La città dove abita Giorgio Ghiotti è Roma, ma la città che lo abita quella dei versi (suoi e non soltanto). Anche la prima, pur essendo una città che coincide con la disastrosa Roma della cronaca, resta una città della gioia, come se provenisse da un luogo anteriore, per usare un titolo di un altro poeta romano Roberto Deidier. Del resto non c’è luogo dove l’anteriorità condiziona così tanto il tuo futuro. Nel suo caso quel luogo è anche l’infanzia, momento di “miracoli leggeri” in cui si poteva percepire – per fare un esempio, prendendo una delle poesie d’apertura del suo nuovo libro “Ipotesi del vero” (LiberAria Editrice) - in quei “pazzi di quartiere/ da cui da bambini ci tenevano distanti” che fossero “ultimi custodi di voci inascoltate dell’assenza”.
Per Ghiotti l’infanzia, che attraversa i suoi libri (solo di poesia e prosa,
una decina in dieci anni) è mito
rivendicato, e ancora di più da adulto, ora che Ghiotti non è più il brillante
esordiente di 19 anni.
Dato che Ghiotti stesso lo tematizza, come parte della sua concezione
letteraria, dichiaro subito che conosco Giorgio, c’è amicizia e condivisione
(di matrici, come l’essere stati allievi di Biancamaria Frabotta, io dieci anni
prima che lui nascesse). Il suo stile, il suo modo d’essere poeta sono distanti
dal mio, ma questa non è una recensione né amichetta né militante. Trovo che
Ghiotti costruisca il suo mondo letterario con una coerenza, tra scelte di linguaggio, forma, sua
personale attività (editoriale , critica, organizzativa).
Oltre questo, di cui cercherò di dare conto analizzando il suo ultimo libro di
versi, mi ha sempre colpito con curiosità un po’ sorprendente, un certo suo
sincero culto di maestri e maestre, perché sono una spia di un tempo che ne ha bisogno e di
un’attitudine più generale che il poeta fa sua, porta nella sua voce singolare. ed esprime, Anche in questo Giorgio Ghiotti è poeta.
La cosa che mi ha colpito sempre è come nella sua scrittura consegni al lettore
uno sguardo aperto al mondo, ma come se lo guardasse da un retro-pensiero secondo, da un punto di vista anteriore, appunto, che
cerca puntello in un passato che fa anche da riparo proprio perché non è il suo
personale vissuto, ma un passato di tutti fatto proprio.
“Si piange per un mondo che scompare” scrive Ghiotti in una delle prime poesie
di “Ipotesi del vero” e testimonia di
questo suo percorso di continuità. La poesia di Ghiotti non è però un’elegia (
che in qualche modo cita un tempo esatto e accaduto) ma costruisce un
sentimento dello stare nel tempo storico presente.
Da cosa nasce questo attaccamento al passato? Non rispondo limitandomi al suo
caso, ma dal caso guardando alla generalità di una generazione o più d’una dei
nati negli anni ‘ 90, talmente abituata
a materializzare i ricordi in oggetti e tracce visibili (foto, video) la vita
vissuta – e che poi nell’adolescenza ha incontrato l’esplosione dei primi social
network nel 2008 – da avere nella propria coscienza collettiva e individuale,
la sensazione di avere un lungo,
intenso, passato che al tempo stesso sfugge, perché non garantisce un futuro.
Ecco che allora in poesia quella zona franca dal tempo (e dalla Storia) che è l' “infanzia”
di cui Ghiotti riscrive il suo personale mito (certamente è stata tra le più dorate, per
bambini bianchi che nascevano in Europa a metà anni 90) facendolo diventare
qualcosa che si estende alla coscienza adulta. Nessun cedimento al fanciullino, tuttavia, ma
la traccia materica di un’altrove stabile, quasi in sostituzione di utopie:
anzi forse un’utopia retroversa in cui il futuro, contraendosi fino a ridursi a buco
nero, diventa sempre più arco teso tra finzione,
immaginazione, teatrale nostalgia di un passato e una materia prima, minuta e concreta del quotidiano presente che
pure ci tocca vivere.
