sabato 14 luglio 2018

VIOLETTA BELLOCCHIO "La festa nera" (Chiarelettere)


Ci sono delle musiche belle e tra le musiche belle, però, ce n'è sempre qualcuna che sembra la tua  pelle, giusta per il momento, per quella sera o per l’epoca. Vale per tutte le arti, ancor più per quella più prossima alla musica, la parola - tra scritto e oralità, tra composizione e ritmo -  LA scrittura di Violetta Bellocchio mi  è sempre sembrata un pulsar, un sintetizzatore adatto ai giorni che percorriamo. Lo è ancora di più in “LA Festa nera”  che l'autrice dichiara di aver scritto anche per il piacere e divertimento, oltre che per alcune urgenze del dire, e anche per una sfida nel percorrere una apparente letteratura di genere,e  anche per rispondere alla chiamata ad un progetto di una collana editoriale di Chiarelettere che si chiama “altrove”  e che fa della distopia un elemento centrale.

La storia de “ La festa nera è quella di tre persone, Misha Nicola e Ali,  Sono tre giovani reporter ma meglio potremmo dire formano una troupe di quelle che producono molte inchieste indipendenti, a volte graffianti aggressive come ma anche spettacolari  - come quelle delle Iene in Italia, o di Vice.com ecc in ambiti curiosi o estremi o estremamente attuali. nel tempo in cui è collocata la storia, il mondo è dopo la sua fine ed è ripreso. Forse è solo il mondo italiano così stretto dentro uno spazio nel neo-nowhere padano del 2026 o del 2030 o giù di lì. Eppure così prossimo.

Nel mondo dei tre non-eroi, tutto gira attorno al cellulare, tutta la fruizione -e le inchieste dei tre vanno solo via filmato da smartphone, protesi-post-human , non arto fantasma, ma “arto-poltergeist”, quindi arto presente/non presente. E’ un mondo in cui nessuno vede più un film per intero, si brancola per pezzi e magari si legge qualche pagina di libro, meglio se poesie perché brevi e frammentarie. I tre hanno avuto un certo successo, specie Misha Fontana, volto e anima, Frontgirl di questa troupe. L’Italia che i tre attraversano lungo una via di fuga dell’umanità sbarellante e senza centro sta lungo la Statale 45 e la Valtrebbia, che c’è ancora coi suoi paesetti, ma il mondo esploso - anche se molte cose prima del 2015 sono ormai out o untouchables -  il futuro dopo la fine è il frutto di uno sgretolamento che inizia ora, tempo presente 2018.

I tre hanno subito un loro terremoto personale e di gruppo, ora cercano di rientrare nel giro cercando ancora storie. Inseguono vite rifugiate in comunità autarchiche e isolate dal resto di questo tempo devastato (Genna). Ci sono cultrici del dolore, un gruppo di uomini che hanno ognuno dentro una sua storia di violenza sessuale, non spenta, senza redenzione, blindati  da ogni possibile contatto col femminile; c’è una comunità in cui si educano bambini a leggere e sparare. Una comunità che rifiuta ogni tecnologia e così via. Il cammino va verso una setta dall’aura mitologica, LA Mano - dove un fantomatico Padre guarisce da ferite. La road map di freaks dell’anima, mostruosi tentativi trash di santità, misticismi del male occultato.  Casi umani, per la società dell’iper-spettacolo.  La specialità del terzetto che spesso infila il dito nelle piaghe con un misto di cinismo e pietà. Ci somiglia questo mondo italiano descritto da Violetta Bellocchio come se lo vedesse. Con una prosa elettrica e visionaria. Anzi no, non “come”: lo vede, perché è già qui. Direbbe Flaiano: non chiedetemi dove andremo a finire, ci siamo già. C’è anche Milano che infatti è già come ora: divisa tra un centro, dentro la prima Circonvallazione in cui abita ancora un'umanità protetta e con una certa normalità. E invece fuori, come fosse la landa abbandonata di “Codice 46” di Winterbottom, Già fuori, verso Piazzale Loreto si accede all'inferno di una suburra misteriosa, Per non parlare di quello che accade nel resto d'Italia. Essi vivono, essi followano, essi commentano.
Il paese è diventato un paesaggio devastato abitato ormai da umanità randagia, terrorizzata, e con loro restano i vecchi che abitano ancora paesi semi-fantasma, sono l’Italia anziana del nostro futuro siamo noi adulti di oggi che diventeremo vecchi tra qualche decennio. Attorno a loro, agglutinati, sciami di appartenenze, raggruppati per demoni, nazione, bisogni, credenza, terrori.

