Una delle figure più antiche della poesia è quella piccola forzatura logica della lingua chiamata “sinestesia”, la connessione di percezioni appartenenti a diverse sfere sensoriali (il “profumo dolce”, il “colore caldo” ecc.) . Ho pensato a questa figura come metafora del libro di Silvia Bre, “Le campane” (Einaudi) in cui certo sono presenti questi artifici retorici, specie nella seconda parte, ma anche perché il libro mi sollecitava un continuo slittamento, uno minimale ma diffuso spiazzamento logico, nel suo procedere sintattico, specie nell’uso nell’aggettivazione, specie nel creare una fusione sensoriale tra suono e spazio. Lo si vede subito dal testo che ci accoglie sulla soglia della copertina e che nella raccolta apre la seconda parte: “Una campana che rimbalza da lontano/ e la distanza da domare si consegna” creando il trasbordo sensoriale esplicitato nei “corpi adorati tradotti/ dall’udito”. È il suono ad occupare lo spazio, che avvolge la posizione del soggetto che ascolta – così che non si ha mai la sensazione lirica di un “poeta che dice io”, ma di un campo acustico-concettuale, una corale non geometrica. Il campo saziale è ciò che determina il tempo, anche qui in due semplici battute: “Ero là, ecco la storia” come inizia proprio la poesia di cui stiamo parlando.
Coerente con il senso generale
dell’allegoria del titolo, “Le campane” è una raccolta con una diffusa presenza
di risonanze, echi, utilizzando una voluta alea grammaticale -sintattica sin da
subito con la poesia che apre il libro in cui è il “cielo” che reclama una
forma, con una campana che “manda sé stessa” – ma in una dimensione sospesa di
“impermanenza”.
Tutto il procedere del libro adotta una tecnica di rimbalzo: sia fonico, con diffuse
rime o assonanze, sia tematico con riferimenti al propagarsi di onde o linee di
materia nella percezione di sensi. Anche per la vista è lo stesso:
E se il
punto di fuga sfonda il disegno
e lo diserta senza rigore
dove muore la prospettiva?
Dato il
punto di rottura percettivo, la poesia di Bre indica la condizione
dell’immagine che nel “disfarsi è la sua resistenza” accettazione di un punto
di incedibilità tra conoscenza e non-conoscenza per cui la poesia è la migliore
posizione “in questo punto sospesa/ in nessun luogo visto/ congiunta
all’incompiuto”
Ci si muove ancora in quel “sospeso stupore” come lo definì Marco Merlin, delle raccolte
precedenti. In una dimensione che si muove agilmente tra i riferimenti vagamente
religiosi (e condizioni di vita ancestrale, percependo mentalmente anche il
suono di realtà invisibile ma intese come permanenti: l’ex-ergo a una poesia lo
afferma perentorio, indicando nelle “grotte di Cheuvaux/ la persistenza
acustica della poesia”.
Nelle tracce arcaiche di trentamila anni fa o nella
percezione dell’oggi, per Bre c’è la ricerca di un elemento del mito che non è
narrazione, religione, fabula: “il ritmo innato vaga prima/ della vita” scrive
Bre, e mi sembra che la sua poesia, nella sua lingua, nella costruzione delle
sue immagini ci si in fondo questo ritmo, una vibrazione. È quella della figura
dipinta (il “toro”), continua nello stesso testo, che circola, “libero dalla storia”,
perché “l’essere noi”, sorta di richiamo
a una presenza eterna dell’essere vivente, di tutta la comunità dei viventi,
“non è una porzione/ miserevole del
tempo” ma “ondeggia sempre”.
Il tempo è
per Bre è “un adesso perenne” fatto di queste vibrazioni o “tremito lungo” che
comprende la materia cosmica, i viventi e anche “i gesti delle fate/ e dei
maghi”: il singolo si colloca in questa vibrazione primordiale e qui trova il
suo senso, nell’ “essere stati il futuro di qualcuno”. Forse anche di qualcosa,
il mondo, il pianeta, tutte le sue trasformazioni viventi e no.