Questo spiega anche la scelta di un verso dal ritmo metrico scandito, attento
alle misure, al suo moderato cantabile e insieme atonale, nella scelta
lessicale non di rottura, non espressionista. Non esente da smottamenti, la
vita si raccoglie in sequenze di “felicità parziale e provvisoria” ma a cui si
sommano ricordi di un “tempo precipitato di ombre” in cui si convocano “i
morti”: non solo i propri (come la sezione finale dedicata a “l’altra ragazza,
mia nonna”) ma tutti, principalmente i poeti. Questa dimensione osmotica tra
mondi, scrive ghiotti, abbevera “la mia immaginazione” ( questo ultimo termine
ricorre più volte nel libro).
Sono ombre che tornano, ricordi di figure “giovani” che finiscono per
sovrapporsi con l’età giovane dell’io che scrive, quasi che a un tempo l’io-poeta
Ghiotti è giovane nel passato o quei morti sono giovani negli anni duemila.
Anche i ricordi, sono coltivati non come storiografia di sé ma come “sentimento
intatto” nel suo restare opaco o “illusione di doppiare/ l’innocenza del
mondo”.
Muovendosi negli spazi di una geometria spesso domestica o di
quartiere, fatta di cucine e dirimpettai, portoncini, gerani e cimiteri
familiari come il Verano di Roma, un palazzo in cui abitano forse invisibili
scassinatori, l’Io-poetico di Ghiotti narra di un mondo che vuole essere sia
denso di fantasmi, immaginazione, ricordi, sia fatto di confini reali, quasi
realistici. Un mondo e una vita che riescono “ad accordare un senso” al poeta ritratto
nel ricordo giovane “tutt’ossa” quando
già (appunto) cercava di “dar forma a qualcosa che valga/ il lusso dolente di
un ricordo, un sottocasa /serale”. Ghiotti così come metricamente e
linguisticamente, costruisce una dimensione di spazio esistenziale e mentale ristretta,
nel senso di ravvicinata: quello che conta è “dirsi le cose negli occhi” o
“intendere vicina” un’altra figura femminile. Nel ravvicinare, sta il riparo
dalla Storia verso cui non si accorda più molta fiducia, in “questa eternità senza gloria”.
E’ il titolo di una sezione e mi sembra esprima, non solo un senso
dell’esistenza generale, ma anche – come può certo farlo un poeta - una precisa
posizione anche politica rispetto al sentimento dell’essere abitanti, cittadini
e poeti, della città di Roma, entità socio-ambientale e culturale determinante
per la poetica di ghiotti. Roma che per chi scrive, pur romano, è ormai un caso
a parte nella storia di questo paese e sua cartina di tornasole.
Ghiotti tuttavia abita Roma (città “santo” scrive in una chiosa) come se
abitasse un linguaggio poetico. Città che da sempre inibisce tutte le prospettive
di gloria, perché troppo eccessiva in questa sua monumentalità statica,
ma che consente reti interne e comunità. La principale per Ghiotti è quella dei
poeti, veri, conosciuti frequentati, o vagheggiati alcuni morti. Di solito i
poeti si scocciano se ad altre vengono paragonati ad altri, voci del passato,
come se volessero nascere da sé. Ghiotti invece è un singolare caso di poeta della
tradizione: non un poeta tradizionalista, ovvero conservatore, ma un poeta
che da sempre omaggia il suo personale olimpo storico dove si va da Amelia
Rosselli a Patrizia Cavalli (entrambe con dediche) ma anche altri, anche
fratelli e sorelle maggiori, fino ai coetanei alcuni dei quali però dissolti
giovani in epoche diverse (Beppe Salvia e Gabriele Galloni) la filiera della
“scuola romana” tra ironia e disillusione, una galassia “plurale” come già
scriveva Biancamaria Frabotta in un suo saggio, dove forse però – azzardo io - “Roma” è il marchio di eternità dove nemmeno
ci si pone il problema di “perdere l’aureola” alla Baudelaire. E’ come se
questa folla di poeti però si muovesse spazio-temporalmente dentro il “campo
magnetico” di aura di eternità, in cui prevalgono immaginazione e favola, dove
tutti sono quel “santo” che è Roma (L’olimpo è ampio e scritto nelle note
finali del libro).