2.

Ha scritto di recente  Vanessa Beecroft in un lavoro per San Patrignano: “fuori da questa comunità l'umanità sembra essere disumanizzata aliena insensibile, come non avesse più un  vissuto, invece l'umanità dentro è  autentica, ha vissuto esperienze terribili e ora è costretta entro regole di comportamento che negano i suoi mondi del passato e sono come in un purgatorio”. Questa frase è parte di un diario di lavoro esperienza di murales, fatti con l’argilla, con una tecnica di sovraimpressione, come dei bassorilievi, di corpi, figure che emergono dal premere - con le mani, i corpi i volti, degli ospiti di San Patrignano che resta in quel Calco, che sarà in Mostra a Roma al MAxxi nei prossimi mesi.
Beecroft scrive questa frase nel tempo presente del 2018, è indicativa perché già dice oggi la comunità che viene, anzi LE comunità, quel che sarà nel rifugio o comunità inconfessabile che vive in fabbriche abbandonate o borghi, fattorie, unioni di  umanità mutata antropologicamente. Questo aggregarsi è il tema del libro, il tema del reportage dei tre, il tema da sviscerare.
Ma lo possiamo ancora raccontare? oggi che pochi vedono pochi leggono ,tutti pensano già di sapere? Possiamo ancora raccontare la realtà e soprattutto possiamo ancora “raccontare” ? i tre reporter (video reporter) sono in fondo dei narratori ma sembrano muoversi dentro la impossibilità di poter narrare E’ il racconto  il vero arto fantasma di un mondo accecato da troppe visioni digitali. Scrive oggi 2018 Giuseppe Genna nel suo romanzo “ History” - di cui parlerò un'altra volta: “narrare non ha più senso”  e in questa dimensione di lontananza, si aspetta sempre come quando raccontando di un party nero di un uomo potente e già dentro una postumanità futura,  ”Quando viene il tempo del racconto, è  finito ogni racconto,  che si racconta da sé stesso, accadendo”.

 Questa è l'estrema sfida è il sogno di chi vorrebbe raccontare la realtà ovvero sottrarre l'arte dal racconto. LA nuda verità.
Violetta Bellocchio si era già misurata con la verità più difficile, quella che dice  io su carta, ovvero sulla scena, raccontando la sua esperienza personale con l’alcol in “Il corpo non dimentica” nel 2014 (recensione) Con “La festa nera” Bellocchio ancora si pone lo stesso problema ma lo disarticola, arricchendolo in più rifrazioni. Affidando la narrazione da un punto temporale successivo agli eventi ad uno dei tre personaggi (Ali) Bellocchio recupera lo iato tra Io e “io”, ma lo amplifica lo rifrange in due direttrici:
  1)  il primo piano e quello della scrittura, proprio del Passo grammaticale e sintattico. Violetta Bellocchio ci torneremo ha il dono di un flow sintattico capace di seguire i frattali di una forma psichica che pian piano emerge,  gettata là dove sembra invece soltanto una registrazione selvaggia, “in presa diretta” ( tanto per usare un linguaggio del reportage video giornalistico)  dell'esistente. E qui a dispetto dell’evidente amore per il linguaggio visivo in tutte le sue forme, Bellocchio dà dimostrazione  che la scrittura è ancora forte come strumento.
2) l'altro piano è quello del punto di vista, come dicevamo,  perché ci sono lo stesso gioco di  geometrie, di slittamento in false prospettive. I tre vanno per raccogliere verità inaudite e realtà marginali di questi gruppi lungo la Val Trebbia. ma chi racconta è senza peccato? o senza deformazione nell’occhio?
Misha che guida con il suo talento e il suo istinto la troupe, ha sul muro della casa dove vive pagine di Vanity Fair con reportage di Dominick Dunne.  