C’è più biologia e geologia in Bre che psicologia, almeno nella poesia de “Le
campane”. Non c’è dubbio che rientrino una concezione della natura olistica, il
complesso del sistema-pianeta in cui ognuno di noi è collocato, ma la storia
sembra essere solo un accidente transitorio e breve rispetto alla dimensione più
ampia del cosmo, della materia quantistica, del comparire della vita. In un
certo senso è la scienza che sembra offrire al momento uno spazio di
possibilità di senso a ciò-che-non-si-sa, nel senso che si ammette che molte
cose non si sanno ancora.
Non è un
caso che una poesia (p. 12) riporti come esergo “Einstein”. Quel che scienziati
come il fisico tedesco hanno mostrato non è una verità, ma per il momento
“misure sconvolte” del mondo di fronte a cui bisogna “stare nella notte/ e
cavare un linguaggio, orientarsi” nonostante lo sconvolgimento. Bre sta tra una ricerca “dell’origine” e
l’accettazione del mistero: “a volte senti proprio nell’aria, proprio/ nelle
orecchie, l’inizio che aspetta” immersi in una dimensione ampia che conforta (“è
l’universo / e sa la tua presenza”) ma che è anche resistenza a questo
sgretolarsi delle misure (p.17)
Come un’alba
nera madornale che da est
cerca l’Atlantico nei giri
della nebbia fino alla curva,
e lì la spuma della mia presenza
frontale contro la dismisura.
Ci sono
parole che la storia della poesia consegna a una memoria e durata di echi, come
del resto di risonanze è fatto il mondo, ma qui non può non venire in mente
quella chiusa celebre di una poesia di Milo De Angelis da “Millimetri”: “in noi
giungerà l’universo/ quel silenzio frontale dove eravamo/ già stati”.
anche nella chiusa della sua poesia Bre evoca una medesima, irrequieta presenza
di un vasto silenzio che tutto sa, che egualmente contiene, nel tempo:
Che venga a
prendermi ogni luce
o anche un giro di vento, che plachi
il silenzio della mia comprensione assoluta.
Silenzio, mistero, comprensione frontale.
In un libro recente, pubblicato da Vallecchi nella collana curata da Isabella
Leardini, Silvia Bre aveva scelto la parola “Mistero”. La sua è una poesia diversamente
ermetica, senza essere oscura di inaccessibili segreti riservati agli
eletti, con un’allusività che espone la semplicità e al tempo stesso irriducibilità
dell’evidente, non traducibile in “conoscenza” ma senza necessità di richiamare
entità sovra umane, invisibili.
Semmai in cerca di tracce tutte dentro la materia del vivente. Poesia chiarissima,
limpida come l’acqua di un pozzo: “Quale mistero pervade un pozzo!/Quell’acqua
vive così lontana” scrive Emily Dickinson nella traduzione della stessa Silvi
Bre che alla poetessa americana ha dedicato decenni di lavoro, culminato nel
volume recente “poesie” una ‘ampia scelta delle migliaia di testi
dickinsoniani. Un lavoro che non manca di riverberarsi sulla scrittura di Bre.
Al mondo a cui guarda Bre, non oltre ma nel visibile si appartiene per
fusione amniotica, per comunanza molecolare, meno per significanza linguistica,
sebben ovviamente questa scrittura-prima-della scrittura passi per la materia
grammaticale che è concepita da Bre più come “voce” che come “segno” sebbene il
segno faccia il suo gioco, la sua acrobazia, tuttavia fallimentare anzi mortale(p.
5):
La luce di qualche verità
qui è eclissi
gli sguardi le cantano al
buio.
Anche la grammatica fa
il suo salto mortale
e non sbaglia ma muore.
Se il silenzio è
comprensione è la grammatica muore, il poeta continua forse a metà strada, in questa sua fragilità che da un lato sembra disorientata
di fronte a due vertigini: quella della dismisura che viene dalle scienze e dalla
conoscenza e quella della facoltà che ci rende senza bisogno di parole capaci
di immediata comprensione e così (p.24) sta quel “meridiano/ di rintronati
dalla fragranza di un suono / la loro eleganza disadorna. / Non sono mai
nessuno i poeti”. I poeti riescono ad essere ancora meridiano, per evocare la parola celebre di
Paul Celan.
