vita autonoma, Francesco è cresciuto e dopo le cure della madre o di molti volontari, ora è in un istituto.

E’ la morte o meglio il lutto a generare questa narrazione per quadri (“la sua morte ti apre il futuro. Lo rende un tempo che un anno zero separa dal presente”) così come era il corpo e la relazione dei corpi (la loro alleanza, innanzitutto dentro il quadro familiare) a generare parola. Il libro è un polittico, che ripercorre episodi, in essi innanzitutto lo stretto fortissimo legame tra una figlia e una madre (sentita “mia” scrive la figlia “allo stesso modo in cui diventa tua la cella di un eremo”) e poi la storia.

Non solo quella familiare, che comunque deborda oltre la morte e la vita, sia nell’oggi, ma anche nel passato del “prima di Rosa”, e in quella di tutti, col padre, il nonno di Federica, che – pur figlio di contadini con le terre “padroni” insomma cade in disgrazia per la morte del nonno di Rosa – va prima in Argentina da semplice migrante e poi torna per mettere su famiglia. E sarà sempre di supporto  a sua figlia e ai suoi nipoti. Così come diversa e più distante è la madre di quel padre troppo presto altro da sé nel confronto di idee, anche nello scontro, troppo tardi finalmente amato, ma troppo presto morto.

Tutte queste presenze , dai bisnonni agli affetti di oggi, come il giovane figli odi Federica, Giovanni, che sono intorno, sono  “eredità” ma da vivi, sono appunto il tesoro, la ricchezza, il bene immobile di una storia, e di un’identità della narratrice, essi stessi sono vivi in questa rimembranza vivida di storie come un “bosco fitto” in ci la favola era “a misura dell’universo morale e dell’esperienza del nonno”. La cornice della storia familiare non è diversa da quella di tanti altri, ma raccontare una vita non ha il fine di stabilire una trama interessante per una serie tv.

Questo di Federica Sgaggio è una testimonianza di realtà, con esattezza, anche minima.  Eppure le “piccolezze” come le chiama a un certo punto ci dicono che una storia singolare è esistita, che pur avendo partecipato “alla Storia” alla massa (anche nel bene) ognuno non era solo massa. Anche senza essere “eccentrica” o “simbolica” una storia è comunque rivelatrice di un disegno di vita, che di questo minimalismo fa tessera di un mosaico collettivo.

E’ però la morte della madre a restituire una libertà di sguardo e questo libro diventa la testimonianza anche del rovescio della massa, nell’individuo, come sua particella organica, ma distinta, e in sostanza di come una figlia di un secolo breve ma intensissimo è diventata ciò che è diventata, con una trasformazione paradigmatica, questa si. A cui hanno concorso le singolari qualità di una madre come anche le azioni collettive di partiti o sindacati, insomma di tutto il complesso movimento di lotta sociale di quegli anni. 

Il libro è dunque questo ricollocare tessere nel mosaico della Storia fatto operò di nomi e volti, narrando spinti dal vento del lento avvicinarsi alla morte di Rosa, perché di parte dal lutto. La Malinconia è una leva di orgoglio, però, di rivendicazione, incontra l’altro vento, quello che spira ancora per chi lo ha conosciuto, dal 900. Una biografia di un “noi” una comunità, narrata sia come dimensione del due (madre -figlia) sia come folla, i molti, le piazze, le assemblee.

 

La madre che ha la morte nel cuore e una prospettiva di angoscia che solo al conquista di diritti (e futuro) possono attenuare, si porta dietro ferite, dolori  grandi e taciuti oltre Francesco, un piccolo episodio domestico, un furto attribuito alla piccola,  porta il padre di Rosa a non parlare alla figlia piccola per nove anni: dico “nove”. Anni). La prossimità quasi senza pudore di sentimenti narrata da Federica Sgaggio permette anche di capire un altro elemento importante che riguardala storia di tutti, partendo da una vita raccontata così da vicino: cosa ha trascinato Rosa, quale vento? Qualcosa che sta a metà tra una fede pre-religiosa e una biologia? Un’ ideale? Un istinto che viene prima del logos? Credo tutte le cose assieme.

Materiale autobiografico, analisi, elemento confessionale, rivendicazione femminista, ma anche elaborazione di una femminilità fuori da schemi ideologici. C’è tutto in questo libro che potrebbe rimanere in cerca di etichette se ne avesse il bisogno il lettore. Memoir? Romanzo?

Nel colophon leggiamo che la vicenda e personaggi sono “frutto dell’immaginazione” dell’autrice e il riferimento “a fatti e persone”  è puramente casuale. Non conosciamo se sia un ‘accortezza,  per una qualche necessità verso persone citate o una presa in giro dell’autofiction. (1)

Sgaggio porta il suo privato sulla scena collettiva, perché tutta l’epopea di Rosa è rappresentativa di un privato che s’è fatto politico per forza di dolore e amore. Rosa approdando,  certo – per istinto e poi per coscienza – all’idea che dentro quel corpo di Francesco ci fosse una persona, quindi riutilizzando tutto l’apporto che in quegli anni si fava strada – della psicologia, ma al tempo stesso conquistandolo “strada facendo” e nell’agorà. Per questo considero “L’eredità dei vivi” più un romanzo politico o addirittura storico, che psicologico o autobiografico, pur essendo intriso di biografia fin quasi all’ auto-analisi della narratrice. E’ lessico familiare  ma di Federica Sgaggio, anche lessico comune per molti. Specie per una generazione di figli che ha condiviso quel pezzo di esperienza familiare che è stata la migrazione, l’inurbamento, la politica – e le conquiste – e poi dopo il benessere degli anni 80, una virata lontano da quella esperienza comunitaria. Comunità, sì,  ma stavolta confessabile, non rigettata anzi addirittura rivendicata dalla figlia di Rosa e del XX secolo.

 

(1)         Si sta ridefinendo la nozione di romanzo, soprattutto in certa parte più avvertita e consapevole del pubblico e degli autori, tra memoria di sé , storia collettiva, mix di Storia con elementi del fantastico, fedeltà mimetica ai documenti storici, recupero di fatti di cronaca (ecco Lagioia, Siti, Barone, Falco, Lipperini, Trevi, Scurati, Mozzi, Fontana, tanto per citare i primi che mi vengono in mente).

1 commento:

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