3.

E’ un indizio sul quale vale la pena fare una digressione, perché ci aiiuta a focalizzare dettagli utili per noi che di dimeniamo disperati a capire il mondo tra parole letterarie come geroglifici ormai per il post-pubblico e il frullato di visione della realtà che mai è reale.
 Dunne era un produttore cinematografico, amico di Bogart e della Taylor, con grandi problemi di droga, riuscì ad uscirne, ma la tranquillità non durò, nel 1982, sua figlia, Dominique Dunne , meglio conosciuta per la sua parte nel film “Poltergeist” , fu assassinata.
La ragazza, trentenne alla morte, aveva vissuto in Italia e al momento di finire strangolata -  - per mano del suo ex, un cuoco che aveva conosciuto, e da cui si voleva separare dopo una storia non lunga, stava girando “Visitors”.
 UN segno del destino, tutta questa angoscia di presenze demoniache esterne, che il cinema aveva fatto entrare nella vita lavorativa di Dominque, nella sua carriera per la fiction , e invece finire tragicamente assassinata per le VERE (demoniache? no, psicotiche) pulsioni o frustrazioni di un maschio che non si rassegna all’indipendenza di una donna.
Il padre Dominick ha assistito al processo contro l’omicida, John Thomas Sweeney, condannato per omicidio volontario e scrisse proprio per Vanity Fair un articolo: " Giustizia: il resoconto di un padre del processo per l'assassino della figlia " nel  marzo 1984 .DA allora divenne giornalista giudiziario per la rivista, fino a diventare star di trasmissioni di Crimine in TV esattamente quelle che ci convincono - oggi - che sia in corso una festa nera di ombre pronte ad assassinarci. Forse invece sono solo i demoni di chi le conduce queste trasmissioni  o li scrive quegli articoli.
Insomma non è un caso che Misha abbi Vanity Fair, proprio quella rivista e quegli articoli -e non a caso VF, che prende il nome dal romanzo inglese “Vanity Fair: A novel without a Hero”, talvolta tradotto come “ La fiera delle vanità”  di William Makepeace Thackeray, romanzo di una decisa sferzata verso una realtà normale non “romanzesca” forse “vera”? pubblicato a Londra nel 1848,  lo stesso anno in cui uscì il Manifesto del Partito comunista di Marx e Engels, il vero grande romanzo distopico dell’Umanità.

4.
  Misha non si fida della realtà e di quel che vede. Va a scavare sotto la facies dell’umano, per scoprire il teschio. Quando Jessarae uno degli ospiti di Secondo Zion, setta che predica la fine del mondo  “già arrivata” con una sorta di retro-avventismo archeologico che gli impedisce di toccare tutto quello che è fabbricato dopo il 2015 anno dell’Apocalisse. E se l’apocalisse come la redenzione di Cristo è già avvenuta il tempo che ci resta, ovvero il futuro, è solo “tempo che resta” di un avvento avvenuto già. E allora i ltemp oche viviamo che cos’è? Storia? e dove porta? verso una festa nera?
Jessarae  dice a Misha “noi viviamo secondo il verbo della realtà” ma Misha sa che non si può fidare e sotto cerca altro. L’altro dell’altrove. Il non detto,  il punto fragile di accesso a mondi chiusi ed escludenti tracce di monadi di monadi. Misha usa l'istinto psicologico feroce sincero di una diva che ha la capacità di intuire ma anche una persona che è sempre sul punto di  bruciarsi le ali, Sfida la realtà che l’aveva mandata in pezzi.
Perché anche Misha Nicola e ali hanno avuto la loro : sbagliarono un dettaglio in un reportage, la rete cominciò a commentare,  la tempesta perfetta di insulti divenne stormshit così violenta da diventare devastante.
Ho provato un sentimento di sincero disagio leggendo come soprattutto Ali, la  più debole dei tre,  vive questa tempesta, perché Violetta Bellocchio è brava a squarciare con l’invenzione il velo presente e fari vedere cosa sarà nel futuro - dovrei dire: cosa potrebbe essere? siete così  fiduciosi? - l’onda montante di odio che già stiamo vivendo.
 Una ferocia distruttiva dei commenti, che determina il loro stop alla carriera. MA che potrebbe essere ciò che si spezza dentro per sempre.