Sempre più fragile, come qualcuno che scrive sui muri la notte. “io parlo
l’artificio” scrive Bre e paragona la scrittura a un “comparto industriale smesso”,
un’ agire residuale per il quale il poeta si appella “dica qualcuno in tempo
che c’è una figura, un’ombra/ un gesto di pietà da offrire a un altro”. In
questo nucleo di minima resistenza sta la poesia capace, tuttavia, di reggere
lungo l’asse del “tempo astrale”, chiosa Bre.
Il corpo è il rintocco
della presenza,
vuole coincidere. Fossero qui, le campane.
Invece l’essere in loro è così, disteso
in uno splendore che retrocede
È evidente la fiducia dell’io-poetante
in un punto di contenimento dello sciamare percettivo. Questo sono, le campane,
metafora di una sorta di enti (il nostro corpo, i sensi, ma anche la nostra
stesa conoscenza e non-conoscenza insieme) che “slegano in mondi” l’esistente
ma “chi prova a fermarle perde, perde/ l’elusione scintillante che contengono”.
Contenere dunque questa elusione, tenere scintille nell’incavo della mano, essere
dentro una dimensione di “ere più vaste di questa” senza alcuna missione o destino,
sapendo solo che “quel lontano è amare tanto”.
Il poeta non indica in un centro, consapevole (p.35) che c’è solo una “orda dominante” che ci agita, se non altro agita il poeta straziato dalla compresenza silenziosa che non si può contenere come la cenere tra le braccia. Essere sollecitati a dichiarare un centro è una sorta di violenza, allora, quale un fuoco che avvolge una che piange” uno “sconosciuto che ti dilapida” e a fronte di facili e sentimentali poesie che puntano a quel centro di gravità permanente dell’anima, l’io-poeta di Bre risponde:
Dillo trionfando che non
ci sei, non hai cuore,
è un’altra l’unità da pronunciare, ebete,
e non sai quale, non sai farlo.
Tra l’ “io slegata” (p38)
e il “tu, meraviglia” (p.34) c’è un riconoscersi dentro una dissolvenza
soggettiva, dentro questo “ritmo antico del nulla” che è molto di più di quel
che può farci comprendere l’idea dell’esistenza di un dio, un “dio temerario” lo definisce Bre, cantato
con “segno disumano” a cui è contrapposto ancora una volta il silenzio, “la
pace dei significati”. C’è una natura contemplativa della e nella natura
nel pensiero poetante di Silvia Bre, ma non si potrebbe neppure definirlo così,
forse un pensiero che si comprende nel momento in cui di esso stesso si
dissolve ogni segno, la poesia essendo un canto in cui l’artificio serve a
creare la dissolvenza nella permanenza stessa della grammatica, in cui questa dissolvenza
è il tradimento della lingua che consiste nel permanere.
L’effetto è quello allegorizzato (p46) come un “mugolio/ di rocce, campane/ che
suonano contro la forma/ il giuda da tradire”.
E ancora (p.47):
L’umano ha questo fuoco profumato
di una lingua
che porta il non più in
cui stare.
Esercizio di sottrazione questo “filo denso della presenza” nostra, di specie tra specie e selve e rocce, trova nella lingua della poesia un ulteriore esercizio di svuotamento, di cui resta solo un “soffio diffuso”: è quella la “lingua celeste dello sparire”, che è sparizione mentre si dà e risuona. La poesia punta non all’indicibile, bensì alla capriola o salto mortale del dire una “quiete sospesa” (53) di beatitudine che trasforma il canto in soffio, il significato in un silenzio al massimo un’eco di quella lingua-campane, come una traccia di misura dal modo delle madri. La lingua nella poesia rintraccia un canto e affronta il precipizio del buio, la condanna per aver tradito proprio con le parole una beatitudine che non ne aveva bisogno. Poesia come la voce di un canto che risuona in una “navata” per la “carità “della “gleba” (p.56):
suonata a senso dalle
campane
per timone le tenebre
mi ruota nello scheletro la nube di una luna,
questa infamia fedele di beata.
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