Ghiotti interpreta questa tradizione in sintonia col suo tempo, quello di una generazione
cresciute tra precarietà e nomadismo. Non manca – scrive in una poesia - il
desiderio di “indubitabile promessa del futuro”. Proprio in un testo che è
parte della sezione dedicata a Frabotta, spera che il fortiniano “composita solvantur” sia esattamente quel
dissolversi di quanto è composto, così che il l disordine possa succedere
all'ordine, inteso come movimento che rompe la stasi.
Tuttavia, nell’universo di Ghiotti prevale la non-rottura e il futuro si spera
sia “senza furti né assedi” sia qualcosa
che si può conoscere, vivere anche potendo “tentare con slancio un onesto bilancio/ con
la Storia. Anche – tenta dimessa/ una voce – se non c’è più storia? Risponde il
coro dei vivi, Anche”.
Il recupero di lezioni di maestri può essere forza ma anche gabbia, questo può
essere anche un rischio per lo stesso Ghiotti come autore. Poeticamente però esprime il senso di un bilanciamento tra angoscia del
dopo-Storia e assorbimento di una Tradizione, dove alla fine la poesia è
strumento umano che genera sentimenti di un diapason che sostiene l’esistere,
con un risonanze ampie e oppositive: per Ghiotti scrivere è fare “poesie come
sintomi – felici/ e feroci, necessarie – quel tanto/ da sentirsi ancora vivi”.
Mi pare, nello stile e nella posizione di poetica, tutto molto coerente.
Nella “mente” che è “felice carceriera” di una intensità ravvicinata in cui la poesia si fa
strumento umano, umanissimo e comune e il comune vissuto ingloba.
Lo ingloba non senza quell’avvertenza sul sentire e vivere post-moderno di cui
aveva avvertito Umberto Eco nella post fazione a “Il nome della rosa”: la
condizione post moderna è quella in cui
– diceva Eco – non diremo più “ti amo” ma diremo “come direbbe D’annunzio, ti
amo”. Ghiotti esprime però anche un senso di tensione centrifuga da questa non
aggirabile consapevolezza, fatta anche di “formule nascoste nelle vene” che
“raccontano per noi come eravamo” (ancora questo insistere di un passato)
dentro “geometrie ignote di vite ipotecate” da cui “cavammo una parola, la
prima forse e poi non fu più muta/ l’avventura per cui sillabammo “amore”.
Ecco Ghiotti lo scrive tra virgolette amore, come Eco, ma lo rivendica
come parola primaria, parola originaria, da sillabare nuovamente come si fosse
i primi, non da citare da passati codificati, come inevitabile matrice
linguistica di una “avventura” (è il titolo di una sezione anche ) che è
vivere.
Si tratta di un bilanciamento tra desiderio di vissuto
originario e consapevolezza di poesia e vita da “postumi”. I Gargoyles
medievali delle chiese sono memoria di cartoon infantile – si fondono,
diventano “angeli” protettivi di una stagione della vita “fosse pure l’ultima
che importa”, dice appunto da postumo.
Ghiotti procede come il moon walking, il passo di ballo morbido che
gioca sull’ambivalenza di arretrare procedendo. Nella sezione “l’andare e
l’addio” le due polarità che non prevedono alcun “ritorno” rilanciano verso una
figura di futuro concreto, un piccolo famigliare, Pietro: a lui il poeta scrive
: “Ti parlerò dei maestri” e dunque l’ossessione di quel passato diventa trasmissione
in vita stavolta, passaggio di testimone verso il futuro e non solo – come per
il poeta stesso – sorta di eredità e incarnazione dei morti nel corpo vivo del
giovane allievo di Frabotta ,quello che immagina
sé stesso , ripensando agli anni Settanta, come superstite “ di quello stesso mondo”. È’ un
andare diverso in questa sezione. E’
vero quello scrive Carmelo Princiotta nella postfazione: “la seconda sezione
consola del lutto della prima”, forse anche un’elaborazione che porterà Ghiotti
ad un addio, ad un saluto, magari anche uno strappo necessario rispetto a
questo mondo dei poeti, vivi o morti che siano, su cui certo ha costruito il
suo mondo poetico.
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