5.
Chi racconta nello scritto di LA festa nera è Ali, la più giovane rispetto a Misha e Nicola, che hanno anche un rapporto tra di loro, di strana coppia, e non è un  caso che Ali sia  anche il tecnico del suono (ricordate quanto è fondamentale il suono in “The Blair Witch Project” ? la vera fonte della paura in una note di fantasmi che non si vedono, ma si sentono). Il sound è fondamentale: nel  reportage del trio, una sorta di traccia seconda ,non solo video. Ogni tanto mentre visitano questi luoghi,  Misha dice “ faccio un giro per conto mio” ma ha il microfono aperto,  Ali continua a sentirla,  anche Nicola, sentono quello che il reportage non può vedere,  lo vede ancora la parola del racconto nel buio, fuori dalla scena  come se Misha cercassi indizio o il la realtà stessa, il suo cuore profondo o nero, fuori dal narrato, fuori dal narrabile.



  6.

forse non conta più come dice un certo punto Misha “ fiction o non fiction per me non importa” forse il cuore segreto è proprio nella scrittura, e nel suo parente prossimo, il non detto.  Narrare è dire “al lupo!” senza che il lupo ci sia, dice Nabokov. 
“Dio è l’unico essere che per regnare non ha bisogno di esitere” dice Baudelaire in uno dei suo “Razzi”.
Il narratore è come dio. Le storie di Dio non hanno bisogno di Dio.
Non a caso  Dio, il Sacro è un tema fondamentale - e il suo risvolto ,a superstizione: l’approdo del libro e verso “la Mano” verso il Padre. Che è un arto fantasma.
Mischa Nicola e Ali cercano ormai anche per loro il miracolo capace di sanare anche le loro ferite  interiori. la letteratura in fondo è un'opera di continuo slittamento, in questo è  distopia, non solo inventa luoghi, spaziotempi, ma differisce sempre la coincidenza tra io e “io” che vivono in tempi paralleli.

Possiamo guardarci da fuori vivere, come fossimo un regista, un Narratore o un Dio. Lo slittamento del punto di vista - di Misha che vede, di Nicola che riprende, di Ali che sente e poi scrive - o forse non lei, ma quel personaggio in cui s’è scissa per resistere alla stormshit, dice  la deriva del soggetto che è già cominciata , oggi , 2018, da un pezzo.

Non vedremo questi magnifici reportage, sono interrotti, ma ne avremo, ne abbiamo dal futuro prossimo, questa apocalisse al contrario, il racconto in parole. Racconto traslato che fa da un tempo successivo da un anteriore tempo slittato. E così vivo che quasi lo vediamo, anzi senza quasi. Scene, inquadrature, sismografia emotiva, dettagli (Dio è nei dettagli dice Borges), improvvisazione il nervo rock di una  vicenda umana e un’avventura di  narrazione.
LA  scrittura di Violetta Bellocchio mastica allucinazione, dove raccontare per i tre non-eroi è “sonnifero e benzodiazepina”. Come dal lento planare dell’MDMA, lucido lentissimo e  velocissimo,  noi procediamo con i tre nel Bosco del Reale, perdendoci. Verso l’Ultimo reportage, l’impossibile, cercando l'ultima verità, là dove c'è la Crepa. “ Perché c'è sempre una crepa in tutte le cose”.
Crepa della narrazione è che deve finire, che è falsa.  Crepa della vita è che è no.
La Crepa c'è tempo che sta tra il racconto  e  la realtà, dentro c’è il ricordo che precipita.
 C'è il fuoco nelle vene,  che incendia.

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